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Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 13

 

Grice e Cerroni – Eduardo Gaus e il sistema di diritto romano -- i hegeliani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lodi). Filosofo. Grice: “I like Cerroni; he is very Italian: what other philosopher – surely not at Oxford – would philosoophise on the precocity of Italian identity? But his more general philosophical explorations may interest the Oxonian who is not into “Italian studies”! – My favourites are his “Logic and Society,” which reminds me of my “Logic and Conversation.” Then he has a ‘dialectiics of feelings,’ which is what all my philosophy of communication is about; he has also philosophised on anti-contractualist philosophers like Benjamin Constant --!” Studia a Roma con Albertelli e si laurea in Filosofia del diritto.  Ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto e l'incarico di Storia delle dottrine economiche e di Storia delle dottrine politiche all'Lecce.  Divenne professore di ruolo di Filosofia della politica e ha insegnato a Salerno e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha insegnato per piùdi venti anni Scienza della politica nella Facoltà di Sociologia dell'Università "La Sapienza" di Roma. Sempre all'Università "La Sapienza" di Roma, era stato nominato professore emerito. Macerata gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze politiche. Altre opere: “Problemi attuali di storia dell'agricoltura dell'U.R.S.S.” (Milano: Ed. Centro Per La Storia Del Movimento Contadino); “Il sistema elettorale sovietico” (Roma: Tip. dell'Orso); “Legge sull'ordinamento giudiziario dell'U.R.S.S.” (Roma: Ed. Associazione Italia-U.R.S.S, sezione giuridica (Tip. Sagra, Soc. arti grafiche riproduzioni artistiche) Recenti studi sovietici su problemi di teoria del diritto” Bologna); Sul carattere dei movimenti contadini in Russia nei secoli 17. e 18.” (Milano: Movimento Operaio); Studi sovietici di diritto Internazionale: A cura della sezione giuridica della associazione Italia-urss. [presentazione di Umberto Cerroni, Roma: Tip. Martore e Rotolo); La dottrina sovietica e il nuovo codice penale dell'URSS / Umberto Cerroni.S.l. (Bologna: STEB) Poeti sovietici d'oggi, Roma: Tip. Studio Tipografico, Per lo sviluppo degli studi storici sulla Russia, Bologna: STEB); Diritto ed economia: rilevanza del concetto marxiano di lavoro per una teoria positiva del diritto / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Idealismo e statalismo nella moderna filosofia tedesca, Milano: Giuffrè); Individuo e persona nella democrazia / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); “Il problema politico nello Stato moderno / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Diritto e sociologia / Umberto Cerroni. Kelsen e Marx / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); L'etica dei solitari / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Lenin e il problema della democrazia moderna: saggi e studi (Roma: NAVA) Parlamento e società / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); La prospettiva del comunismo / K. Marx, F. Engels, V.I. Lenin Roma: Editori Riuniti); Ritorno di Jhering: Edizioni giuridiche del lavoro, (Città di Castello: Unione arti grafiche) Sulla storicità della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico Milano: Giuffrè); La critica di Marx alla filosofia hegeliana del diritto pubblico / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); La filosofia politica di Giovanni Gentile / Umberto Cerroni. (Novara: Tip. Stella Alpina) La nuova codificazione penale sovietica / Umberto Cerroni. Edizioni giuridiche del lavoro); Concezione normativa e concezione sociologica del diritto moderno / Umberto Cerroni.S.l.: Edizioni giuridiche del lavoro); Diritto e rapporto economico / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Kant e la fondazione della categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Teorie sovietiche del diritto / Stucka...(et al.); Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); Saggi / Benjamin Constant; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Samonà e Savelli); Il diritto e la storia / Umberto Cerroni. Le origini del socialismo in Russia / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, 1966 Un ouvrage recent sur Marx et le droit: Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Rome, par Michel Villey.[Paris]: Sirey); Che cos'è la proprietà?, o, Ricerche sul principio del diritto e del governo: prima memoria, Pierre-Joseph Proudhon; prefazione, cronologia,  Umberto Cerroni.Bari: Laterza); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali: relazioni sugli aspetti generali / Umberto Cerroni.[Milano: Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale,  (Milano: Tipografia Ferrari) La funzione rivoluzionaria del diritto e dello stato” (Torino: Einaudi); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni” (Roma, Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Discorso sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau” (Bari: Laterza); La libertà dei moderni” (Bari: De Donato); Metodologia e scienza sociale” (Lecce: Milella); Problemi della legalità socialista nelle recenti discussioni sovietiche / Umberto Cerroni.Milano: A. Giuffrè); “Sulla natura della politica: utopia e compromesso” (Milano: Giuffrè); Considerazioni sullo stato delle scienze sociali”; Il metodo dell'analisi sociale di Lenin” (Bari: Adriatica); Il pensiero giuridico sovietico” (Roma: Editori Riuniti);  La questione ebraica” (Roma: Editori Riuniti); La società industriale e la condizione dell'uomo” (Lecce: ITES); “Sul metodo delle scienze sociali: una risposta” (Milano: Giuffrè); Principi di politica / Benjamin Constant; Roma: Editori Riuniti); Strade per la libertà” (Roma: Newton Compton); Tecnica e libertà: conferenza tenuta al Lions club di Bari (Padova: Grafiche Erredici) Tecnica e libertà / Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Lavoro salariato e capitale / Appunti sul salario e appendice di F. Engels; Introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton italiana,La societa industriale e le trasformazioni della famiglia / U. Cerroni.Milano: Giuffrè); Salario, prezzo e profitto / Karl Marx; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton italiana); Teoria della crisi sociale in Marx: Una reinterpretazione / Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Strade per la libertà / Bertrand Russell; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton compton italiana); Discorso sull'economia politica e frammenti politici / Rousseau; traduzione di Celestino E. Spada; prefazione di Umberto Cerroni.Bari: Laterza); Caratteristiche del romanticismo economico / V. I. Lenin; prefazione di Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Kant e la fondazione della categoria giuridica / Umberto Cerroni.Milano: Giuffrè); La libertà dei moderni / Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx / Antologia Umberto Cerroni, con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico dalle origini ai nostri giorni / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa e il Terzo stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Lo sviluppo del capitalismo in Russia; Lenin; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); In memoria del manifesto dei comunisti / Antonio Labriola; Manifesto del partito comunista / Marx-Engels; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); La libertà dei moderni / Umberto Cerroni.2. ed.Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo; Roma); Il pensiero di Marx / antologia Umberto Cerroni; con la collaborazione di Oreste e Anna Maria Nassisi. 2. ed.Roma: Editori Riuniti); Teoria della crisi sociale in Marx: una reinterpretazione (Bari: De Donato); Teoria politica e socialismo” (Roma: Ed.Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Marx e il diritto moderno / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Il marxismo e l'analisi del presente / Umberto Cerroni. Politica ed economia); Societa civile e stato politico in Hegel” (Bari: De Donato); Salario, prezzo e profitto” (Karl Marx” (Roma: Newton Compton italiana); Il lavoro di un anno: almanacco, Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Il pensiero di Marx / Karl Marx; Roma: Editori Riuniti); Il pensiero politico: dalle origini ai nostri giorni” (Roma: Editori Riuniti); Il rapporto uomo-donna nella civiltà borghese, ed.Roma: Ed. Riuniti); Scienza e potere / scritti di U. Cerroni... <et al.>.Milano: Feltrinelli); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin” (Roma: Newton Compton); Lo sviluppo del capitalismo in Russia” (Roma: Editori Riuniti); La teoria generale del diritto e il marxismo / Evgenij Bronislavovic Pasukanis; con un saggio introduttivo di Umberto Cerroni.Bari: De Donato); Introduzione alla scienza sociale, Roma: Editori Riuniti); Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione, cura e note filologiche di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton, Materialismo storico e scienza / Umberto Cerroni.Lecce: Milella); Il rapporto uomo-donna nella civilta borghese / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Salario, prezzo e profitto / Karl Marx; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Sulla storicità dell'eros: note metodologiche / Umberto Cerroni, Annarita Buttafuoco); Crisi ideale e transizione al socialismo / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Scritti economici / V. I. Lenin; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Stato e rivoluzione / Vladimir I. Lenin; introduzione di Umberto Cerroni.- Roma: Newton Compton); Carte della crisi: taccuino politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Crisi del marxismo? / Umberto Cerroni; intervista di Roberto Romani.Roma: Editori Riuniti); Critica al programma di Gotha e testi sulla tradizione democratica al socialismo / Karl Marx; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica / V. I. Lenin; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, In memoria del manifesto / Antonio Labriola; introduzione di Umberto Cerroni.2. ed.Roma: Newton Compton Editori); Che cos'è la proprietà?: o ricerche sul principio del diritto e del governo: prima memoria, Pierre-Joseph Proudhon; prefazione, cronologia, biografia Umberto Cerroni. 3. ed.Roma; Bari: Laterza, Lavoro salariato e capitale / Karl Marx; con appunti sul salario e appendice di F. Engels; introduzione... di Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton); Lessico gramsciano / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); La prospettiva del comunismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin; Umberto Cerroni.Roma: Editori riuniti); La questione ebraica e altri scritti giovanili / Karl Marx; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Editori riuniti); Saggio sui privilegi: che cosa e il terzo stato? Emmanuel-Joseph Sieyes; introduzione di Umberto Cerroni: traduzione di Roberto Giannotti.Roma: Editori Riuniti, Strade per la liberta, Bertrand Russell; introduzione di Umberto Cerroni; traduzione di Pietro Stampa.Roma: Newton Compton); Teoria del partito politico (Roma: Editori Riuniti, I giovani e il socialismo, K. Marx, F. Engels, V. I. Lenin, A. Gramsci; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti); Introduzione alla scienza sociale, Roma; Storia del marxismo / Predrag Vranicki; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, Quasi una vita... e anche meno, poesie di Italo Evangelisti; prefazione di Umberto Cerroni” (Milano; Roma); “Che cosa fanno oggi i filosofi? Milano); “Logica e società: pensare dopo Marx” (Milano: Bompiani, La democrazia come problema della società di massa; Principi di politica” (Roma: Editori Riuniti); “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico” (Roma: Editori Riuniti); Il pensiero di Marx: antologia, con la collaborazione di Oreste Massari e Anna Maria Nassisi.III. ed. Roma: Editori Riuniti, Scritti economici” (Roma: Editori Riuniti); Teoria della società di massa” (Roma: Editori Riuniti); La rivoluzione giacobina” (Roma: Editori riuniti, Politica: metodo, teorie, processi, soggetti, istituzioni e categorie / Umberto Cerroni.Roma: NIS); La politica post-classica: studi sulle teorie contemporanee” (Taviano: Lit. Graphosette) Urss e Cina: le riforme economiche” Centro studi paesi socialisti della Fondazione Gramsci.Milano: F. Angeli, stampa, Che cosa è il terzo stato con il Saggio sui privilege” (Roma: Editori Riuniti, Democrazia e riforma della politica: Lo Statuto del nuovo PCI / Umberto Cerroni.Roma: Partito Comunista Italiano, Regole e valori nella democrazia: stato di diritto, stato sociale, stato di cultura” Roma: Ed. Riuniti, La cultura della democrazia / Umberto Cerroni.Chieti: Metis, Che cosa e il Terzo Stato? / Emmanuel-Joseph Sieyes; Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, La rivoluzione giacobina / Maximilien Robespierre; Umberto Cerroni; traduzione di Fabrizio Fabbrini; apparati biobibliografici di Grazia Farina.Pordenone: Studio Tesi, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels; nella traduzione di Antonio Labriola; seguito da In memoria del manifesto dei comunisti di Antonio Labriola; introduzione di Umberto Cerroni.Roma: TEN,  Nazione/regione: i contributi regionali alla costruzione dell'identità nazionale / Andrea Battistini, Umberto Cerroni, Michele Prospero.Cesena: Il ponte vecchio, L'ambiente fra cultura tecnica e cultura umanistica: seminario svoltosi presso l'ANPA Umberto Cerroni; A. Albanesi, M. Maggi e L. Sisti.Roma: Anpa, [Novecento: almanacco del ventesimo secolo, Cesena: Il ponte vecchio, Il pensiero politico italiano / Umberto Cerroni.Roma: Newton Compton, Il pensiero politico del Novecento / Umberto Cerroni.Roma: Tascabili economici Newton); “Le regole del metodo sociologico” (Roma: Editori Riuniti, 1996 Regole e valori nella democrazia: Stato di diritto, Stato sociale, Stato di cultura / Umberto Cerroni.Roma: Editori Riuniti, L'identità civile degli italiani / Umberto Cerroni.Lecce: Manni, L'ulivo al governo: come cambia l'Italia / interventi di U. Cerroni; Paola Piciacchia.Roma: Philos, stampa Politica / Umberto Cerroni.Roma: Seam, Confronto italiano: atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni, Umberto Cerroni.Firenze: Ed. Regione Toscana, stampa (Firenze: Centro Stampa Giunta regionale); “L'identità civile degli italiani” (Lecce: Manni, Lo Stato democratico di diritto: modernità e politica / Umberto Cerroni.Roma: Philos, stampa, Habeas mentem: Scuola e vita civile:Umberto Cerroni.Rionero in Vulture (Pz): Calice, Conoscenza e societa complessa: per una teoria generale del sensibile” (Roma: Philos, Ricordo di Marisa De Luca Cerroni / scritti di Umberto Cerroni... et al.Lecce, stampa Confronto italiano: atti degli incontri di Cetona, Giovanni Bechelloni (Firenze: Ed. Regione Toscana, stampa  (Centro Stampa Giunta Regionale) Taccuino politico-filosofico / Umberto Cerroni.Roma: Philos, Precocità e ritardo nell'identità italiana, Roma, Precocità e ritardo nell'identità italiana, Roma: Meltemi, Taccuino politico-filosofico, Umberto Cerroni.Lecce: Manni, Le radici culturali dell'Europa, Umberto Cerroni.Lecce:Manni, Radici della civiltà europea, Lecce: Manni,Globalizzazione e democrazia, Lecce: Manni, Taccuino politico-filosofico, Lecce, Taccuino politico-filosofico Umberto Cerroni.San Cesario di Lecce: Manni, L'eretico della sinistra: Bruno Rizzi elitista democratico” (Milano: F. Angeli,  Taccuino politico-filosofico, Lecce; La scienza e una curiosita: scritti in onore di Umberto Cerroni / Cosimo Perrotta; con la collaborazione di Mariarosa Greco” (San Cesario di Lecce: Manni, Manifesto del partito comunista / Karl Marx, Friedrich Engels; nella traduzione di Antonio Labriola; seguito da In memoria del Manifesto dei comunisti di Antonio Labriola” (Roma: Newton & Compton, Dialettica dei sentimenti: dialoghi di psicosociologia / Umberto Cerroni, Alberta Rinaldi.San Cesario di Lecce: Manni, [Taccuino politico-filosofico, Umberto Cerroni.[San Cesario di Lecce]: Manni, Ricordi e riflessioni: un dialogo con Giuseppe Vagaggini / Umberto Cerroni.Montepulciano: Le Balze.  ùUe fonti del dritto Bonumo.   r 'SeUieae il dritto ocHisiderato astrattamente abbia uoa  brigioe ed nn priocipio onìoo ed assolato, pure quando  sf attna come dritto d' au' epoea e d' un popolo , per-  chè dipènde da tatte le condizioni storidie dell' uno e  dell' altra, emana per 4^rgani'i diversi, e prende forme  e msuiifestazioni varie e conformi allo spirito di esse.  Per questo intigno rapporto fra la vita intima d' un po^  polo ed il dritlo positivo di esso, fra questo e gli or-  gani estemi onde si manifesta, i più ingegnosi ed in*  telligrati che si fecero a trattare del dritto Romano,  crederono essenziale investigarne avanti tutto le fonti  e gli organi, per ì quali ebbe vita e realtà. Una tale  investigazione non riesce difficile quantunque volte vi  abbia unità di poteri, o sieno questi armonicamente  distinti , sicché Ja storia di essi succedendosi pacata-  mente ed uniformemente è facile intraviNlere V origine  ed il principio di ciascuna legge : ma nella storia Ro-  mana in cui la moltiplioità e la lotta dei partiti , il  tumulto, che non si scompagna da una vita agitata  e guerriera, ed i cambiamenti rapidi e violenti , onde  si avvicenda la storia di Roma, rendono oltrQmodo dif-^  iicilè e malagevole lo studio della genesi e^el pro-  cesso d'ogni fatto storico in generale e di quelli del  dritto in particolare. Per questo studio però non vi ha  difetto di materiali né di testimonianze storiche. Quan-  do al tumulto della esistenza pubblica tenne dietro il  silenzio e la quiete della vita privata , quella stessa  forza che fece il sublime degli eroi Romani , e rese  invincibili le schiere dello repnblica, dettò i libri e le  sentenze dei più grandi giureconsulti, che ricordi la  storia. E questi non lasciano nulla a desiderare di te-  stimonianze e prnove storiche nella ricerca delle fonti  del dritto Romano (*). È ormai indubitato , in che A\i-   (^) §. 0. r. l r. ì. 7. fi. dt jmt. H}ì0^V. i.) Cicero^ Té.     Digitized by LjOOQIC     BELLE ISTlTOZfOia M CAJO. 13   ferissero il Jus genimn dal Jus civile^ quale impcnr*  tanza ed es0i:essìone avesse il dritto Pretorio nella stoi»  ria del dritto Roioaào , qpaale processo tenevasi nelle  determiliazioni popolari , da qaal momento ebbero forza  legislativa. Ciascuno di questi fatti è si intimamente  incarnato nella storia di Roma, cbe ne forma im eie-,  mento , ed accenna ad uno dei periodi di essa. Non  havvi però la medesima certezza suUa importante qui*  stione dà qual tempo i Senatoconsulti ebbero forza le-  gislativa : e le opinioni dei moderni (*) furono diverse,  come pure discordanti sono a tal proposito le testimo-  nianze degli antichi scrittori ; giacché alcuni ritengono  per indubitato (^) , che i Senatoconsulti non abbiano  avuta forza legislativa prima del tempo di Tiberio ,  abbisognandovi avanti tutto che fossero confermati nei  Gomizii perchè valessero come altrettante leggi ; mentre  altri (') sostengono l'opinione contraria, ed avvisano (Ae  i Senatoconsulti furono una fonte di dritto anche al tem-  po della repubblica , giacché molto prima di Tibe-  rio occorrono SenatòccHisulti sulle materie di dritto pri-  vato, e particolarmente il S. L* Sileniarmm. È neces-  sario avanti tutto far considerazione , che in una ta-  le quistione importa moltissimo il distinguere quello  che intendesi investigare, se i Senatoconsulti cioè sie»  no slati semplice fonte del dritto al tempo della re-  publica, o abbiano avuto anche forza di le^e. Di quanta  importanza sia una tale distinzione basta a pruovarlo il  dritto Pretorio. A tutti è noto qual parte essenziale  questo rappresenti nella storia del dritto Romano^ co-  pica y cap. 5. -^ TheopkUtis , ad U e. L />• de m^. juris f   ( I- 2. )•   {') Hugo , SU^ia id driUo , p. 293. — Bach. , Histar. jurù  p. 203.   (") Dion. D'JUcamis. lib. VII- p. 448 — Polibio , lib. Vf.  p. &62. — Tacili, Ajffr^ i. 15. « ^um primum e campo comi-  Ita ad paires tramlata sunt ». Dian. Canio ^ lib. 52 , p485.   (') Cicero , Topica, e. 5« « Vi si quis jus civile dicat id esse^  quod in kgibìés , senatuicmiultis rebtis judìcaiis , jurisperitorwn  auctoritate , ediclis magistralum eie. consistat » — Theophilus ,  ad I. i. 11. §. 5. — Pomponius^ l % § 9. de origin. jum.—  Oratiu$ , Ep, ì. i6.     Digiti     izedby Google     ]| . WLIA SCOYBftTA     «sprima relemmU) umanitario in opposiziose  dell' eleneuto civile Romano, sia l' anellp, per il quale  il dritto RcHuano si connette con quello dell' umanità,  di'esso in fine pone le basi del dritto posteriore Roma-  no; e pure non ebbe per se stesso ed immediatamente  forza di legge. Sicché quando si dimanda , se i Sena-  toconsulti sìeno stati una fonte del dritto al tempo del-  la republica non potrebbesi affermare il contrario ; la  loro ezistenza islessa e Y importanza del Senato ne fa  nruova. Ma da qual tempo ebbero forza legislativa?  Non vi ha alcuna legge che riconosca loro un tale ca-  rattere , mentre per contrario ne' plebisciti è detto :  e et ita factum est , ut inter plebiscita et legem spe^  cies constituendi interessent , potestas autem eadem  e^/ i ; e certamente non sarebbesi mancato di affermare  il medesimo dei Senatoconsulti, quando ciò fosse stato^  Un tal cambiamento dovette avvenire nei tempi poste-  riori alla republica ; quando più difficili e rari addiven-  nero i Gomizii , che confermavano le determinazioni  del Senato : a quia difficile plebs convenire coepitj pch  pulus certo multo diffìcilius in tanta turba homimm ne*  ces&itas ipsa curam reipublica^ ad Senatum dedimit » • '   Questa opinione è conferorota dalle seguenti parole  di Gajo*   Comm. I. g. 4.   e Senatusconsultum est , quod Senatus Jubet at-  que oonsisterit , idque legis vicem oòtinet , quamvis  fuit quaesitum ».   E perchè le ultime parole quamvis fuit quaesitum  non accennano alla lotta dei partiti ma alle diverse  opinioni delle due scuole dei Sabiniani e dei Procu-  lejani, ne segue, che anche al tempo di queste la con-  suetudine per la quale in difetto di legge espressa  i Senatoconsulti prendevano forza legislativa, non era  ancora addivenuta un fatto certo ed indubitato.   Sul/t/^ hanorarium e particolarmente V antica qui-  stione, se Y Edictum perpetunm costituisse sotto Adria ^  Mo un Codice, che fosse coi precedenti Editti Prete-  rii nel medesimo rapporto che le Pandette cogli scritti  dei giuristi , o pure fosse un semplice lavoro privato     Digiti     izedby Google     BELLE ISTITCZIONI * M CkJO^ i 5   BB&wiiìb dall' Imperadore senza ehe arrestasse il mo-  vimento della legislazione Pretoria (^) , sembra de-  cisa a favore di quest' ultima opinione colle parole :  «r Jus mttem edicendi habent magistratus popvM Mo^  mani '^-^ Qu(wst<^res non mittuntur : id Edicium m  pt'omnciis non proponitur ».   Le nostre conoscenze per contrario non si avvantag^  giano in menomo modo ooUa scoverta delle Istituzioni  di Gajo sulle quistioni, che riguardano i responsi^ prui^  dentum , la distinzione del jus scripium e non scri-  ptum^ ohe ritenevasi commùnemente. di origine Gre-  ca (^) \ senza che un tal difetto fosse un gran ^aniio ^  giacché le notizie e le conoscenze , che ci vennero a  tal proposito per altri scrittori, sodisf ano abbastanza  ai bisogni della scienza. Umberto Cerroni. Keywords: Hegel and Roman law -- i hegeliani, categoria giuridica, Trasimacco, Kelsen, Eduardo Gaus, Hegel, sistema di diritto romano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerroni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773615049/in/dateposted-public/

 

Grice e Certani – il sacrificio – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “I like Certani – but then in Italy they learn Hebrew at school, whereas we at Clifton separated Montefiore from the rest!” Grice: “Certani philosophised, like Kierkegaard later will, on ‘L’Abraamo,’ Insegna a Bologna. Opere: “Conclusioni di filosofia” e di teologia. Insegna a Cesena, Brescia, Milano e Bologna. Si laurea a Bologna. Altre opere: “Abramo: Caino ed Abele” (Venezia); “Francesco Saverio” (Bologna, Ferrosi); “La verità vendicata; cioè Bologna difesa dalle calunnie di Francesco Guicciardini. Osservazioni Istoriche dell'Abate Giacomo Certani Canonico Dott. Teologo Colleg. Filosofo, e nell'Bologna pubblico Professore di Filosofia morale. In Bologna per gli Eredi del Dozza); “Maria Vergine Coronata. Descrizione, e dichiarazione della divota Solennità fatta in Reggio per Prospero Vedrotti); “La Chiave del Paradiso; cioè, invito alla Penitenza alle Cavalieri” (Bologna per Giacomo Monti); “Il Gerione Politico, Riflessioni profittevoli alla vita civile, alle Repubbliche, e alle Monarchie” (Milano, Compagnini); “S. Patrizio Canonico Regolare Lateranense Apostolo, e Primate dell'Ibernia; descritta dall'Abate D. Giacomo Certani ec.” (Bologna nella Stamperia Camerale); “L'Isacco ed il Giacobbe” (Bologna, per il Monti); “La Santità Prodigiosa, Vita di S. Brigida Ibernese Canonichessa Regolare di S.Agostino Scritta dall'Ab. D. Giacomo Certani Canonico Regolare Lateranense Dott. Filosofo e Teologo Collegiato ec. per gli eredi di Antonio Pisarri); “La Susanna in versi, notata da Lorenzo Legati: nel suo museo Cospiano al fol.117 e la nota ancora Gregorio Leti nell'Italia Regnante parte III lib. II, pag. 118 ove parla di Questo soggetto. Oltre i sopraccennati ne parla ancora l'Orlandini negli Scrittori Bolognesi ec.  Marco Curzio Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il dipinto attribuito al Bacchiacca, vedi Marco Curzio (dipinto). Marco Curzio è un personaggio leggendario della Roma antica, appartenente alla gens Curtia.   Benjamin Haydon, Marco Curzio si getta nella voragine, National Gallery of Victoria. La leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro Romano si aprì una voragine apparentemente senza fondo. I sacerdoti interpretarono il fatto come un segno di sventura, predicendo che la voragine si sarebbe allargata fino ad inghiottire Roma, a meno che non si fosse gettato in quel baratro quanto di più prezioso ogni cittadino romano possedeva.  Il giovane patrizio Marco Curzio, uno dei più valorosi guerrieri dell'esercito romano, convinto che il bene supremo di ogni romano fossero il valore e il coraggio, si lanciò nella fenditura armato e a cavallo, facendo così cessare l'estendersi della voragine.  Questo autosacrificio agli dei inferi (Mani) era detto devotio.  Il luogo dove si formò la voragine rimase nella leggenda con il nome di Lacus Curtius. La leggenda è narrata da Tito Livio nei suoi Annali (VII,6).  Una statua equestre della tarda latinità - in grandezza ridotta rispetto al naturale - rappresentante Marco Curzio si trova a Carrara, inserita nelle mura Albericiane in corrispondenza della Porta cittadina.  Il grande attore Antonio de Curtis, in arte Totò, sosteneva che la sua famiglia discendesse da questo personaggio leggendario.  Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Mevio Curzio Collegamenti esterniModifica Cùrzio, Marco, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Marco Curzio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 296493509 · CERLcnp02068621 · GND ( DE ) 1031330887 ·BNF ( FR ) cb14953648p (data) · WorldCat Identities ( EN ) viaf-296493509   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Mitologia Ultima modifica 2 anni fa di 151.61.63.10 PAGINE CORRELATE Gens Curtia famiglie romane che condividevano il nomen Curtius  Lacus Curtius Punto d'interesse nel Foro romano  Marco Curzio (dipinto) dipinto attribuito al Bacchiacca  Wikipedia IlGiacomo Cerretani. Jacopo Certani. Giacomo Certani. Keywords: il sacrificio, Marco Curzio, devozione --  Il cavaliere penitente; ossia, la chiave del paradiso, chastita, maschile. Christian masculinity, Percival, The Holy Grail, the knight-penant, cavalier penitente. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Certani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773839345/in/dateposted-public/

 

Grice e Ceruti – Niso ed Eurialo; ovvero, dell’altruismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo. Grice: “Ceruti is a good one – he has philosophised on solidarity – and previously on altruism – these are VERY different concepts, as he notes – but also on ‘vinculum,’ a nice Latin word for what I’m into! – “A Griceian at heart!” --  Grice: “Only one T!”. Tra i filosofi protagonisti dell'elaborazione del pensiero complesso, è uno dei pionieri della ricerca contemporanea inter- e trans-disciplinare sui sistemi complessi.  La sua filosofia si produce all'intersezione di una pluralità di domini di ricerca: epistemologia (filosofia e storia della scienza, storia delle idee, noologia…), scienze della natura (fisica, biologia, cosmologia…), scienze dell'uomo (antropologia, sociologia, psicologia, storia…), scienze dell'organizzazione e del management. Si laurea in filosofia della scienza con Geymonat con “L'epistemologia genetica di Piaget” nella quale, attraverso l'analisi dell'epistemologia viene posto il problema del ruolo della biologia e delle scienze del vivente, nelle varie articolazioni disciplinari, come decisiva interfaccia fra le scienze fisico-chimiche e le scienze umane, in grado di favorire processi di circolazione concettuale e di traduzione reciproca fra vari e multiformi campi del sapere. Nei suoi studi ha affrontato le questioni del significato filosofico ed epistemologico delle maggiori rivoluzioni scientifiche del ventesimo secolo (teoria dei quanti, relatività, teoria dei sistemi, biologia molecolare) focalizzando le sue ricerche sui temi del cambiamento stilistico e delle relazioni fra stile e contenuto nella storia delle idee, nonché dello statuto conoscitivo dei risultati innovativi connessi alle rivoluzioni scientifiche. Una sintesi di queste ricerche è contenuta nell'opera Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica di Piaget. Assunto da Ginevra, presso la Facoltà di Psicologia e scienze dell'educazione fondata da Piaget, in qualità di assistant, svolgendo ricerche nel gruppo di lavoro coordinato da Munari. In questo periodo approfondisce le relazioni che connettono l'opera di Piaget a vari modelli e approcci del contesto scientifico a lui contemporaneo: alla termodinamica di non equilibrio di Prigogine, alle ricerche sul concetto e sui processi di auto-organizzazione e autopoiesi, all'embriologia di Waddington, ai nascenti dibattiti sul significato delle ricerche della biologia molecolare. Il tema chiave di queste convergenze disciplinari è la possibile delineazione di modelli generali del cambiamento, nonché del ruolo della discontinuità in questi modelli. L'approfondimento dei singoli filoni disciplinari gli consente di interrogarsi più estensivamente sul significato profondo e complessivo dei cambiamenti paradigmatici delle scienze alla fine del ventesimo secolo: dalla convergenza di varie discipline emerge la prospettiva di una scienza nuova, caratterizzata da precise assunzioni relativamente alla natura del cambiamento, alla relazione fra soggetto e mondo, al ruolo del tempo, della storia e della narrazione negli approcci scientifici. La nozione di complessità costituisce un'utile maniera sintetica di rapportarsi con tali assunzioni. Per ricostruire queste novità del contesto scientifico, imposta un programma di ricerca attorno al tema della epistemologia della complessità, parte integrante del quale è stata a partire l'organizzazione di convegni internazionali e di seminari, e la pubblicazione del volume La sfida della complessità. Ricercatore associato presso il Centre d'Etudes Transdisciplinaires, Sociolgie, Anthropologie, Politique diretto da Morin, centro di ricerca associato al CNRS e all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, presso il quale dirige l'unità di ricerca di filosofia della scienza. In quegli anni approfondisce le problematiche dell'epistemologia genetica e della cibernetica, pubblicando Il vincolo e la possibilità e La danza che crea. Svolge inoltre ricerche sul ruolo giocato dalle scienze evolutive e dalla teoria dell'evoluzione di tradizione darwiniana nel più generale mutamento di prospettiva delle valenze cognitive e stilistiche del contesto scientifico, focalizzandosi sulle conseguenze epistemologiche e filosofiche dei modelli di cambiamento e delle relazioni fra continuità e discontinuità conseguenti alla teoria degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge, ai dibattiti sulle estinzioni di massa e sulle testimonianze paleontologiche, alle nuove forme di collaborazione fra evoluzionismo e genetica, alle relazioni fra approcci storici e approcci nomotetici nelle scienze del vivente. Ne deriva una serie di ricerche compendiate nel volume Origini di storie, in cui il tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bio G. Bocchi, 1993), in cui il tema del cambiamento discontinuo, e i connessi temi dell'evento, della contingenza e della sensibilità alle condizioni iniziali, vengono discussi all'interno di un ampio spettro disciplinare, che connette bioogia evolutiva, cosmologia, fisica del caos, antropologia e storia delle idee. Gli interrogativi sul modo in cui dallo studio del radicamento naturale delle società umane possano scaturire nuovi strumenti di comprensione dei fenomeni sociali e culturali della nostra specie lo portano a entrare in contatto con le ricerche condotte in questi stessi anni dal Santa Fe Institute, volte all'individuazione di leggi generali della complessità e di modelli generali sul comportamento dei sistemi complessi. Una nuova linea di ricerca di filosofia della scienza, che approfondisce a partire dalla metà degli anni novanta, è lo studio dei modelli di cambiamento dell'evoluzione umana, in relazione alla teoria degli equilibri punteggiati, alla visione discontinuista della storia naturale, alle dinamiche ecologiche e ambientali. Una seconda linea di ricerca epistemologica, strettamente interrelata alla prima, è lo studio dell'importanza delle analisi genetiche per la ricostruzione dell'evoluzione e della storia umane, sia dei tempi lunghi della storia delle varie specie ominidi sia dei tempi medi della storia della nostra specie Homo sapiens. A partire da Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica, imposta una serie di seminari e di ricerche di filosofia delle scienze biologiche, evoluzionistiche e storiche sul tema dei confini e sulle identità nazionali e culturali. Nel far ciò approfondisce una concezione evolutiva di tali identità, consonante con la prospettiva epistemologica costruttivistica, e convergente con i presupposti epistemologici, costruttivisti e antiessenzialisti propri della tradizione evoluzionistica darwiniana. In queste ricerche, viene affrontata anche la questione del significato della rivoluzione darwiniana nell'intera storia della tradizione scientifica occidentale. Un ulteriore studio dedicato a tali problematiche è il volume Educazione e globalizzazione, che traccia un bilancio epistemologico degli intrecci disciplinari fra storia, geografia, antropologia, scienze evolutive e naturali per comprendere il ruolo della diversità culturale nella storia della specie umana e le radici profonde degli attuali processi di globalizzazione. Insegna a Palermo, di Milano Bicocca, di Bergamo e a Milano, dove attualmente insegna e ricopre la carica di direttore del Dipartimento di Studi umanistici. Presidente della Società Italiana di Logica e Filosofia delle Scienze. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli studi di Milano Bicocca. Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Bergamo. Direttore del Centro di Ricerca sull'Antropologia e l'Epistemologia della Complessità che comprendeva la Scuola di dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità a Bergamo.  Principali tematiche presenti negli studi di Ceruti: Antropologia Bioetica costruttivismo (filosofia); Epistemologia; Epistemologia della complessità; Epistemologia genetica; Evoluzionismo; Globalizzazione; Scienze cognitive; Scienze della formazione; Teoria dei sistemi. Membro della Commissione Nazionale di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nominato, dal Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, Presidente della Commissione incaricata di scrivere le nuove Indicazione per il Curricolo per la Scuola dell'Infanzia e per il Primo Ciclo di Istruzione. Partecipa alla fase di fondazione del Partito Democratico, venendo eletto all'Assemblea costituente del partito e assumendo l'incarico di relatore della Commissione incaricata di redigerne il Manifesto dei Valori.  Alle elezioni politiche italiane della XVI Legislatura eletto al Senato della Repubblica nelle liste del Partito Democratico. È stato membro della Commissione permanente (Istruzione pubblica, beni culturali), della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi e della Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza. Non si è ripresentato alle elezioni della XVII legislatura. Altre opere: “Il tempo della complessità” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “La fine dell'onniscienza” (Studium, Roma); “La nostra Europa” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Organizzare l'altruismo” (Laterza, Roma-Bari); “Una e molteplice: ripensare l'Europa” (Tropea, Milano); “Il vincolo e la possibilità” (Feltrinelli, Milano); “Origini di storie” (Feltrinelli, Milano); “La sfida della complessità” (Feltrinelli, Milano); “Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Formare alla complessità, Carocci, Roma); “Le origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione, Bruno Mondadori Editore, Milano); “Le radici prime dell'Europa: gli intrecci genetici, linguistici, storici” (Bruno Mondadori Editore, Milano); “Epistemologia e psicoterapia, Raffaello Cortina Editore, Milano); “Pensare la diversità. Per un'educazione alla complessità umana, Meltemi, Roma); Evoluzione senza fondamenti” (Laterza, Roma-Bari); “Solidarietà o barbarie: l’Europa delle diversità contro la pulizia etnica” (Raffaello Cortina Editore, Milano, Prefazione di Edgar Morin, Il caso e la libertà, Laterza, Roma-Bari); Evoluzione e conoscenza, Lubrina, Bergamo); “L'Europa nell'era planetaria” (Sperling & Kupfer, Milano); “Turbare il futuro: un nuovo inizio per la civiltà planetaria” (Moretti & Vitali, Bergamo); “Che cos'è la conoscenza, Roma-Bari); “La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell'epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano, Prefazione di Francisco Varela, Lazlo E., Physis: abitare la terra, Feltrinelli, Milano); Dopo Piaget. Aspetti teorici e prospettive per l'educazione, Edizioni Lavoro, Roma); Modi di pensare postdarwiniani: saggio sul pluralismo evolutivo” (Dedalo, Bari); L'altro Piaget. Strategie delle genesi, Emme Edizioni, Milano  Bocchi G., Ceruti M. Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget, Feltrinelli, Milano. Direttore delle riviste scientifiche:  La Casa di Dedalo (Casa Editrice Maccari, Parma); Oikos (Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo); Pluriverso (Rcs, Milano). mauroceruti. Pagina nel sito del Senato, su senato. Ministero della Pubblica Istruzione, Nuove Indicazioni Nazionali per il Curricolo, su pubblica.istruzione. Presidenza del Consiglio dei ministri, Comitato Nazionale di Bioetica, su governo. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their relationship see Gordon Williams, pp. 205-7, 226-31, Lyne, pp. 228-9, 235-6, and Hardie, 23-34). Bellincioni, ‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA PASSIONE … PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC, 19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two valourus young Trojans has, of course, various thematic functions and will have resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation Niso ed Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir. Aen. 5. 2292-6). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus amorum (Vir. Aen. 5. 334 -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer to a bull’s mate at Georgics 3 227. Indeed, Servius, ad Aen. 5 334, writing in a different cultural climate, was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM, QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural ‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s love for the boy as PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The two Trojans reappear in a celebrated episode from Book 9, when they leave the camp at night in an effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They succeed in killing a number of Italian warriors, ut eventually are themselves both killed. Euryalus first and then his companion, who, after being morally wounded, flings himself upon Euryalus’s body. The episode beings with this description of the pair. Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides, comitem Aenea quem miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque induit arma, ora puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. 9 176-82. Nisus, sonof Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior, swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love, and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth  For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, pp. 229. For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND EURYALUS’S (235-6:  Likewise the question that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, 4. 1046, concerning men’s desire TO EJACULATE and muta cupido at 4. 1057. Euryyalus, is it the gods who put this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely protective for for the youth. Tum vero exterritus, amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli, mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum (Vir. Aen 9 424-30. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of Thebes constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece (Note also that 9.199-200 (meme … figis?) seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314 (mene fugis?. So too Makowski p. 9-10 and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul et VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the scene were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see Plut, Amat. 761B. Pelop, 18-9, Athen. 13.561F and 602A, and the probable allusion at Pl. Smp. 178e-179a. When Nisus, mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body to join him in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. (Vir. Aen. 9. 444-9). Then he hurdled himself, pierced through and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The praise of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring – cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’ he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE 1142 = CIL 6. 25427, lines 25-6, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 = CIL 11.654: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT. CLE 1848.5-6 granddaumother and granddaughter: SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS.  So too Senece quotes the lines as an illustration of the fact that great writers can immortalize people who otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5 VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context – that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP, putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia 1.5.19-24, 1.9.27-34 but the relationship between ACHILEES AND PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between Aeneas and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo and Lloyd have independently described erotic elements in the relationship between the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is then replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas.  But their relationship is more complex than the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe  an enemy leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI, 376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO 471-2 . In other words, although Euryalus is the junior partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet, while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The relationship between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek writers to have a seual component see e. g. Aesch. F.r. 135-7 Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50, Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the Iliad itself, while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond between the two, does not represent them in terms of the classical pederastic model. See further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, v. 106 p. 381-96, Sergent, 250-8, and Halperin p. 75-87. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly, together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric at 9.128-58 based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the weighty dialogue between Jupiter and June at 12.808-40, where it is agreed that Trojans and Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this would have been unthinkable in a cultural context in which same-se relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus, and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her involvement with Aneas (aculpa 4 19, 172, constitutes an offense within the moral framework poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and Euryalus does ot. This distintion revelas something about the relative degrees of problematization of the two types of relationships in the cultural environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an adulterous couple ina Roman epic!” Mauro Ceruti. Keywords: Niso ed Eurialo; ovvero, dell’altruismo, dal semplice al complesso, complesso proposizionale, discover the simple elements, philosophy as deconstructing the complex, solidarity, altruism, solideratieta, altruismo, sistema complesso, sistema semplice, etimologia di ‘complesso’. Filosofia della solidarieta, solidarieta: il semplice della solidarieta, il semplice dell’altruismo, Butler, amore proprio, amore improprio, altruismo, egoismo, self-love, other-love, benevolence, organizzare l’altruismo, abitare la complessita, multiple e diverso, unico e multiple. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceruti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773575194/in/dateposted-public/

 

Grice e Cerutti – il leviatano – organicismo politico – il corpo politico nella costituzione italiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “Cerutti is into politics, like Hobbes, and it’s not surprising he philosophised on ‘il leviatano,’ as the Italians call it – and represent as a tortoise ridden by Jacob --,” -- “La globalizzazione dei diritti umani dovrebbe avere il suo culmine con il riconoscimento del diritto che ha il Genere Umano alla sopravvivenza»  Insegna a Firenze. La sua filosofia verte principalmente sul marxismo occidentale e la "teoria critica" propria della Scuola di Francoforte da cui, tra l'altro proviene. Lavora sulla filosofia politica delle relazioni internazionali ed affari globali, seguendo due diverse tematiche: la teoria delle sfide globali (armi nucleari e riscaldamento globale), e la questione dell'identità “politica” (non sociale o culturale) degli europei in relazione con la legittimazione dell'unione europea. Da ricordare la sua amicizia con Bobbio del quale Cerutti stesso si ritiene allievo. Altre opere: “Storia e coscienza di classe” (Milano); “Totalità, bisogni e organizzazione” (Firenze); “Marxismo e politica. Saggi e interventi, Napoli); “Gli occhi sul mondo. Le relazioni internazionali in prospettiva interdisciplinare, a cura di, Roma); “Sfide globali per il Leviatano. Una filosofia politica delle armi nucleari e del riscaldamento globale” (Milano, Vita e pensiero). Che cosa significa "Corpi politici"? Organismi che possono essere bersaglio di una condotta oltraggiosa ex art. 342 in ragione della funzione politica dagli stessi svolti e dal cui novero risultano esclusi il Governo, il Senato, la Camera dei Deputati e le Assemblee regionali, rispetto ai quali la tutela penale viene offerta dall'art. 290. Articoli correlati a "Corpi politici" Art. 338 Codice Penale - Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti  Art. 342 Codice Penale - Oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziarioFurio Cerutti. Keywords: il leviatano, il corpo politico, l’organismo politico, lotta di classe, Lukacks, Marx, unione europea, identita culturale, identita sociale, identita politica, corpi politici, I corpi politici, brunetto latini, aquino, Egidio romano, Dante Banquet, Marsiglio di Padua, Pegula. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerutti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772091232/in/dateposted-public/

 

Cervi

 

Cesa

 

Grice e Cesarini – filosofia italiana– Luigi Speranza (Genzano di Roma). Filosofo. Grice: “Cesarini was more of a warrior than a philosopher, but I also fought in the North-Atlantic – in Italy, war trumps philosophy! He wrote a philosophical story of the war of Velletri – and liked to dress up as one of his ducal ancestors – a gentleman!” -- There are many philosophers with the name Sforza Cesarini. Figlio del III duca Lorenzo Sforza Cesarini. Convinto sostenitore del nuovo Regno d'Italia tanto da nascondere le armi degli insorti nel suo palazzo. Per questo motivo, il papa confisca tutte le sua proprietà che vennero loro restituite da Vittorio Emanuele II dopo il suo ingresso a Roma, reso possibile dalla presa di Porta Pia, accompagnato dallo stesso filosofo in veste di consigliere del re. Grice: “My mother loved him; but then every Englishman loved the Kingdom of Italy, or rather, every Englishman hated the Pope!” – Grice: “Sforza Cesarini should never be confused with the philosopher Cesarini Sforza: Sforza Cesarini is under “C”; Cesarini Sforza, the jurisprudential philosopher, is under “S”. IV duca Sforza Cesarini. Francesco II Sforza Cesarini. Francesco Sforza Cesarini. Sforza Cesarini. Cesarini. Keywords: “Letters of my father, kingdom of Italy, anti-Popish, Palazzo di Roma. Patria, patriotism, nazionalismo. Il nuovo regno d’Italia, Vittorio Emanuele II, Porta Pia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cesarini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772077672/in/dateposted-public/

 

Grice e Cherchi – implicatura sarda – filosofia sarda – filosofia italiana – Luigi Speranza (Oschiri). Filosofo. Grice: “Cherchi demonstrates that Jersey exists – if a philosopher is from Jersey we wouldn’t call him English – neither would he! Cherchi is from ‘Sardinia,’ and he philosophises mainly about that – which is very fun! My favourite of his tracts is one on the circle and the ellipse as it relates to Vinci’s ‘homo vitruviano.’ Anda a scuola al liceo Siotto Pintor a Cagliari. Placido Cherchi studiò a Cagliari con Ernesto De Martino e Corrado Maltese, interessandosi contemporaneamente di studi e problemi etno-antropologici e storico artistici. Come autore di importanti lavori sul pensiero di Ernesto De Martino e sui problemi dell'identità e della cultura sarda, fu un membro attivo della Scuola antropologica di Cagliari, dovuta alla presenza all'Cagliari di maestri come Ernesto de Martino e Alberto Mario Cirese, come pure di loro allievi quali Clara Gallini, Giulio Angioni e lo stesso Cherchi.  Morì nel  all'età di 74 anni a causa di un'emorragia cerebrale. Altre opere: “Paul Klee teorico, De Donato, Bari); Sciola, percorsi materici, Stef, Cagliari); “Pittura e mito in Giovanni Nonnis, Alfa, Quartu S.E.); Nivola, Ilisso, Nuoro); “Placido Cherci,  Ernesto De Martino: dalla crisi della presenza alla comunità umana, Liguori, Napoli); “Il signore del limite: tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli); “Il peso dell'ombra: l'etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema dell'autocoscienza culturale, Liguori, Napoli); “Etnos e apocalisse: mutamento e crisi nella cultura sarda e in altre culture periferiche, Zonza, Sestu); “Manifesto della gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei circoli, organizzazione non-partitica dei sardi, coautori Francesco Masala ed Eliseo Spiga, Zonza, Sestu); “Il recupero del significato: dall'utopia all'identità nella cultura figurativa sarda, Zonza, Sestu); “Crais: su alcune pieghe profonde dell'identità, Zonza, Sestu); “Il cerchio e l’ellisse. Etnopsichiatria e antropologia religiosa in Ernesto De Martino: le dialettiche risolventi dell’autocritica, Aìsara); “La riscrittura oltrepassante, Calimera, Curumuny); “Per un’identità critica. Alcune incursioni auto-analitiche nel mondo identitario dei sardi” (Arkadia. Silvano Tagliagambe:   Giulio Angioni, Una scuola sarda di antropologia?, in  (Luciano Marrocu, Francesco Bachis, Valeria Deplano), La Sardegna contemporanea. Idee, luoghi, processi culturali, Roma, Donzelli,, 649-663  Addio a Placido Cherchi, il ricordo di Giulio Angioni: "Fu ideologo del neo sardismo" Archiviato il 2 ottobre  in. Notizie.tiscali  È morto Placido Cherchi, vicepresidente della Fondazione Sardinia Fondazionesardinia.eu  Scuola antropologica di Cagliari Ernesto de Martino  Giulio Angioni, In morte di Placido Cherchi, sito "il manifesto sardo".il 6 ottobre. Roberto Carta, Che cosa è Placido Cherchi? Due o tre cose, per decidere di essere sardi Po arregordai a Placido CherchiEnrico Lobina, su enricolobina.org. Silvano Tagliagambe, L'eredità preziosa di Placido Cherchi.  La colonizzazione e la penetrazione ro-  mana nell'isola furono oltremodo intense e  furono facilitate da affinità di razza, per cui si  può dire che lo spirito latino g-iunse nell'intimo  dell'anima del popolo sardo.     (I) Pinza, IMonuineiiti prUìiHivi della Sardegna in Monumenti Antichi, pubblicati per cura  della Reale Accademia dei Lincei, pag. 6. Il Taramelli, nel recente lavoro sulla questione nu-  ragica (Arch. Stor. Sardo, ITI 119071 p. 217), ritiene che il carattere prevalentemente guerresco  della schiatta sarda, l'accanimento delle lotte interne dapprima, poi con lo straniero invasore,  abbiano nuociuto allo sviluppo artistico, che in germe aveva la stessa disposizione che presso  altre genti del Mediterraneo.     i6     STORIA' DP:LL'ARTE in SARDEGNA      Quando le legioni romane, in seguito alle  fiere lotte sostenute contro i montanari Olaesi  o Iliesi ebbero assoluta padronanza dell'intera  isola, l'arte sarda scomparì con questa che può  definirsi l'ultima ribellione dell'antica civiltà  nuragica, e di essa non rimasero che vaghe re-  miniscenze presso gli artefici più umili, le quali  perdurarono attraverso il medio evo fino ai nostri  giorni.   Nel periodo glorioso dell'impero romano la  fusione fra l'elemento latino ed indigeno fu così  intima da potersi asserire che le nostre sono  manifestazioni della civiltà derivante da Roma;  le grandi opere pubbliche mostrano una regione  che assurse ad alto grado di fiorimento civile ed  economico; non v'è paese, né plaga nell'isola  che non abbiano traccia dell'opera meravigliosa  svolta dai Romani. Nelle regioni più inaccessibili,  in quella stessa Barbagia che raccolse gli ultimi  difensori della civiltà indigena, e che mostrossi     .Statuetta preistorica  1 Museo di Casa;! i a     sempre indomita e ribelle  ad ogni forma di potere,  sono strade, ponti, ed altri  segni palesanti ima florida  colonizzazione romana,  tanto intensa da perdiu-are  in molte manifestazioni e  iiello stesso linguaggio ,  attraverso secoli di bar-  barie e di dominazione.      Oreficeria punica nel Museo di Cagliari.     MONUMENTI PREISTORICI E CLASSICI     17     gran parte     Nello sfasciarsi della romana potenza lo spirito conservatore delle  genti sarde custodì gelosamente la bella tradizione latina. Mentre nel  tempo che segnò il passaggio dall'evo antico all'evo medio,  d'Italia, come scrisse il vSolmi, soggiacque a una  lunga, trasformativa dominazione germanica, la  Sardegna fu invece fra le scarse regioni italiane  che ne restarono quasi pienamente immuni, dando  così un nuovo, singolare atteggiamento alla sua  storia, che fu lenta e spontanea elaborazione degli  elementi indigeni e latini •'•.   La furia distruggitrice della conquista vanda-  lica, assai breve e poco estesa, non lasciò traccia  alcuna d'arte e di vita e paralizzò quell'ascensione  alle più nobili conquiste, che la Sardegna avea  iniziato con la signoria di Roma.   Una completa oscurità avvolge in questo fu-  nesto periodo ogni azione isolana, che non siano  le fasi di quelle guerre che dilaniarono l'isola. Tur-  bini di barbarie la dovettero ridurre in un vasto  campo funebre e quando cessarono le irruenze  degli invasori, l'opera degli architetti e degli ar-  tisti si svolse come se nel naufragio delle romanità  questi avessero perduto la memoria d'ogni bella  forma.   La conquista di Belisario ed il riordinamento  amministrativo di Giustiniano, assicurando la Sar-  degna al dominio degli imperatori d'Oriente, con-  sentirono lo spontaneo sviluppo degli elementi  latini.   Artehci che trassero la loro arte da Bisanzio  svolsero nell'isola quell'architettura, che derivò da  armonica fusione di forme orientali e di bellezze   classiche, sparse quest'ultime con profusione nella terra che vide erigere  l'Acropoli e scolpire la X'enere di Milo. Furono greci gli artisti che scol-      Statuetta ienicia  nel Museo di Cagliari.     fase.     (i) Arrigo Solmi, La Sardegna e gli studi storici wnW Arcìiivio Storico Sarda, voi. I,  1-2, Cagliari, Tip. G. Dessi, 1905.     STORIA DPXL'ARTE IN SARDEGNA     pirone bassorilievi, iscrizioni ed altre forme ornamentali, che recenti  indagini hanno messo in evidenza e che sistematiche ricerche renderanno  indubbiamente tanto copiose da darci modo di determinare entro limiti  detiniti l'influenza artistica che Bisanzio svolse nell'isola dandole carattere  e forme stilisticamente rilevanti.      ■ampacla cristiana rinv      Chic a di S. Giovanili tli Siiiis in territorio di Cabras nell'antica Tarros.     CAPITOLO II.     CHIESE PRKRO.MAMCHK — S. GIOVANNI DI SINIS — S. GIOVANNI D'ASSEMINI  FRAMMENTI DECORATIVI E ISCRIZIONI BIZANTINE.     L'arte romana per opera di greci artefici divenne arte bizantina, la  (jLiale rappresenta non un nuovo stile, ma ima trasformazione dello spirito  latino a contatto delle forme orientali. F.d in Ravenna, in Grado, in Sicilia,  nelle Puglie sorsero quelli edifici, rudi e disadorni all'esterno, che inter-  namente brillano di ricchi mosaici, in cui l'oro e le gemme preziose  sfaccettano in mille raggi la tenue luce diffondentesi dalle arcuate finestre.   Anche nella nostra isola dovettero svolgersi queste forme architet-  toniche giacché dal primo trentennio del secolo VI e per non breve corso  di tempo la Sardegna fu una provincia dell'impero di Bisanzio.   Xè questa signoria fu solo nominale, ma tanto si compenetrò nella  vita e nelle istituzioni che l'infiuenza greca nel linguaggio, nella diplo-  matica, nel dritto apparisce evidente anche nel secolo XI, quando la  Sardegna erasi già sottratta di nome e di fatto al dominio degli impe-  ratori di Oriente e ne reggevano le sorti da più che un secolo i regoli  o giudici nazionali.   La nostra cattedrale conserva in una sua cappella una Madonna,     STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA     splendente d'oro e di bellezza. Intorno ad essa fiorisce una fine e pia  les^genda, comune del resto a molti altri antichi simulacri d'Italia.   Vuoisi che la vaga madonnina sia stata scolpita da S. Luca e da  Costantinopoli trasportata a cura del Cagliaritano Eusebio, vescovo di  Vercelli, alla città di Cagliari, con nave guidata da una corte di angeli  e di cherubini. Il simulacro è indubbiamente opera del XIV secolo, ma  la tenue leggenda può interpretarsi come un poetico simbolo del tra-      Stele puniclie nel Museo di Cagliari.     piantarsi dell'ellenismo nell'isola, perpetuato dal nostro popolo attraverso  gli oggetti suoi pili cari.   Ed infatti molti frammenti decorativi ed epigrafici nonché parecchi  edifici attestano dell'inlluenza dei costruttori bizantini neh' architettura  dell'alto medio evo in Sardegna.   Tale è la Chiesa di S. Giovanni di Sinis, nell'agro di Cabras in  vicinanza ad Oristano e presso le rovine dell'antica e fiorente città di     artp: preromanica      Tarros. Le origini e le vicende di questa  chiesa ci sono ignote; si volle veder in  essa la cattedrale di Tarros cristiana, ma  ciò non è che una congettura, giacché  nessun documento veramente ineccepi-  bile ci dice quando la città venne  abbandonata e se essa perdurò fino al-  l'epoca che gli elementi costruttivi e  stilistici permettono d'assegnare all'an-  tico tempio. L'aver i presuli d'Oristano  assunto il titolo di abate di S. Giovanni  di Sinis fa presumere che a questa  chiesa originariamente fosse annesso  un monastero.   Essa presentemente è a tre navate     Testa di irrito rin\enuta in Cagliari Punica.   coperta da volta a botte e comuni-  cante per mezzo di arcate poggianti  su massicci pilastri. Anche i due muri  |jerimetrali e laterali hanno la strut-  tura a pilastri ed archi, chiusi questi  ultimi posteriormente.   Il prospetto, sormontato da im  frontone che segue l'andamento della  volta a botte, non ha ornamentazione  alcuna e la porta che in esso è aperta  è rettangolare, semplicemente con-  tornata da una fascia di marmo.   La navata centrale è terminata  da un'abside circolare e sopra le ul-      JNIaschera rinvenuta in Tarros Punica.     D. SCANO — storia dell' Ai le in Sardegna.     STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA     time quattro pilastrate si svolge il tamburo, sostenente la piccola volta  a bacino, costituente la cupola.   La forma di questa chiesa è basilicale e non differenzia da quelle  di tante altre chiese medioevali sarde, del XI o XII secolo, se non  che alcune forme costruttive come la cupola e la volta a botte indu-  cono a ritenere che originariamente dovea avere tutt' altra struttura.   Mancando ogni qualsiasi elemento decorativo, giacché la chiesa ha  le pareti nude senza frammenti di pittura, di scultura o di semplice orna-  mentazione, che di solito guidano lo  studioso nei riscontri stilistici, pro-  cedetti per identificare le forme  primitive ad un esame tecnico delle  parti architettoniche.   I risultati confermarono la  prima impressione, giacché potei ri-  scontrare:   1°) La volta che copre la  navata centrale è relativamente mo-  derna;   2°) I muri della navata cen-  trale e delle navatelle furono eretti  posteriormente al nucleo centrale,  su cui poggia il cupolino.   3") Della struttura originaria  della Chiesa non resta che detto  nucleo centrale e le braccia tra-  sversali.   Ridotte in tal modo le parti  originarie ed eliminate le aggiunte posteriori è facile completare l'ico-  nografia primitiva, partita in quattro braccia a modo di croce, che s'in-  tersecano secondo quattro piloni sostenenti il tamburo su cui poggia  la cupola per mezzo di quattro pennacchi. Di più i piloni hanno gli  angoli rientranti in modo da permettere il collocamento in dette pilastrate  di quattro colonne, che ora più non esistono. Questa particolarità co-  struttiva è degna di nota, giacche la ritroveremo in altra chiesa, colla  quale S. Giovanni di Sinis presenta molte affinità.   Nei muri terminali delle braccia trasversali della croce sono aperte      i nnvc-mita 111 Cai^l  influenza greca).     iri l'ui     ARTE PREROMANICA     due finestre bifore, in cui la colonnina è sostituita da un semplice pila-  strino in pietra da taglio senza capitello e senza base. Abbiamo la forma  iniziale di quelle bifore, che posteriormente vennero rese più eleganti e  più svelte dalle colonnine col pulvino, permettente agli archi un'imposta  corrispondente allo spessore della muraglia. Questa forma arcaica con-  ferma l'origine preromanica di S. Giovanni di Sinis.      Alle forme costruttive  di questa chiesa dovettero  infiuire le catacombe di  S. Salvatore, le quali ne  distano circa quattro chilo-  metri. Queste catacombe  poste presso ad alcune ro-  vine romane, malgrado non  siano state ancora ne stu-  diate, né menzionate, sono  interessantissime e costitui-  scono il più pregevole ed  interessante monumento  isolano dei primi tempi del  cristianesimo.   La chiesetta sopra-  suolo è relativamente mo-  derna e non presenta niente  d' interessante . Ai sotter-  ranei s'accede mediante  una gradinata svolgentesi  in uno stretto passaggio  coperto da un voltino a   botte. In quell'andito sono aperte due porte, una di fronte all'altra, per le  quali si perviene a due camere rettangolari di m. 4,30 X 3,26 ciascuna,  coperte ancor esse con volte a botte. Lo stretto passaggio fa capo ad un  vano circolare, coperto da volta a bacino ed illuminato dall'alto, che  costituisce il nucleo centrale delle catacombe, comunicando esso con altre  due camere laterali terminate da absidi e con altra circolare, che è l'ultima     Busto di     a rinveiiutu in Tarros Punica  influenza jj;reca).     24 STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA   dell'edificio sotterraneo. Si ha una disposizione planimetrica, che ricorda  i più antichi edifici cristiani: la struttura è prettamente romana con mu-  ratura di laterizi opportunamente collegata con altra di pietrame informe.     ^&^         Ceramica punica nel Museo di Cai;liari.   Le pareti delle diverse camere sono intonacate a stucco lucido, const'i-  vante tutt'ora traccia di antiche pitture. Più che pitture sono schi/zi,      Sarcofago romano nel Museo di Cagliari.   figure eseguite a caso, alcune abilmente, altre con tecnica ed arte infan-  tili. In ima parete di una camera absidale sono traccie di un gruppo  interessantissimo rappresentante una lotta fra un leone ed un uomo dalle     ARTE PREROMANICA     forme erculee. Nelle altre i)areti e; nell'abside della stessa camera sono  schizzate alcune nax'i, due leoni, un Eros e diverse figure di donne de-  lineate con maestria dal tipo classicamente pagano. Esse vennero eseguite  al di là di (iualun<[ue preoccu[)azione mistica e sono di gentile arte, piene  di grazia voluttuosa e di vita. L'na di esse dalle linee formose, che rievoca  la Venus (ìcnitri.w solleva con ima mano i veli che le coprono i turgidi  seni e le belle forme. l'"ra ([uesti schizzi e queste figure di donne ri-  corre sjx'sso il mouogramiua RI e sono intercalate frasi scritte in greco  corsivo, la di cui esatta interpretazione potrà portare non lieve luce sulle  origini di (|ueste forme pittoriche. Non un simbolo cristiano, non il  monogramma di Cristo che attestino la fede di chi rese nelle pareti, con      .Sarcofajj:o romano nel Museo di Ca.sjliari.     decise linee, figure \oluttuose di belle donne. D'altra parte l'iconografia  dei sotterranei segue la disposizione delle prime chiesette cristiane special-  mente nelle forme absidali delle due cappelle laterali e della camera termi-  nale. E vero che nelle costruzioni cimiteriali più antiche le tetre muraglie  coprivansi di scene tratte dalla vita reale e molto spesso dalla mitologia  pagana tanto che nelle catacombe di Pri.scilla e di Domitilla, nelle quali  meglio che altrove si possono studiare le origini della pittura primitiva  cristiana, cjuesta è stranamente impregnata di paganesimo; ma se la tra-  dizione è pagana, nell'antica forma l'arte si penetra di spirito cristiano.  Qui no, forma e spirito sono schiettamente inspirate al paganesimo più  libero e più licenzioso.     26 STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA      Statua di Bacco rinvenuta In Cagliari nel 1904.     ARTE PREROMANICA     27     Queste contradizioni non permettono ora di poter dare un sicuro  o^iudizio su questo interessantissimo monumento: forse l'ipotesi che più  concilia ((ueste forme cozzanti tra loro è quella dell'orij^i'ine pagana dei  sotterranei, costrutti ed usati come carceri e poscia serviti come rifugio  nei primi tempi del cristianesimo. Con ciò si spiegherebbero la disposi-  zione a celle, poste sotto il livello del suolo e gli schizzi delineati da  (jualche artista, che nel tedio della prigionia volle rievocare senza una  direttiva pittorica immagini impure e dar forma d'arte a sogni libertini.   Oualun([ue sia l'origine di queste, che vengono chiamate catacombe.      è certo che esse furono nei primi secoli, forse nel IV^ secolo, adibite al  culto cristiano.   Non ritengo la costruzione cimiteriale, mancando qualsiasi indizio  di loculo o di pittura funeraria.   Nel nucleo centrale è un pozzo, poco profondo, in cui è perenne  una fresca lama d'acqua. Questo può spiegare la destinazione che dai  primi cristiani venne data a questi sotterranei, qualunque sia la loro  origine. A mio parere essi dovettero servire di battistero in tempi di per-  secuzione. Infatti non è spiegabile con l'ordinario uso degli edifici di  culto la presenza del pozzo nella parte centrale della chiesa sotterranea.     28     STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA     Inoltre la poca profondità del fondo, la presenza ininterrotta di una  fresca lama d'acqua e le traccie di alcuni fori, per cui mediante tavole  potevano i convertiti scender s^nù nell'acqua, rendono attendibile questa      destinazione, la quale ha molti riscontri e molte analogie colle prime  forme battisteriali.   Ai primi tempi del cristianesimo non aveasi altri battisteri che le  rive dei fiumi e le fontane. Ancor oggi nella prigione Mamertina a Roma     ARTE PREROMANICA     29     esiste il [)ozzo miracoloso, in cui, secondo un'antica tradizione, S. Pietro  e S. I^iolo battezzarono i loro (guardiani. In alcuni battisteri ])riniiti\'i  rac(iua era fornita da pozzi come nelle catacomlje di S. balena o da sor-  benti naturali come in ([uelle di Priscilla e di Callista.   I*\i solo colla cessa/ione delle persecuzioni al tempo di Costantino  che si commciò a costrurre battisteri snò dio, editici s[)eciali, che non  differivano dalle chiese propriamente dette se non per la loro desti-  nazione.   La cripta di S. .Sahatore forse in oriu-ine ebbe altra inxocazione,  oiacchè era fre([uente dedicare i battisteri al precursore di Cristo. Ad      Avanzi di \ille romane in Cagliari.   ot^ni modo ciò che non |)U() essere messo in dul)bio si è che i sotter-  ranei di S. Salvatore, per le forme costruttive, i)er le pitture e per le  iscrizioni costituiscono un monumento d'arte cristiana di ^rrancle interesse  e merita uno studio ampio e speciale più di (pianto io abbia fatto in questi  cenni brevi e riassuntivi.     L'oratorio di S. Giovanni d'Assemini fu ancor esso elevato con   forme costruttive bizantine, come può desumersi da un'attenta disamina.   La più antica memoria riflettente questa chiesetta si conserva in un     30     STORIA DELL'ARTP: in SARDEGNA     diploma dell'archivio Capitolare della Chiesa di S. Lorenzo di Genova,  con cui Trogotorio di Gunale, giudice di Cagliari, e suo figlio Costan-  tino concedono nel 1108 alla Cattedrale di Genova la Chiesa di S. Gio-  vanni e rinnovano la promessa annua di una libra d'oro: Ego Indice  Trogotori de Giinali cinti, filio meo doninu Costantini .... fazo dista carta  prò S. Ioaiinc de Arseiuin, qui dabo ad sancto Lanreìizio de lamia prò   Deus et prò anima mca ecc. ecc ''•.   La facciata non ha niente di notevole ed è posteriore alla fonda-  zione della Chiesa. Nell'interno due navate larghe m. 2,00 disimpegnano      Idinha di Atilia Pnmptilla in Cagliari.   per mezzo d'arcate quattro cappelle. All'incrocio delle due strette navate  formanti una croce greca a braccia eguali s'imposta sopra un tamburo  a sezione quadrata una piccola volta a bacino.   Anche in questa chiesa dobbiamo distinguere il nucleo originario  dalle posteriori costruzioni; queste sono costituite dalle quattro cappelle,  che, coperte da un rozzo tetto a vista, sono appiccicature evidenti e per  la diversa struttura muraria e per non essere collegate organicamente ai  muri antichi.     (i) ToLA, Cod. Dipi., voi. 1, pag. 180.     ARTE PREROMANICA     Eliminando queste aggiunte risultano in modestissime proporzioni le  stesse forme bizantine della chiesa di S. Giovanni di Sinis e di S. Sa-  turnino in Cagliari.   Nell'altare è murata un'iscrizione in caratteri greci, che porta imo  sprazzo di luce sulla chiesetta. E contornata da una doppia fascia di  perline in rilievo, che attesta come facesse parte di qualche monumento,  probabilmente sepolcrale, dedicato alle persone in essa ricordate. Tra-  scrivo l'interpretazione fattane dal Prof. Taramelli:      Anlìteatro romano in Ca.uliari.   O Signore, abbi pietà del tuo servo Torcotorio, arconte di Sardegna  e della serva Gè ti '.''.   Lo Spano ed il Martini ritennero — erroneamente come vedremo  in appresso — trattarsi del Torcotorio, che governò il giudicato di Ca-  gliari dal 1108 al II 29 e che donò la chiesa di S. Giovanni d'Assemini  al Duomo di Genova.   A pochi metri dell'oratorio di S. Giovanni sorge la Chiesa Parroc-  chiale di S. Pietro, che contiene fra le sue mura alcuni frammenti deco-  rativi bizantini e sulla soglia ha incisa la seguente inscrizione in carat-     (i) A. Taramelli, Iscrizioni Bizantine della Chiesa di S. Giovanni e della Chiesa Par-  rocchiale d' Assemini in Notizie degli Scavi, a. 1906, fase. 3.     STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA      teri greci, la quale ricorda probabilmente  l'erezione e la dedicazione di detta chiesa,  che è ancora oggi sotto l'invocazione di  S. Pietro:   In nome del Padre, del figlio e dello  Spirito Santo, io Nispella Ochote (?) (co-  strusse il tempio) in onore dei Santi corifei  gli apostoli Pietro e Paolo e S. Giovanni  Battista e della l^ergine martire Barbara,  affinchè per le loro preghiere dia a me il  Signore la, liberazione dei peccati.   Anche quest' iscrizione venne dallo  Spano attribuita al Torcotorio del XI se-     Erma bacchica di fronte.   In un mio studio sulla chiesa di  S. Saturnino di Cagliari '■* trattando ac-  cidentalmente di queste epigrafi, le ri-  tenni anteriori al mille. Infatti le lettere,  elegantemente incise, ed i pochi motivi  ornamentali sono sufficienti a determinare  forme stilistiche molto più antiche delle  romaniche del mille e dei secoli susse-  guenti. Inoltre la carica di protospatha-  riìis, che si riscontra in un'altra iscrizione  coeva di Villasor, indica ancora una sog-  gezione alla corte di Bisanzio non con-  cepibile nel Torcotorio della seconda metà  del XI secolo, che nei suoi atti ed in  ispecial modo nella donazione fatta ai      Testa di Sileno.     (i| 1). SCANO, Im Cliicsa di S. Satuvìiiuo in Ihillrltiìio /ìiò/ioorajìco Sardo, \-o\. Ili,  pag. 146, Cagliari, Tip. Unione Sarda.     ARTE PREROMANICA     33     monaci di Monte Cassino esercita la sua podestà come CJiudice e Re  libero da ogni ingerenza anche nominale dell'impero. Un'altra consi-  derazione distrugge l'attribuzione dello Spano e cioè il Torcotorio men-  zionato nell'iscrizione d'Assemini avea per moglie Nispella, mentre quello  del mille avea per consorte Vera, la pia donna, che indusse prima il  marito e poscia il figlio suo Costantino a larghe e ricche concessioni  verso gli ordini monastici ed in isj)ecial modo verso i monaci di S. Vit-  tore di Marsiglia: Eoo iìidigi Trocodori de Ugnnali C(im imiliei'i mia  Doìnia \ 'era et cnui filin uieiL  noìiìiii Costaiitìjm '■'.   Queste conclusioni vennero  confermate di recente dagli studi  dei Professori Solmi e Tarameli i,  che pervennero a risultati interes-  santissimi per la storia medioevale  della Sardegna.   Negli scavi eseguiti venti anni  or sono dal Vivanet presso l'antica  chiesa di S. Nicolò di Donori  insieme ad interessanti resti di ma-  teriale epigrafico d'età romana,  vennero fuori frammenti decorativi  ed iscrizioni greche, che furono  oggetto di un recente ed interes-  sante studio del Taramelli, che at-  tribuì queste ultime ad iscrizioni  funerarie assai eleganti, di persone  elevate, probabilmente del IX o  X secolo.   In una casa privata di Mara sono due bassorilievi marmorei, recanti  croci greche incluse in cerchi, di fattura l)izantina, e nel fianco della  chiesa parrocchiale è murata una piccola scultura marmorea molto cor-  rosa, rappresentante una figura d'uomo vestite; di lunga tunica manicata,  figura che per quanto rovinata accenna ad epoche ed a forme bizantine.   Le iscrizioni della distrutta Chiesa di S. Sofia fra Decimoputzu e      Erma di Bacco \i.sta di fianco.     (I) ToLA, Cud. Dipi. Sardo, voi. I, pag. 154.     34     STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA     Villasor presentano grande analogia coi frammenti di S. Giovanni di  Assemini e per la forma delle lettere e per la decorazione a perline.   Faccio mie senz'altro le considerazioni esposte dal Taramelli nello  studio sovradetto: « Due delle iscrizioni sono sopra una coppia di mensole  « decorate da un ramoscello di fiori a voluta, alla loro estremità; l'altra  « più lunga è incisa sopra due robusti listelli di marmo, decorati da una  « doppia fascia di perline e nodetti, i quali come quello della iscrizione di  « S. Giovanni d'Assemini potevano far parte o della decorazione della   « porta o di un ambone  « o d'altro monumento  « eretto in quella chiesa  « dalle persone ricordate  « dall'iscrizione e per il  « motivo decorativo co-  « me per lo stile ricor-  « dano il fregio dell'am-  « bone del Duomo di  « Torcello, riferito al se-  « colo X circa, alla quale  « età può convenire la  '< grafia dell'epigrafe,  « elegante ma alquanto  « incerta » •".   Trascrivo, tradotte,  queste iscrizioni:   O Signore, abbi pietà  dei servi di Dio, Torco-  torio, reale protospatario, e di Satusio, uobilissi)}ii arconti nostri, così sia.  Ricordati anche o Signore del tuo servo Ozzoccorre.   Signore abbi pietà del tico servo Unnspete e della consorte di Ini Soreca.  È d'aggiungersi infine a questo bel nucleo di documenti epigrafici  e decorativi di carattere bizantino la seguente iscrizione, conservantesi  nell'altare della chiesa parrocchiale di S. Antioco: O Signore abbi pietà  del tuo servo Torcotorio, protospatario e di Salusio arconte e della moglie ("ì)  Ni spella.      Sarcufago romano nel Museo di Cajj;liari.     (i) A. Taramelli, Iscrizioni Bizantine ecc. ecc., pag. 132.     ARTE PREROMANICA     35     In una parete esterna della chiesa è murato un bassorilievo, che  reca una porzione di figura umana, vista di fronte, con lunsj^a tunica a  maniche, con colletto ornato e con larga fascia al petto (i).     Da (|uest() non indifferente materiale epigrafico rinvenuto in una  ristretta porzione dell'isola il Prof. Solmi pervenne col suo fine discerni-  mento di storico e di critico a  congetture, che sono sprazzi di  luce nel buio che avvolge l'ori-  gine dei giudicati '^l,   Fiondandosi nell'avvicenda-  mento del nome di Torcotorio  a quello di Salusio. il Solmi  distingue il nome personale del  giudice dal lìome pubblico o di  governo. Mentre ([uesto è sem-  pre identico, Torcotorio o Sa-  lusio, invece, il nome personale,  che talora si identifica col nome  di governo, può essere qualche  volta da cjuesto essenzialmente  diverso.   E questo avvicendamento  dei due nomi , (qualunque sia  quello privato che abbia il giu-  dice, permette insieme al conte-  nuto delle iscrizioni bizantine  d'integrare la serie dei giudici,  iniziandola col Torcotorio, im-  periale protospatario e arconte di Sardegna, ricordato nell'iscrizione di  S. Giovanni d'Assemini. A questi, che ebbe per moglie Geti e che regnò  probabilmente intorno alla metà del X secolo succedette il figlio Salusio,  già aggregato, come risulta dalle iscrizioni di S. Sofia al trono del padre, ed      Testa di Bacco.     |i) A. Taramelli, Iscrizioni nizantìne ecc. ecc., pag. 137.   (2) A. Solmi, Le carte volgari dell' Arcliivio Arcivescovile di Canliari, I-'irenze, Tip. Ga  lileiana, pag. 69.     36     STORIA DELL'ARTE IN SARDECxNA     erede poi dei suoi titoli e del suo potere. Sulla fine del X secolo e nei  primi decenni del seguente governò il giudicato di Cagliari il Torcotorio  della lapide di S. Antioco, marito a Sinispella e contemporaneo di  S. Giorgio di Snelli, Con Mariano Salusio, menzionato in una carta   greca di S. Vittore di Marsiglia, s'inizia  la serie dei giudici precedentemente ac-  certati dagli storici sardi.   Questi risultati confermano il lento  ed amichevole distacco dalla Sardegna  dalla dominazione di Oriente.   L'ultimo ricordo di un'effettiva di-  pendenza da Bisanzio appartiene all'anno  687 e mostra l'esarca residente in Ceuta,  ancora a capo di un « Africauìis excr-  citìts » e di im exercitiis de Sardinia,  costituito come corpo distinto entro l'e-  sarcato africano.   « Caduta Cartagine e Ceuta, scrive  « il Solmi, agli ultimi del VII secolo e  « mancati così gli ultimi centri dell'an-  « tico esarcato d'Africa, l'impero Greco  « lasciò in pieno abbandono anche l'i-  « sola, che n'era parte, separata ormai  « da un ampio mare, che divenne il  « campo pericoloso delle imprese sara-  « cene; ne più la flotta greca varcò oltre  « le coste della Sicilia, dove si accentrò  « l'estrema punta occidentale del do-  « minio bizantino. Il duca di Cagliari  « restò a capo deWe.rerciins Sardiniae  « sotto la signoria nominale dell'impero  f. greco; si vestì forse dei pomposi titoli  « delle alte magistrature bizantine, ma in realtà divenuta la soggezione  « vuota apparenza, resa ereditaria la carica, ogni rapporto coll'impero  « bizantino venne ad essere illanguidito e sui primi anni del secolo VIII  « la Sardegna sembra restare esclusa dall'organizzazione tematica Orien-  « tale e interamente libera da o^ni dominazione di Bisanzio ».      Madonna detta di  nel Duomo di C;     ARTI': PREROMANICA     37     Onesto per i ris^r.ardi storici; dal punto di vista dell'arte i numerosi  tVainnieiui l)i/antini. ai ([uali fino ad ora non si dette importanza alcuna,  le Chiese di S. Ciio\anni di Sinis, di S. Giovanni d'Assemini. di S. Sofia        r-        w        m     ij',.-i.     Chiesa di S. Ciiovaimi di Sinis (tìanci)!.   di \'iilas()r, di S. Stefano di Maracala^-onis, di S. Antioco di Sulcis, di  S. Saturnino di Cagliari, sfui^i^ite alle indai:rini de-^ii studiosi, attestano un      Chiesa di S. (Giovanni di Sinis i abside).     periodo architettonico bizantino, che _<^ià si presenta intenso e che lo sarà  ma}j^_t(iormente, quando con indai^ini sistematiche si procederà allo studio  di tante strutture ora nascoste sotto gl'intonaci e gli stucchi seicentisti •".   I Altri franinienti bizantini rinvenni nel paramento della chiesa inedioevale di .S. Gemi-  nano in Saniassi.     D. ScANo — storia dell'Arte in Sardegna.     38 STORIA DELL'ARTE IN SARDEGNA   Né poteva esser altrimenti e le conclusioni storiche che traggonsi  dalle iscrizioni bizantine e le congetture che su di esse e su altre prove  poterono formarsi, rendono attendibile quest'influsso e questo fiorimento  d'arte bizantina nell'isola, che non poteva sottrarsi alle manifestazioni di  vita dell'impero che la congiungeva al mondo latino.   Queste forme greche perdurarono anche (juando venne a mancare  la effettiva, se non nominale, dipendenza agli imperatori d'Oriente.   Discendenti dagli arconti o patrizi della corte di Bisanzio, i giudici  conservarono negli atti ufficiali colle cariche bizantine le forme diploma-  tiche e la lingua greca; e come queste forme si mantennero fino al XI  secolo, così anche gli allievi ed i discendenti degli artefici greci conser-  varono le norme costruttive bizantine, fino a quando si dischiuse per la  Sardegna una nuova fase col rinnovamento, che prorompe nel XI secolo  al contatto delle fresche energie delle civiltà di Pisa e di Genova. Placido Cherchi. Keywords: implicature sarda, filosofia sarda, etnos, etnicicita italiana, sardegna non e parte d’Italia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cerchi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773531279/in/dateposted-public/

 

Grice e Chiappelli – academici – Cicerone e il segno di Marte – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo. Grice: “One of my most recent reflections is on the distinction and striking parallelisms I draw between the Athenian dialectic – best represented in Raffaello’s “La scuola di Atene” at Rome – and the Oxonian dialectic – but represented in those reeky meeting at the Philosophy Room at Merton – or better, my Saturday mornings at St. John’s with Austin! Chiappelli provides us with a most brilliant hermeneutic of the iconography in Raffaello’s painting – Strawson tried to emulate him with some caricatures of Austin, Grice, and the rest of the Play Group – but his doodlings ccouldn’t compare!” Figlio del fisiologo Francesco Chiappelli, zio del pittore omonimo, si laurea in lettere e filosofia all'istituto superiore di Firenze ed inizia la carriera universitaria a Napoli, dove è stato titolare della cattedra di storia della filosofia e incaricato dell'insegnamento di pedagogia e direttore dell'annesso museo. Ha inoltre insegnato storia delle chiese a Pisa, Bologna e Firenze. È stato membro della Società reale di Napoli, delle accademie dei Lincei di Roma, delle scienze di Torino, pontaniana di Napoli e della Crusca di Firenze. Consigliere comunale a Firenze è stato incaricato di una missione di ricerche e studi negli archivi e biblioteche di Firenze sull'arte fiorentina del Rinascimento e membro della commissione provinciale di Firenze per la conservazione dei monumenti e delle opere d'arte. Altre opere: “Della interpretazione panteistica di Platone, Firenze: Succ. Le Monnier); La dottrina della realtà del mondo esterno nella filosofia moderna prima di Kant” (Firenze, Tip. dell'arte della stampa); “Studi di antica letteratura cristiana, Torino, Loescher); “Darwinismo e socialismo, Roma, Forzani e C. Tipografi del Senato); Saggi e note critiche, Bologna, Ditta Nicola Zanichelli); “Il socialismo e il pensiero moderno, Firenze, Succ. Le Monnier); “Giacomo Leopardi e la poesia della natura” (Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Leggendo e meditando. Pagine critiche di arte, letteratura e scienza sociale, Roma, Società editrice Dante Alighieri); “Nuove pagine sul cristianesimo antico, Firenze: succ. Le Monnier); “Pagine d'antica arte fiorentina, Firenze, Lumachi); “Dalla critica al nuovo idealismo, Torino, Bocca); “Pagine di critica letteraria, Firenze, Le Monnier); “Idee e figure moderne, 2 voll., Ancona, G. Puccini e figli). Dizionario biografico degli italiani. Crusca.  Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di  9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera  210 9. RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv. ,  9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  212 9. RETORICA LATINA argumentatio �� necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio --- --- -  l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato st��so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127).  9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:     218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).     9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).  ON  DIVINATION.    [Cicero  composed  this  treatise  immediately  after  that  on  the  Nature  of  the  Gods;  the  two  subjects  being  indeed  very  closely  connected  In  the  first  book  all  kinds  of  Divination  are  represented  as  maintained  by  his  brother  Quintus,  on  the  principles  of  the  Stoics.]   I.  IT  is  an  old  opinion,  derived  as  far  back  as  from  the  heroic  times,  and  confirmed  by  the  unanimous  agreement  of  the  Roman  people,  and  indeed  of  all  nations,  that  there  is  a  species  of  divination  in  existence  among  men,  which  the  Greeks  call  /xarrt/c^,  that  is  to  say,  a  presentiment,  and  fore  knowledge  of  future  events.  A  truly  splendid  and  service  able  gift,  if  it  only  exists  in  reality;  and  one  by  which  our  mortal  nature  makes  its  nearest  approach  to  the  power  of  the  Gods.  Therefore,  as  we  have  done  many  other  things  better  than  the  Greeks,  so,  most  especially  have  we  excelled  them  in  giving  a  name  to  this  most  admirable  endowment,  since  our  nation  derives  the  name  which  it  gives  to  it,  Divination,  from  the  Gods  (Divis),  while  the  Greeks  derived  the  title  which  they  gave  it,  namely,  juavn/cr/,  from  madness  (juai'ia).  For  that  is  Plato's  interpretation  of  the  word.   Now,  as  far  as  I  know,  there  is  no  nation  whatever1,  how  ever  polished  and  learned,  or  however  barbarous  and  un  civilized,  which  does  not  believe  it  possible  that  future  events  may  be  indicated,  and  understood,  and  predicted  by  certain  persons.   In  the  first  place  the  Assyrians,  that  I  may  trace  back  the  authority  for  this  belief  to  the  most  remote  ages  and  countries,  as  a  natural  consequence  of  the  champaign  country  in  which  they  lived,  and  of  the  vast  extent  of  their  territories,  which  led  them  to  observe  the  heavens  which  lay  open  to  their  view  in  every  direction,  began  to  take  notice  also  of  the  paths  and  motions  of  the  stars;  and  having  taken  these  observations  for  some  time,  they  handed  down  to  their  posterity  informa  tion  as  to  what  was  indicated  by  their  various  positions  and    14:2  ON    DIVINATION.   revolutions.  And  among  the  Assyrians,  the  Chaldaeans,  a  tribe  who  had  this  name  not  from  any  art  which  they  professe,  but  from  the  district  which  they  inhabited,  by  a  very  long  course  of  observation  of  the  stars  are  considered  to  have  established  a  complete  science,  so  that  it  became  possible  to  predict  what  would  happen  to  each  individual,  and  with  what  destiny  each  separate  person  was  born.  The  Egyptians  also  are  believed  to -have  acquired  the  knowledge  of  the  same  art  by  a  continued  practice  of  it  extending  through  countless  ages.  But  the  nature  of  the  Cilicians  and  Pisidians,  and  the  Pamphylians,  who  border  on  them,  nations  which  we  ourselves  have  had  under  our  government,1  think  that  future  events  are  pointed  out  by  the  flight  and  voices  of  birds  as  the  surest  of  all  indications.  And  when  was  there  ever  an  instance  of  Greece  sending  any  colony  into  yEolia,  Ionia,  Asia,  Sicily  or  Italy,  without  consulting  the  Pythian  or  Dodonrean  oracle,  or  that  of  Jupiter  Hammon?  or  when  did  that  nation  ever  undertake  a  war  without  first  asking  counsel  of  the  Gods  1   II.  Nor  is  there  only  one  kind  of  divination  celebrated  both  in  public  and  private.  For,  (to  say  nothing  of  the  practice  of  other  nations.)  how  many  different  kinds  have  been  adopted  by  our  own  people.  In  the  first  place,  the  founder  of  this  city,  Romulus,  is  said  not  only  to  have  founded  the  city  in  obedience  to  the  auspices;  but  also  to  have  been  himself  an  augur  of  the  highest  reputation.  After  him  the  other  kings  also  had  recourse  to  soothsayers ;  and  after  the  kings  were  driven  out,  no  public  business  was  ever  transacted,  either  at  home  or  in  war,  without  reference  to  the  auspices.  And  as  there  appeared  to  be  great  power  and  usefulness  in  the  system  of  the  soothsayers  (haruspices),2  in  reference  to  the  people's  succeeding  in  their  objects,  and  consulting  the  Gods,  and  arriving  at  an  understanding  of  the  meaning  of  prodigies  and  averting  evil  omens,  they  introduced  the  whole  of  their  science  from  Etruria,  to  prevent  the  appearance   1  Cicero  had  been  proconsul  of  Cilicia,  and  had  gained  a  very  high  reputation  by  the  integrity  and  energy  which  he  displayed  in  that  government.   2  Aruspex  is  derived  from  the  Greek  word  Ifptiv,  and  specio,  to  behold,  because  the  Aruspex  prophesied  from  the  omens  which  he  drew  from  an  inspection  of  the  entrails  of  the  victims.    Augur,  from  avis,  and  garrio,  to  chatter ;  because  the  omens  were  drawn  from  the  noise  made  by  the  birds  in  their  flight    ON   DIVINATION.  143   of  allowing  any  kind  of  divination  to  be  neglected.  And  as  men's  minds  were  often  seen  to  be  excited  in  two  manners,  without  any  rules  of  reason  or  science,  by  their  own  mere  uncontrolled  and  free  motion,  being  sometimes  under  the  influence  of  frenzy,  and  at  others  under  that  of  dreams,  our  ancestors,  thinking  that  the  divination  which  proceeded  from  frenzy  was  contained  chiefly  in  verses  of  the  Sibyl,  ordained  that  there  should  be  ten  citizens  chosen  as  interpreters  o±  these  compositions.  And  in  the  same  spirit  they  have  also,  at  times,  thought  the  frantic  predictions  of  conjurors  and  prophets  worth,  attending  to ;  as  they  did  in  the  Octavian l  war  in  the  case  of  Cornelius  Culleolus.  Nor  indeed  have  men  of  the  greatest  wisdom  thought  it  beneath  them  to  attend  to  the  warnings  of  important  dreams,  if  at  any  time  any  such  appeared  to  have  reference  to  the  interests  of  the  republic.  Moreover,  even  in  our  own  time,  Lucius  Junius,  who  was  consul,  as  colleague  of  Publius  Rutilius,  was  ordered  by  a  vote  of  the  senate  to  erect  a  temple  to  Juno  Sospita,  in  compliance  with  a  dream  seen  by  Csecilia,  the  daughter  of  Balearicus.2   III.  And,  as  I  apprehend,  our  ancestors  were  induced  to  establish  this  custom  more  because  they  had  been  warned,  by  the  events  which  they  saw,  to  do  so,  than  from  any  previous  conclusion  of  reason.  But  some  exquisite  arguments  of  philo  sophers  have  been  collected  to  prove  why  divination  may  well  be  a  true  science.  Now  of  these  philosophers,  to  go  back  to  the  most  ancient  ones,  Xenophanes  the  Colophonian  appears  to  have  been  the  only  one  who  admitted  the  existence  of  Gods,  and  yet  utterly  denied  the  efficacy  of  divination.  But  every  other  philosopher  except  Epicurus,  who  talks  so  childishly  about  the  nature  of  the  Gods,  has  sanctioned  a  belief  in  divination ;  though  they  have  not  all  spoken  in  the  same  manner.  For,  though  Socrates,  and  all  his  followers,  and  Zeno,  and  all  those  of  his  school,  adhered  to  the  opinion  of  the  ancient  philosophers,  and  the  Old  Academy  and  the   1  This  was  the  civil  war  in  the  consulship  of  Cinna  and  Octavius,  A.U.O.  666,  which  ended  in  Octavius  being  put  to  death  by  the  orders  of  Cinna  and  Mariu?.   2  This  was  Quintus  Caecilius  Metellua  (the  eldest  son  of  Metellus  Macedonians),  who  was  consul,  B.C.  123,  with  T.  Quinctius  Flamininus:  in  which  consulship  he  cleared  the  Balearic  Isles  of  pirates,  and  founded  several  cities  in  the  islands.    144  ON    DIVINATION.   Peripatetics  agreed  with  them;  and  though  Pythagoras,  who  lived  some  time  before  these  men;  had  added  a  great  weight  of  authority  to  this  belief — and  indeed  he  himself  wished  to  acquire  the  skill  of  an  augur, — and  though  that  most  im  portant  authority,  Democritus,  had  in  very  many  passages  of  his  writings  sanctioned  a  belief  in  the  foreknowledge  of  future  events ;  yet  Dicsearchus  the  Peripatetic,  on  the  other  hand,  denied  all  other  kinds  of  divination,  and  left  none  except  those  which  proceed  from  frenzy  or  from  dreams.  And  my  own  friend  Cratippus,  whom  I  consider  equal  to  the  most  ancient  among  the  Peripatetics,  confined  his  belief  to  the  same  matters,  and  denied  the  correctness  of  any  other  kind  of  divination.   But  as  the  Stoics  defended  nearly  every  kind,  because  Zeno  in  his  Commentaries  had  scattered  some  seeds  of  such  a  belief,  and  Cleanthes  had  amplified  and  extended  his  predecessor's  observations ;  Chrysippus  succeeded  them,  a  man  of  the  most  acute  and  vivid  genius;  who  discussed  the  whole  belief  in,  and  question  about  divination  in  two  books  on  that  subject,  and  a  third  on  oracles,  and  a  fourth  on  dreams.  And  he  was  followed  by  Diogenes  the  Babylonian,  a  pupil  of  his  OATH,  who  published  one  treatise  on  the  same  subject;  by  Antipater,  who  wrote  two  books,  and  our  friend  Posidonius,  who  wrote  five.  But  Pantetius,  the  tutor  of  Posidonius  and  pupil  of  Antipater,  has  degenerated  in  some  degree  from  the  Stoics,  or  at  least  from  the  most  eminent  men  of  that  school;  and  yet  he  did  not  dare  absolutelyto  deny  that  there  was  a  power  of  divina  tion,  but  said  that  he  had  doubts  on  the  subject.  Now  if  he,  aStoic,  was  allowed  to  express  a  doubt  on  a  matter  very  much  against  the  inclination  of  the  rest  of  that  school,  shall  we  not  obtain  leave  from  the  Stoics  to  behave  in  a  similar  manner  with  respect  to  other  subjects'?  especially  when  that  very  question  which  is  a  matter  of  doubt  to  Paneetius,  is  generally  considered  a  thing  as  clear  as  day  to  the  other  philosophers  of  that  sect.  However,  this  praise  of  the  Academy  has  been  confirmed  by  the  testimony  and  deliberate  judgment  of  a  most  admirable  philosopher.   IV.  Indeed,  since  we  are  ourselves  inquiring  what  we  are  to  think  of  divination,  because  Carneades  maintained  a  very  long  argument  against  the  Stoics  with  great  acuteness  and  variety  of  resource,  and  as  we  wish  to  be  on  our  guard  against    ON   DIVINATION.  145   admitting  rashly  any  assertion  which  is  incorrect,  or  the  truth  of  which  is  riot  sufficiently  ascertained,  it  appears  neces  sary  for  us  to  compare  over  and  over  again  the  arguments  on  one  side  with  those  on  the  other,  as  we  have  done  in  the  three  books  which  we  have  written  on  the  Nature  of  the  Gods.  For,  as  in  every  discussion,  rashness  in  assenting  to  propositions  of  others,  and  error  in  asserting  such  ourselves,  is  very  discreditable,  so  above  all  is  it  in  a  discussion  where  the  question  for  our  decision  is  how  much  weight  we  are  to  attribute  to  auspices,  and  to  divine  ceremonies,  and  to  religion.  For  there  is  danger  lest,  if  we  neglect  these  things,  we  may  become  involved  in  the  guilt  of  blasphemous  impiety,  or  if  we  embrace  them,  we  may  become  liable  to  the  reproach  of  old  women's  superstition.   V.  Now  these  topics  I  have  often  discussed,  and  I  did  so  lately  with  more  than  usual  minuteness,  when  I  was  with  my  brother  Quintus,  in  my  villa  at  Tusculum.  For  when,  for  the  purpose  of  taking  walking  exercise,  we  had  come  into  the  Lyceum,  (for  that  is  the  name  of  the  upper  Gymnasium) —  I  read,  said  he,  a  little  while  ago  your  third  book  on  the  Nature  of  the  Gods;  in  which,  although  the  arguments  of  Cotta  have  not  wholly  changed  my  previous  opinions,  they  have  undoubtedly  a  good  deal  shaken  them.  You  are  very  right  to  say  so,  I  replied;  for,  indeed,  Cotta  himself  ai'gues  rather  with  a  view  to  confute  the  arguments  of  the  Stoics,  than  to  eradicate  religion  from  men's  minds.  Then,  said  Quintus,  that  is  what  Cotta  himself  says,  and  indeed  he  repeats  it  very  often ;  I  imagine,  because  he  does  not  wish  to  seem  to  depart  from  the  ordinary  opinions ;  but  still  the  zeal  with  which  he  argues  against  the  Stoics  seems  to  cany  him  on  to  the  extent  of  wholly  denying  the  existence  of  the  Gods.  I  do  not  indeed  think  it  necessary  to  reply  to  all  he  says,  for  religion  has  been  sufficiently  defended  in  your  second  book  by  Lucilius;  whose  arguments,  as  you  say  at  the  end  of  the  third  book,  appear  to  you  yourself  to  be  much  nearer  to  the  truth.  But  with  reference  to  the  point  which  has  been  passed  over  in  those  books,  because,  I  presume,  you  con  sidered  that  the  inquiry  into  it  could  be  carried  on,  and  an  argument  held  upon  it  with  more  convenience  if  it  were  taken  separately,  I  mean  Divination — which  is  a  foreknowledge  and  A  foretelling  of  those  events  which  arc  usually  considered   DE    NAT.   ETC.  L    146  ON    DIVINATION.   fortuitous, — I  should  like  very  much  at  this  moment,  if  you  please,  to  examine  what  power  that  science  really  has,  and  what  its  character  is.  For  my  own  opinion  is  this ;  that  if  those  kinds  of  divination  which  we  have  been  in  the  habit  of  hearing  of  and  respecting,  are  real,  then  there  are  Gods;  and  on  the  other  hand  that,  if  there  really  are  Gods,  then  there  certainly  are  men  who  are  possessed  of  the  art  of  divination.   VI.  You  are  defending,  I  reply,  the  very  citadel  of  the  Stoics,  0  Quintus,  by  asserting  the  reciprocal  dependence  of  these  two  conditions  on  one  another ;  so  that  if  there  be  such  an  art  as  divination,  then  there  are  Gods,  and  if  there  be  such  beings  as  Gods,  then  there  is  such  an  art  as  divination.  But  neither  of  these  points  is  admitted  as  easily  as  you  imagine.  For  future  events  may  possibly  be  indicated  by  nature  without  the  intervention  of  any  God;  and,  even  although  there  may  be  such  beings  as  Gods,  still  it  is  pos  sible  that  no  such  art  as  divination  may  be  given  by  them  to  the  human  race.   He  replied, — But  to  me  it  is  quite  proof  enough,  both  that  there  are  Gods  and  that  they  have  a  regard  for  the  welfare  of  mankind,  that  I  perceive  that  there  are  manifest  and  undeni  able  kinds  of  divination.  With  respect  to  which,  I  will,  if  you  please,  recount  to  you  my  own  sentiments,  provided  at  least  that  you  have  leisure  and  inclination  to  hear  me,  and  have  nothing  which  you  would  like  in  preference  to  this  discussion.  But  I,  said  I,  my  dear  Quintus,  have  always  leisure  for  philosophical  discussion ;  but  at  this  moment,  when  I  have  actually  nothing  whatever  which  I  wish  to  do,  I  shall  be  all  the  more  glad  to  hear  your  sentiments  on  divination.   You  will  hear,  said  he,  nothing  new  from  me,  nor  do  I  entertain  any  ideas  on  the  subject  different  from  the  rest  of  the  world.  For  the  opinion  which  I  follow  is  not  only  the  most  ancient,  but  that  which  has  been  sanctioned  by  the  unanimous  consent  of  all  nations  and  countries.  For  there  are  two  methods  of  divining;  one  dependent  on  art,  the  other  on  nature.  Be.!;  what  nation  is  there,  or  what  state,  which  is  not  influenced  by  the  omens  derived  from  the  entrails  of  victims,  or  by  the  predictions  of  those  who  interpret  pro  digies,  or  strange  lights,  or  of  augurs,  or  astrologers,  or  by  those  who  expound  lots  (for  these  are  about  what  come  under  the  head  of  art) ;  or,  again,  by  the  prophecies  derived  from    ON   DIVINATION.  147   dreams,  or  soothsayers  (for  these  two  are  considered  natural  kinds  of  divination)  ?  And  I  think  it  more  desirable  to  examine  into  the  results  of  these  things  than  into  the  causes.  For  there  is  a  certain  power  and  nature,  which,  by  means  of  indications  which  have  been  observed  a  long  time,  and  also  by  some  instinct  and  divine  inspiration,  pronounces  a  judg  ment  on  future  events.   VII.  So  that  Carneades  may  well  give  up  pressing  what  Pansetius  used  also  to  insist  upon,  when  he  asked  whether  it  was  Jupiter  who  had  ordained  the  crow  to  croak  on  the  right-  hand,  or  the  raven  on  the  left.     For  these  occurrences  have  been  observed  for  an  immense  series  of  time,  and  have  been  remarked  and  noted  from  the  signification  given  to  them  by  subsequent  events.   But  there  is  nothing  which  a  great  length  of  time  may  not  effect  and  establish  by  the  use  of  memory  retaining  the  different  events,  and  handing  them  down  in  durable  monuments.     We  may  wonder  at  the  way  in  which  the  different  kinds  of  herbs  and  roots  have  been  observed  by  physicians  as  good  for  the  bites  of  beasts,  for  complaints  of  the  eyes,  and  for  wounds,  the  power  and  nature  of  which  reason  has  never  explained,  but  yet  both  the  art  and  inventor  of  these  medicines  have  gained  iiniversal  approval  from  their  utility.     Let  us  also  look  at  those  things  which,  though  of  another  kind,  still  have  a  resemblance  to  divination.   And  often,  too,  the  agitated  sea   Gives  certain  tokens  of  impending  storms,   When  through  the  deep  with  sudden  rage  it  swells,   And  the  fierce  rocks,  white  with  the  briny  foam,   Vie  with  hoarse  Neptune  in  their  sullen  roar,   While  the  sad  whistlins  o'er  the  mountain's  brow   Adds  horror  to  the  crash  of  the  iron  coast.   VIII.  And  all  your  prognostics  are  full  of  presentiments  derived  from  occurrences  of  this  sort.     Who,  then,  can  trace  back  the  causes  of  these  presentiments  1     Though,  indeed,  I  am  aware  that  Boethus  the  Stoic  has  endeavoured  to  do  so.  And  indeed  he  has  done  some  good  to  this  extent,  that  he  has  explained  the  principle  of  those  occurrences  which  take  place  iu  the  sea,  or  in  the  heaven.  But  still,  who  has  ever  explained,  with  any  appearance  of  probability,  why  they  take  place  at  all  1   And  the  white  gull,  uprising  from  the  waves,  With  horrid  scream  foretells  th'  impending  storm,  Straining  its  trembling  throat  in  ceaseless  cry.  Oft,  too,  the  woodlark  from  his  chest  pours  forth  L2    ±48  ON   DIVINATIOX.   Notes  of  unusual  sadness,  wnking  up  The  morn  with  grievous  fear  and  endless  plaint.  When  first  Aurora  routs  the  nightly  dew,  Sometimes  the  dusky  crow  runs  o'er  the  shore,  Dipping  its  head  beneath  the  rising  surf.1   IX.  And  we  see  that  these  signs  of  the  weather  scarcely  ever  deceive  us,  though  we  certainly  do  not  understand  why  they  are  so  correct.   You  too  perceive  the  signs  of  future  times,   Children  of  sweetest  waters ;  and  prepare   To  utter  warnings  loud  and  salutary,   Rousing  the  springs  and  marshes  with  your  cries.   Yet  who  could  ever  have  suspected  frogs  of  having  such  per  ception  1     However,  there  is  in  rivulets,  and  in  frogs  too,  a  certain  nature  indicating  something  which  is  clear  enough  by  itself,  but  more  obscure  to  the  knowledge  of  men.  And  cloven-footed  oxen  gazing  up  To  heaven's  expense,  have  often  inhaled  the  air  Laden  with  moisture   I    do   not   inquire   why  all   this   takes   place,   since    I    am  acquainted  with  the  fact  that  it  does  take  place —  The  mastic,  ever  green  and  ever  laden  With  its  rich  fruit,  which  thrice  in  every  year  Doth  swell  to  ripeness,  by  its  triple  crop  Points  out  three  times  when  men  should  till  the  earth.  Here  too,  again,  I  do  not  ask  why  this  one  tree  should  bloom  three  times  a  year-,  or  why  it  should  adapt  the  proper  season  for  ploughing  the  land  to  the  token  given  by  its  bloom.  I  am  content  with  this,  that,  even  if  I  do  not  know  how  everything  is  done,  I  nevertheless  do  know  what  is  done.     And  so  in  respect  of  every  kind  of  divination  I  will  answer  as  I  have  done  in  the  cases  which  I  have  already  mentioned.   X.  Now  I  know  what  effect  the  root  of  the  scamniony  has  as  a  purgative,  and  what  the  efficacy  of  the  aristolochia  is  in  the  case  of  bites  of  serpents,  (and  this  herb  has  derived  its  name  from  its  discoverer,  who  discovered  it  in  consequence  o  a  dream.)  and  that  knowledge  is   quite   emnigh.      I  do  not  know  why  these  herbs  are  so  efficacious;  and  in  the  same  way  I  do  not  know  on  what  principle  the  omens  which  we  draw  from  the  signs  furnished  to  us  by  the  winds  and  storms  proceed ;  but  I  do  know,  and  arn  certain  of,  and  thankful  for  their  power,  and  the  results  which  flow  from  it.     Again,  in   1  All  these  predictions  are  translated  by  Cicero  from  Aratus.    OX    DIVINATION.  149   the  same  way  I  know  what  is  indicated  by  a  fissure  in  the  entrails  of  a  victim,  or  by  the  appearance  of  the  fibres ;  but  what  the  cause  is  that  these  appearances  have  this  meaning  I  know  not.  And  life  is  full  of  such  things ;  for  nearly  every  one  has  recourse  to  the  entrails  of  animals.  Need  I  say  more  1  Is  it  possible  for  any  one  to  doubt  about  the  power  of  thunder-storms  ?  Is  not  this  too  one  of  the  most  marvel  lous  of  marvellous  things  ?  When  Summanus,1  which  was  a  figure  made  of  clay,  standing  on  the  top  of  the  temple  of  the  all-powerful  and  all-good  Jupiter,  was  struck  by  lightning,  and  the  head  of  the  statue  could  not  be  found  anywhere,  the  soothsayers  said  that  it  had  been  thrown  down  into  the  Tiber,  and  it  was  found  in  that  very  place  which  had  been  pointed  out  by  the  soothsayers.   XL  But  who  is  there  to  whom  I  may  more  fitly  appeal  as  an  authority  and  as  a  witness  than  you  yourself?  For  I  have  learnt  the  verses,  and  that  with  great  pleasure,  which  the  muse  Urania  pronounces  in  the  second  book  of  your  "  Con  sulship  " —   See  how  almighty  Jnve,  inflamed  and  bright,   With  heavenly  fire  fills  the  spacious  world,   And  lights  up  heaven  and  earth  with  wondrous  rays   Of  his  divine  intelligence  and  mind  ;   Which  pierces  all  the  inmost  sense  of  men,   And  vivifies  their  souls,  hold  fast  within   The  boundless  caverns  of  eternal  air.   And  would  you  know  the  high  sublimest  paths   And  ever  revolving  orbits  of  the  stars,   And  in  what  constellations  they  abide, —   Stars  which  the  Greeks  erratic  falsely  call,   For  certain  order  and  fixed  laws  direct   Their  onward  course  ;  then  shall  you  learn  that  all   Is  by  divinest  wisdom  fitly  ruled.   For  when  you  ruled  the  state,  a  consul  wise,   You  noted,  and  with  victims  due  approach'd,   Propitiating  the  rapid  stars,  and  strange   Concurrence  of  the  fiery  constellations.   Then,  when  you  purified  the  Alban 2  mount,   And  celebrated  the  great  Latin  feast,   Bringing  pure  milk,  meet  offering  for  the  gods,   You  saw  fierce  comets  bright  and  quivering   With  light  unheard  of.     In  the  sky  you  saw   1  This  is  usually  understood  to  have  been  a  statue  of  Pluto.   2  The   new  consuls   used  to  celebrate   the   Ferioe    Latinaj   on  the  Albanus  Mons.    150  ON   DIVINATION.   Fierce  wars  and  dread  nocturnal  massacre ;  J   That  Latin  feast  on  mournful  days  did  fall,  When  the  pale  moon  with  di     m  and  muffled  light  Conceal'd  her  head,  and  fled,  and  in  the  midst  Of  starry  night  became  invisible.  Why  should  I  say  how  Phoebus'  fiery  beam,  Sure  herald  of  sad  war,  in  mid-day  set,  Hastening  at  undue  season  to  its  rest,  Or  how  a  citizen  struck  with  th'  awful  bolt,  Hurl'd  by  high  Jove  from  out  a  cloudless  sky,  Left  the  glad  light  of  life ;  or  how  the  earth  Quaked  with  affright  and  shook  in  every  part  ?  Then  dreadful  forms,  strange  visions  stalk  d  abroad,  Scarce  shrouded  by  the  darkness  of  the  night,And  wam'd  the  nations  and  the  land  of  war.  Then  many  an  oracle  and  augury,  Pregnant  with  evil  fate,  the  soothsayers  Pour'd  from  their  agitated  breasts.     And  e'en  The  Father  of  the  Gods  fill'd  heaven  and  earth  With  signs,  and  tokens,  and  presages  sure  Of  all  the  things  which  have  befallen  us  since.  XII.   So  now  the  year  when  you  are  at  the  helm,  Collects  upon  itself  each  omen  dire,  Which  when  Torquatus,  with  his  colleague  Gotta,  Sat  in  the  curule  chairs,  the  Lydian  seer  Of  Tuscan  blood  breathed  to  affrighted  Borne.  For  the  great  Father  of  the  Gods,  whose  home  Is  on  Olympus'  height,  with  glowing  hand  Himself  attack'd  his  sacred  shrines  and  temples,  And  hurl'd  his  darts  against  the  Capitol.  Then  fell  the  brazen  statue,  honour'd  long,  Of  noble  Natta ;  then  fell  down  the  laws  Graved  on  the  sacred  tablets ;  while  the  bolts  Spared  not  the  images  of  the  immortal  gods.  Here  was  that  noble  nurse  o'  the  Roman  name,  The  Wolf  of  Mars,  who  from  her  kindly  breast  Fed  the  immortal  children  of  her  god  With  the  life-giving  dew  of  sweetest  milk.  E'en  her  the  lightning  spared  not ;  down  she  fell.  Bearing  the  royal  babes  in  her  descent,  Leaving  her  footmarks  on  the  pedestal.1   1  Great  interest  is  attached  to  this  passage  by  antiquaries,  from  the  fact  of  there  being  a  bronze  statue  still  at  Home  of  a  wolf  suckling  two  children,  with  manifest  marks  of  lightning  on  it,  which  is  believed  to  be  the  very  statue  here  mentioned  by  Cicero,  and  also  in  his  third  Oration  asrainst  Catiline,  c.  viii. ;  it  is  described  by  Virgil  too  : —   Fecerat  et  viridi  foetam  Mavorf  is  in  antro  Procubuisse  lupam ;  geminos  huic  ubcra  circum   [Ludere    ON    DIVINATION.  151    And  who,  unfolding  records  of  old  time,  Has  found  no  words  of  sad  prediction  In  the  dark  pages  of  Etruscan  books  ] —  All  men,  all  writings,  all  events  combined,  To  warn  the  citizens  of  freeborn  race    Ludere  pendentes  pueros,  et  lambere  matrem   Impavidos;  ilhun  tereti  cervice  reflexam   Mulcere  alternos  et  corpora  fingere  linguiL — jEn.  viii.  630.   The  cave  of  Mars  was  dress'd  with  mossy  greens  ;  There  by  the  wolf  were  laid  the  martial  twins ;  .    '     Intrepid,  on  her  swelling  dugs  they  hung,   The  foster-dam  loll'd  out  her  fawning  tongue ;   They  suck'd  secure,  while  bending  back  her  head,   She  lick'd  their  tender  limbs,  and  form'd  them  as  they  fed.   Dryden,  ^En.  viii.  835.  The  statue  in  its  present  state  is  beautifully  described  by  Byron  : —  •   LXXXVIII.   And  thou  the  thunder-stricken  nurse  of  Rome,  She-wolf  !  whose  brazen  imaged  dugs  impart  The  milk  of  conquest  yet  within  the  dome,  Where,  as  a  monument  of  antique  art,  Thou  standest,  mother  of  the  mighty  heart,  Which  the  great  founder  suck'd  from  thy  wild  teat,  Scorch'd  by  the  Roman  Jove's  ethereal  dart,  And  thy  limbs  black  with  lightning, — dost  thou  yet  Guard  thy  immortal  cubs,  nor  thy  fond  charge  forget]   LXXXIX.   Thou  dost— but  all  thy  foster-babes  are  dead,  The  men  of  iron  ;  and  the  world  hath  rear'd  Cities  from  out  their  sepulchres. —Childe  Harold,  book  iv.  It  may  not  be  out  of  place  here,  to  set  before  the  reader  the  beautiful   description,  in  the  first  Georgic,  of  the  prodigies  which  happened  at   Rome  on  the  death  of  Cresar : —   Denique  quid  vesper  serus  vehat.  unde  serenas   Ventus  agat  nubes,  quid  cogitet  humidus  Auster,   Sol  tibi  signa  dabit :  Solem  quis  dicere  falsum   Audeat?  ille  etiam  csecos  instare  tumultus   Saspe  monet,  fraudemque,  et  aperta  tumescere  bella ;   Ille  etiam  extincto  miseratus  Caesare  Romam   Cum  caput  obscurS,  nitidum  ferrugine  texit   Impiaque  rcternam  timuerunt  sajcula  noctem,   Tempore  quanquam  illo  tellus  quoque  et  aequora  ponti,   Obsccenique  canes,  importunaeque  volucres   Signa  dabant :  quoties  Cyclopum  effervere  in  auras   Vidimus  undantem  rnptis  fornacibus  ^Etnam,   Flammarumque  globos  liquef'actaque  volvere  saxa.   Armorum  sonitus  toto  Germania  coe'.o   Audiit;  insolitis  tremuerunt  motibus  Alpes.   [Vox    152  ON   DIVINATION.   To  dread  impending  wars  of  civil  strife,  And  wicked  bloodshed  ;  when  the  laws  should  fall  In  one  dark  rain,  trampled  and  o'erthrown:  Then  men  were  warn'd  to  save  their  holy  shrines,  The  statues  of  the  irods,  their  city  and  lands,   Vox  quoque  per  lucos  vulgo  exaudita  recentes  Ingens,  ei  simulacra  rnodis  pallentia  miris   Visa  sub  obscurum  noctis ;  pecudesque  locutae,   Infandum  !  sistunt  amnes  terrseque  dehiscunt   Et  moestum  illacryinat  templis  ebur,  oeraque  sudant :   Proluit  insano  contorquens  vertice  sylvas   Pluviorum  Rex  Eridanus  ;  camposque  per  omnes   Cum  stabulis  armenta  trahit ;  nee  tempore  eodcm   Tristibus  aut  extis  fibrae  apparere  minaces   Aut  puteis  manare  cruor  cessavit,  et  alte   Per  noctcm  resonare  lupis  ululautibus  urbe?  ;   Non  alias  coilo  cecidcruut  plura  sereno   Fulgura,  nee  diri  toties  arsere  cometae  ;   Ergo,  etc. —  Virgil,  Georg.  i.  488.   Which  is  translated  by  Dryden  : —   The  Sun  reveals  the  secrets  of  the  sky,  And  who  dares  give  the  source  of  light  the  lie?  The  change  of  empires  he  oft  declares,  Fierce  tumults,  hidden  treasons,  open  wars;  He  first  the  fate  of  Caesar  did  foretell,  And  pitied  Rome  when  Rome  in  Caesar  fell :  In  iron  clouds  conceal'd  the  public  light,  And  impious  mortals  fear'd  eternal  night.  Nor  was  the  fact  foretold  by  him  alone,  Nature  her-elf  stood  forth  and  seconded  the  Sun.  Earth,  air,  and  seas  with  prodigies  were  sign'd,  And  birds  obscene  and  howlin g  dogs  divin'd.  What  rocks  did  ^Etna's  bellowing  mouth  expire  From  her  torn  entrails,  and  what  floods  of  fire  !  What  clanks  were  heard  in  German  skies  afar,  Of  arms  and  armies  rushing  to  the  war  !  Dire  earthquakes  rent  the  solid  Alps  below,  And  from  their  summits  shook  th'  eternal  snow ;  Pale  spectres  in  the  close  of  night  were  seen,  And  voices  heard  of  more  than  mortal  men.  In  silent  groves  dumb  sheep  and  oxen  spoke  ;  And  streams  ran  backward,  and  their  beds  forsook  ;  The  yawning  earth  disclosed  th'  abyss  of  hell,  The  weeping  statues  did  the  wars  foretell,  And  holy  sweat  from  brazen  idols  fell.  Then  rising  in  his  might  the  king  of  floods  Uush'd  through  the  forests,  tore  the  lofty  woods;  And  rolling  onward  with  a  sweepy  sway,  Bore  houses,  herds,  and  labouring  hinds  away.   Blood    ON    DIVINATION.  153   From  slaughter  and  destruction,  and  preserve  Their  ancient  customs  unimpair'd  and  free.  And  this  kind  hint  of  safety  was  subjoin'd,  That  when  a  splendid  statue  of  great  Jove,1  In  godlike  beauty,  on  its  base  was  raised,  With  eyes  directed  to  Sol's  eastern  gate  ;  Then  both  the  senate  and  the  people's  bands,  Duly  forewarn'd,  should  see  the  secret  plots  Of  wicked  men,  and  disappoint  their  spite.  This  statue,  slowly  form'd  and  long  delay 'd,  At  length  by  you,  when  consul,  has  been  placed  Upon  its  holy  pedestal ; — 'tis  now  That  the  great  sceptred  Jupiter  has  graced  His  column,  on  a  well-appointed  hour  :  And  at  the  self-same  moment  faction's  crimes    Blood  sprang  from  wells;  wolves  howl'd  in  towns  by  night;  And  boding  victims  did  the  priests  affright.  Such  peals  of  thunder  never  pour'd  from  high,  Nor  forky  lightnings  flash'd  from  such  a  sullen  sky  :  Red  meteors  ran  across  the  ethereal  space  ;  Stars  disappear'd,  and  comets  took  their  place.  Which  Shakspeare  has  imitated  with  reference  to  the  same  event : —  Cal.  Caesar,  I  never  stood  on  ceremonies,   Yet  now  they  fright  me :  there  is  one  within,   Besides  the  things  that  we  have  heard  and  seen,   Recounts  most  horrid  sights  seen  by  the  watch :   A  lioness  hath  whelped  in  the  streets,   And  graves  have  yawn'd  and  yielded  up  their  dead.   Fierce,  fiery  warriors  fight  upon  the  clouds,   In  ranks  and  squadrons  and  right  form  of  war,   Which  drizzled  blood  upon  the  Capitol :   The  noise  of  battle  hurtled  in  the  air;   Horses  did  neigh,  and  dying  men  did  groan;   And  ghosts  did  shriek  and  squeak  t  the  streets.   O  Caesar,  these  things  are  beyond  all  use,   And  I  do  fear  them   When  beggars  die  there  are  no  comets  seen  ;   The  heavens  themselves  blaze  forth  the  death  of  princes.   Cats.  What  say  the  augurers?   Serv.  They  would  not  have  you  to  stir  forth  to-day.  Plucking  the  entrails  of  an  offering  forth,  They  could  not  find  a  heart  within  the  beast.   1  This  refers  to  the  column  meant  to  serve  as  a  pedestal  for  the  statue  of  Jupiter,  mentioned  in  the  second  book  of  this  treatise,  and  also  in  the  second  oration  against  Catiline,  as  having  been  ordered  in  the  consulship  of  Torquatus  and  Cotta,  but  not  completed  till  the  year  of  Cicero's  consulship.    154  ON   DIVINATION.   Were  by  the  loyal  Gauls  reveal'd  and  shown  To  the  astonish'd  multitude  and  senate.  XIII.    Well  then  did  ancient  men,  whose  monuments  You  keep  among  you, — they  who  will  maintain  Virtue  and  moderation ;  by  these  arts  Ruling  the  lands  an<l  people  subject  to  them  :  Well,  too,  your  holy  sires,  whose  spotless  faith,  And  piety,  and  deep  sagacity  Have  far  surpass'd  the  men  of  other  lands,  Worshipp'd  in  every  age  the  mighty  Gods.  They  with  sagacious  care  these  things  foresaw,  Spending  in  virtuous  studies  all  their  leisure,  And  in  the  shady  Academic  groves,  And  fair  Lyceum :  where  they  well  pour'd  forth  The  treasures  of  their  pure  and  learned  hearts.  And,  like  them,  you  have  been  by  virtue  placed,  To  save  your  country,  in  the  imminent,  breach ;  Still  with  philosophy  you  soothe  your  cares,  With  prudent  care  dividing  all  your  hours  Between  the  Muses  and  your  country's  claims.   Will  you  then  be  able  to  persuade  your  mind  to  speak  against  the  arguments  which  I  adduce  on  the  subject  of  divination,  you  being  a  man  who  have  performed  such  exploits  as  you  have  done,  and  who  have  so  admirably  com  posed  those  verses  which  I  have  just  recited  1  What — do  you  ask  me,  Carneades,  why  these  things  take  place  in  this  manner,  or  by  what  art  it  is  possible  for  them  to  be  brought  about  ?  I  confess  that  I  do  not  know ;  but  that  they  do  happen,  I  assert  that  you  yourself  are  a  witness.  Yes,  they  happen  by  chance,  you  say.  Is  it  so  1  Can  anything  be  done  by  chance  which  has  in  itself  all  the  features  of  reality  ?  Four  dice  when  thrown  may  by  chance  come  up  sixes.  Do  you  think  that  if  you  were  to  throw  four  hundred  dice  it  would  be  possible  for  them  all  to  come  up  sixes  by  any  chance  in  the  world  1  Paints  scattered  at  random  on  a  canvass  may  by  chance  represent  the  features  of  a  human  face ;  but  do  you  think  that  you  could  by  any  chance  scat  tering  of  colours  represent  the  beauty  of  the  Coan  Venus'?1  Suppose  a  pig  by  burrowing  in  the  ground  with  his  snout  were  to  make  the  letter  A,  would  you  on  that  account  think  it  possible  that  the  animal  should  by  chance  write  out  the  Andromache  of  Ennius  1  Carneades  used  to  tell  a  story  that   1  This  refers  to  the  celebrated  picture  of  Venus  Anadyomene,  painted  by  Apelles,  who  was  a  native  of  Cos.    ON    DIVINATION.  155   in  cutting  stones  in  the  stone- quarries  at  Chios,  there  was  once  discovered  a  natural  head  of  a  Pan.  I  dare  say  there  may  have  been  a  figure  not  wholly  unlike  such  a  head,  but  still  certainly  it  was  not  such  that  you  could  fancy  it  wrought  by  Scopns.1  For  this  is  the  nature  of  things,  that  chance  can  never  imitate  reality  to  perfection.   XIV.  But,  you  will  say,  things  which  have  been  predicted  sometimes  fail  to  happen.  What  act  is  not  liable  to  this  observation  1  I  mean  of  those  acts  which  proceed  on  con  jecture,  and  are  founded  on  opinion.  Is  not  medicine  to  be  considered  a  real  art  ?  And  yet  how  often  is  it  deceived  !  Need  I  say  more  1  Are  not  pilots  of  ships  often  deceived  ?  Did  not  the  army  of  the  Greeks,  and  the  captains  of  all  that  numerous  fleet,  depart  from  Troy,  as  Pacuvius  says —   So  glad  at  their  departure,  that  they  gazed  In  idle  mirth  upon  the  wanton  fish,  And  never  ceased  from  laughing  at  their  gambols  ;  Meanwhile  at  sunset  the  vast  sea  grows  rough,  The  darkness  lowers,  black  night  and  clouds  surround  them.  Did,  however,  the  shipwreck  of  so  many  illustrious  generals  and  sovereigns  prove  that  there  was  no  such  art  as  naviga  tion  ?     Or  is  the  science  of  generals  good  for  nothing  because  a  most  illustrious  general  was  lately  put  to  flight,  after  the  total  loss  of  his  army  1     Or  are  we  to  say  that  there  is  no  room  for  the  display  of  sound  principles  of  politics,  or  wis  dom  in  the  administration  of  affairs  of  state,  because  Cnseus  Ponipeius  was  often  .deceived,  and  even  Cato  and  you  your  self  have  been  deceived  in  more  instances  than  one  ?     The  same  rule  applies  to  the  answers  of  soothsayers,  and  to  all  divination  which  rests  on  opinion  :  for  it  depends  wholly  on  conjecture,  and  has  no  means  of  advancing  further.     And  that  perhaps  sometimes  deceives  us,  but  still  it  more  fre  quently  directs  us  to  the  truth.     For  it  is  traced  back  to  all  eternity.  And  as  in  the  infinite  duration  of  time,  things  have  happened  in  an  almost  countless  number  of  ways  with  the  self-same  indications  preceding  each   occurrence,  an  art  has   1  Scopas  was  a  Parian,  nourishing  about  360  B.C.  He  was  one  of  the  greatest  architects  and  sculptors  of  antiquity,  and  is  mentioned  as  such  by  Horace,  who  says: —   Divite  me  scilicet  artium  Quas  aut  Parrhasius  protulit  aut  Scopas,  Hie  saxo,  liquidis  ille  colorilius  Solera  nunc  hominem  nonere  mmr.  TV «  ••  •    156  ON   DIVIXATION.   been  concocted  and  reduced  to  rules  from  a  frequent  obser  vation  and  notice  of  the  same  circumstances.   XV.  But  your  auspices,  how  clear — how  sure  they  are !  which  at  this  time  are  known  nothing  of  by  the  Roman  augurs,  (excuse  me  for  saying  this  so  plainly,)  though  they  are  main  tained  by  the  Cilicians,  Pamphylians,  Pisidians,  and  Lycians.  For  why  should  I  mention  that  man  connected  with  us  in  ties  of  hospitality,  that  most  illustrious  and  excellent  ^man,  king  Deiotarus  1  He  never  does  anything  whatever  without  taking  the  auspices.  And  it  happened  once  that  he  had  started  on  a  journey  which  he  had  arranged  and  determined  some  time  before;  but,  being  warned  by  the  flight  of  an  eagle,  he  returned  back  again,  and  the  very  next  night  the  house  in  which  he  would  have  been  lodging  if  he  had  per  sisted  in  his  journey,  fell  to  the  ground.  And  he  was  so  moved  by  this  occurrence,  that,  as  he  himself  used  to  tell  me,  he  often  turned  back  in  the  same  way  in  a  journey,  even  when  he  had  advanced  many  days  on  it.  And  what  is  most  remarkable  in  his  conduct  is,  that  after  he  had  been  deprived  by  Csesar  of  his  tetrarchy,  his  kingdom,  and  his  property,  he  still  asserted  that  he  did  not  repent  of  obeying  those  auspices  which  had  promised  success  to  him  when  he  was  setting  out  to  join  Pompey:  for  he  considered  that  the  authority  of  the  senate,  and  the  liberty  of  the  Roman  people,  and  the  dignity  of  the  empire  had  been  upheld  by  his  arms;  and  that  those  birds  had  taken  good  care  of  his  honour  and  real  interests,  inasmuch  as  they  had  been  his  counsellors  in  adhering  to  the  claims  of  good  faith  and  duty ;  for  that  character  was  a  thing  dearer  to  him  than  his  possessions.  .  And  in  saying  this  he  seems  to  me  to  form  a  very  just  estimate.  For  our  magis  trates  at  times  use  compulsion.  For  it  is  quite  impossible,  if  a  cake  is  thrown  down  before  a  chicken,  but  what  some  crumbs  must  fall  out  of  his  mouth  when  he  feeds.  And  as  you  have  it  set  down  in  your  books  that  a  tripudium  takes  place  if  any  of  the  food  falls  on  the  ground,  so  you  also  call  this  compulsory  augury  which  I  have  spoken  of  tripudium  solistimum.1  And  so,  as  that  wise  Cato  complains,  owing  to   i  "Tripudium,  from  terripavium  (see  Cic  Div.  ii  34),  a  stamping  on  the  ground  In  divination,  tripudium,  or  tripudium  solistimum,  when-  the  birds  (pulli)  ate  so  greedily  that  the  food  fell  from  their  mouths,  and  so  rebounded  on  the  ground,  which  was  regarded  as  a  good  omen."  — Riddle  and  Arnold,  Lat.  Diet.    ON    DIVIXATIOX.  157   the  negligence  of  the  college,  many  auguries  and  many  auspices  have  been  wholly  lost  and  abandoned.   XVI.  Formerly  there  was,  I  may  almost  say,  no  ariair  of  importance,  not  even  if  it  only  related  to  private  business,  which  was  transacted  \vithout  taking  the  auspices.  And  this  is  proved  even  now  by  the  Auspices Nuptiarum,  who,  though  the  custom  has  fallen  into  disuse,  still  preserve  the  name.  For  just  as  we  now  consult  the  entrails  of  victims,  though  even  that  very  practice  is  observed  less  now  than  it  used  to  be,  so  in  ancient  times,  before  all  transactions  of  importance,  men  used  to  consult  birds ;  and,  therefore,  from  want  of  paying  proper  regard  to  ill  omens,  we  often  run  into  alarming  and  destructive  dangers  : — as  Publius  Claudius,  the  son  of  Appius  Csecus,  and  his  colleague  Lucius  Junius,  lost  a  fine  fleet,  because  they  had  put  to  sea  in  defiance  of  the  omens.  And,  indeed,  something  of  the  same  kind  befel  Agamemnon;  for  he,  when  the  Grecians  had  begun   To  murmur  loudly,  and  with  open  scorn  T'  asperse  the  skill  of  th'  holy  soothsayers,  Bade  the  crew  bend  the  sails  and  put  to  sea,  Choosing  the  people's  voice  before  the  omens.   But  why  need  we  look  for  old  examples  of  this  1  We  have  ourselves  seen  what  happened  to  Marcus  Crassus,  because  he  neglected  the  notice  which  was  given  to  him  that  the  omens  were  unfavourable.  On  which  occasion,  Appius,  your  col  league,  a  good  augur,  as  I  have  often  heard  you  say,  branded,  when  he  was  censor,  an  excellent  man  and  a  most  illustrious  citizen,  Caius  Ateius,  without  sufficient  consideration,  because  he  had  cooperated  in  falsifying  the  auspices.  However,  let  that  pass.  It  may  have  been  the  duty  of  the  censor  to  do  so,  if  he  thought  that  the  auspices  were  falsified.  But  it  certainly  was  not  the  duty  of  an  augur  to  set  down  in  the  books  that  this  was  the  cause  of  a  fearful  calamity  befalling  the  Roman  people.  For  even  if  that  was  the  cause  of  the  calamity,  still  the  fault  was  not  in  the  man  who  announced  the  state  of  the  auspices,  but  in  him  who  disregarded  the  announcement.  For  that  the  announcement  wTas  a  correct  one,  as  the  same  augur  and  censor  bears  witness,  was  proved  by  the  event;  for  if  the  announcement  had  been  false,  it  could  not  possibly  have  caused  any  calamity  at  all.  In  truth,    158  ON   DIVINATION.   prognostics  of  calamity,  like  other  auspices,  and  omens,  and  tokens,  do  not  produce  causes  why  anything  should  happen,  but  merely  give  notice  of  what  will  happen  unless  you  pro  vide  against  it.  It  was  not,  therefore,  the  announcement  of  unfavourable  omens,  made  by  Ateius,  which  was  the  cause  of  calamity;  all  that  he  did  was,  by  declaring  to  him  what  signs  had  been  seen,  to  warn  him  what  would  happen  if  he  did  not  take  precautions  against  it.  Accordingly,  either  that  announcement  had  no  effect  at  all,  or  else  if,  as  Appius  thinks,  it  had  an  effect,  the  effect  was  this,  that  guilt  was  attached,  not  to  the  man  who  gave  the  warning,  but  to  him  who  did  not  attend  to  it.   XVII.  What  shall  I  say  more  1  From  whence  have  you  received  that  staff  (lituus)  of  yours,  which  is  the  most  cele  brated  ensign  of  your  augurship  ?  That  is  the  staff  with  which  Komulus  parted  out  the  several  districts,  when  he  founded  the  city.  And  that  staff  of  Romulus,  (that  is  to  say,  a  stick  curved  and  slightly  bent  forward  at  the  top,  which  has  derived  its  name  from  its  resemblance  to  the  trumpet  (lituus)  used  in  sounding  signals,)  having  been  laid  up  in  the  meeting-house  of  the  Salii,  which  was  in  the  Pala  tine-hill,  when  that  house  was  burnt  to  the  ground,  was  found  unhurt.  What  more  need  I  say  1  Who  of  the  ancient  authors  is  there  who  does  not  relate  what  an  arrangement  of  the  districts  of  the  city  was  made,  many  years  after  the  time  of  Romulus,  in  the  reign  of  Tarqninius  Priscus,  by  Attius  Xavius,  who  employed  his  staff  in  this  manner  ?  And  it  is  said  that  he,  when  a  boy,  was  forced  through  poverty  to  act  as  a  swineherd;  and  one  day,  having  lost  one  of  his  pigs,  he  made  a  vow  that  if  he  recovered  it,  he  would  give  the  god  the  finest  grape  which  there  was  in  the  whole  vineyard.  Accordingly,  when  he  had  found  the  pig,  he  placed  himself  in  the  middle  of  the  vineyard,  with  his  eyes  directed  towards  the  south;  and  after  he  had  divided  the  vineyard  into  four  divisions,  and  had  been  directed  by  the  birds  to  disregard  three  of  the  portions,  in  the  fourth  division,  which  remained,  he  found  a  grape  of  most  wonderful  size,  as  we  find  recorded  in  our  books.  And  when  this  fact  became  known,  all  the  neighbours  used  to  consult  him  on  all  their  affairs,  until  he.  gained  a  great  name  and  reputation ;  in  consequence  of  which  kin<r  Priscus  sent  for  him.    ON   DIVINATION.  159   And  when  he  had  come  to  the  king,  he,  wishing  to  make  proof  of  his  skill  in  augury,  told  him  that  he  was  thinking  of  something,  and  asked  him  whether  it  could  possibly  be  done.  He,  having  taken  an  auguiy,  answered  that  it  could.  But  Tarquin  said  that  he  had  been  thinking  that  it  was  possible  that  a  whetstone  might  be  cut  through  by  a  razor.  On  this  Attius  bade  him  try ;  and  accordingly  a  whetstone  was  brought  into  the  assembly,  and,  in  the  sight  of  king  and  people,  cut  through  with  a  razor.  And  in  consequence  of  this,  it  happened  that  Tarquinius  always  consulted  Attius  Navius  as  an  augur,  and  that  the  people  also  were  used  to  refer  their  private  affairs  to  him.  And  we  are  told  that  that  whetstone  and  that  razor  were  buried  in  the  comitium,  and  that  the  puteal  was  built  over  it.   Let  us  deny  everything;  let  us  burn  our  annals;  let  us  say  that  all  these  statements  are  false ;  let  us,  in  short,  confess  everything  rather  than  that  the  Gods  regard  the  affairs  of  mankind.  What  1  do  not  even  your  writings  about  Tiberius  Gracchus  sanction  the  theories  df  augurs  ami  haruspices  1  For  when  he  had  unintentionally  erected  a  tent  to  take  the  auspices  informally,  because  he  had  crossed  the  pomcerium  without  taking  the  auspices,  he  held  there  the  comitia  for  the  election  of  the  consuls.  (The  matter  is  one  of  notoriety,  and  committed  to  writing  by  you  yourself.)  However,  Tiberius  Gracchus,  who  was  himself  an  augur,  ratified  the  authority  of  the  auspices  by  a  confession  of  his  error,  and  added  great  authority  to  the  sj'steui  of  the  harus  pices  ;  who,  having  at  the  recent  comitia  been  introduced  into  the  senate,  asserted  that  the  person  who  proposed  the  candi  dates  to  the  comitia  had  no  right  to  do  so.   XVIII.  I  therefore  agree  with  those  authors  who  have  asserted  that  there  are  two  kinds  of  divination;  one  par  taking  of  art,  and  the  other  wholly  devoid  of  it.  For  art  is  visible  in  those  persons  who  pursue  anything  new  by  conjec  ture,  and  have  learnt  to  judge  of  what  is  old  by  observation.  But  those  men,  on  the  other  hand,  are  devoid  of  art,  who  give  way  to  presentiments  of  future  events,  not  proceeding  by  reason  or  conjecture,  nor  on  the  observation  and  considera  tion  of  particular  signs,  but  yielding  to  some  excitement  of  mind,  or  to  some  unknown  influence  subject  to  no  precise  rules  or  restraint,  (as  is  often  the  case  with  men  who  dream,    1GO  ON    DIVINATIOy.   and  sometimes  with  those  who  deliver  predictions  in  n  frenzied  manner,)  as  Bacis'  of  Boeotia,  Epimenides2  the  Cretan,  and  the  Erythrean  Sib}'!.  And  under  this  head  we  ought  also  to  rank  oracles;  not  those  which  are  drawn  by  lot,  but  those  which  are  uttered  under  the  influence  of  some  divine  instinct  and  inspiration.  Although  even  lots  are  not  to  be  despised  where  they  are  sanctioned  by  the  authority  of  antiquity,  like  those  which  we  are  told  used  to  rise  out  of  the  earth  ;  which,  however,  are  drawn  in  such  a  manner  as  to  be  apposite  to  the  subject  under  consideration,  which,  indeed,  is  a  thing  that  I  conceive  to  be  very  possible  by  divine  management.  The  interpreters  of  all  of  which  appear  to  me  to  come  very  near  to  the  divining  power  of  those  whose  interpreters  they  are  (just  as  those  grammarians  do  who  are  the  interpreters  of  poets).  What  proof  of  sagacity  is  it,  then,  to  wish  to  disparage  things  sanctioned  by  antiquity,  by  vile  calumnies  ?  I  admit  that  I  cannot  discover  the  cause.  Perhaps  it  lies  hid,  involved  in  the  obscurity  of  nature.  For  God  has  not  int  nded  me  to  understand  these  matters,  but  only  to  use  them.  I  will  use  them,  then ;  nor  will  I  be  persuaded  to  think,  either  that  all  Etruria  is  mad  on  the  subject  of  the  entrails  of  victims,  or  that  the  same  nation  is  all  wrong  about  lightnings,  or  that  it  interprets  prodigies  fallaciously,  when  it  has  often  happened  that  sub  terranean  noises  and  crashes,  often  that  earthquakes,  have  predicted,  with  terrible  truth,  many  of  the  evils  which  have  befallen  our  own  republic  and  other  states.   Why  should  I  say  more  ?  The  fact  of  a  mule  having  brought  forth  is  much  ridiculed  by  some  people ;  but  because  this  parturition  did  take  place  in  the  case  of  an  animal  of  natural  barrenness,  was  there  not  an  incredible  crop  of  evils  predicted  by  the  soothsayers  1  Need  I  go  further  1  Did  not  Tiberius  Gracchus,  the. son  of  Publius  Gracchus,  who  had  been  twice  consul  and  censor,  and  who  was  also  an  augur  of  the   1  Bacis  was  believed  to  have  lived  and   prophesied  at  Heleon,  in  Bceotia,  being  inspired  by  the  nymphs  of  the  Corycian  cave.     Some  of  hjs  prophecies  are  given  us  by  Herodotus,  viii.  20,  77;  ix.  43.    (See  also  Aristophanes,  Eq.  123;  Pax,  1009.)   2  Epimenides  was  a  poet  and  prophet  of  Crete,  who  lived  about  590  B.  c.     He  was  sent  for  by  the  Athenians  to  purify  Athens  when  it  •  was  visited  by  a  plague,  in  consequence  of  the  sacrilege  of  Cylon.  He  is  said  to  have  lived  to  a  great  age.    ON   DIVINATION.  161   highest  skill  and  reputation,  and  a  wise  man,  and  a  most  virtuous  citizen, — did  not  he  (as  Caius  Gracchus,  his  son,  has  left  recorded  in  his  writings),  when  two  snakes  were  caught  in  his  house,  convoke  the  soothsayers  ?  And  the  answer  which  they  gave  him  was,  that  if  he  let  the  male  escape,  his  wife  would  die  in  a  short  time ;  but  if  he  let  the  female  escape,  he  would  die  himself:  on  which  he  thought  it  more  becoming  to  encounter  an  early  death  himself,  than  to  expose  the  youthful  daughter  of  Publius  Africanus  to  it.  Accordingly,  he  released  the  female  snake,  and  died  himself  a  few  days  afterwards.   XIX.  Let  us,  after  this,  laugh  at  the  soothsayers;  let  us  call  them  useless  and  triflers,  and  despise  those  men  whose  principles  the  wisest  men,  and  subsequent  events  and  occur  rences,  have  often  proved.  Let  us  despise  also  the  Baby  lonians,  and  those  who  on  mount  Caucasus  observe  the  stars  of  heaven,  and  follow  all  their  revolutions  in  regular  number  and  motion.  Let  us,  say  I,  condemn  all  those  people  for  folly,  or  vanity,  or  impudence,  who,  as  they  themselves  assert,  have  exact  records  for  four  hundred  and  seventy  thousand  years  carefully  noted  down,  and  let  us  decide  that  they  are  telling  lies,  and  have  no  regard  as  to  what  the  judgment  of  future  ages  concerning  them  will  be.  Come,  then,  you  vain  and  deceitful  barbarians,  has  the  history  of  the  Greeks  likewise  spoken  falsely?  Who  is  ignorant  of  the  answer  (that  I  may  speak  at  present  of  natural  divination)  which  the  Pythian  Apollo  gave  to  Croesus,  to  the  Athenians,  the  Lacedaemonians,  the  Tegeans,  the  Argives,  and  the  Corinthians  ?  Chrysippus  has  collected  a  countless  list  of  oracles — not  one  without  a  witness  and  authority  of  sufficient  weight;  but  as  they  are  known  to  you,  I  will  pass  them  over.  This  one  I  will  mention  and  defend.  Would  that  oracle  at  Delphi  have  ever  been  so  celebrated  and  illustrious,  and  so  loaded  with  such  splendid  gifts  from  all  nations  and  kings,  if  all  ages  had  not  had  experience  of  the  truth  of  its  predic  tions  1  At  present,  you  will  say,  it  has  no  such  reputation.  Granted,  then,  that  it  has  a  lower  reputation  now,  because  the  truth  of  oracles  is  less  notorious ;  still  I  affirm  that  it  would  not  have  had  such  a  reputation  then,  if  it  had  not  been  distinguished  for  extraordinary  accuracy.  But  it  is  possible  that  that  power  in  the  earth,  which  excited  the  mind  of  the  Pythian  priestess  by  divine  inspiration,  may  have   DE  NAT.  ETC.  M    IQ2  ON    DIVINATION.   disappeared  through  old  age,  just  as  we  know  that  some  rivers  have  dried  up,  or  become  changed  and  diverted  into  another  channel.  However,  let  it  be  owing  to  whatever  you  please ;  for  it  is  a  great  question :  only  let  this  fact  remain  —which  cannot  be  denied,  unless  we  will  overthrow  all  his  tory—that  that  oracle  told  the  truth  for  many  ages.   XX.  However,  let  us  pass  over  the  oracles ;  let  us  come  to  dreams.  And  Chrysippus  discussing  them,  after  collecting  many  minute  instances,  does  the  same  that  Antipater  does  when  he  investigates  this  subject,  and  those  dreams  which  were  explained  according  to  the  interpretation  of  Antipho,  which  indeed  prove  the  acuteness  of  the  interpreter,  but  still  are  not  examples  of  such  importance  as  to  have  been  worthy  of  being  brought  forward.   The  mother  of  Dionysius— of  that  Dionysius,  I  mean,  who  was  the  tyrant  of  Syracuse,  as  it  is  recorded  by  Philistus,  a  man  of  learning  and  diligence,  and  who  was  a  contem  porary  of  the  tyrant— when  she  was  pregnant  with  this  very  Dionysius,  dreamt  that  she  had  become  the  mother  of  a  little  Satyr.  The  interpreters  of  prodigies,  who  at  that  time  were  in  Sicily  called  Galeotse,  gave  her  for  answer  when  she  con  sulted  them  about  it,  (according  to  the  story  told  by  Philistus,)  that  the  child  whom  she  was  about  to  bring  forth  would  be  the  most  illustrious  man  of  Greece,  with  very  lasting  good  fortune.  Am  I  recalling  you  to  the  fables  of  the  Greek  poets  and  those  of  our  country  ?  For  the  Vestal  Virgin,  in  Ennius,  says —   The  agitated  dame  with  trembling  limbs   Brings  in  a  lamp,  and  with  unbridled  tears,   Starting  from  broken  sleep,  pours  forth  these  words  :— •   0  daughter  of  the  fair  Eurydice,   You  whom  rny  father  loved,  see  strength  and  life  Desert  my  limbs,  and  leave  me  helpless  all.   1  thought  I  saw  a  man  of  handsome  form   Seize  me,  and  bear  me  through  the  willow  groves,  Along  the  river  banks  and  places  yet  unknown.  And  then  alone, — T  tell  you  true,  my  sister, —  I  seem'd  to  wander,  and  with  tardy  steps  To  seek  to  trace  you,  but  my  efforts  fail'd ;  While  no  clear  path  did  guide  my  doubtful  feet.  And  then,  I  thought,  my  father  thus  address'd  me,  With  evil-boding  voice  : — Alas  !  my  daughter,  What  numerous  woes  by  you  must  be  endured  ;  Though  fortune  shall  in  after  times  arise    OX  DIVINATION.  163   From  out  of  the  waters  of  this  river  here.  Thus,  sister,  spake  my  father,  and  then  vanish'd  •  2STor,  though  much  wish'd  for,  did  he  once  return!  In  vain,  with  many  tears,  I  raised  my  hands  Up  to  the  azure  vault  of  the  highest  heaven,  And  with  caressing  voice  invoked  his  name,  Or  seem'd  to  do  so.     And  'twas  long  ere  sleep,  Freighted  with  such  sad  dreams,  did  quit  my  breast.  XXI.  Now  these  accounts,  though  they  perhaps  may  be  the  mere  inventions  of  the  poets,  still  are  not  inconsistent  with  the  general  character  of  dreams.     We  may  grant  that  that  is  a  fictitious  one  by  which  Priam  is  represented  to  have  been  disturbed  : —   Queen  Hecuba  dream'd — an  ominous  dream  of  fate-  That  she  did  bear  no  human  child  of  flesh,  But  a  fierce  blazing  torch.     Priam,  alarm'd,  Ponder'd  with  anxious  fear  the  fatal  dream  ;  And  sought  the  gods  with  smoking  sacrifice.  Then  the  diviner's  aid  he  did  entreat,  With  many  a  prayer  to  the  prophetic  god,  If  haply  he  might  learn  the  dream's  intent.  Thus  spake  Apollo  with  all-knowing  mind  :—  "  The  queen  shall  have  a  son,  who,  if  he  grow  To  man's  estate,  shall  set  ajl  Troy  in  flames—  The  ruin  of  his  city  and  his  land."   Let  us  grant,  then,  that  these  dreams  are,  as  I  have  said,  merely  poetic  fictions,  and  let  us  add  the  dream  of  ^Eneas,  which  Numerius  Fabius  Pictor  relates  in  his  Annals,  as  one  of  the  same  kind;  in  which  ^Eneas  is  represented  as  foreseeing,  in  his  trance,  all  his  future  exploits  and  adventures.   XXII.  But  let  us  come  nearer  home.  What  kind  of  dream  was  that  of  Tarquin  the  Proud,  which  the  poet  Accius,  m  his  Tragedy  of  Brutus,  puts  into  the  mouth  of  Tarquin  himself? —   Sleep  closed  my  weary  eyelids,  when  a  shepherd  Brought  me  two  rams.     The  one  1  sacrificed ;  The  other  rushing  at  me  with  wild  force  Hurl'd  me  upon  the  ground.     Prostrate  I  gazed  Upon  the  heavens,  when  a  new  prodigy  Dazzled  my  eyes.     The  flashing  orb  of  day  Took  a  new  course,  diverging  to  the  right,  With  all  his  kindling  beams  strangely  transversed.   Of  this  dream  the  diviners  gave  the  following  interpretation   Dreams  are  in  general  reflex  images  Of  things  that  men  in  waking  hours  have  known ;  But  sometimes  dreams  of  loftier  character  M2    164  ON   DIVINATION.   Rise  in  the  tranced  soul,  inspired  by  Jove,   Prophetic  of  the  future.     Then  beware   Of  him,  whom  thou  dost  think  as  stupid  as   The  ram  thou  dreamest  of.     For  in  his  breast   Dwells  manliest  wisdom.     He  may  yet  expel   Thee  from  thy  kingdom.     Mark  the  prophecy  :   That  change  in  the  sun's  course  thou  didst  behold,   Betoken'd  revolution  in  the  state,   And  as  the  sun  did  turn  from  left  to  right,  we  predict   So  shall  that  revolution  meet  success.   XXIII.  Let  us  again  return  to  foreign  events.  Heraclides  of  Pontus,  an  intelligent  man,  who  was  one  of  Plato's  disciples  and  followers,  writes  that  the  mother  of  Phalaris  fancied  that  she  saw  in  a  drearn  the  statues  of  the  gods  whom  Phalaris  had  consecrated  in  his  house.  Among  them  it  appeared  to  her  that  Mercury  held  a  cup  in  his  right  hand,  from  which  he  poured  blood,  which  as  soon  as  it  touched  the  earth  gushed  forth  like  a  fresh  fountain,  and  filled  the  house  with  streaming  gore.  The  dream  of  the  mother  was  too  fatally  realized  by  the  cruelty  of  the  son.   Why  need  I  also  relate,  out  of  the  history  of  Persia  by  Dinon,  the  interpretations  which  the  Magi  gave  to  the  cele  brated  prince,  Cyrus?  For  he  dreamed  that  beholding  the  sun  at  his  feet,  he  thrice  endeavoured  to  grasp  it  in  his  hands,  but  the  sun  rolled  away  and  departed,  and  escaped  from  him.  The  Magi  (who  were  accounted  sages  and  teachers  in  Persia)  thus  interpreted  the  dream,  saying,  that  the  three  attempts  of  Cyrus  to  catch  the  sun  in  his  hands,  signified  that  he  would  reign  thirty  years ;  and  what  they  predicted  really  came  to  pass ;  for  he  was  forty  years  old  when  he  began  to  reign,  and  he  reached  the  age  of  seventy.  Among  all  barbarous  nations,  indeed,  we  meet  with  proof  that  they  likewise  possess  the  gift  of  divination  and  presentiment.  The  Indian  Calanus,  when  led  to  execution,  said,  while  ascending  the  funeral  pile,  "  0  what  a  glorious  departure  from  life !  when,  as  happened  to  Hercules ,  after  niy  body  has  been  consumed  by  fire,  my  soul  shall  depart  to  a  world  of  light."  And  when  Alexander  asked  him  if  he  had  anything  to  say  to  him  ;  "  Yes,"  replied  he,  ".we  shall  soon  meet  again  ;"  and  this  prophecy  was  soon  fulfilled,  for  a  few  days  afterwards  Alexander  died  in  Babylon.'   I  will  quit  the  subject  of  dreams  for  awhile,  and  return  to  them  presently.  On  the  very  night  that  Olympias  was    ON    DIVINATION.  165   delivered  of  Alexander,  the  temple  of  Diana  of  the  Ephesiaus  was  burned ;  and  when  the  morning  dawned,  the  Magi  declared  that  the  ruin  and  destroyer  of  Asia  had  been  born  that  night.  So  much  for  the  Magi  and  the  Indians.  Now  let  us  return  to  dreams.   XXIV.  Ccelius  relates  that  Hannibal,  wishing  to  remove  a  golden  column  from  the  temple  of  Juno  Lacinia,  and  not  knowing  whether  it  was  solid  gold  or  merely  gilt,  bored  a  hole  in  it ;  and  as  he  had  found  it  solid,  he  determined  to  take  it  away.  But  the  following  night  Juno  appeai-ed  to  him  in  a  dream,  and  warned  him  against  doing  so,  and  threatened  him  that  if  he  did,  she  would  take  care  that  he  should  lose  an  eye  with  which  he  could  see  well.  He  was  too  prudent  a  man  to  neglect  this  threat ;  and  therefore,  of  the  gold  which  had  been  abstracted  from  the  column  in  boring  it,  he  made  a  little  heifer,  which  he  fixed  on  the  capital.   And  the  same  story  is  told  in  the  Grecian  history  of  Silenus,  whom  Ccelius  follows.  And  he  was  an  author  who  was  particularly  diligent  in  relating  the  exploits  of  Hannibal.  He  says  that  when  Hannibal  had  taken  Saguntum,  he  dreamed  in  his  sleep  that  he  was  summoned  to  a  council  of  the  gods,  and  that  when  he  arrived  at  it,  Jupiter  commanded  him  to  carry  the  war  into  Italy,  and  one  of  the  deities  in  council  was  appointed  to  be  his  conductor  in  the  enterprise.  He  therefore  began  his  march  under  the  direction  of  this  divine  protector,  who  enjoined  him  not  to  look  behind  him .  Hannibal,  however,  could  not  long  keep  in  his  obedience,  but  yielded  to  a  great  desire  to  look  back,  when  he  immediately  beheld  a  huge  and  terrible  monster,  surrounded  with  ser  pents,  which,  wherever  it  advanced,  destroyed  all  the  trees,  and  shrubs,  and  buildings.  He  then,  marvelling  at  this,  inquired  of  the  god  what  this  monster  might  mean  ;  and  the  god  replied, that  it  signified  the  desolation  of  Italy ;  and  com  manded  him  to  advance  without  delay,  and  not  to  concern  himself  with  the  evils  that  lay  behind  him  and  in  his  rear.   In  the  history  of  Agathocles  it  is  said,  that  Hamilcar  the  Carthaginian,  when  he  was  besieging  Syracuse,  dreamed  that  he  heard  a  voice  announcing  to  him,  that  he -should  sup  on  the  succeeding  day  in  Syracuse.  When  the  morning  dawned  a  great  sedition  arose  in  his  camp  between  the  Carthaginian  and  Sicilian  soldiers.  And  when  the  Syracusans  found  this    166  ON   DIVINATION.   out,  they  made  a  vigorous  sally  and  attacked  the  camp  un  expectedly,  and  succeeded  in  making  Hamilcar  prisoner  while  alive,  and  thus  his  dream  was  verified.  All  history  is  full  of  similar  accounts;  and  the  experience  of  real  life  is  equally  rich  in  them.   That  illustrious  man,  Publius  Decius,  the  son  of  Quintus  Decius,  the  first  of  the  Decii  who  was  a  consul,  being  a  military  tribune  in  the  consulship  of  Marcus  Valerius  and  Aulus  Cornelius,  when  our  army  was  sorely  pressed  by  the  Samnites,  and  being  accustomed  to  expose  himself  to  great  personal  danger  in  battle,  was  warned  to  take  greater  care  of  himself;  on  which  he  replied  (as  our  annals  report),  that  he  had  had  a  dream,  which  informed  him  that  he  should  die  with  the  greatest  glory,  while  engaged  in  the  midst  of  the  enemy.  For  that  time  he  succeeded  in  happily  rescuing  our  army  from  the  perils  that  surrounded  it.  But  three  years  after,  when  he  was  consul,  he  devoted  himself  to  death  for  his  country,  and  threw  himself  armed  among  the  ranks  of  the  Latins;  by  which  gallant  action  the  Latins  were  defeated  and  destroyed :  and  his  death  was  so  glorious  that  his  son  desired  a  similar  fate.   XXV.  But  let  us  now  come,  if  you  please,  to  the  dreams  of  philosophers.  We  i-ead  in  Plato  that  Socrates,  when  he  was  in  the  public  prison  at  Athens,  said  to  his  friend  Crito  that  he  should  die  in  three  days,  for  that  he  had  seen  in  a  dream  a  woman  of  extreme  beauty  who  called  him  by  his  name,  and  quoted  in  his  presence  this  verse  of  Homer —   On  the  third  day  you'll  reach  the  fruitful  Phthia."  1  And  it  is  said  that  it  happened  just  as  it  had  been  foretold.   Again,  what  a  man,  and  how  great  a  man,  is  Xenophon  the  pupil  of  Socrates !  He,  too,  in  his  account  of  that  war  in  which  he  accompanied  the  younger  Cyrus,  relates  the  dreams  which  he  saw,  the  accomplishment  of  which  was  marvellous.  Shall  we  then  say  that  Xenophon  was  a  liar  or  dotard  ?  What  shall  we  say,  too,  of  Aristotle,  a  man  of  singular  and  almost  divine  genius?  Was  he  deceived  himself,  or  does  he  wish  others  to  be  deceived,  when  he  informs  us  that  Eudemus  of  Cyprus,  his  own  intimate  friend,  on  his  way  to  Macedonia,  came  to  Pherae,  a  celebrated  city  of  Thessaly,   1  Horn.  II.  ix.  363  :—   "Hfjari  Kfv  rpirdrca  $0ii)v  tpi$ta\ov  IKO(U.TIV.    ON    DIVINATION.  167   which  was  then  under  the  cruel  sway  of  the  tyrant  Alexander.  In  that  town  he  was  seized  with  a  severe  illness,  so  that  he  was  given  over  by  all  the  physicians,  when  he  beheld  in  a  dream  a  young  man  of  extreme  beauty,  who  informed  him  that  in  a  short  time  he  should  recover,  and  also  the  tyrant  Alexander  would  die  in  a  few  days;  and  that  Eudemus  himself  would,  after  five  years'  absence,  at  length  return  home.  Aristotle  relates  that  the  first  two  predictions  of  this  dream  were  immediately  accomplished ;  for  Eudemus  speedily  recovered,  and  the  tyrant  perished  at  the  hands  of  his  wife's  brother  ;  and  that  towards  the  end  of  the  fifth  year,  when,  in  consequence  of  that  dream,  there  was  a  hope  that  he  would  return  into  Cyprus  from  Sicily,  they  heard  that  he  had  been  slain  in  a  battle  near  Syracuse  ;  from  which  it  appeared  that  his  dream  was  susceptible  of  being  interpreted  as  meaning,  that  when  the  soul  of  Eudemus  had  quitted  his  body,  it  would  then  appear  to  have  signified  the  return  home.   To  the  philosophers  we  may  add  the  testimony  of  Scpho-  cles,  a  most  learned  man,  and  as  a  poet  quite  divine,  who,  when  a  golden  goblet  of  great  weight  had  been  stolen  from  the  temple  of  Hercules,  saw  in  a  dream  the  god  himself  appearing  to  him,  and  declaring  who  was  the  robber.  Sopho  cles  paid  no  attention  to  this  vision,  though  it  was  repeated  more  than  once.  When  it  had  presented  itself  to  him  several  times,  he  proceeded  up  to  the  court  of  Areopagus,  and  laid  the  matter  before  them.  On  this,  the  judges  issued  an  order  for  the  arrest  of  the  offender  nominated  by  Sophocles.  On  the  application  of  the  torture  the  criminal  confessed  his  guilt,  and  restored  the  goblet ;  from  which  event  this  temple  of  Hercules  was  afterwards  called  the  temple  of  Hercules  the  Indicate  .   XXVI.  But  why  do  I  continue  to  cite  the  Greeks?  when,  somehow  or  other,  I  feel  more  interest  in  the  examples  of  my  ellow-countrymen.  All  our  historians, — the  Fabii,  the  Gellii,  and,  more  recently,  Ccelius,  bear  witness  to  similar  facts.  In  the  Latin  war,  when  they  first  celebrated  the  votive  games  in  honour  of  the  gods,  the  city  was  suddenly  roused  to  arms,  and  the  games  being  thus  interrupted,  it  was  necessary  to  appoint  new  ones.  Before  their  commencement,  however,  just  as  the  people  had  taken  their  places  in  the  circus,  a  slave  who  had  been  beaten  with  rods  was  led  through  the  circus,    168  OX   DIVINATION.   bearing  a  gibbet.  After  this  event,  a  certain  Roman  rustic  had  a  dream,  in  which  an  apparition  informed  him  that  he  had  been  displeased  with  the  president  of  the  games,  and  the  rustic  was  ordered  to  apprise  the  senate  of  that  fact.  He,  however,  did  not  dare  to  do  so;  on  which  the  apparition  appeared  a  second  time,  and  warned  him  not  to  provoke  him  to  exert  his  power.  Even  then  he  could  not  summon  courage  to  obey,  and  presently  his  son  died.  After  this,  the  same  admonition  was  repeated  in  his  dreams  for  the  third  time.  Then  the  peasant  himself  became  extremely  ill,  and  related  the  cause  of  his  trouble  to  his  friends,  by  whose  advice  he  was  carried  on  a  litter  to  the  senate-house ;  and  as  soon  as  he  had  related  his  dreams  to  the  senate,  he  recovered  his  health  and  strength,  and  returned  home  on  foot  perfectly  cured.  Thereupon,  the  truth  of  his  dreams  being  admitted  by  the  senate,  it  is  related  that  these  games  were  repeated  a  second  time.   It  is  recorded  in  the  history  of  the  same  Crelius,  that  Caius  Gracchus  informed  many  persons  that  during  the  time  that  he  was  soliciting  the  qusestorship,  his  brother  Tiberius  Gracchus  appeared  to  him  in  a  dream,  and  said  to  him,  that  he  might  delay  as  much  as  he  pleased,  but  that  nevertheless  he  was  fated  to  die  by  the  same  death  which  he  himself  had  suffered.  Coclius  asserts  that  he  heard  this  fact,  and  related  it  to  many  persons,  before  Caius  Gracchus  had  become  tribune  of  the  people.  And  what  can  be  more  certain  than  such  a  dream  as  this  1   XXVII.  Who,  again,  can  despise  those  two  dreams,  which  are  so  frequently  dwelt  upon  by  the  Stoics? — one  concerning  Simonides,  who,  having  found  the  dead  body  of  a  man  who  was  a  stranger  to  him  lying  in  the  road,  buried  it.  Having  performed  this  office,  he  was  about  to  embark  in  a  ship,  when  the  man  whom  he  had  buried  appeared  to  him  in  a  dream  at  night,  and  warned  him  not  to  undertake  the  voyage,  for  that  if  he  did  he  would  perish  by  shipwreck.  Therefore,  he  returned  home  again,  but  all  the  other  people  who  sailed  in  that  vessel  were  lost.   The  other  dream,  which  is  a  very  celebrated  one,  is  related  in  the  following  manner  : — Two  Arcadians,  who  were  in  timate  friends,  were  travelling  together,  and  arriving  at  Megara,  one  of  them  took  up  his  quarters  at  an  inn,  the    ON    DIVINATIOX.  169   other  at  a  friend's  house.  After  supper,  when  they  had  both  gone  to  bed,  the  Arcadian,  who  was  staying  at  his  friend's  house,  saw  an  apparition  of  his  fellow-traveller  at  the  inn,  who  prayed  him  to  come  to  his  assistance  immediately,  as  the  innkeeper  was  going  to  murder  him.  Alarmed  at  this  intimation,  he  started  from  his  sleep;  but  on  recollection,  thinking  it  nothing  but  an  idle  dream,  he  lay  down  again.  Presently,  the  apparition  appeared  to  him  again  in  his  sleep,  and  entreated  him,  though  he  would  not  come  to  his  as  sistance  while  yet  alive,  at  least  not  to  leave  his  death  unavenged.  He  told  him  further,  that  the  innkeeper  had  first  murdered  him,  and  then  cast  him  into  a  dungcart,  where  he  lay  covered  with  filth ;  and  begged  him  to  go  early  to  the  gate  of  the  town,  before  any  cart  could  leave  the  town.  Much  excited  by  this  second  vision,  he  went  early  next  morning  to  the  gate  of  the  town,  and  met  with  the  driver  of  the  cart,  and  asked  him  what  he  had  in  his  waggon.  The  driver,  upon  this  question,  ran  away  in  a  fright.  The  dead  body  was  then  discovered,  and  the  innkeeper,  the  evidence  being  clear  against  him,  was  brought  to  punishment.   XXVIII.  What  can  be  more  akin  to  divination  than  such  a  dream  as  this  ?   But  why  do  I  relate  any  more  ancient  instances  of  similar  things,  when  such  dreams  have  occurred  to  ourselves?  for  I  have  often  told  you  mine,  and  I  have  as  often  heard  you  talk  of  yours.   When  I  was  proconsul  in  Asia,  it  appeared  to  me  as  I  slept,  that  I  saw  you  riding  on  horseback  till  you  reached  the  banks  of  a  great  river,  and  that  you  were  suddenly  thrown  off  and  precipitated  into  the  waters,  and  so  disappeared.  At  this  I  trembled  exceedingly,  being  overcome  with  fear  and  apprehension.  But  suddenly  you  reappeared  before  me  with  a  joyful  countenance,  and,  with  the  same  horse,  ascended  the  opposite  bank,  and  then  we  embraced  each  other.  It  is  easy  to  conjecture  the  signification  of  such  a  dream  as  this ;  and  hence  the  learned  inten  <reters  of  Asia  predicted  to  me  that  those  events  would  take  place  which  afterwards  did  come  to  pass.   I  now  come  to  your  own  dream,  which  I  have  sometimes  heard  from  yourself,  but  more  often  from  our  friend  Sallust.  He  used  to  say,  that  in  that  flight  and  exile  of  yours,  which  was    170  ON   DIVINATION.   so  glorious  for  you,  so  calamitous  for  our  country,  you  stayed  awhile  in  a  certain  villa  of  the  territory  of  Atina,  when,  having  sat  up  a  great  part  of  the  night,  you  fell  into  a  deep  and  heavy  slumber  towards  the  morning.  And  from  this  slumber  your  attendants  would  not  awake  you,  as  you  had  given  orders  that  you  were  not  to  be  disturbed,  though  your  journey  was  sufficiently  urgent.   When  at  length  you  awoke  about  the  second  hour  of  the  day,  you  related  to  Sallust  the  following  dream  : — That  it  had  seemed  to  you  that,  as  you  were  wandering  sorrowfully  through  some  solitary  district,  Caius  Marius  appeared  to  you  with  his  fasces  covered  with  laurel,  and  that  he  asked  you  why  you  were  afflicted.  And  when  you  informed  him  that  you  had  been  driven  from  your  country  by  the  violence  of  the  disaffected,  he  seized  your  right  hand,  and  urged  you  to  be  of  good  cheer,  and  ordered  the  lictor  nearest  to  him  to  lead  you  to  his  monument,  saying,  that  there  you  should  find  security.  Sallust  told  me,  that  upon  hearing  this  dream,  he  himself  exclaimed  at  once  that  your  return  would  be  speedy  and  glorious;  and  that  you  also  appeared  to  be  de  lighted  with  your  dream.  A  short  time  afterwards  I  was  informed,  as  you  well  know,  that  it  was  in  the  monument  of  Marius  that,  on  the  instance  of  that  excellent  and  famous  consul  Lentulus,  that  most  honourable  decree  of  the  senate  was  passed  for  your  recal,  which  was  applauded  with  shouts  of  incredible  exultation  in  a  very  full  assembly;  so  that,  as  you  yourself  observed,  no  dream  could  have  a  higher  character  of  divination  than  this  which  occurred  to  you  at  Atina.   XXIX.  But  you  will  say  that  there  are  likewise  many  false  dreams.  No  doubt  there  are  some  which  are  perhaps  obscure  to  us ;  but,  even  allow  that  there  are  some  which  are  actually  false,  what  argument  is  that  against  those  which  are  true  ? — of  which,  indeed,  there  would  be  a  great  many  more  if  we  went  to  bed  in  perfect  health ;  but  as  it  is,  from  our  being  over  charged  with  wine  and  luxuries,  all  our  perceptions  become  troubled  and  confused.  Consider  what  Socrates,  in  the  Republic  of  Plato,  says  on  this  subject.   "  When,"  says  he,  "  that  part  of  the  soul  which  is  capable  of  intelligence  and  reason  is  subdued  and  reduced  to  languor,  then  that  part  in  which  there  is  a  species  of  ferocity  and    OX   DIVINATION.  171   uncivilized  savageness  being  excited  by  immoderate  eating  and  drinking,  exults  in  our  sleep  and  wantons  about  unre  strainedly ;  and  therefore  all  kinds  of  visions  present  them  selves  to  it,  such  as  are  destitute  of  all  sense  or  reason,  in  which  we  appear  to  be  giving  ourselves  up  to  incest  and  all  kinds  of  bestiality,  or  to  be  committing  bloody  murders,  and  massacres,  and  all  kinds  of  execrable  deeds,  with  a  triumphant  defiance  of  all  prudence  and  decency.  But  in  the  case  of  a  man  who  is  accustomed  to  a  sober  and  regular  life,  when  he  commits  himself  to  sleep,  then  that  part  of  his  soul  which  is  the  seat  of  intellect  and  reason  is  still  active  and  awake,  being  replenished  with  a  banquet  of  virtuous  thoughts ;  and  that  portion  which is  nourished  by  pleasure,  is  neither  destroyed  by  exhaustion  nor  swollen  by  satiety,  either  of  which  is  accustomed  to  impair  the  vigour  of  the  soul,  whether  nature  is  deficient  in  anything,  or  super  abundant  or  overstocked;  and  that  third  division  also,  ill  which  the  vehemence  of  anger  is  situated,  is  lulled  and  restrained;  so,  consequently,  it  happens,  that  owing  to  the  due  regulation  of  the  two  more  violent  portions  of  the  soul,  the  third,  or  intellectual  part,  shines  forth  conspicuously,  and  is  fresh  and  active  for  the  admission  of  dreams;  and  therefore  the  visions  of  sleep  which  present  themselves  before  it  are  tranquil  and  true."   XXX.  Such  are  the  very  words  of  Plato.  Shall  we,  then,  prefer  listening  to  the  doctrine  of  Epicurus  on  this  point  ?  As  for  Carneades,  he  sometimes  says  one  thing  and  sometimes  another,  from  his  mere  fondness  for  discussion.  And  yet,  what  are  the  sentiments  which  he  utters  ?  At  all  events,  they  are  never  expressed  either  with  elegance  or  propriety.  And  will  you  prefer  such  a  man  as  this  to  Plato  and  Socrates  1  men  who,  even  if  they  were  to  give  no  reason  for  their  tenets,  should,  by  the  mere  authority  of  their  names,  outweigh  these  minute  philosophers.   Plato  then  asserts  that  we  should  bring  our  bodies  into  such  a  disposition  before  we  go  to  sleep  as  to  leave  nothing  which  may  occasion  error  or  perturbation  in  our  dreams.  For  this  reason,  perhaps,  Pythagoras  laid  it  down  as  a  rule,  that  his  disciples  should  not  eat  beans,  because  this  food  is  very  flatulent,  and  contrary  to  that  tranquillity  of  mind  which  a  truth-seeking  spirit  should  possess.    172  ON    DIVINATION.   When,  therefore,  the  mind  is  thus  separated  from  the  society  and  contagion  of  the  body,  it  recollects  things  past,  examines  things  present,  and  anticipates  things  to  come.  For  the  body  of  one  who  is  asleep  lies  like  that  of  one  who  is  dead,  -while  the  spirit  is  full  of  vitality  and  vigour.  And  it  will  be  yet  more  so  after  death,  when  it  will  have  got  rid  of  the  body  altogether;  and  therefore  we  _ see  that  even  on  the  approach  of  death  it  becomes  much  more  divine.  For  it  often  happens  that  those  who  are  attacked  by  a  severe  and  mortal  malady,  foresee  that  their  death  is at  hand.  And  in  this  state  they  often  behold  ghosts  and  phantoms  of  the  dead.  Then  they  are  more  than  ever  anxious  about  their  reputations;  and  they  who  have  lived  otherwise  than  as  they  ought,  then  most  especially  repent  of  their  sins.   And  that  the  dying  are  often  possessed  of  the  gift  of  divi  nation,  Posidonius  confirms  by  that  notorious  example  of  a  certain  Rhodian  who,  being  on  his  death-bed,  named  six  of  his  contemporaries,  saying  which  of  them  would  die  first,  which  second,  which,  next  to  him,  and  so  on.   There  are,  he  imagines,  besides  this,  three  ways  in  which  men  dream  under  the  immediate  impulse  of  the  Gods  :  one,  when  the  mind  intuitively  perceives  things  by  the  relation  which  it  bears  to  the  Gods ;  the  second,  arising  from  the  fact  of  the  air  being  full  of  immortal  spirits,  in  whom  all  the  signs  of  truth  are,  as  it  were,  stamped  and  visible  ;  the  third,  when  the  Gods  themselves  converse  with  sleepers, — and  that,  as  I  have  said  before,  takes  place  more  especially  at  the  approach  of  death,  enabling  the  minds  of  the  dying  to  anti  cipate  future  events.  An  instance  of  this  is  the  prediction  of  Calanus,  of  whom  I  have  already  spoken.  Another  is  that  of  Hector,  in  Homer,  who,  when  dying  himself,  foretels  the  approaching  death  of  Achilles.   XXXI.  If  there  were  no  such  thing  as  divination,  Plautus  would  not  have  been  so  much  applauded  for  the  following  line  : —   My  mind  presaged  (prcesagibat),  when  I  first  went  out,  That  I  was  going  on  a  fruitless  journey  : —   for  the  verb  sagio  means,  to  feel  shrewdly.  Hence  old  women  are  sometimes  called  sagce  (witches),  because  they  are  ambi  tious  of  knowing  many  things ;  and  dogs  are  called  sagacioiis.  Whoever,  therefore,  say  it  (knows)  before  the  event  has  come    ON    DIVINATION.  173   to  pass,  is  said  prcesagire  (to  have  the  power  of  knowing  the  future  beforehand).   There  exists,  therefore,  in  the  mind  a  presentiment,  which  strikes  the  soul  from  without,  and  which  is  enclosed  in  the  soul  by  divine  operation.  If  this  becomes  very  vivid,  it  is  termed  frenzy,  as  happens  when  the  soul,  being  abstracted  from  the  body,  is  stirred  up  by  a  divine  inspiration.  •  What  sudden  transport  fires  my  virgin  soul !   Jly  mother,  oh,  my  mother  ! — dearest  name  Of  all  dear  names  !     But  oh,  my  breast  is  full  Of  divination  and  impending  fates,  While  dread  Apollo  with  his  mighty  impulse  Urges  me  onward.     Sisters,  my  sweet  sisters  !  I  grieve  to  anticipate  the  coming  fate  Of  our  most  royal  parents.     You  are  all  More  filial  and  more  dutiful  than  I.  I  only  am  enjoin'd  this  cruel  task,  To  utter  imminent  ruin.     You  do  serve  them  ;  I  injure  them ;  and  your  obedience  Shines  well,  set-off  by  my  disloyal  rage.1   0  what  a  tender,   moral,   and  delicate  poem  !    though  the  beauty  of  it  does  not  affect  the  question.     What  I  wish  to  prove  is,  that  that  frenzy  often  predicts  what  is  true  and  real.   I  see  the  blazing  torch  of  Troy's  last  doom,  Fire,  and  massacre,  and  death.     Arm,  citizens  !  Bring  aid  and  quench  the  flames.   In  the  following  lines,  it  is  not  so  much  Cassandra  who  speaks,  as  the  Deity  enclosed  in  human  form  : —   Already  is  the  fleet  prepared  to  sail ;  It  bears  destruction — rapidly  it  speeds :  A  dreadful  army  traverses  the  shores,  Destined  to  slaughter.   1  seem  to   be    doing  nothing  but   quoting  tragedies  and  fables.   XXXII.  I  would  mention  a  story  I  have  heard  from  your  self,  and  that  not  an  imaginary,  but  a  real  circumstance,  and  closely  related  to  our  present  discussion.  Caius  Coponius,  a  skilful  general,  and  a  man  of  the  highest  character  for  learn  ing  and  wisdom,  who  commanded  the  fleet  of  the  Rhodians,  with  the  appointment  of  praetor,  came  to  you  at  Dyrrha-  chium,  and  informed,  you  that  a  certain  sailor  in  a  Khodiau  galley  had  predicted  that,  in  less  than  a  month,  Greece  would   1  This  is  a  quotation  from  Pacuvius's  play  of  Hercules ;  the  speaker  is  Cassandra.    174  ON   DIVINATION.   be  deluged  with  blood,  that  Dyrrhachium  would  be  pillaged,  and  that  the  people  would  flee  and  take  to  their  ships ;  that,  looking  back  in  their  flight,  they  would  see  a  terrible  con  flagration.  He  added,  moreover,  that  the  fleet  of  the  lihodians  would  soon  return,  and  retire  to  Rhodes.  You  told  me  that  you  yourself  were  surprised  at  this  intelligence,  and  that  Marcus  Varro  and  Marcus  Cato,  both  men  of  great  learning,  who  were  with  you,  were  exceedingly  alarmed.  A  few  days  afterwards,  Labienus,  having  escaped  from  the  battle  of  Phar-  salia,  arrived  and  brought  an  account  of  the  defeat  of  the  army :  and  the  rest  of  the  prediction  was  soon  accomplished ;  for  the  corn  was  dragged  out  of  the  granaries,  and  strewed  about  all  the  streets  and  alleys,  and  destroyed.  Yoxi  all  embarked  on  board  the  ships  in  haste  and  alarm;  and  at  night,  when  you  looked  back  towai-ds  the  town,  you  beheld  the  barges  on  fire,  which  were  burned  by  the  soldiers  because  they  would  not  follow.  At  last  you  were  deserted  by  the  fleet  of  the  Rhodians,  and  then  you  found  that  the  prophet  had  been  a  true  one.   I  have  explained  as  concisely  as  possible  the  fore  warnings  of  dreams  and  frenzy,  with  which  I  said  that  art  had  nothing  to  do ;  for  both  these  kinds  of  prediction  arise  from  the  same  cause,  which  our  friend  Cratippus  adopts  as  the  true  explana  tion  — namely,  that  the  souls  of  men  are  partly  inspired  and  agitated  from  without.  By  which  he  meant  to  say,  that  there  is  in  the  exterior  world  a  sort  of  divine  soul,  whence  the  human  soul  is  derived ;  and  that  that  portion  of  the  human  soul  which  is  the  fountain  of  sensation,  motion,  and  appetite,  is  not  separate  from  the  action  of  the  body ;  but  that  portion  which  partakes  of  reason  and  intelligence  is  then  most  ener  getic,  when  it  is  most  completely  abstracted  from  the  body.   Therefore,  after  having  recounted  veritable  instances  of  presentiments  and  dreams,  Cratippus  used  to  sum  up  his  conclusions  in  this  manner :-— " If,"  he  would  say,  "the  exist  ence  of  the  eyes  is  necessary  to  the  existence  and  operation  of  the  function  of  sight,  though  the  eyes  may  not  be  always  exercising  that  function,  still  he  who  has  once  made  use  of  his  eyes  so  as  to  see  correctly,  is  possessed  of  eyes  capable  of  the  sensation  of  correct  sight :  just  so  if  the  function  and  gift  of  divination  cannot  exist  without  the  exercise  of  divination,  and  yet  a  man  who  has  this  gift  may  sometimes  err  in  its    ON   DIVI.VATION.  175   exercise,  and  not  foresee  correctly ;  then  it  is  sufficient  to  prove  the  existence  of  divination,  that  some  event  should  have  been  once  so  correctly  divined  that  none  of  its  circum  stances  appear  to  have  happened  fortuitously.  And  as  a  multitude  of  such  events  have  occurred,  the  existence  of  divination  ought  not  to  be  doubted.   XXXIII.  But  as  to  those  divinations  which  are  explained  by  conjecture,  or  by  the  observation  of  events;  these,  as  I  have  said  before,  are  not  of  the  natural,  but  artificial  order ;  in  which  artificial  class  are  the  haruspices,  and  augurs,  and  interpreters.  These  are  discredited  by  the  Peripatetics,  and  defended  by  the  Stoics.  Some  of  them  are  established  by  certain  monuments  and  systems,  as  is  evident  from  the  ritual  books  of  the  ancient  Etruscans  respecting  electrical  interpre  tation  of  the  omens  conveyed  by  the  entrails  of  victims  and  by  lightning,  and  by  our  own  books  on  the  discipline  of  the  augurs  Other  divinations  are  explained  at  once  by  con  jecture,  without  reference  to  any  written  authorities;  such  as  the  prophecy  of  Calchas  in  Homer,  who,  by  a  certain  num  ber  of  flying  sparrows,  predicted  the  number  of  years  which  would  be  occupied  in  the  siege  of  Troy;  and  as  an  event  which  we  read  recorded  in  the  history  of  Sylla,  which  hap  pened  under  your  own  eyes.  For  when  Sylla  was  in  the  territory  of  Nola,  and  was  sacrificing  in  front  of  his  tent,  a  serpent  suddenly  glided  out  from  beneath  the  altar;  and  when,  upon  this,  the  soothsayer  Posthumius  exhorted  him  to  give  orders  for  the  immediate  march  of  the  army,  Sylla  obeyed  the  injunction,  and  entirely  defeated  the  Samnites,  who  lay  before  Nola,  and  took  possession  of  their  richly-  provided  camp.   It  was  by  this  kind  of  conjectural  divination  that  the  fortune  of  the  tyrant  Dionysius  was  announced  a  little  before  the  commencement  of  his  reign ;  for  when  he  was  travelling  through  the  territory  of  Leontini,  he  dismounted  and  drove  his  horse  into  a  river ;  but  the  horse  was  carried  away  by  the  current,  and  Dionysius,  not  being  able  with  all  his  efforts  to  extricate  him,  departed,  as  Philistus  reports,  lamenting  his  loss.  Some  time  afterwards,  as  he  was  journeying  further  down  the  river,  he  suddenly  heard  a  neighing,  and  to  his  great  joy  found  his  horse  in  very  comfortable  condition,  with  a  swarm  of  bees  hanging  on  his  mane.  And  this  prodigy    176  OX   DIVINATION.   intimated  the  event  which  took  place  a  few  days  after  this,  when  Dionysius  was  called  to  the  throne.   XXXIV.  Need  I  say  more  1     Ho\v  many  intimations  were  given  to  the  Lacedaemonians  a  short  time  before  the  disaster  of  Leuctra,  when  arms  rattled  in  the  temple  of  Hercules,  and  his  statue  streamed  with  profuse  sweat !     At  the  same  time,  at  Thebes  (as  Callisthenes  relates),  the  folding-doors  in  the  temple  of  Hercules,  which  were  closed  with  bars,  opened  of  their  own  accord,  and  the  armour  which  was  suspended  on  the  walls  was  found  fallen  to  the  ground.     And  at  the  same  period,  at  Lebadia,  where  divine  rites  were  being  performed  in  honour  of  Trophonius,  all  the  cocks  in  the  neighbourhood  began  to  crow  so  incessantly  as  never  to  leave  off  at  all ;  and  the  Boeotian  augurs  affirmed  that  this  was  a  sign  of  victory  to  the  Thebans.  because  these  birds  crow  only  on  occasions  of  victory,  and  maintain  silence  in  case  of  defeat.   Many  other  signs,  at  this  time,  announced  to  the  Spartans  the  calamities  of  the  battle  of  Leuctra;  for,  at  Delphi,  on  the  head  of  the  statue  of  Lysander,  who  was  the  most  famous  of  the  Lacedaemonians,  there  suddenly  appeared  a  garland  of  wild  prickly  herbs.  And  the  golden  stars  which  the  Lacedae  monians  had  set  up  as  symbols  of  Castor  and  Pollux,  in  the  temple  of  Delphi,  after  the  famous  naval  victory  of  Lysander,  in  which  the  power  of  Athens  was  broken,  because  those  divinities  were  reported  to  have  appeared  in  the  Lacedaj-  monian  fleet  during  that  engagement,  fell  down,  and  were  seen  no  more.   And  the  greatest  of  all  the  prodigies  which  were  sent  as  warnings  to  those  same  Lacedaemonians,  happened  when  they  sent  to  consult  the  oracle  of  Jupiter  at  Dodona  on  the  success  of  the  combat;  and  when  the  ambassadors  had  cast  their  questions  into  the  urn  from  which  the  responses  were  to  be  drawn,  an  ape,  whom  the  king  of  Molossus  kept  as  a  pet,  dis  turbed  and  confounded  all  the  lots,  and  everything  else  which  had  been  prepared  for  the  purpose  of  giving  a  reply  in  due  form.  Upon  which  the  priestess  who  presided  at  the  oracular  rites,  declared  that  the  Lacedaemonians  must  rather  look  to  their  safety  than  expect  a  victory.   XXXV.  Must  I  say  more  1    In  the  second  Punic  war,  when  Flaminius,  being  consul  for  the  second  time,  despised  the  signs  of  future  events,  did  he  not  by  such  conduct  occasion    OX    D1VIXATION.  177   great  disasters  to  the  state  ?  For  when,  after,  having  reviewed  the  troops,  he  was  moving  his  camp  towards  Arezzo,  and  leading  his  legions  against  Hannibal,  his  horse  suddenly  fell  with  him  before  the  statue  of  Jupiter  Stator,  without  any  apparent  cause.  But  though  those  who  were  skilful  in  divina  tion  declared  it  was  an  evident  sign  from  the  Gods  that  he  should  not  engage  in  battle,  he  paid  no  attention  to  it.  After  wards,  when  it  was  proposed  to  consult  the  auspices  by  the  consecrated  chickens,  the  augur  indicated  the  propriety  of  deferring  the  battle.  Flaminius  asked  him  what  was  to  be  done  the  next  day,  if  the  chickens  still  refused  to  feed  ?  He  replied  that  in  that  case  he  must  still  rest  quiet.  "  Fine  auspices,  indeed,"  replied  Flaminius,  "  if  we  may  only  fight  when  the  chickens  are  hungry,  but  must  do  nothing  if  they  are  full."  And  so  he  commanded  the  standards  to  be  moved  forward,  and  the  army  to  follow  him ;  on  which  occasion,  the  standard-bearer  of  the  first  battalion  could  not  extricate  his  standard  from  the  ground  in  which  it  was  pitched,  and  several  soldiers  who  endeavoured  to  assist  him  were  foiled  in  the  attempt.  Flaminius,  to  whom  they  related  this  incident,  despised  the  warning,  as  was  usual  with  him ;  and  in  the  course  of  three  hours  from  that  time,  the  whole  of  his  army  was  routed,  and  he  himself  slain.   And  it  is  a  wonderful  story,  too,  that  is  told  by  Coelius,  as  having  happened  at  this  very  time,  that  such  great  earth  quakes  took  place  in  Liguria,  Gallia,  and  many  of  the  islands,  and  throughout  all  Italy,  that  many  cities  were  destrojred,  and  the  earth  was  broken  into  chasms  in  many  places,  and  rivers  rolled  backwards,  while  the  waters  of  the  sea  rushed  into  their  channels.   XXXVI.  Skilful  diviners  can  certainly  derive  correct  pre  sentiments  from  slight  circumstances.  When  Midas,  who  be  came  king  of  Phrygia,  was  yet  an  infant,  some  ants  crammed  some  grains  of  wheat  into  his  mouth  while  he  was  sleep  ing.  On  this  the  diviners  predicted  that  he  would  become  exceedingly  rich, as  indeed  afterwards  happened.  While  Plato  was  an  infant  in  his  cradle,  a  swarm  of  bees  settled  on  his  lips  during  his  slumbers ;  and  the  diviners  answered  that  he  would  become  extremely  eloquent ;  and  this  prediction  of  his  future  eloquence  was  made  before  he  even  knew  how  to  speak.   DE  NAT.  ETC.  N    178  ON    DIVINATION.   Why  should  I  speak  of  your  dear  and  delightful  friend,  Roscius  1  Did  he  tell  lies  himself,  or  did  the  whole  city  of  Lanuvium  tell  lies  for  him  ?  When  he  was  in  his  cradle  at  Solonium,  where  he  was  being  brought  up, — (a  place  which  belongs  to  the  Lanuvian  territory.) — the  story  goes,  that  one  night,  there  being  a  light  in  the  room,  his  nurse  arose  and  found  a  serpent  coiled  around  him,  and  in  her  alarm  at  this  sight  she  made  a  great  outcry.  The  father  of  Roscius  related  the  circumstance  to  the  soothsayers,  and  they  answered  that  the  child  would  become  preeminently  distinguished  and  illus  trious.  This  adventure  was  afterwards  engraved  by  Praxiteles  in  silver,  and  our  friend  Archias  celebrated  it  in  verse.   What,  then,  are  we  waiting  for  1  Are  we  to  wait  till  the  Gods  are  conversant  with  us  and  our  affairs,  while  we  are  in  the  forum,  and  on  our  journeys,  and  when  we  are  at  home?  yet  though  they  do  not  openly  discover  themselves  to  us,  they  diffuse  their  divine  influence  far  and  wide — an  influence  which  they  not  only  inclose  in  the  caverns  of  the  earth,  but  sometimes  extend  to  the  constitutions  of  men.  For  it  was  this  divine  influence  of  the  earth  which  inspired  the  Pythia  at  Delphi,  while  the  Sibyl  received  her  power  of  divination  from  nature.  Why  should  we  wonder  at  this  1  Do  we  not  see  how  various  are  the  species  and  specific  properties  of  earths  1  — of  which  some  parts  are  injurious,  as  the  earth  of  Amp-  sanctus  in  Hirpinum,  and  the  Plutonian  land  in  Asia :  and  some  portions  of  the  soil  of  the  fields  are  pestilential,  others  salubrious ;  some  spots  produce  acute  capacities,  others  heavy  characters.  All  which  things  depend  on  the  varieties  of  atmosphere,  and  are  inequalities  of  the  exhalations  of  the  different  soils.   It  likewise  often  happens  that  minds  are  affected  more  or  less  powerfully  by  certain  expressions  of  countenance,  and  certain  tones  of  voice  and  modulations, — often  also  by  fits  of  anxiety  and  terror — a  condition  indicated  in  these  lines  of  the  poet : —   Madden'd  in  heart,  and  weeping  like  as  one  By  the  mysterious  rites  of  Bacchus  wrought  Into  wild  ecstasy,  she  wanders  lone  Amid  the  tombs,  and  mourns  her  Teucer  lost.   XXXVII.  And  this  state  of  excitement  also  proves  that  there  is  a  divine  energy  in  human  souls.  And  so  Democritus    ON    DIVINATION.  17!)   asserts,  that  without  something  of  this  ecstasy  no  man  can  become  a  great  poet ;  and  Plato  utters  the  same  sentiment :  and  he  may  call  this  poetic  inspiration  an  ecstasy  or  madness  as  much  as  he  pleases,  so  long  as  he  eulogizes  it  as  eloquently  as  he  does  in  his  Phecdon.   What  is  your  art  of  oratory  in  pleading  causes  1  What  is  your  action  ?  Can  it  be  forcible,  commanding,  and  copious,  unless  your  mind  and  heart  are  in  some  degree  animated  by  a  kind  of  inspiration  1  I  have  often  beheld  in  yourself,  and,  to  descend  to  a  less  dignified  example,  even  in  your  friend  ufEsop,  such  fire  and  splendour  of  expression  and  action,  that  it  seemed  as  if  some  potent  inspiration  had  altogether  ab  stracted  him  from  all  present  sensation  and  thought.   Besides  this,  forms  often  come  across  us  which  have  no  real  existence,  but  which  nevertheless  have  a  distinct  appear  ance.  Such  an  apparition  is  said  to  have  occurred  to  Bren-  ims,  and  to  his  Gallic  troops,  when  he  was  waging  an  impious  war  upon  the  temple  of  Apollo  at  Delphi.  For  on  that  occa  sion  it  is  reported  that  the  Pythian  priestess  pronounced  these  words  : — "  I  and  the  white  virgins  will  provide  for  the  future."  In  accordance  with  which,  it  happened  that  the  Gauls  fancied  that  they  saw  white  virgins  bearing  arms  against  them,  and  that  their  entire  army  was  overwhelmed  in  the  snow.   Aristotle  thinks  that  those  who  become  ecstatic  or  furious  through  some  disease,  especially  melancholy  persons,  possess  a  divine  gift  of  presentiment  in  their  minds.   XXXVIII.  But  I  know  not  whether  it  is  right  to  attribute  anything  of  this  kind  to  men  with  diseases  of  the  stomach,  or  to  persons  in  a  frenzy,  for  time  divination  rather  appertains  to  a  sound  mind  than  to  a  sick  body.   The  Stoics  attempt  to  prove  the  reality  of  divination  in  this  way: — If  there  are  Gods,  and  they  do  not  intimate  future  events  to  men,  they  either  do  not  love  men,  or  they  are  ignorant  of  the  future ;  or  else  they  conceive  that  know  ledge  of  the  future  can  be  of  no  service  to  men ;  or  they  con  ceive  that  it  does  not  become  their  majesty  to  condescend  to  intimate  beforehand  what  must  be  hereafter;  or  lastly,  we  must  say  that  even  the  Gods  themselves  cannot  tell  how  to  forewarn  us  of  them.   But  it  is  not  true  that  the  Gods  do  not  love  men,  for  they   N2    180  ON   DIVINATION.   are  essentially  benevolent  and  philanthropic ;  and  they  cannot  be  ignorant  of  those  events  which  take  place  by  their  own  direction  and  appointment.  Again,  it  cannot  be  a  matter  of  indifference  to  us  to  be  apprised  of  what  is  about  to  happen,  for  we  shall  become  more  cautious  if  we  do  know  such  things.  Nor  do  they  think  it  beneath  their  dignity  to  give  such  inti  mations,  for  nothing  is  more  excellent  than  beneficence.  And  lastly,  the  Gods  cannot  be  ignorant  of  future  events.  There  fore  there  are  no  Gods,  and  they  do  not  give  intimations  of  the  future.  But  there  are  Gods :  so  therefore  they  do  give  such  intimations ;  and  if  they  do  give  such  intimations,  they  must  have  given  us  the  means  of  understanding  them,  or  else  they  would  give  their  information  to  no  purpose.  And  if  they  do  give  us  such  means,  divination  must  needs  exist;  therefore  divination  does  exist.   XXXIX.  Such  is  the  argument  in  favour  of  divination  by  which  Chrysippus,  Diogenes,  and  Antipater  endeavour  to  demonstrate  their  side  of  the  question.  Why,  then,  should  any  doubt  be  entertained  that  the  arguments  that  I  have  advanced  are  entirely  true?  If  both  reason  and  fact  are  on  my  side, — if  whole  nations  and  peoples,  Greeks  and  barbarians,  and  our  own  ancestors  also,  confirm  all  my  assertions, — if  also  it  has  always  been  maintained  by  the  greatest  philosophers  and  poets,  and  by  the  wisest  legislators  who  have  framed  constitutions  and  founded  cities,  must  we  wait  till  the  very  animals  give  their  verdict?  and  may  not  we  be  content  with  the  unanimous  authority  of  all  mankind1?  Nor  indeed  is  any  other  argument  brought  forward  to  prove  that  all  these  kinds  of  divination  which  I  uphold  have  no  existe  nce,  than  that  it  appears  difficult  to  explain  what  are  the  different  principles  and  causes  of  each  kind  of  divination.  For  what  reason  can  the  soothsayer  allege  why  an  injury  in  the  lungs  of  otherwise  favourable  entrails  should  compel  us  to  alter  a  day  previously  appointed,  and  defer  au  enterprise?  How  can  an  augur  ex  plain  why  the  croak  of  a  raven  on  the  right  hand,  and  a  crow  on  the  left,  should  be  reckoned  a  good  omen?  What  can  an  astrologer  say  by  way  of  explaining  why  a  conjunction  of  the  planet  Jupiter  or  Venus  with  the  moon  is  propitious  at  the  birth  of  a  child,  and  why  the  conjunction  of  Saturn  or  Mars  is  injurious?  or  why  God  should  warn  us  during  sleep,  and  neglect  us  when  we  are  awake  ?  or  lastly,  what  is  the  reason    ON    DIVINATION.  181   why  the  frantic  Cassandra  could  foresee  future  events,  while  the  sage  Priam  remained  ignorant  of  them?   Do  you  ask  why  everything  takes  place  as  it  does?  Very  right;  but  that  is  not  the  question  now;  what  we  are  trying  to  find  out  is  whether  such  is  the  case  or  not.  As,  if  I  were  to  assert  that  the  magnet  is  a  kind  of  stone  which  attracts  and  draws  iron  to  itself,  but  were  unable  to  give  the  reason  why  that  is  the  case,  would  you  deny  the  fact  altogether  ?  And  you  treat  the  subject  of  divination  in  the  same  way,  though  we  see  it,  and  hear  of  it,  and  read  of  it,  and  have  received  it  as  a  tradition  from  our  ancestors.  Nor  did  the  world  in  general  ever  doubt  of  it  before  the  introduction  of  that  philosophy  which  has  recently  been  invented,  and  even  since  the  appearance  of  philosophy,  no  philosopher  who  was  of  any  authority  at  all  has  been  of  a  contrary  opinion.  I  have  already  quoted  in  its  favour  Pythagoras,  Democritus,  and  Socrates.  There  is  no  exception  but  Xenophanes  among  the  ancients.  I  have  likewise  added  the  old  Academicians,  the  Peripatetics,  and  the  Stoics :  all  supported  divination ;  Epi  curus  alone  was  of  the  opposite  opinion.  But  what  can  be  more  shameless  than  such  a  man  as  he,  who  asserted  that  there  was  no  gratuitous  and  disinterested  virtue  in  the  world?   XL.  But  what  man  is  there  who  is  not  moved  by  the  testi  mony  and  declarations  of  antiquity?  Homer  writes  that  Cal-  chas  was  a  most  excellent  augur,  and  that  he  conducted  the  fleet  of  the  Greeks  to  Troy, — more,  I  imagine,  by  his  know  ledge  of  the  auspices  than  of  the  country.  Amphilochus  and  Mopsus  were  kings  of  the  Argives,  and  also  augurs,  and  built  the  Greek  cities  on  the  coast  of  Cilicia.  And  before  them  lived  Amphiaraus  and  Tiresias,  men  of  no  lowly  rank  or  ob  scure  fame,  not  like  those  men  of  whom  Ennius  says —They  hire  out  their  prophecies  for  gold  :   no ;  they  were  renowned  and  first  rate  men,  who  predicted  the  future  by  means  of  the  knowledge  which  they  derived  from  birds  and  omens;  and  Homer,  speaking  of  the  latter  even  in  the  infernal  regions,  says  that  he  alone  was  con  sistently  wise,  while  others  were  wandering  about  like  shadows.  As  to  Amphiaraus,  he  was  so  honoured  by  the  general  praise  of  all  Greece,  that  he  was  accounted  a  god,  and  oracles  were  established  at  the  spot  where  he  was  buried.    182  ON   DIVINATION.   Why  need  I  speak  of  Priam  king  of  Asia?  had  not  he  two  children  possessed  of  this  gift  of  divination,  namely  a  son  named  Helenus,  and  a  daughter  named  Cassandra,  who  both  prophesied,  one  by  means  of  auspices,  the  other  through  an  excited  state  of  mind  and  divine  inspiration1?  of  which  de  scription  likewise  were  two  brothers  of  the  noble  family  of  the  Marcii,  who  are  recorded  as  having  lived  in  the  days  of  our  ancestors.  Does  not  Homer  inform  us,  too,  that  Polyidus  the  Corinthian  predicted  the  various  fates  of  many  persons,  and  the  death  of  his  son  when  he  was  going  to  the  siege  of  Troy?  And  as  a  general  rule,  among  the  ancients,  those  who  were  possessed  of  authority  \asually  also  possessed  the  know  ledge  of  auguries;  for,  as  they  thought  wisdom  a  regal  attri  bute,  so  also  did  they  esteem  divination.  And  of  this  our  state  of  Rome  is  an  instance,  in  which  several  of  our  kings  were  also  augurs,  and  afterwards  even  private  persons,  endued  with  the  same  sacerdotal  office,  ruled  the  commonwealth  by  the  authority  of  religion.   XLI.  And  this  kind  of  divination  has  not  been  neglected  even  by  barbarous  nations ;  for  the  Druids  in  Gaul  are  diviners,  among  whom  I  myself  have  been  acquainted  with  Divitiacus  vEduus,  your  own  friend  and  panegyrist,  who  pretends  to  the  science  of  nature  which  the  Greeks  call  physiology,  and  who  asserts  that,  partly  by  auguries  and  partly  by  conjecture,  he  foresees  future  events.  Among  the  Persians  they  have  augurs  and  diviners,  called  magi,  who  at  certain  seasons  all  assemble  in  a  temple  for  mutual  conference  and  consultation ;  as  your  college  also  used  once  to  do  on  the  nones  of  the  month.  And  no  man  can  become  a  king  of  Persia  who  is  not  previously  initiated  in  the  doctrine  of  the  magi.   There  are  even  whole  families  and  nations  devoted  to  divina  tion.  The  entire  city  of  Telmessus  in  Caria  is  such.  Likewise  in  Elis,  a  city  of  Peloponnesus,  there  are  two  families,  called  lamidse  and  ClutidoD,  distinguished  for  their  proficiency  in  divination.  And  in  Syria  the  Chaldeans  have  become  famous  for  their  astrological  predictions,  and  the  subtlety  of  their  genius.  Etruria  is  especially  famous  for  possessing  an  inti  mate  acquaintance  with  omens  connected  with  thunderbolts  and  things  of  that  kind,  and  the  art  of  explaining  the  signi  fication  of  prodigies  and  portents.  This  is  the  reason  why  our  ancestors,  during  the  flourishing  days  of  the  empire,    ON   DIVINATION.  183   enacted  that  six  of  the  children  of  the  principal  senators  should  be  sent,  one  to  each  of  the  Etrurian  tribes,  to  be  instructed  in  the  divination  of  the  Etrurians,  in  order  that  this  science  of  divination,  so  intimately  connected  with  reli  gion,  might  not,  owing  to  the  poverty  of  its  professors,  be  cultivated  for  merely  mercenary  motives,  and  falsified  by  bribery.   The  Phrygians,  the  Pisidians,  the  Cilicians,  and  Arabians  are  accustomed  to  regulate  many  of  their  affairs  by  the  omens  which  they  derive  from  birds.  And  the  Umbrians  do  the  same,  according  to  report.   XLII.  It  appears  to  me  that  the  different  characteristics  of  divination  have  originated  in  the  nature  of  the  localities  themselves  in  which  they  have  been  cultivated.  For  as  the  Egyptians  and  Babylonians,  who  reside  in  vast  plains,  where  no  mountains  obstruct  their  view  of  the  entire  hemisphere,  have  applied  themselves  principally  to  that  kind  of  divination  called  astrology,  the  Etrurians,  on  the  other  hand,  because  they,  as  men  more  devoted  to  the  rites  of  religion,  were  used  to  sacrifice  victims  with  more  zeal  and  frequency,  have  espe  cially  applied  themselves  to  the  examination  of  the  entrails  of  animals;  and  as,  from  the  character  of  their  climate  and  the  denseness  of  their  atmosphere,  they  are  accustomed  to  witness  many  meteorological  phenomena,  and  because  for  the  same  reason  many  singular  prodigies  take  place  among  them,  arising  alike  from  heaven  or  from  earth,  and  even  from  the  concep  tions  or  offspring  of  men  or  cattle,  they  have  become  won  derfully  skilful  in  the  interpretation  of  such  curiosities,  the  force  of  which,  as  you  often  say,  is  clearly  declared  by  the  very  names  given  to  them  by  our  ancestors,  for  because  they  point  out  (ostendunt},  portend,  show  (monstrant),  and  predict,  they  are  called  ostents,  portents,  monsters,  and  prodigies.   Again,  the  Arabians,  the  Phrygians,  and  Cilicians,  because  they  rear  large  herds  of  cattle,  and,  both  in  summer  and  winter,  traverse  the  plains  and  mountainous  districts,  have  on  that  account  taken  especial  notice  of  the  songs  and  flight  of  birds.  The  Pisidians,  and  in  our  country  the  Umbrians,  have  applied  themselves  to  the  same  art  for  the  same  reason.  The  whole  nation  of  the  Carians,  and  most  especially  the  Telmessians,  who  reside  in  the  most  productive  and  fertile  plains,  in  which  the  exuberance  of  nature  gives  birth  to  many  extraordinary    184  ON    DIVINATION.   productions,  have  been  very  careful  in  the  observation  of  prodigies.   XL1II.  But  who  can  shut  his  eyes  to  the  fact  that  in  every  well  constituted  state  auspices,  and  other  kinds  of  divi  nation,  have  been  much  esteemed?  What  monarch  or  what  people  has  ever  neglected  to  make  use  of  them  in  the  trans  actions  of  peace,  and  still  more  especially  in  time  of  war,  when  the  safety  or  welfare  of  the  commonwealth  is  implicated  in  a  greater  degree?  I  do  not  speak  merely  of  our  own  countrymen, — who  have  never  undertaken  any  martial  enter  prise  without  inspection  of  the  entrails,  and  who  never  con  duct  the  affairs  of  the  city  without  consulting  the  auspices, —  I  rather  allude  to  foreign  nations.  The  Athenians,  for  ex  ample,  always  consulted  certain  divining  priests,  (whom  they  called  yaavrei?,)  when  they  convoked  their  public  assemblies.  The  Spartans  always  appointed  an  augur  as  the  assessor  of  their  king,  and  also  they  ordained  that  an  augur  should  be  present  at  the  council  of  their  Elders,  which  was  the  name  they  gave  to  their  public  council;  and  in  every  important  transaction  they  invariably  consulted  the  oracle  of  Apollo  at  Delphi,  or  that  of  Jupiter  Harnmon,  or  that  of  Dodona.  Lycurgus,  who  formed  the  Lacedaemonian  commonwealth,  desired  that  his  code  of  laws  should  receive  confirmation  from  the  authority  of  Apollo  at  Delphi ;  and  when  Lysander  sought  to  change  them,  the  same  authority  forbade  his  innovations.  Moreovei',  the  Spartan  magistrates,  not  content  with  a  careful  superintendence  of  the  state  affairs,  went  occasionally  to  spend  a  night  in  the  temple  of  Pasiphae,  which  is  in  the  country  in  the  neighbourhood  of  their  city,  for  the  sake  of  dreaming  there,  because  they  considered  the  oracles  received  in  sleep  to  be  true.   But  I  return  to  the  divination  of  the  Eomans.  How  often  has  our  senate  enjoined  the  decemvirs  to  consult  the  books  of  the  Sibyls !  For  instance,  when  two  suns  had  been  seen,  or  when  three  moons  had  appeared,  and  when  flames  of  fire  were  noticed  in  the  sky ;  or  on  that  other  occasion,  when  the  sun  was  beheld  in  the  night,  when  noises  were  heard  in  the  sky,  and  the  heaven  itself  seemed  to  burst  open,  and  strange  globes  were  remarked  in  it.  Again,  information  was  laid  before  the  senate,  that  a  portion  of  the  territory  of  Privernum  had  been  swallowed  up,  and  that  the  land  had  sunk  down  to    ON    DIVINATION.  185   an  incredible  depth,  and  that  Apulia  had  been  convulsed  by  terrific  earthquakes;  which  portentous  events  announced  to  the  Romans  terrible  wars  and  disastrous  seditions.  On  all  these  occasions  the  diviners  and  their  auspices  were  in  perfect  accordance  with  the  prophetic  verses  of  the  Sibyl.   Again,  when  the  statue  of  Apollo  at  Cuma  was  covered  with  a  miraculous  sweat,  and  that  of  Victory  was  found  in  the  same  condition  at  Capua,  and  when  the  hermaphrodite  was  born, — were  not  these  things  significant  of  horrible  dis  asters?  Or  again,  when  the  Tiber  was  discoloured  writh  blood,  or  when,  as  has  often  happened,  showers  of  stones,  or  sometimes  of  blood,  or  of  mud,  or  of  milk,  have  fallen, — when  the  thunder  bolt  fell  on  the  Centaur  of  the  Capitol,  and  struck  the  gates  of  Mount  Aventine,  and  slew  some  of  the  inhabitants;  or  again,  when  it  struck  the  temple  of  Castor  and  Pollux  at  Tusculum,  and  the  temple  of  Piety  at  Rome, — did  not  the  soothsayers  in  reply  announce  the  events  which  subsequently  took  place,  and  were  not  similar  predictions  found  in  the  Sibylline  volumes'?   XLIV.  How  often  has  the  senate  commanded  the  decemvirs  to  consult  the  Sibylline  books!  In  what  important  affairs,  and  how  often  has  it  not  been  guided  wholly  by  the  answers  of  the  soothsayers !  In  the  Marsic  war,  not  long  ago,  the  temple  of  Juno  the  Protectress  was  restored  by  the  senate,  which  was  excited  to  this  holy  act  by  a  dream  of  Csccilia,  the  daughter  of  Quintus  Metellus.  But  after  Sisenna,  who  men  tions  this  dream,  had  related  the  wonderful  correspondence  of  the  event  with  the  prediction,  he  nevertheless  (being  influ  enced,  I  suppose,  by  some  Epicurean)  proceeded  to  argue  that  dreams  should  never  be  trusted :  however,  he  states  nothing  against  the  credit  of  the  prodigies  wrhich  took  place,  and  which  he  reports,  at  the  beginning  of  the  Marsic  war1,  when  the  images  of  the  gods  were  seen  to  sweat,  and  blood  flowed  in  the  streams,  and  the  heavens  opened,  and  voices  were  heard  from  secret  places,  which  foretold  the  dangers  of  the  combat;  and  at  Lanuvium  the  sacred  bucklers  were  found  to  have  been  gnawed  by  mice,  which  appeared  to  the  augurs  the  worst  presage  of  all.   Shall  I  add  further  what  we  read  recorded  in  our  annals,  thnt  in  the  war  against  the  Veientes,  when  the  Alban  lake  had  risen  enormously,  one  of  their  most  distinguished  nobles    186  OX    DIVINATION.   came  over  to  us  and  said,  that  it  \vas  predicted  in  the  sacred  books  concerning  the  destinies  of  the  Veientes,  which  they  had  in  their  own  possession,  that  their  city  could  never  be  captured  while  the  lake  remained  full ;  and  that  if,  when  the  lake  was  opened,  its  waters  were  allowed  to  run  into  the  sea,  the  .Romans  would  suffer  loss, — if,  on  the  contrary,  they  were  so  drawn  off  that  they  did  not  reach  the  sea,  then  we  should  have  good  success?  And  from  this  circumstance  arose  the  series  of  immense  labours,  subsequently  undertaken  by  our  ancestors  in  conducting  away  the  waters  of  the  Alban  lake.  But  when  the  Veientes,  being  weary  of  war,  sent  ambassadors  to  the  Roman  senate,  one  of  them  exclaimed  that  that  de  serter  had  not  ventured  to  tell  them  all  he  knew,  for  that  in  those  same  sacred  books  it  was  predicted  that  Rome  should  soon  be  ravaged  by  the  Gauls, — an  event  which  happened  six  years  after  the  city  of  Veii  surrendered.   XLV.  The  cry  of  the  fauns,  too,  has  often  been  heard  in  battle;  and  prophetic  voices  have  often  sounded  from  secret  places  in  periods  of  trouble ;  of  which,  among  others,  we  have  two  notable  examples, — for  shortly  before  the  capture  of  Rome  a  voice  was  heard  which  proceeded  from  the  grove  of  Vesta,  which  skirts  the  new  road  at  the  foot  of  the  Palatine  Hill,  exhorting  the  citizens  to  repair  the  walls  and  gates,  for  that  if  they  were  not  taken  care  of  the  city  would  be  taken.  The  injunction  was  neglected  till  it  was  too  late,  and  it  after  wards  was  awfully  confirmed  by  the  fact.  After  the  disaster  had  occurred,  our  citizens  erected  an  altar  to  Aius  the  Speaker,  which  we  may  still  see  carefully  fenced  round,  opposite  the  spot  where  the  warning  was  uttered.  Many  authors  have  reported  that  once,  after  a  great  earthquake  had  happened,  they  heard  a  voice  from  the  temple  of  Juno,  commanding  that  expiation  should  be  made  by  the  sacrifice  of  a  pregnant  sow,  and  hence  it  was  afterwards  called  the  temple  of  Juno  the  Admonitress.  Shall  we  then  despise  these  oracular  inti  mations,  which  the  Gods  themselves  vouchsafed  us,  and  which  our  ancestors  have  confirmed  by  their  testimony  ?   The  Pythagoreans  had  not  only  high  reverence  for  the  voice  of  the  Gods,  but  they  likewise  respected  the  warnings  of  men  (hominum),  which  they  call  omina.  And  our  ancestors  were  persuaded  that  much  virtue  resides  in  certain  words,  and  therefore  prefaced  their  various  enterprises  with  certain    OX    DIVINATION.  187   auspicious  phrases,  such  as,  "  May  good  and  prosperous  and  happy  fortune  attend."  They  commenced  all  the  public  cere  monies  of  religion  with  these  words, — "  Keep  silence ;  "  and  when  they  announced  any  holidays,  they  commanded  that  all  lawsuits  and  quarrels  should  be  suspended.  Likewise,  wheu  the  chief  who  forms  a  colony  makes  a  lustration  and  review  of  it,  or  when  a  general  musters  an  army,  or  a  censor  the  people,  they  always  choose  those  who  have  lucky  names  to  prepare  the  sacrifices.  The  consuls  in  their  military  enrol  ments  likewise  take  care  that  the  first  soldier  enrolled  shall  be  one  with  a  fortunate  name ;  and  you  know  that  you  your  self  were  very  attentive  to  these  ceremonial  observances  when  you  were  consul  and  imperator.  Our  ancestors  have  likewise  enjoined  that  the  name  of  the  tribe  which  had  the  precedence  should  be  regarded  as  the  presage  of  a  legitimate  assembly  of  the  Comitia.   XLVI.  And  of  presages  of  this  kind  I  can  relate  to  you  several  celebi'ated  examples.  Under  the  second  consulship  of  Lucius  Paulus,  when  the  charge  of  making  war  against  the  king  Perses  had  been  allotted  to  him,  it  happened  that  on  the  evening  of  that  very  same  day,  when  he  returned  home  and  kissed  his  little  daughter  Tertia,  he  noticed  that  she  was  very  sorrowful.  "  What  is  the  matter,  my  Tertia,"  said  he,  "  why  are  you  so  sad? "  "  My  father,"  replied  she,  "  Perses  has  perished."  Upon  which  he  caught  her  in  his  arms,  and  caressing  her,  exclaimed,  "  I  embrace  the  omen,  my  daughter."  But  the  real  truth  was,  that  her  dog,  who  happened  to  be  called  Perses,  had  died.   I  have  heard  Lucius  Flaccus,  a  priest  of  Mars,  say,  that  Csecilia,  the  daughter  of  Metellus,  intending  to  make  a  matri  monial  engagement  for  her  sister's  daughter,  went  to  a  certain  temple,  in  order  to  procure  an  omen,  according  to  the  ancient  custom.  Here  the  maiden  stood,  and  Ctecilia  sat  for  a  long  time  without  hearing  any  sound,  till  the  girl,  who  grew  tired  of  standing,  begged  her  aunt  to  allow  her  to  occupy  her  seat  for  a  short  period,  in  order  to  rest  herself.  Csecilia  replied,  "Yes,  my  child,  I  willingly  resign  my  seat  to  you."  And  this  reply  of  hers  was  an  omen,  confirmed  by  the  event,  for  Ceecilia  died  soon  after,  and  her  niece  married  her  aunt's  husband.  I  know  that  men  may  despise  such  stories,  or  even  laugh  at  them,  but  such  conduct  amounts  to  a  disbelief  in  the    188  ON   DIVINATION.   existence  of  the  Gods  themselves,  and  to  a  contempt  of  their  revealed  will.   XLVII.  Why  need  I  speak  of  the  augurs  1 — that  part  of  the  qxiestion  concerns  you.  The  defence  of  the  auguries,  I  say,  belongs  peculiarly  to  you.  When  you  were  a  consul,  Publius  Claudius,  who  was  one  of  the  augurs,  announced  to  you,  when  the  augury  of  the  Goddess  Salus  was  doubted,  that  a  disas  trous  domestic  and  civil  war  would  take  place,  which  happened  a  few  months  afterwards,  but  was  suppressed  by  your  exer  tions  in  still  fewer  days.  And  I  highly  approve  of  this  augur,  who  alone  for  a  long  period  remained  constant  to  the  study  of  divination,  without  making  a  parade  of  his  auguries,  while  his  colleagues  and  yours  persisted  in  laughing  at  him,  sometimes  terming  him  an  augur  of  Pisidia  or  Sora  by  way  of  ridicule.   Those  who  assert  that  neither  auguries  nor  auspices  can  give  us  any  insight  into  or  foreknowledge  of  the  future,  say  that  they  are  mere  superstitious  practices,  wisely  invented  to  impose  on  the  ignorant;  which,  however,  is  far  from  being  the  case  :  for  our  pastoral  ancestors  under  Romulus  were  not,  nor  indeed  was  Romulus  himself,  so  crafty  and  cunning  as  to  in  vent  religious  impositions  for  the  purpose  of  deceiving  the  mul  titude.  But  the  difficulty  of  acquiring  a  thorough  knowledge  of  the  auspices  renders  many  who  are  indifferent  to  them  eloquent  in  their  disparagement,  for  they  would  rather  deny  that  there  is  anything  in  the  auspices  than  take  the  pains  of  studying  what  there  really  is.  What  can  be  more  divine  than  that  prediction,  which  you  cite  in  your  poem  of  Marius,  that  I  may  quote  your  owrn  authority  in  favour  of  my  argument? —   Jove's  eagle,  wounded  by  a  serpent's  bite,   In  his  strong  talons  caught  the  writhing  snake,   And  with  his  goring  beak  tortured  his  foe   And  slaked  his  vengeance  in  his  blood.     At  last   He  let,  the  venomous  reptile  from  on  high   Fall  in  the  whelming  flood,  then  wing'd  his  flight   To  the  far  east.     Marius  beheld,  and  mark'd   The  augury  divine,  and  inly  smiled   To  view  the  presage  of  his  coming  fame  ;   Meanwhile  the  thunder  sounded  on  the  left,   And  thus  confirm'd  the  omen.   XLVIII.  Moreover,  the  augurial  system  of  Romulus  was    ON    DIVINATION.  189   a  pastoral  rather  than  a  civic  institution.  Nor  was  it  framed  to  suit  the  opinions  of  the  ignorant,  but  derived  from  men  of  approved  skill,  and  so  handed  down  to  posterity  by  tradition.  Therefore  Romulus  was  himself  an  augur  as  well  as  his  brother  Remus,  if  we  may  trust  the  authority  of  Ennius, —   Both  wish'd  to  reign,  arid  both  agreed  to  abide   The  fair  decision  of  the  augury   Here  Remus  sat  alone,  and  watch 'd  for  signs   Of  fav'ring  omen,  while  fair  Eomulus   On  the  Aventine  summit  raised  his  eyes   To  see  what  lofty  flying  birds  should  pass.   A  goodly  contest  which  should  rule,  and  which   With  his  own  name  should  stamp  the  future  city.   Now  like  spectators  in  the  circus,  till   The  consul's  signal  looses  from  the  goal   The  eager  chariots,  so  the  obedient  crowd   Awaited  the  strife's  victor  and  their  king.   The  golden  sun  departed  into  night,   And  the  pale  moon  shone  with  reflected  ray,   When  on  the  left  a  joyful  bird  appear'd,   And  golden  Sol  brought  back  the  radiant  day.   Twelve  holy  forms  of  Jove-directed  birds   Wing'd  their  propitious  flight.     Great  Romulus   The  omen  hail'd,  for  now  to  him  was  given   The  power  to  found  and  name  th"  eternal  city.   XLIX.  Now,  however,  let  us  return  to  the  original  point  from  which  we  have  been  digressing.  Though  I  cannot  give  you  a  reason  for  all  these  separate  facts,  and  can  only  distinctly  assert  that  those  things  which  I  have  spoken  of  did  really  happen,  yet  have  I  not  sufficiently  answered  Epicurus  and  Carneades  by  proving  the  facts  themselves'?  Why  may  I  not  admit,  that  though  it  may  be  easy  to  find  principles  on  which  to  explain  artificial  presages,  the  subject  of  divine  intimations  is  more  obscure?  for  the  presages  which  we  deduce  from  an  examination  of  a  victim's  entrails,  from  thunder  and  lightning,  from  prodigies,  and  from  the  stars,  are  founded  on  the  accurate  observation  of  many  centuries.  Now  it  is  certain,  that  a  long  course  of  careful  observation,  thus  carefully  conducted  for  a  series  of  ages,  usually  brings  with  it  an  incredible  accuracy  of  knowledge ;  and  this  can  exist  even  without  the  inspiration  of  the  Gods,  when  it  has  been  once  ascertained  by  constant  obser  vation  what  follows  after  each  omen,  and  what  is  indicated  by  each  prodigy.   The  other  kind  of  divination  is  natural,  as  I  have  said    190  ON   DIVINATION.   before,  and  may  by  physical  subtlety  of  reasoning  appeal-  referable  to  the  nature  of  the  Gods,  from  which,  as  the  wisest  men  acknowledge,  we  derive  and  enjoy  the  energies  of  our  souls;  and  as  everything  is  filled  and  pervaded  by  a  divine  intelligence  and  eternal  sense,  it  follows  of  necessity  that  the  soul  of  man  must  be  influenced  by  its  kindred  wTith  the  soul  of  the  Deity.  But  when  we  are  not  asleep,  our  faculties  are  employed  on  the  necessary  affairs  of  life,  and  so  are  hindered  from  communication  with  the  Deity  by  the  bondage  of  the  body.   There  are,  however,  a  small  number  of  persons,  who,  as  it  were,  detach  their  souls  from  the  body,  and  addict  themselves,  with  the  utmost  anxiety  and  diligence,  to  the  study  of  the  nature  of  the  Gods.  The  presentiments  of  men  like  these  are  derived  not  from  divine  inspiration,  but  from  human  reason ;  for  from  a  contemplation  of  nature,  they  anticipate  things  to  come, — as  deluges  of  water,  and  the  future  deflagration,  at  some  time  or  other,  of  heaven  and  earth.   There  are  others  who,  being  concerned  in  the  government  of  states,  as  we  have  heard  of  the  Athenian  Solon,  foresee  the  rise  of  new  tyrannies.  Such  we  usually  term  prudent  men ;  like  Thales  the  Milesian,  who,  wishing  to  convict  his  slanderers,  and  to  show  that  even  a  philosopher  could  make  money,  if  he  should  be  so  inclined,  bought  up  all  the  olive-trees  in  Miletus  before  they  were  in  flower;  for  he  had  probably,  by  some  knowledge  of  his  own,  calculated  that  there  would  be  a  heavy  crop  of  olives.  And  Thales  is  said  to  have  been  the  first  man  by  whom  an  eclipse  of  the  sun  was  ever  predicted,  which  happened  under  the  reign  of  Astyages.   L.  Physicians,  pilots,  and  husbandmen  have  likewise  pre  sentiments  of  many  events :  but  I  do  not  choose  to  call  this  divination ;  as  neither  do  I  call  that  warning  which  was  given  by  the  natural  philosopher  Anaximander  to  the  Lacedae  monians,  when  he  forewarned  them  to  quit  their  city  and  their  homes,  and  to  spend  the  whole  night  in  arms  on  the  plain,  because  he  foresaw  the  approach  of  a  great  earthquake,  which  took  place  that  very  night,  and  demolished  the  whole  town;  and  even  the  lower  part  of  Mount  Taygetus  was  torn  away    from  the  rest,  like  the  stern  of  a  ship  might  be.  In  the  same  way,  it  is  not  so  much  as  a  diviner,  as  a  natural  philosopher  that  we  should  esteem  Pherecydes,  the  master  of  Pythagoras    ON    DIVINATIGX.  l!)i   who,  when  he  beheld  the  water  exhausted  in  a  running  spring,  predicted  that  an  earthquake  was  nigh  at  hand.   The  mind  of  man,  however,  never  exerts  the  power  of  natural  divination,  unless  when  it  is  so  free  and  disengaged  as  to  be  wholly  disentangled  from  the  body,  as  happens  ia  the  case  of  prophets  and  sleepers.   Therefore,  as  I  have  said  before,  Diceearchus  and  our  friend  Cratippus  approve  of  these  two  sorts  of  divination,  as  long  as  it  is  understood  that,  inasmuch  as  they  proceed  from  nature,  though  they  may  be  the  highest,  they  are  not  the  only  kind.  But  if  they  deny  that  there  is  any  force  in  observation,  then  by  such  denial  they  exclude  many  things  which  are  connected  with  the  common  experience  and  institutions  of  mankind.  However,  since  they  grant  us  some,  and  those  not  insignifi  cant  things,  namely,  prophecies  and  dreams,  there  is  no  reason  why  we  should  consider  these  as  very  formidable  antagonists,  especially  when  there  are  some  who  deny  the  existence  of  divination  altogether.   Those,  therefore,  whose  minds,  as  it  were,  despising  their  bodies,  fly  forth,  and  wander  freely  through  the  universe,  being  inspired  and  influenced  by  a  certain  divine  ardour,  doubtless  perceive  those  things  which  those  who  prophecy  predict.  And  spirits  like  these  are  excited  by  many  influ  ences  that  have  no  connexion  with  the  body,  as  those  which  are  excited  by  certain  intonations  of  voice,  and  by  Phrygian  melodies,  or  by  the  silence  of  groves  and  forests,  or  the  murmur  of  torrents,  or  the  roar  of  the  sea.  Such  are  the  minds  which  are  susceptible  of  ecstasies,  and  which  long  beforehand  foresee  the  events  of  futurity;  to  which  the  following  lines  refer: —   Ah,  see  you  not  the  vengeance  apt  to  come,  Because  a  mortal  has  presumed  to  judge  Between  three  rival  goddesses'? — he's  doom'd  To  fall  a  victim  to  the  Spartan  dame,  More  dreadful  than  all  furies.   Many  things  have  in  the  same  way  been  predicted  by  pro  phets,  and  not  only  in  ordinary  language,  but  also   In  verses  which  the  fauns  of  olden  times   And  white-hair'd  prophets  chanted.   It  was  thus  that  the  diviners;  Marcius  and  Publicius,  are  said  to  have  sung  their  predictions.  The  mysterious  responses  of  Apollo  were  of  the  same  nature.  I  believe  also  that  there  were  certain  exhalations  of  certain  earths,  by  which  gifted    192  ON    DIVIXATION.   minds  were  inspired  to  utter  oracles.     These,  then,  are   the  views  which  we  must  entertain  of  prophets.   LI.  Divinations  by  dreams  are  of  a  similar  order,  because  presentiments  which  happen  to  diviners  when  awake,  happen  to  ourselves  during  sleep.  For  in  sleep  the  soul  is  vigorous,  and  free  from  the  senses,  and  the  obstruction  of  the  cares  of  the  body,  which  lies  prostrate  and  deathlike;  and,  since  the  soul  has  lived  from  all  eternity,  and  is  engaged  with  spirits  innumerable,  it  therefore  beholds  all  things  in  the  universe,  if  it  only  preserves  a  watchful  attitude,  unencumbered  by  excess  of  food  or  drinking,  so  that  the  mind  is  awake  during  the  slumber  of  the  body,  — this  is  the  divination  of  dreamers.   Here,  then,  comes  in  an  important,  and  far  from  natural,  but  a  very  artificial  interpretation  of  dreams  by  Antiphon  :  and  he  interprets  oracles  and  prophecies  in  the  same  way;  for  there  are  explainers  of  these  things  just  as  grammarians  are  expounders  of  poets.  For,  as  it  would  have  been  in  vain  for  nature  to  have  produced  gold,  silver,  iron,  and  copper,  if  she  had  not  taught  us  the  means  of  extracting  them  from  her  bosom  for  our  use  and  benefit ;  and  as  it  would  have  been  in  vain  for  her  to  have  bestowed  seeds  and  fruits  upon  men,  if  she  had  not  taught  them  to  distinguish  and  cultivate  them,  — for  what  use  would  any  materials  whatsoever  be  to  us,  if  we  had  no  means  of  working  them  up? — thus  with  every  useful  thing  which  the  Gods  have  bestowed  on  us,  they  have  vouchsafed  us  the  sagacity  by  which  its  utility  may  be  appre  ciated  ;  and  so,  because  in  dreams,  oracles,  and  prophecies  there  are  many  things  necessarily  obscure  and  ambiguous,  some  have  received  the  gift  of  interpretation  of  them.   But  by  what  means  prophets  and  sleepers  behold  those  things,  which  do  not  at  the  time  exist  in  sensible  reality,  is  a  great  question.  But  when  we  have  once  cleared  up  those  points  which  ought  to  be  investigated  first,  then  the  other  subjects  of  our  examination  will  be  easier.  For  the  discussion  about  the  Nature  of  the  Gods,  which  you  have  so  clearly  ex  plained  in  your  second  book  on  that  subject,  embraces  the  whole  question ;  for  if  we  grant  that  there  are  Gods,  and  that  their  providence  governs  the  universe,  and  that  they  consult  for  the  best  management  of  all  human  affairs,  and  that  not  only  in  general,  but  in  particular, — if  we  grant  this,  which  indeed  appears  to  me  to  be  undeniable,  then  we  must  hold  it    ON    DIVINATION.  193   as  a  necessary  consequence  that  these  Gods  have  bestowed  on  men  the  signs  and  indications  of  futurity.   The  mode,  however,  by  which  the  Gods  endue  us  with  the  gift  and  power  of  divination  requires  some  notice.   LII.  The  Stoics  will  not  allow  that  the  Deity  can  be  in  terested  in  each  cleft  in  entrails,  or  in  the  chirping  of  birds.  They  affirm  that  such  interference  is  altogether  indecorous —  unworthy  of  the  majesty  of  the  Gods,  and  an  incredible  im  possibility.  They  maintain  that  from  the  beginning  of  the  world  it  has  been  ordained  that  certain  signs  must  needs  precede  certain  events,  some  of  which  are  drawn  from  the  entrails  of  animals,  some  from  the  note  and  flight  of  birds,  some  from  the  sight  of  lightning,  some  from  prodigies,  some  from  stars,  some  from  visions  of  dreamers,  and  some  from  exclamations  of  men  in  frenzy :  and  those  who  have  a  clear  perception  of  these  things  are  not  often  deceived.  Bad  con  jectures  and  incorrect  interpretations  are  false,  not  because  of  any  imposture  in  the  signs  themselves,  but  because  of  the  ignorance  of  their  expounders.   It  being,  therefore,  granted  and  conceded  that  there  exists  a  certain  divine  energy,  by  which  human  life  is  supported  and  surrounded,  it  is  not  hard  to  conceive  how  all  that  hap  pens  to  men  may  happen  by  the  direction  of  heaven;  for  this  divine  and  sentient  energy,  which  expands  throughout  the  universe,  may  select  a  victim  for  sacrifice,  and  may,  by  exterior  agency,  effect  any  change  in  the  condition  of  its  entrails  at  the  period  of  its  immolation :  so  that  any  given  characteristic  may  be  found  excessive  or  defective  in  the  animal's  body.  For  by  very  trifling  exertions  nature  can  alter,  or  new-model,  or  diminish  many  things.  And  the  prodigies  which  happened  a  little  before  Caesar's  death  are  of  great  weight  in  preventing  iis  from  doubting  this, — when  on  that  very  day  on  which  he  first  sat  on  the  golden  throne  and  went  forth  clad  in  a  purple  robe,  when  he  was  sacrificing,  no  heart  was  found  in  the  intestines  of  the  fat  ox.  Do  you  then  suppose  that  any  warm-blooded  animal,  unless  by  divine  interference,  can  live  an  instant  without  a  heart  1  He  was  himself  surprised  at  the  novelty  of  the  phenomenon  ;  on  which  Spuriuna  observed  that  he  had  reason  to  fear  that  he  would  lose  both  sense  and  life,  since  both  of  these  proceed  from  the  heart.  The  next  day  the  liver  of  the  victim  was   DE  NAT.  ETC.  0    194:  ON    DIVINATION.   found  defective  in  the  upper  extremity.  Doubtless  the  im  mortal  Gods  vouchsafed  Ceesar  these  signs  to  apprize  him  of  his  approaching  death,  though  not  to  enable  him  to  guard  against  it.   When,  therefore,  we  cannot  discover  in  the  entrails  of  the  victim  those  organs  without  which  the  animal  cannot  live,  we  must  necessarily  suppose  that  they  have  been  annihilated  by  a  superintending  Providence  at  the  very  instant  that  the  sacrifice  is  offered.   LI II.  And  the  same  divine  influence  may  likewise  be  the  cause  why  birds  fly  in  different  directions  on  different  occa  sions,  why  they  hide  themselves  sometimes  in  one  place  and  sometimes  in  anothei',  and  why  they  sing  on  the  right  hand  or  on  the  left.  For  if  every  animal  according  to  its  own  will  can  direct  the  motions  of  its  body,  so  as  to  stoop,  to  look  on  one  side,  or  to  look  up,  and  can  bend,  twist,  contract,  or  extend  its  limbs  as  it  pleases,  and  does  those  things  almost  before  think  ing  of  doing  them,  how  much  more  easy  is  it  for  a  God  to  do  so,  whose  deity  governs  and  regulates  all  things.   It  is  the  Deity,  too,  which  presents  various  signs  to  us,  many  of  which  history  has  recorded  for  us ;  as  for  instance,  we  find  it  stated  that  if  the  moon  was  eclipsed  a  little  before  sunrise  in  the  sign  of  Leo,  it  was  a  sign  that  Darius  should  be  slain  and  the  Persians  be  defeated  by  Alexander  and  the  Macedonians.  And  if  a  girl  was  born  with  two  heads,  it  was  a  sign  that  there  was  to  be  a  sedition  among  the  people  and  corruption  and  adultery  at  home.  If  a  woman  should  dream  that  she  was  delivered  of  a  lion,  the  country  in  which  such  an  occurrence  took  place  would  soon  be  subjected  to  foreign  domination.  Of  the  same  kind  is  the  fact  mentioned  by  Herodotus,  that  the  son  of  Croesus  spoke,  though  the  gift  of  speech  was  by  nature  denied  him;  which  prodigy  was  au  indication  that  his  father's  kingdom  and  family  would  be  utterly  destroyed.  And  all  our  histories  relate  that  the  head  of  Servius  Tullius  while  sleeping  appeared  to  be  on  fire,  which  was  a  sign  of  the  extraordinary  events  which  followed.   As,  therefore,  a  man  who  falls  asleep  while  his  mind  is  full  of  pure  meditations,  and  all  circumstances  around  him  adapted  to  tranquillity,  will  experience  in  his  dreams  true  and  certain  presentiments;  so  also  the  chaste  and  pure    OX    DIVINATION.  195   mind  of  a  waking  man  is  better  suited  to  the  observation  of  the  course  of  the  stars,  or  the  flight  of  birds,  and  the  intima  tions  of  the  truth  to  be  collected  from  entrails.   LIV.  And  connected  with  this  principle  is  the  tradition  which  we  have  received  concerning  Socrates,  which  is  often  affirmed  by  himself  in  the  books  of  his  disciples — that  he  possessed  a  certain  divinity,  which  he  called  a  demon,  and  to  which  he  was  always  obedient, — a  genius  which  never  com  pelled  him  to  action,  but  often  deterred  him  from  it.  The  same  Socrates  (and  where  can  we  find  a  better  authority  ?)  being  consulted  by  Xenophon,  whether  he  should  follow  Cyrus  to  the  wars,  gave  him  his  counsel,  and  then  added  these  words, — "  The  advice  I  give  you  is  merely  human  :  in  such  obscure  and  uncertain  cases,  it  is  best  to  consult  the  oracle  of  Apollo,  to  whom  the  Athenians  have  always  pub  licly  appealed  in  questions  of  importance."   It  is  likewise  written  of  Socrates,  that  having  once  seen  his  friend  Crito  with  his  eye  bandaged,  and  having  asked  him  what  was  the  matter  with  it,  he  received  for  answer,  that  as  he  was  walking  in  the  fields,  a  branch  of  a  tree  he  had  attempted  to  bend  sprang  back,  and  hit  him  in  the  eye.  Upon  this,  Socrates  replied,  "  This  is  the  consequence  of  your  not  having  obeyed  me  when  I  recalled  you,  following  the  divine  presentiment,  according  to  my  custom."   Another  remarkable  story  is  told  of  Socrates.  After  the  battle  in  which  the  Athenians  were  defeated  at  Delium,  under  the  command  of  Laches,  he  was  obliged  to  fly  with  that  unfortunate  general.  At  length  reaching  a  spot  where  three  ways  met,  he  refused  to  pursue  the  same  track  as  the  rest.  When  they  inquired  the  cause  of  his  behaviour,  he  said  that  he  was  restrained  by  a  God.  The  others,  who  left  Socrates,  fell  in  with  the  enemy's  cavalry.   Antipater  has  collected  many  other  instances  of  the  admi  rable  divination  of  Socrates,  which  I  omit,  for  they  are  quite  familiar  to  you,  and  I  need  not  further  enumerate  them.  I  cannot,  however,  avoid  mentioning  one  fact  in  the  history  of  this  philosopher,  which  strikes  me  as  magnificent,  and  almost  divine  ; — namely,  that  when  he  had  been  condemned  by  the  sentence  of  impious  men,  he  said,  he  was  prepared  to  die  with  the  most  perfect  equanimity ;  because  the  God  within  him  had  not  suffered  him  to  be  afflicted  with  any  idea  of   o2    196  ON    DIVINATION*.   impending  evil,  either  when  he  left  his  home,  or  when  he  appeared  before  the  court.   LV.  I  think,  therefore,  that  true  divination  exists,  although  those  men  are  often  deceived  who  appear  to  proceed  on  con  jecture,  or  on  artificial  rule?.  For  men  are  fallible  in  all  arts,  and  we  cannot  suppose  tliey  are  infallible  here.  It  may  happen  that  some  sign,  which  has  an  ambiguous  signification,  is  received  in  a  certain  one.  It  may  happen  that  some  par  ticular  has  escaped  the  notice  of  the  inquirer,  or  is  purposely  concealed  by  him,  because  opposed  to  his  interest.   I  should,  however,  consider  my  plea  for  divination  suffi  ciently  established,  if  only  a  few  well-authenticated  cases  of  presentiment  and  prophecies  could  be  discovered ;  whereas,  in  truth,  there  are  many.  I  will  even  declare  without  hesi  tation,  that  a  single  instance  of  presage  and  prediction,  all  the  points  of  which  are  borne  out  by  subsequent  events —  and  that  definitely  and  regularly,  not  casually  and  fortuitously  — would  suffice  to  compel  an  admission  of  the  reality  of  divi  nation  from  all  reasonable  minds.   It  appears  to  me,  moreover,  that  we  should  refer  all  the  virtue  and  power  of  divination  to  the  Divinity,  as  Posi-  donius  has  done,  as  before  observed;  in  the  next  place  to  Fate,  and  afterwards  to  the  nature  of  things.  For  reason  compels  us  to  admit  that  by  Fate  all  things  take  place.  By  Fate  I  mean  that  which  the  Greeks  call  ei/mp^e'i'^,  that  is,  a  certain  order  and  series  of  causes — for  cause  linked  to  caiise  produces  all  things :  and  in  this  connexion  of  cause  consists  the  constant  truth  which  flows  through  all  eternity.  From  whence  it  follows  that  nothing  happens  which  is  not  pre  destined  to  happen ;  and  in  the  same  way  nothing  is  predes  tined  to  happen,  the  nature  of  which  does  not  contain  the  efficient  causes  of  its  happening.   From  which  it  must  be  understood  that  fate  is  not  a  mere  superstitious  imagination,  but  is  what  is  called,  in  the  lan  guage  of  natural  philosophy,  the  eternal  cause  of  things ;  the  cause  why  past  things  have  happened,  why  present  things  do  happen,  and  why  future  things  will  happen.  And  thus  we  are  taught  by  exact  observation,  what  consequences  are  usually  produced,  by  what  causes,  though  not  invariably..  And  thus  the  causes  of  future  events  may  truly  be  discerned  by  those  who  behold  them  in  states  of  ecstasy  or  quiet.    OX   DIV1NAT10X.  197   LVI.  Since,  then,  all  things  happen  by  a  certain  fate,  (as  will  be  shown  in  another  place.)  if  any  man  could  exist  who  could  comprehend  this  succession  of  causes  in  his  intellectual  view,  such  a  man  would  be  infallible.  For  being  in  possession  of  a  knowledge  of  the  causes  of  all  events,  he  would  neces  sarily  foresee  how  and  when  all  events  would  take  place.   But  as  no  being  except  the  Deity  alone  can  do  this,  man  can  attain  no  more  than  a  kind  of  presentiment  of  futurity,  by  observing  the  events  which  are  the  usual  consequences  of  certain  signs.  For  those  events  that  are  to  happen  in  future  do  not  start  into  existence  on  a  sudden.  But  the  regular  course  of  time  resembles  the  untwisting  of  a  cable,  producing  nothing  absolutely  new,  but  all  things  in  a  grand  concatena  tion  or  series  of  repetitions.   And  this  has  been  observed  by  those  who  possess  the  gift  of  natural  divination,  and  by  those  who  study  the  regular  successions  of  certain  things.  For  though  they  do  not  always  apprehend  the  causes,  yet  they  clearly  discern  the  signs  and  marks  of  the  causes.  And  by  diligently  investi  gating  and  committing  to  memory  all  such  signs,  and  the  traditions  of  our  ancestors  concerning  them,  they  produce  an  elaborate  system  of  that  divination  which  is  termed  technical  respecting  the  entrails  of  victims,  thunder  and  lightning,  prodigies,  and  celestial  phenomena.   We  must  not,  therefore,  be  astonished  that  those  who  addict  themselves  to  divination  foresee  many  events  which  have  no  place  of  existence.  For  all  things  do  even  now  exist,  though  they  are  removed  in  point  of  time.  And  as  the  vital  embryo  of  all  vegetation  exists  in  seeds,  from  which  they  afterwards  germinate,  so  are  all  things  even  now  hidden  in  their  causes,  and  perceived  as  hereafter  to  happen  by  the  mind  when  it  is  thrown  into  an  ecstasy,  or  relaxed  in  sleep,  and  cool  reason  and  calculation  is  often  granted  a  presenti  ment  of  them.  And  as  the  astrologers  who  watch  the  risings,  settings,  and  various  courses  of  the  sun,  moon,  and  other  stars,  can  predict  long  before  all  their  revolutions  and  phenomena  ;  so  those  who  have  noted  the  series  and  conse  quence  of  events,  with  constant  and  indefatigable  atten  tion,  during  a  very  long  period,  do  generally,  or  (if  that  is  too  difficult)  at  least  occasionally,  foresee  with  certainty  the  things  that  are  to  come  to  pass.    198  ON   DIVINATION.   Such  are  some  of  the  arguments  derived  from  the  nature  of  fate,  by  which  the  reality  of  divination  may  be  proved.   LVII.  Another  powerful  plea  in  favour  of  divination,  may  be  drawn  from  Nature  herself,  which  teaches  us  how  great  is  the  energy  of  the  mind  when  abstracted  from  the  bodily  senses,  as  it  is  most  especially  in  ecstasy  and  sleep.  For  even  as  the  Gods  know  what  passes  in  our  minds  without  the  aid  of  eyes,  ears  or  tongues,  (on  which  divine  omniscience  is  founded  the  feeling  of  men,  that  when  they  wish  in  silence  for,  or  offer  up  a  prayer  for  anything,  the  Gods  hear  them,)  so  when  the  soul  of  man  is  disengaged  from  corporeal  impe  diments,  and  set  at  freedom,  either  from  being  relaxed  in  sleep,  or  in  a  state  of  mental  excitement,  it  beholds  those  wonders  which,  when  entangled  beneath  the  veil  of  the  flesh,  it  is  unable  to  see.   It  may  be  difficult,  perhaps,  to  connect  this  piinciple  of  nature  with  that  kind  of  divination  which  we  have  stated  to  result  from  study  and  art.  Posidonius,  however,  thinks  that  there  are  in  nature  certain  signs  and  symbols  of  future  events.  We  are  informed  that  the  inhabitants  of  Cea,  according  to  the  report  of  Heraclides  of  Pontus,  are  accus  tomed  carefully  to  observe  the  circumstances  attending  the  rising  of  the  Dog  Star,  in  order  to  know  the  character  of  the  ensuing  season,  and  how  far  it  will  prove  salubrious  or  pestilential.  For  if  the  star  rose  with  an  obscure  and  dim  appearance,  it  proved  that  the  atmosphere  was  gross  and  foggy,  and  its  respiration  would  be  heavy  and  unwhole  some.  But  if  it  appeared  bright  and  lucid,  then  that  was  a  sign  that  the  air  was  light  and  pure,  and  therefore  healthful.   Democritus  believed  that  the  ancients  had  wisely  enjoined  the  inspection  of  the  entrails  of  animals  which  had  been  sacrificed,  because  by  their  condition  and  colour  it  is  possible  to  determine  the  salubrity  or  pestilential  state  of  the  atmo  sphere,  and  sometimes  even  what  is  likely  to  be  the  fertility  or  sterility  of  the  earth.  And  if  careful  observation  and  practice  recognise  these  rules  as  proceeding  from  nature,  then  every  day  might  bring  us  many  examples  which  might  deserve  notice  and   remark;  so  that  the  natural  philosopher  whom  Pacuvius  introduces  in  his  Chryses,  seems  to  me  very  ignorant  of  the  nature  of  things,  wlien  he  says, —    OX    DIVINATION.  199   All  those  who  understand  the  speech  of  birds  And  hearts  of  victims  better  than  their  own,  May  be  just  listen'd  to,  but  not  obey'd.   Why  should  he  make  such  a  remark  here,  when  a  little  after  he  speaks  thus  plainly  in  a  contrary  sense  1 —   Whatever  God  may  be,  'tis  he  who  forms,  Preserves  and  nurtures  all.     Unto  himself  Ho  back  absorbs  all  beings, — evermore  The  universal  Sire,— at  once  the  source  And  end  of  nature.   Why,  then,  since  the  universe  is  the  sole  and  common  home  of  all  creatures,  and  since  the  minds  of  men  always  have  existed,  and  will  exist,  why,  I  say,  should  they  not  be  able  to  perceive  the  consequences,  and  what  is  the  result  indicated  by  each  sign,  and  what  events  each  sign  foreshows  r(   These  are  the  arguments  which  I  had  to  bring  forward  on  the  subject  of  divination.  For  the  rest,  I  in  nowise  believe  in  those  who  predict  by  lots,  or  those  who  tell  fortunes  for  the  sake  of  gain,  nor  those  necromancers  who  evoke  the  manes,  whom  your  friend  Appius  consulted.   Of  little  service  are  the  Morsian  prophet,   The  Haruspi  of  the  village,  the  astrologer   Of  the  throng'd  circus,  or  the  priest  of  Isis,   Or  the  imposturous  interpreter   Of  dreams.     All  these  are  but  false  conjurors,   Who  have  no  skill  to  read  futurity,   They  are  but  hypocrites,  urged  on  by  hunger ;   Ignorant  of  themselves,  they  would  teach  others,   To  whom  they  promise  boundless  wealth,  and  beg   A  penny  in  return,  paid  in  advance.   Such  is  the  style  in  which  Ennius  speaks  of  those  pre  tenders  of  divination;  and  a  few  verses  before,  he  lias  affirmed  that  though  the  Gods  exist,  they  take  no  care  of  the  human  race.  I  am  of  a  contrary  opinion,  and  approve  01  divination,  because  I  believe  that  the  Gods  do  watch  over  men,  and  admonish  them,  and  presignify  many  things  to  them,  all  levity,  vanity,  and  malice  being  excluded.   And  when  Quintus  had  said  this,  You  are,  indeed,  said  I,  admirably  prepared   .   [The  rest  of  this  Book  is  lost.]    20U  ON   PIVIXATIOS.    13  00  Is.    U.    I.  WHEN  I  have  been  considering,  as  I  frequentlj7  have,  vnth  deep  and  prolonged  cogitation,  by  what  means  I  might  serve  as  many  persons  as  possible,  so  as  never  to  cease  from  doing  service  to  my  country,  no  better  method  has  occurred  to  me  than  that  of  instructing  my  fellow-citizens  in  the  noblest  arts.  And  this  I  natter  myself  thai  I  have  already  in  some  degree  effected  in  the  numerous  works  which  I  have  written.  In  the  treatise  which  I  have  entitled  "  Hortensius,"  I  have  earnestly  recommended  them  to  the  study  of  philoso  phy  ;  and  in  the  four  books  of  Academic  Questions,  I  have  laid  open  that  species  of  philosophy  which  I  think  the  least  arrogant,  and  at  the  same  time  the  most  consistent  and  elegant.   Again,  as  the  foundation  of  all  philosophy  is  the  knowledge  of  the  chief  good  and  evil  which  we  should  seek  or  shun,  I  have  thoroughly  discussed  these  topics  in  five  books,  in  order  to  explain  the  different  arguments  and  objections  of  the  various  schools  in  relation  thereto.1  In  five  other  books  of  Tusculan  Questions,  I  have  explained  what  most  conduces  to  render  life  happy.  In  the  first,  I  treat  of  the  contempt  of  death ;  in  the  second,  of  the  endurance  of  pain  and  sorrow ;  in  the  third,  of  mitigating  melancholy;  in  the  fourth,  of  the  other  perturbations  of  the  mind;  and  in  the  fifth,  I  elaborate  that  most  glorious  of  all  philosophic  doctrines —  the  all-sufficiency  of  virtue ;  and  prove  that  virtue  can  secure  our  perpetual  bliss  without  foreign  appliances  and  assistances.   When  these  works  were  completed,  I  wrote  three  books  on   the  Nature  of  the  Gods.     I  have  discussed  all  the  different   bearings  and  topics  of  that  subject,  and  now  I  proceed  in   the  composition  of  a  treatise  on  Divination,  in  order  to  give   1  He  is  here  referring  to  the  treatise  De  Finibus.    ON    DIVINATION.  201   that  subject  the  amplest  development.  And  if,  when  this  is  finished,  I  add  another  on  Fate,  I  shall  have  abundantly  examined  the  whole  of  that  question.   To  this  catalogue  of  my  writings,  I  must  likewise  add  my  six  books  on  the  Republic,  which  I  composed  when  I  was  directing  the  government  of  the  State.  A  grand  subject,  indeed,  and  peculiarly  connected  with  philosophy,  and  one  which  has  been  richly  elaborated  by  Plato,  Aristotle,  Theo-  phrastus,  and  the  whole  tribe  of  the  Peripatetics.   I  must  not  forget  to  mention  my  Essay  on  Consolation,  which  afforded  me  myself  no  inconsiderable  comfort,  and  will,  I  trust,  be  of  some  benefit  to  others.  Besides  this,  I  lately  wrote  a  work  on  Old  Age,  which  I  addressed  to  Atticus ;  and  since  it  is  owing  to  philosophy  that  our  friend  Cato  is  the  good  and  brave  man  that  he  is,  he  is  well  entitled  to  an  honourable  place  in  the  list  of  my  writings.   Moreover,  as  Aristotle  and  Theophrastus,  two  authors  emi  nently  distinguished  both  for  the  penetration  and  fertility  of  their  genius,  have  united  with  their  philosophy  precepts  like  wise  for  eloquence,  so  I  think  that  I  too  may  class  among  my  philosophical  writings  my  treatise  on  the  Oratorical  Art.  So  there  are  three  books  on  Oratory,  a  fourth  Essay  entitled  Brutus,  and  a  fifth  named  the  Orator.   II.  Such  are  the  works  I  have  already  written,  and  I  am  girding  myself  up  to  what  remains,  with  the  desire  (if  I  am  not  hindered  by  weightier  business)  of  leaving  no  philosophical  topic  otherwise  than  fully  explained  and  illustrated  in  the  Latin  language.  For  what  greater  or  better  service  can  we  render  to  our  country,  than  by  thus  educating  and  instructing  the  rising  generation,  especially  in  times  like  these,  and  in  the  present  state  of  morality,  when  society  has  fallen  into  such  disorders  as  to  require  every  one  to  use  his  best  exertions  to  check  and  restrain  it  ?   Not  that  I  expect  to  succeed  (for  that,  indeed,  cannot  be  even  hoped)  in  winning  all  the  young  to  the  study  of  philo  sophy.  I  shall  be  glad  to  gain  even  a  few,  the  fruits  of  whose  industry  may  have  an  extended  effect  on  the  republic.   Indeed,  I  already  begin  to  gather  some  fruit  of  my  labour,  from  those  of  more  advanced  years,  who  are  pleased  with  my  various  books.  By  their  eagerness  for  reading  what  I  write,  my  ambition  for  writing  is  from  day  to  day  more  vehe-    202  ON    DIVINATION.   mently  excited.  And  indeed  such  individuals  are  far  more  numerous  than  I  could  have  imagined.  A  magnificent  thing-  it  will  be,  and  glorious  indeed  for  the  Romans,  when  they  shall  no  longer  find  it  necessary  to  resort  to  the  Greeks  for  philosophical  literature.  And  this  desideratum  I  shall  cer  tainly  effect  for  them,  if  I  do  but  succeed  in  accomplishing  my  design.   To  the  undertaking  of  explaining  philosophy  I  was  origi  nally  prompted  by  disastrous  circumstances  of  the  state.  For  during  the  civil  wars  I  could  not  defend  the  common  wealth  by  professional  exertions;  while  at  the  same  time  I  could  not  remain  inactive.  And  yet  I  could  not  find  anything  worthy  of  myself  for  me  to  undertake.  My  fellow-citizens,  therefore,  will  pardon  me,  or  rather  will  thank  me;  because  when  Rome  had  become  the  property  of  one  man.  I  neither  concealed  myself,  nor  deserted  them,  nor  yielded  to  grief,  nor  conducted  myself  like  a  politician  indignant  at  either  an  individual  or  the  times, — nor  played  the  part  of  a  flatterer  of,  or  courtier  to,  the  power  of  another,  so  as  to  be  ashamed  of  myself.  For  from  Plato  and  philosophy  I  had  learnt  this  lesson,  that  certain  revolutions  are  natural  to  all  republics,  which  alternately  come  under  the  power  of  monarchs,  and  democracies,  and  aiistocracies.   And  when  this  fate  had  befallen  our  own  Commonwealth,  then,  being  deprived  of  my  customary  employments,  I  applied  myself  anew  to  the  study  of  philosophy,  doing  so  both  to  alleviate  my  own  sorrow  for  the  calamities  of  the  state,  and  also  in  the  hope  of  serving  my  fellow-countrymen  by  rny  writings.  And  thus  in  my  books  I  continued  to  plead  and  to  harangue,  and  took  the  same  care  to  advance  the  interests  of  philosophy  as  I  had  before  to  promote  the  cause  of  the  Republic.  Now,  however,  since  I  am  again  engaged  in  the  affairs  of  government,  I  must  devote  my  attention  to  the  state,  or  I  should  rather  say,  all  my  labours  and  cares  must  be  occupied  about  that ;  and  I  shall  only  be  able  to  give  to  philosophy  whatever  little  leisure  I  can  steal  from  public  business  and  public  employments.  Of  these  matters,  however,  I  shall  find  a  better  occasion  to  speak;  let  me  now  return  to  the  subject  of  divination.  For  when  my  brother  Quintus  had  concluded  his  arguments  on  the  subject  of  divination,  con  tained  in  the  preceding  book,  and  we  had  walked  enough  to    ON   DIVINATION.  203   satisfy  us,  we  sat  down  in  my  library,   which,  as  I  before  noticed,  is  in  my  Lyceum.   III.  Then  I  said, — Quintus,  you  have  defended  the  doctrine  of  the  Stoics,  respecting  divination,  with  great  accuracy,  and  on  the  strictest  Stoical  principles.  And  what  particularly  pleased  me  was,  that  you  supported  your  cause  chiefly  by  authorities,  and  those,  too,  of  great  force  and  dignity,  borrowed  from  our  own  countrymen.  It  is  now  my  part  to  notice  what  you  have  advanced.  But  I  shall  do  so  without  offering  anything  absolutely  on  one  side  or  the  other,  examining  all  your  argu  ments,  often  expressing  doubts  and  distrusting  myself.  For  if  I  assumed  anything  I  could  say  on  this  subject  as  certain,  I  should  play  the  part  of  a  diviner  even  while  denying  divination.   I  am,  no  doubt,  greatly  influenced  by  that  preliminary  question  which  Carneades  used  to  raise, — namely,  What  is  the  subject  matter  of  divination  1  Is  it  things  perceived  by  the  senses,  or  not  1  Such  things  we  see,  or  hear,  or  taste,  or  smell,  or  touch.  Is  there,  then,  among  such,  anything  which  we  perceive  more  by  some  foreseeing  power,  or  agitation  of  the  mind,  than  through  nature  herself]  Or  could  a  diviner,  if  he  were  blind  as  Tiresias,  somehow  or  other  distinguish  between  white  and  black  1  or  if  he  were  deaf,  could  he  distinguish  between  the  articulations  and  modulations  of  voices  ?  Divi  nation,  therefore,  cannot  be  applied  to  those  objects  which  come  under  the  cognisance  of  the  senses.   Nor  is  it  of  much  use,  even  in  matters  of  art  and  science.  In  medicine  for  instance,  if  a  person  is  sick  we  do  not  call  in  the  diviner  or  the  conjuror,  but  the  physician ;  and  in  music,  if  we  wish  to  learn  the  flute  or  the  harp,  we  do  not  take  lessons  from  the  soothsayer,  but  from  the  musician.   It  is  the  same  in  literature,  and  in  all  those  sciences  which  are  matters  of  education  and  discipline.  Do  you  think  that  those  who  addict  themselves  to  the  art  of  divination  can  thereby  inform  us  whether  the  sun  is  larger  than  the  earth  or  of  the  same  size  as  it  appears,  or  whether  the  moon  shines  by  her  own  light  or  by  a  radiance  borrowed  from  the  sun,  or  what  are  the  laws  of  motion  obeyed  by  these  orbs,  or  by  those  other  five  stars  which  are  termed  the  planets  1   None  of  those  who  pass  for  diviners  pretend  to  be  able  to  instruct  mankind  in  these  matters,  nor  can  they  prove  the    204  ON   DIVINATION.   truth  or  falsehood  of  the  problems  of  geometry.     Such  mat  ters  belong  to  the  mathematician,  not  to  conjurors.   IV.  And  in  those  questions  which  are  agitated  in  moral  philosophy,  is  there  any  one  with  respect  to  which  any  diviner  ever  gives  an  answer,  or  is  ever  consulted  as  to  what  is  good,  bad,  or  indifferent  ?  For  such  topics  properly  belong  to  philosophers.  As  to  duties,  who  ever  consulted  a  diviner  how  to  regulate  his  behaviour  to  his  parents,  his  brethren,  or  his  friends  1  or  in  what  light  he  should  regard  wealth,  and  honour,  and  authority  ?  These  things  are  referred  to  sages,  not  diviners.   Again,  as  to  the  subjects  which  belong  to  dialecticians,  or  natural  philosophers.  What  diviner  can  tell  whether  there  is  one  world  or  more  than  one  1  what  are  the  principles  of  things  from  which  all  things  derive  their  being1?  That  is  the  science  of  the  natural  philosopher.  Or  who  asks  a  diviner  how  to  solve  the  difficulty  of  a  fallacy,  or  disentangle  the  perplexity  of  a  sorites,  which  we  may  render  by  the  Latin  word  acervalem  (an  accumulation),  though  it  is  unnecessary  ;  for  just  as  the  word  philosophy,  and  many  other  Grecian  terms,  have  become  naturalized  in  our  language,  so  this  word  sorites  is  already  sufficiently  familiar  among  us.  These  subjects  belong  to  the  logician,  not  to  the  diviner.   Again,  if  the  question  be,  which  is  the  best  form  of  govern  ment,  what  are  the  relative  advantages  or  disadvantages  of  such  and  such  laws  and  moral  regulations,  should  we  dream  of  advising  with  a  soothsayer  from  Etruria,  or  with  princes  and  chosen  men  experienced  in  political  matters  1   Now,  if  divination  regards  neither  those  things  which  are  perceived  by  the  senses,  nor  those  which  are  taught  by  art,  nor  those  which  are  discussed  by  philosophy,  nor  those  which  affect  the  politics  of  the  state,  I  scarcely  understand  what  can  be  its  object.  It  must  either  bear  upon  all  topics,  or  else  some  particular  one  must  be  allotted  to  it  in  which  it  may  be  exercised.  Now  common  sense  certifies  us  that  it  does  not  bear  on  all  topics,  and  we  are  at  a  loss  to  discover  what  particular  topic,  or  subject  matter,  it  can  embrace.  It  follows,  therefore,  that  divination  does  not  exist.   V.  There  is  a  common  Greek  proverb  to  this  effect : —   The  wisest  prophet 's  he  who  guesses  best.  Will,  then,  a  soothsayer  conjecture  what  sort  of  weather  is    OX    DIVINATION.  205   coming  better  than  a  pilot?  or  will  he  divine  the  character  of  an  illness  more  acutely  than  a  doctor  ?  or  the  proper  way  to  carry  on  a  war  better  than  a  general '?   But  I  observe,  0  Quintus,  that  you  have  pnidently  dis  tinguished  the  topics  of  divination  from  those  matters  which  lie  within  the  sphere  of  art  and  skill,  and  from  those  which  are  perceived  by  the  observation  of  the  senses,  or  by  any  system.  You  have  denned  it  thus  : — Divination  is  the  pre  sentiment  and  power  of  foretelling  or  predicting  those  things  which  axe  fortuitous.  But,  in  the  first  place,  you  are  only  arguing  in  a  circle.  For  does  not  a  pilot,  or  a  physician,  or  a  general  foresee  the  probabilities  of  things  fortuitous  as  well  as  your  diviner?  Can,  then,  any  augur  whatsoever,  or  sooth  sayer,  or  diviner,  conjecture  better  whether  a  patient  will  escape  from  sickness,  or  a  ship  from  peril,  or  the  army  from  the  manoeuvres  of  the  enemy,  than  a  physician,  or  pilot,  or  general  ?   But  you  said  that  these  matters  did  not  belong  to  the  diviner;  but  that  men  could  foresee  impending  winds  or  showers  by  certain  signs ;  and  to  confirm  this  argument,  you  have  cited  certain  verses  of  my  translation  of  Ai-atus.  And  yet  these  atmospheric  phenomena  are  fortuitous ;  for  they  only  happen  occasionally,  and  not  always.  What,  then,  is  this  presentiment  of  things  fortuitous,  which  you  call  divina  tion,  and  to  what  can  it  be  applied  ?  For  those  things  of  which  we  can  have  a  previous  notion  by  some  art  or  reason,  you  speak  of  as  belonging  not  to  diviners,  but  to  men  of  skill  in  them.  Thus  you  have  left  divination  nothing  but  the  power  of  predicting  those  fortuitous  things  which  cannot  be  foreseen  by  any  art  or  any  prudence.   If,  for  example,  any  one  had,  many  years  before,  predicted  that  Marcus  Marcellus,  who  was  thrice  consul,  was  to  perish  by  a  shipwreck,  he  would,  doubtless,  have  been  a  true  diviner,  because  such  a  fact  could  not  have  been  foreseen  by  any  other  means  than  that  of  divination.  Divination,  there  fore,  is  a  foreknowledge  of  events  which  depend  on  fortune.   VI.  But  can  there  be  a  just  presentiment  of  those  things  which  do  not  admit  of  any  rational  conjecture  to  explain  why  they  will  happen?  For  what  do  we  mean  when  we  say  a  thing  happens  by  chance,  or  fortune,  or  hazard,  or  accident,  but  that  something  has  happened  or  taken  place  wnich  might    206  ON   DIVINATION.   never  have  happened  or  taken  place  at  all,  or  -which  might  have  happened  or  taken  place  in  a  different  manner  ?  Now  how  can  that  be  fairly  foreseen  or  predicted  which  thus  takes  place  by  chance,  and  the  mere  caprice  of  fortune  ?   It  is  by  reason  that  the  physician  foresees  that  a  malady  will  increase,  a  pilot  that  a  tempest  will  descend,  and  a  general  that  the  enemy  will  make  certain  diversions.  And  yet  these  men,  who  have  generally  good  reasons  on  which  their  opinions  respecting  relative  probabilities  are  founded,  are  themselves  often  deceived.  As  when  the  husbandman  sees  his  olive-trees  in  blossom,  he  ventures  to  expect  that  they  will  also  bear  fruit;  nevertheless,  he  is  sometimes  mistaken.   Now,  if  those  who  never  assert  anything  but  from  some  probable  conjecture  founded  on  reason,  are  often  mistaken,  what  are  we  to  think  of  the  conjectures  of  those  men  who  derive  their  presages  of  futurity  from  the  entrails  of  victims,  or  birds,  or  prodigies,  or  oracles,  or  dreams.  I  have  not  as  yet  come  to  show  how  utterly  null  and  vain  such  signs  are,  as  the  cleft  of  a  liver,  the  note  of  a  crow,  the  flight  of  an  eagle,  the  shooting  of  a  star,  the  voices  of  people  in  frenzy,  lots  and  dreams,  of  each  of  which  I  shall  speak  in  its  turn ;  at  present  I  dwell  only  on  the  general  argument.  How  can  it  be  fore  seen  that  anything  will  happen  which  has  neither  any  as  signable  cause,  or  mark,  to  show  why  it  will  happen  1   The  eclipses  of  the  sun  and  moon  are  predicted  for  a  series  of  many  years  before  they  happen,  by  those  who  make  regular  calculations  of  the  courses  and  motions  of  the  stars.  They  only  foretell  that  which  the  invariable  order  of  natuie  will  necessarily  bring  about.  For  they  perceive  that  in  the  un-  deviating  course  of  the  moon's  motions,  she  will  arrive  at  a  given  period  at  a  point  opposite  the  sun,  and  become  so  exactly  under  the  shadow  of  the  earth,  which  is  the  boundary  of  night,  that  she  must  be  eclipsed.  They  likewise  know,  that  when  the  same  moon  comes  between  the  earth  and  the  sun,  the  latter  must  appear  eclipsed  to  the  eyes  of  men.  They  know  in  what  sign  each  of  the  wandering  stars  will  be  at  a  future  pariod,  and  when  each  sign  will  rise  and  set  on  any  specific  day.  So  that  you  know  on  what  principles  those  men  proceed  who  predict  these  things.   VII.  But  what  rational  rule  can  guide  those  men  who    ON    DIVINATION.  2(>7   predict  the  discovery  of  a  treasure,  or  the  accession  to  an  estate  1  And  by  what  series  of  cause  and  effect  are  the  approach  of  events  of  this  kind  indicated  1  If  these  events,  and  others  of  the  same  kind,  happen  by  any  kind  of  neces  sity,  then  what  is  there  that  we  can  suppose  to  be  brought  about  by  chance  or  fortune  1  For  nothing  is  so  opposite  to  regularity  and  reason  as  this  same  fortune ;  so  that  it  seems  to  me  that  God  himself  cannot  foreknow  absolutely  those  things  which  are  to  happen  by  chance  and  fortune.  For  if  he  knows  it.  ilien  it  will  certainly  happen;  and  if  it  will  certainly  happen,  there  is  no  chance  in  the  matter.  But  there  is  chance;  therefore  there  is  no  such  thing  as  a  pre  sentiment  of  the  future.   If,  however,  you  maintain  that  there  is  no  such  thing  as  fortune,  and  that  all  things  which  happen,  and  which  are  about  to  happen,  are  determined  by  fate  from  all  eternity,  then  you  must  change  your  definition  of  divination,  which  you  have  termed  the  presentiment  of  thing's  fortuitous.  For  if  nothing  can  happen,  or  come  to  pass,  or  take  place,  unless  it  has  been  determined  from  all  eternity  that  it  shall  happen  at  a  certain  time  what,  chance  can  there  be  in  anything  1  And  if  there  is  no  such  thing  as  chance,  what  becomes  of  your  definition  of  divination,  which  you  have  called  "a  pre  sentiment  of  fortuitous  events'?"  although  you  said  that  everything  which  happened,  or  which  was  about  to  happen,  depended  on  fate.  [Nevertheless,  a  great  deal  is  said  on  this  subject  of  fate  by  the  Stoics.  But  of  this  elsewhere.   To  return  to  the  question  at  issue.  If  all  things  happen  by  fate,  what  is  the  use  of  divination  1   VIII.  For  that  which  he  who  divines  predicts,  will  truly  come  to  pass ;  so  that  I  do  not  know  what  character  to  affix  to  that  circumstance  of  an  eagle  making  our  friend  King  Deiotaris  renounce  his  journey;  when,  if  he  had  not  turned  back,  he  would  have  slept  in  a  chamber  which  fell  down  in  the  ensuing  night,  and  have  been  crushed  to  death  in  the  ruins.  For  if  his  death  had  been  decreed  by  fate,  he  could  not  have  avoided  it  by  divination ;  and  if  it  was  not  decreed  by  fate,  he  could  not  have  experienced  it.   What,  then,  is  the  use  of  divination,  or  what  reason  is  there  why  I  should  be  moved  by  lots,  or  entrails,  or  any  kind  of  prediction  1  For  if  in  the  first  Punic  war  it  had  been    208  ON   DIVINATION.   settled  by  fate,  that  one  of  the  Roman  fleets,  commanded  by  the  consuls  Lucius  Junius  and  Publius  Clodius,  should  perish  by  a  tempest,  and  that  the  other  should  be  defeated  by  the  Carthaginians,  then  even  if  the  chickens  had  eaten  ever  so  greedily,  still  the  fleets  must  have  been  lost.  But  if  the  fleets  would  not  have  perished,  if  the  auspices  had  been  obeyed,  then  they  were  not  destroyed  by  fate.  But  you  say  that  everything  is  owing  to  fate ;  therefore  there  is  no  such  thing  as  divination.   If  fate  had  determined,  that  in  the  second  Punic  war  the  army  of  the  Komans  should  be  defeated  near  the  lake  Thra-  simenus,  then  could  this  event  have  been  avoided,  even  if  Flaminius  the  consul  had  been  obedient  to  those  signs  f  and  those  auspices  which  forbade  him  to  engage  in  battle '?  Cer  tainly  it  might.  Either,  then,  the  army  did  not  perish  by  fate — for  the  fates  cannot  be  changed, — or  if  it  did  perish  by  fate  (as  you  are  bound  to  assert),  then,  even  if  Flaminius  had  obeyed  the  auspices,  he  must  still  have  been  defeated.   Where,  then,  is  the  divination  of  the  Stoics  1  which  is  of  no  use  to  us  whatever  to  warn  us  to  be  more  prudent,  if  all  things  happen  by  destiny.  For  do  what  we  will,  that  which  is  fated  to  happen,  must  happen.  On  the  other  hand,  what  ever  event  may  be  averted  is  not  fated.  There  is,  there  fore,  no  divination,  since  this  appertains  to  things  which  are  certain  to  happen ;  and  nothing  is  certain  to  happen,  which  may  by  any  means  be  frustrated.   IX.  Moreover,  I  do  not  even  think  that  the  knowledge  of  futurity  would  be  useful  to  us.  How  miserable  would  have  been  the  life  of  King  Priam  if  from  his  youth  he  could  have  foreseen  the  calamities  which  awaited  his  old  age  !  Let  us,  however,  leave  alone  fables,  arid  come  to  facts  that  are  more  near  to  us.  I  have  recounted,  in  my  essay  entitled  "  Conso  lation,"  the  misfortunes  which  have  happened  to  the  greatest  men  of  our  commonwealth.  Omitting,  therefore,  the  ancients,  do  you  think  that  it  would  have  been  any  advantage  to  Marcus  Crassus,  when  he  was  flourishing  with  the  amplest  riches  and  gifts  of  fortune,  to  have  foreknown  that  he  should  behold  his  son  Publius  slain,  his  forces  defeated,  and  lose  his  own  life  beyond  the  Euphrates  with  ignominy  and  disgrace  ?  Or  do  you  think  that  Pompey  would  have  experienced  much  satisfaction  in  being  thrice  made  consxil,  and  having  received    ON    DIVINATION.  ZlW   three  triumphs,  and  having  attained  the  summit  of  glory  by  his  heroic  actions,  if  he  could  have  foreseen  that  he  should  be  assassinated  in  the  deserts  of  Egypt  after  the  defeat  of  his  army,  and  that  after  his  death  those  disasters  should  happen  which  we  cannot  mention  without  tears  ?   What  do  we  think  of  Caesar  1  Would  it  have  been  any  pleasure  to  Caesar  to  have  anticipated  by  divination,  that  one  day,  in  the  midst  of  the  throng  of  senators  whom  he  himself  had  elected,  in  the  temple  of  Victory  built  by  Pompey,  and  before  that  general's  statue,  and  before  the  eyes  of  so  many  of  his  own  centurions,  he  should  be  slain  by  the  noblest  citizens,  some  of  whom  were  indebted  to  him  for  their  digni  ties, — aye,  slain  under  such  circumstances  that  not  one  of  his  friends,  or  even  of  his  servants,  would  venture  to  approach  him  ?  Could  he  have  foreseen  all  this,  in  what  wretchedness  would  he  have  passed  his  life  1   It  is,  therefore,  certainly  more  advantageous  for  man  to  be  ignorant  of  future  evils  than  to  know  them.  For  it  cannot  be  said,  at  least  not  by  the  Stoics,  that  Pornpey  would  not  have  taken  up  arms,  nor  Crassus  passed  the  Euphrates,  nor  Csesar  engaged  in  the  civil  war,  if  they  had  foreseen  the  future ;  therefore  the  end  which  they  met  with  was  not  in  evitably  ordained  by  fate.  For  you  insist  upon  it  that  all  things  happen  by  fate,  therefore  divination  would  have  availed  them  nothing.  It  would  even  have  deprived  them  of  all  enjoy  ment  in  the  earlier  part  of  their  lives ;  for  what  gratification  could  they  have  enjoyed  if  they  had  been  always  thinking  of  their  end  I   Therefore,  to  whatever  argument  the  Stoics  resort  in  defence  of  divination,  their  ingenuity  is  always  baffled.  For  if  that  which  is  to  happen  may  happen  in  different  mode;-,  then,  indeed,  fortune  may  have  great  power ;  but  that  which  is  fortuitous  cannot  be  certain.  If,  on  the  other  hand,  every  event  is  absolutely  determined  by  fate,  and  the  time  and  cir  cumstance  in  connexion  with  which  it  is  to  take  place,  what  service  can  diviners  render  us  by  informing  us  that  very  sad  events  arc  portended  for  us  1   X.  They  add,  moreover,  that  when  we  are  duly  attentive  to  religious  ceremonies,  all  things  will  fall  more  lightly  on  us.  But  if  everything  happens  by  fate,  no  religioxis  ceremonies  cau  lighten  the  event.  Homer  acknowledges  this,  when  he   DE  NAT.  ETC.  P    210  ON    D1VINATIOX.   introduces  Jupiter  uttering  complaints  that  he  cannot  save  the  life  of  his  son  Sarpedon  against  the  order  of  fate;  and  the  same  sentiment  is  expressed  in  the  Greek  verse —   Great  Destiny  o'ermaster's  Jove  himself.   It  appears  to  me  that  such  a  fate  as  this  is  justly  ridiculed  by  the  Atellane  plays  ;  but  on  such  a  serious  subject  we  must  not  allow  ourselves  to  be  facetious.   I  therefore  conclude  with  this  observation.  If  we  cannot  foresee  anything  which  happens  by  chance,  since  that  thing  is  necessarily  uncertain,  therefore  there  is  no  divination;  and  if,  on  the  contrary,  things  that  are  to  happen  can  be  foreseen  because  they  happen  by  an  infallible  fatality,  there  is  no  divination,  because  you  say  divination  only  relates  to  for  tuitous  events.   But  what  I  have  hitherto  said  respecting  divination  may  be  looked  upon  as  a  mere  slight  skirmishing  of  oratory.  I  must  now  enter  on  the  contest  in  good  earnest,  and  prepare  to  encounter  the  most  formidable  arguments  of  your  cause.   XI.  For  you  say  that  there  exist  two  kinds  of  divination,  —  one  artificial,  the  other  natural.  The  artificial  consists  partly  in  conjecture,  partly  in  continued  observation.   The  natural,  on  the  other  hand,  is  what  the  mind  lays  hold  of  or  receives  externally  from  the  divinity,  from  which  we  all  derive  the  origin,  and  fashioning,  and  preservation  of  our  minds.  Under  the  artificial  divination  you  enumerate  several  varieties  of  divination  connected  with  the  inspection  of  entrails,  the  observation  of  thunderstorms  and  prodigies,  and  the  auguries  of  those  who  deal  in  signs  and  omens.  And  under  this  artificial  class  you  include  all  kindsof  conjectural  divination.   As  to  the  natural  species  of  divination,  it  appears  to  be  sent  forth  and  to  issue  either  from  a  certain  ecstasy  of  the  spirit,  or  to  be  conceived  by  the  mind  when  disengaged  from  the  senses  and  from  cares  by  sleep.  But  you  suppose  that  all  divination  is  derived  from  three  things — God,  Fate,  and  Nature.  But  as  you  could  give  no  sound  explanation,  you  laboured  to  confirm  it  by  a  wonderful  multitude  of  imaginary  examples,  concerning  which  you  must  permit  me  to  say,  that  a  philosopher  ought  not  to  use  evidences  which  may  be  true  through  accident,  or  false  and  fictitious  through  malice.  It  behoves  you  to  show,  by  reason  and  argument,  why  each  circtim-    ON    DIVINATIOX.  211   stance  happens  as  it  does,  rather  than  by  the  events,  especially  when  they  are  such  as  I  am  quite  unable  to  give  credit  to.   XII.  To  begin  then  with  the  Soothsayers,  whose  science  I  believe  that  the  interest  of  Religion  and  the  State  requires  to  be  upheld.    But  as  we  are  alone,  it  behoves  us,  and  myself  more  especially,   to  examine   the   truth  without  partiality,  since  I  am  in  doubt  on  many  points.   Let  us  proceed,  if  you  please,  first  to  consider  the  inspec  tion  of  the  entrails  of  victims.  Can  you  then  persuade  any  man  in  his  senses,  that  those  events  which  are  said  to  be  signified  by  the  entrails,  are  known  by  the  augurs  in  con  sequence  of  a  long  series  of  observations  1  How  long,  I  wonder  !  For  what  period  of  time  can  such  observations  have  been  continued  1  What  conferences  must  the  augurs  hold  among  themselves  to  determine  which  part  of  the  victim's  entrails  represents  the  enemy,  and  which  the  people ;  what  sort  of  cleft  in  the  liver  denoted  danger,  and  what  sort  presaged  advantage?  Have  the  augurs  of  the  Etrurians,  the  Eleans,  the  Egyptians,  and  the  Carthaginians  arranged  these  matters  with  one  another  ?  But  that,  besides  that  it  is  quite  impossi  ble,  cannot  be  imagined.  For  we  see  that  some  interpret  the  auspices  in  one  way,  and  some  in  another,  and  no  common  rule  of  discipline  is  acknowledged  among  the  professors  of  the  art;  and  certainly  if  some  secret  virtue  existed  in  the  victim's  entrails  which  clearly  declared  the  future,  it  must  either  belong  to  the  universal  nature  of  things,  or  be  connected  in  some  way  or  other  with  the  Deity  himself.  But  what  com  munication  can  there  exist  between  so  great  and  so  divine  a  natuz-e  of  things,  one  so  beautiful,  and  so  admirably  diffused  throughout  every  part  and  motion,  and  (I  will  not  say)  the  gall  of  the  cock,  (though  that,  indeed,  is  said  by  many  to  be  the  most  significant  of  all  signs,)  but  the  liver,  or  heart,  or  lungs  of  a  fat  bullock  1  Can  such  things  possibly  teach  us  the  hidden  mysteries  of  futurity?   XIII.  Democritus,  speaking  as  a  natural  philosopher,  than  which  no  class  of  men  are  more  arrogant,  on  this  subject,  trifles  ingeniously  enough.   Man,  who  knows  not  the  common  facts  of  earth,  Must  waste  his  time  in  star-gazing.   He  remarks,  that  the  colour  and  condition  of  the  victim's  entrails  may  indicate  the  nature  of  the  pasturage,  and  the   p2    212  ON    DIVIXATIOX.   abundance  or  scarcity  of  those  things  which  the  earth  brings  forth.  He  even  supposes  they  may  guide  our  opinions  respecting  the  wholesonieness  or  pestilential  state  of  the  atmosphere.  0  happy  man!  such  a  person  can  certainly  never  want  amusement.  The  idea  of  any  one  being  so  enchanted  with  such  trifling,  as  not  to  see  that  this  theory  might  be  plausible,  if,  indeed,  the  entrails  of  all  animals  assumed  the  same  appearance  and  colour  at  one  and  the  same  time  !  But  if  we  discover  that  the  liver  of  one  animal  is  sound  and  healthy,  and  that  of  another  withered  and  diseased  at  the  same  moment,  what  indication  can  we  draw  from  the  state  and  colour  of  the  entrails'?   Does  this  at  all  resemble  the  indications  from  which  that  Pherecydes,  in  a  case  which  you  have  cited,  predicted  the  approach  of  an  earthquake  from  the  drying  up  of  a  spring?  It  required  a  little  confidence,  I  think,  after  the  earthquake  had  taken  place,  to  presume  to  say  what  power  had  produced  it ;  [but]  could  they  even  foresee  that  it  would  take  place  at  all  from  the  appearance  of  a  running  spring?  Many  such  stories  are  recounted  in  the  schools,  but  we  are  not  obliged  to  believe  the  whole  of  them.  But  even  supposing  that  what  Democritus  says  is  true,  when  do  we  seek  to  know  the  general  phenomena  of  nature  by  an  examination  of  entrails;  or  when  did  soothsayers  ever  tell  us  anything  of  the  sort  from  such  an  inspection?  They  warn  us  of  danger  from  fire  or  water.  Sometimes  they  predict  that  inheritances  will  be  added  to  our  fortunes,  and  .sometimes  that  we  shall  lose  what  we  already  possess.  They  regard  the  cleft  in  the  lungs  as  a  matter  of  vital  importance  to  our  property  and  our  very  life ;  they  in  vestigate  the  top  of  the  liver  on  all  sides  with  the  most  scrupulous  exactness,  and  if  by  any  chance  they  cannot  dis  cover  it,  they  affirm  that  nothing  more  disastrous  could  have  happened.   XIV.  It  is  impossible,  as  I  have  before  observed,  that  such  a  system  of  observation  can  have  any  certainty  about  it;  such  divination  as  this  nourished  not  among  the  ancients;  it  is  the  invention  of  mere  art,  if,  indeed,  there  can  be  any  art,  properly  so  called,  of  things  unknown.  But  what  connexion  has  it  with  the  nature  of  things?  And  even  if  it  were  united  and  joined  therewith,  so  as  to  form  one  harmonious  whole,  which  I  see  is  the  opinion  of  the  natural  philosophers,    ON    D1YINAT10X.  Ulo   and  especially  of  those  who  say  that  all  things  that  exist  are  but  one  whole ;  still  what  correspondence  can  there  be  between  the  order  of  the  universe  and  the  discovery  of  a  treasure?  For  if  an  increase  of  my  wealth  is  indicated  by  the  entrails  of  a  victim,  and  this  fact  is  a  necessary  link  in  the  chain  of  nature,  then  it  follows,  in  the  first  place,  that  we  must  suppose  that  the  entrails  themselves  form  other  links;  and  secondly,  that  my  private  gain  is  connected  with  the  nature  of  things.  Are  not  the  natural  philosophers  ashamed  to  say  such  things  as  these?  For,  although  there  may  be  some  connexion  in  the  nature  of  things,  which  I  admit  to  be  possible, — (for  the  Stoics  have  collected  many  cases  which  they  think  confirm  the  notion,  as  when  they  assert  that  the  little  livers  of  little  mice  increase  in  winter,  and  that  dry  pennyroyal  flourishes  in  the  coldest  weather,  and  that  the  distended  vesicles,  in  which  the  seeds  of  its  berries  are  contained,  then  burst  asunder;  that  the  chords  of  a  stringed  instrument  at  times  give  notes  different  from  their  usual  ones;  that  oysters  and  other  shell-fish  increase  and  decrease  with  the  growth  and  waning  of  the  moon ;  and  that  trees  lose  their  vitality  as  the  moon  declines,  just  as  they  dry  up  in  winter,  and  that  this  is  the  time  to\cut  them.  Why  need  I  speak  of  the  seas,  and  the  tides  of  the  ocean,  the  flow  and  ebb  of  which  are  said  to  be  governed  by  the  moon  ?  and  many  other  examples  might  be  related  to  prove  that  some  natural  connexion  subsists  between  objects  appa  rently  remote  and  incongruous.   XV.  Let  us  grant  this,  for  it  does  not  in  the  least  make  against  our  argument ;) — granting,  I  say,  that  there  is  a  cleft  of  some  kind  in  a  liver,  does  that  indicate  gain  to  any  one?  By  what  natural  affinity,  by  what  harmony,  by  what  secret  accord  of  nature,  or,  to  use  the  Greek  term,  by  what  sympathy  can  you  discern  a  necessary  relation  between  a  cleft  liver  and  my  gain,  or  between  my  gain  and  heaven  and  earth,  and  the  universal  nature  of  things  ?   I  may  even  grant  you  this,  though  I  shall  be  greatly  damaging  my  argument  if  I  allow  that  there  is  any  connexion  between  nature  and  entrails.   But  suppose  I  make  this  concession,  how  does  it  happen  that  he  who  would  obtain  some  benefit  from  the  Gods  can  discover,  just  when  he  wishes,  a  victim  exactly  adapted  to  his    214  ON   DIVINATION.   purpose  ?  I  had  thought  this  objection  was  unanswerable,  but  see  how  cleverly  you  get  over  it.  I  do  not  blame  you  for  this,  I  rather  commend  your  memory.  But  I  am  ashamed  of  Antipater,  Chrysippus,  and  Posidonius,  who  all  assert  the  same  proposition — namely,  that  the  divine  and  sentient  energy  which  extends  through  the  universe,  directs  us  even  in  the  choice  of  the  victim  by  whose  entrails  we  are  to  frame  our  divinations.  And  to  improve  upon  this  theory,  you  agree  with  them  in  asserting  that  at  the  very  instant  that  the  sacrifice  is  offered,  a  certain  appropriate  change  takes  place  in  the  victim's  entrails,  so  that  we  can  therein  discover  some  sig  nificant  addition  or  deficiency,  since  all  things  are  obedient  to  the  will  of  the  Gods.   Believe  me,  there  is  not  an  old  woman  in  the  world  so  superstitious  as  gravely  to  believe  these  things.  Can  you  imagine  that  the  same  bullock,  if  chosen  by  one  man,  will  have  the  head  of  the  liver,  and  if  chosen  by  another  will  not  have  it  1  Can  this  same  head  come  and  go  at  the  instant  just  to  accommodate  the  individual  who  offers  the  sacrifice  1  Do  you  not  perceive  that  there  must  be  considerable  chance  in  the  choice  of  the  victim  1  and  in  fact  the  thing  speaks  for  itself,  that  this  must  be  the  case.  For  when  one  ill-omened  victim  is  discovered  to  have  had  no  head  to  its  liver,  it  often  happens  that  the  one  which  is  offered  immediately  afterwards  has  the  most  perfect  entrails  imaginable.  What  then  becomes  of  the  menaces  of  the  first  victim's  entrails,  or  how  have  the  Gods  been  so  suddenly  appeased?   XVI.  But  you  will  say,  that  in  the  entrails  of  the  fat  bull  which  Caesar  offered,  there  was  no  heart,  and  since  it  was  not  possible  that  this  animal  could  have  lived  without  a  heart,  we  must  suppose  that  the  heart  was  annihilated  at  the  instant  of  immolation.  How  is  it  that  you  think  it  impossi  ble  that  an  animal  can  live  without  a  heart,  and  yet  do  not  think  it  impossible  that t  its  heart  could  vanish  so  suddenly,  nobody  knows  whither?  For  myself,  I  know  not  how  much  vigour  in  a  heart  is  necessary  to  carry  on  the  vital  function,  and  suspect  that  if  afflicted  by  any  disease,  the  heart  of  a  victim  may  be  found  so  withered,  and  wasted,  and  small,  as  to  be  quite  unlike  a  heart.  But  on  what  argument  can  you  build  an  opinion  that  the  heart  of  this  same  fat  bullock,  if  it  existed  in  him  before,  disappeared  at  the  instant  of  immola-    ON   DIVINATION.  215   lion?  Did  the  bullock  behold  Ceesar  in  a  heartless  condition  even  while  arrayed  in  the  purple,  and  thus  lose  its  own  heart  by  mere  force  of  sympathy?   Believe  me,  you  are  betraying  the  city  of  philosophy  while  defending  its  castles.  In  trying  to  prove  the  truth  of  the  auguries,  you  are  overturning  the  whole  system  of  physics.  A  victim  has  a  heart,  and  head  of  the  liver :  the  moment  that  you  sprinkle  him  with  meal  and  wine  they  depart,  some  God  carries  them  off,  some  power  destroys  or  consumes  them.  It  is  not  nature  alone,  therefore,  which  causes  the  decay  and  destruction  of  everything;  and  there  are  some  things  which  arise  out  of  nothing,  and  some  which  suddenly  perish  and  become  nothing.  What  natural  philosopher  ever  said  such  a  thing  as  this?  The  soothsayers  affirm  it.  Do  you  then  think  that  you  are  to  believe  them  rather  than  the  natural  philosophers?   XVII.  Again,  when  you  sacrifice  to  several  Gods  at  the  same  time,  how  is  it  that  the  sacrifice  is  favourably  received  by  some,  and  is  rejected  by  others  ?  And  what  inconsistency  must  there  be  among  the  Gods,  if  they  threaten  by  the  first  entrails,  and  promise  good  fortune  by  the  second !  Or  is  there  such  strong  dissension  among  the  Deities,  even  when  they  are  nearly  related  to  each  other,  that  certain  entrails  bode  good  when  offered  to  Apollo,  and  evil  when  offered  to  his  sister  Diana  ?  It  is  clear  that  since  the  victims  are  brought  by  chance,  the  entrails  must  in  the  case  of  each  sacrificer  depend  upon  what  victim  falls  to  his  share,  and  that  very  thing  requires  some  divination  to  know  what  victim  falls  to  each  person's  share,  as,  in  the  case  of  lots,  what  is  drawn  by  each  person.   Then  you  will  speak  of  lots,  though  you  are  not  strengthen  ing  the  authority  of  sacrifices  by  comparing  them  to  lots,  but  weakening  that  of  lots  by  comparing  them  to  sacrifices.   Do  you  think,  when  we  send  a  messenger  to  ^Equime-  lium  to  bring  us  a  lamb  to  sacrifice,  and  the  lamb  which  is  brought  to  me  possesses  entrails  peculiarly  accommodated  to  the  circumstances  of  the  case,  that  the  messenger  has  been  guided  to  him  not  by  chance,  but  by  divine  direction  ?  For  if  you  wish  to  signify  that  in  this  case  chance  interferes,  as  being  some  lot  connected  with  the  will  of  the  Gods,  I  am  sony  that  your  friends  the  Stoics  should  give  the  Epicureans    216  ON   DIVINATION.   such  occasion  to  ridicule  them,  for  you  know  well  how  they  deride  oil  such  ideas.   And,  indeed,  it  is  no  hard  matter  to  be  facetious  on  such  an  idea.  Epicurus,  in  order  to  show  his  wit  on  the  subject,  introduced  transparent  airy  deities,  residing,  as  it  were,  be  tween  the  two  worlds  as  between  two  groves,  that  they  may  avoid  destruction  from  the  fall  of  either.  These  deities,  it  seems,  possess  bodies  like  ourselves,  though  I  cannot  find  that  they  make  any  use  of  them.   Epicurus  therefore,  who,  by  a  roundabout  argument  of  this  kind,  takes  away  the  Gods,  naturally  feels  no  hesitation  in  taking  away  divination  also.  But  though  he  is  consistent  with  himself,  the  Stoics  are  not ;  for  as  the  God  of  Epicurus  never  troubles  himself  with  any  business,  either  regarding  himself  or  others;  he,  therefore,  cannot  grant  divination  to  men.  On  the  other  hand,  the  God  of  the  Stoics,  even  though  lie  does  not  grant  divination,  must  still  regulate  the  affairs  of  the  universe  and  take  care  of  mankind.   Why,  then,  do  you  involve  yourself  in  these  dilemmas  which  you  can  never  disentangle  ?  For  this  is  the  way  in  which,  when  they  are  in  a  hurry,  they  usually  sum  up  the  matter- — a  If  there  are  Gods,  there  must  be  divination;  but  there  are  gods,  therefore  there  is  divination."  It  would  be  much  more  plausible  to  say — "  There  is  no  divination,  there  fore  there  are  no  Gods."  Observe  how  imprudently  the  Stoics  make  this  assertion,  that  if  there  is  no  divination,  there  are  no  Gods ;  for  divination  is  plainly  discarded,  and  yet  we  must  retain  a  belief  in  Gods.   XVIII.  After  having  thus  destroyed  divination  by  the  in  spection  of  entrails,  all  the  rest  of  the  science  of  the  sooth  sayers  is  at  an  end ;  for  prodigies  and  lightning  follow  in  the  same  category.  With  respect  to  the  latter,  their  predictions  are  founded  on  a  long  series  of  observations,  while  the  interpretation  of  prodigies  proceeds  chiefly  on  inference  and  conjecture.   What  observations,  then,,  have  been  made  about  lightning?  The  Etrurians,  forsooth,  have  divided  heaven  into  sixteen  parts;  for  it  was  not  very  difficult  to  double  the  four  quarters,  which  we  recognise,  into  eight,  and  then  to  repeat  the  process,  so  as  by  that  means  to  say  from  what  direc  tion  the  lightning  had  come.  But  in  the  first  place,  what    OX    DIVINATION.  217   difference  does  it  make  ?  Secondly,  what  does  such  a  thing  intimate  1   Is  it  not  plain  from  the  astonishment  which  was  at  first  excited  in  men's  minds,  because  they  feared  the  thunder  and  the  hurling  of  the  thunderbolt,  that  they  believed  that  they  were  the  immediate  manifestations  brought  about  by  the  all-powerful  ruler  of  all  things,  Jupiter  ?  This  is  the  reason  of  the  enactment  in  the  public  registers,  that  the  comitia  of  the  people  shall  not  be  held  when  Jupiter  thunders  and  lightens.  It  was  enacted,  perhaps  with  a  view  to  the  interest  of  the  state,  for  our  ancestors  wished  to  have  pretexts  for  not  holding  the  comitia.  Therefore,  in  the  case  of  the  comitia,  lightning  is  the  only  vitiating  irregularity.  But  in  all  other  matters  it  is  a  most  favourable  auspice  if  it  comes  on  the  left  hand.  But  we  will  speak  of  the  auspices  hereafter ;  at  present  we  will  confine  ourselves  to  lightning.   XIX.  What  can  be  less  proper  for  natural  philosophers  to  say,  than  that  anything  certain  is  indicated  by  things  which  are  uncertain  1  I  cannot  believe  that  you  are  one  of  those  who  imagine  that  there  were  Cyclopes  in  mount  ^Etna  who  forged  Jove's  thunderbolt,  for  it  would  be  wonderful  indeed  if  Jupiter  should  so  often  throw  it  away  when  he  had  but  one.  Nor  would  he  warn  men  by  his  thunderbolts  what  they  should  do  or  what  thoy  should  avoid.   For  the  opinion  of  the  Stoics  on  this  point  is,  that  the  exhalations  of  the  earth  which  are  cold,  when  they  begin  to  flow  abroad,  become  winds ;  and  when  they  form  themselves  into  clouds,  and  begin  to  divide  and  break  up  their  fine  particles  by  repeated  and  vehement  gusts,  then  thunder  and  lightning  ensue ;  and  that  when  by  the  conflict  of  the  clouds  the  heat  is  squeezed  out  so  as  to  emit  itself,  then  there  is  lightning.  Can  we,  then,  look  for  any  intimation  of  futurity  in  a  thing  which  we  see  brought  about  by  the  mere  force  of  nature,  without  any  regularity  or  any  determined  pei'iods  1   If  Jupiter  wished  that  we  should  form  divinations  by  lightnings,  would  he  throw  away  so  many  flashes  in  vain  ]  For  what  good  does  he  do  when  he  throws  a  thunderbolt  into  the  middle  of  the  sea,  or  upon  lofty  mountains,  which  is  very  common,  or  upon  deserts,  or  in  the  countries  of  those  nations  among  which  no  meteorological  observations  are  made  ]  Oh !  but  a  head  was  discovered  in  the  Tybcr.  As  if  I    218  ON    DIVINATION.   affirmed  that  those  soothsayers  had  no  skill !  What  I  deny  is  only  their  divination.  For  the  distribution  of  the  firma  ment,  which  we  have  just  mentioned,  and  their  various  observations,  enable  them  to  note  the  direction  from  which  the  lightning  has  proceeded,  and  where  it  falls.  But  no  reason  can  inform  us  of  its  signification.   XX.  You  will,  however,  urge  against  me  my  own  verses —   The  father  of  the  Gods  who  reigns  supreme   On  high  Olympus,  smote  his  proper  fane,   And  hurl'd  his  lightnings  through  the  heart  of  Rome.   At  the  same  time  the  statue  of  Natta  and  the  images  of  the  Gods,  and  Romulus  and  Remus,  with  that  of  the  beast  who  was  nursing  them,  were  struck  by  the  thunderbolt  and  thrown  down ;  and  the  answers  of  the  soothsayers,  with  reference  to  these  prodigies,  were  found  perfectly  correct.  That  also  was  a  surprising  thing,  that  the  statue  of  Jupiter  was  placed  in  the  Capitol,  two  years  later  than  it  had  been  contracted  for,  at  the  very  time  that  information  of  the  conspiracy  was  being  laid  before  the  senate.  Will  you,  then,  (for  this  is  the  way  you  are  used  to  argue  with  me,)  bring  yourself  to  uphold  that  side  of  the  question  in  opposition  to  your  own  actions  and  writings  ?   You  are  my  brother,  and  all  you  say  is  entitled  to  my  respect.  Yet  what  is  there  here  that  offends  you?  Is  it  the  thing  itself,  which  is  of  such  and  such  a  character,  or  I  myself,  who  only  wish  to  get  at  the  truth  ?  I  therefore  say  nothing  upon  it  for  the  sake  of  contradiction,  and  only  seek  from  you  yourself  information  respecting  all  the  prin  ciples  of  the  art  of  soothsaying.   But  you  have  involved  yourself  in  an  inextricable  dilemma;  for  foreseeing  that  you  would  be  hard  pressed,  when  I  should  urge  you  to  explain  the  cause  of  every  divination,  you  made  many  excuses  to  show  why,  when  you  were  sure  of  the  fact,  you  did  not  inquire  into  its  principles  and  causes, — that  the  question  was,  what  was  done,  and  not  why  it  was  done  ;  as  if  I  granted  that  it  was  done  at  all,  or  as  if  it  were  not  the  duty  of  a  philosopher  to  inquire  into  the  reason  why  every  thing  takes  place.  At  the  same  time  you  quoted  my  prog  nostics,  and  spoke  of  the  scammony,  the  aristoloch,  and  other  herbs,  whose  virtues  were  evident  to  you  from  their  effects,  though  the  law  of  their  operation  was  unknown  to  you.    OX    DIVINATION.  219   XXI.  All  this  is,  however,  beside  the  main  question.  For  the  Stoic  Boethus,  whose  name  you  have  cited,  and  even  our  friend  Posidonius  have  investigated  the  causes  of  prognostics,  and  though  it  is  not  easy  to  discover  the  cause  of  such  occult  mysteries,  yet  the  facts  themselves  may  be  observed  and  animadverted  upon.   But  as  to  the  statue  of  Natta  and  the  tables  of  the  law  which  were  struck  by  lightning,  what  observations  were  made,  or  what  was  there  ancient  connected  with  the  matter  1  The  Pinarii  Nattse  are  noble,  therefore  danger  was  to  be  feared  from  the  nobility.  This  was  a  very  cunning  device  of  Jupiter  !  Romulus,  represented  by  the  sculptor  as  sucking  a  she-wolf,  was  likewise  smitten  by  the  lightning.  Hence,  according  to  you,  some  danger  to  the  city  of  Rome  was  threatened.  How  cleverly  does  Jupiter  make  us  acquainted  with  future  events  by  such  signs  as  these  !  Again,  his  statue  was  being  erected  at  the  very  same  time  that  the  conspiracy  was  being  discovered  in  the  senate,  and  you  conceive  this  coincidence  happened  rather  by  the  providence  of  God  than  by  any  chance  of  fortune.  And  you  think  that  the  statuary  who  had  contracted  for  the  making  of  that  column  with  Torquatus  and  Cotta,  was  not  so  long  delayed  in  accomplishing  his  work  by  idleness  or  poverty,  but  by  the  special  interposition  of  the  immortal  Gods.   Now  I  do  not  absolutely  deny  that  such  might  possibly  be  the  case ;  but  I  do  not  know  that  it  was,  and  wish  to  be  instructed  by  you.  For  when  some  things  appeared  to  me  to  have  happened  by  chance  in  the  way  in  which  the  sooth  sayers  had  predicted,  you  launched  out  into  a  long  discourse  on  the  doctrine  of  chances,  saying  that  four  dice  thrown  at  hazard  may  produce  Venus  by  accident,  but  that  four  hundred  dice  cannot  produce  a  hundred  Venuses.  In  the  first  place,  I  know  no  reason  in  the  nature  of  things  why  they  should  not  do  even  this ;  but  I  will  not  argue  that  point,  for  you  have  plenty  of  similar  examples,  and  talk  about  a  chance  dashing  of  colours,  the  snout  of  a  pig,  and  many  other  similar  instances.  You  say  that  Carneades  argued  in  the  same  way  about  the  head  of  a  little  Pan  ;  as  if  that  might  not  have  happened  by  chance,  and  as  if  there  must  not  be  in  all  marble  the  raw  material  of  even  such  a  head  as  Praxiteles  would  have  made.  For  a  perfect  head  is  only  formed  by    220  OX    DIVINATION.   cutting  away.  Praxiteles  adds  nothing  to  the  marble,  but  when  much  that  was  superfluous  is  removed,  and  the  features  are  arrived  at,  then  you  learn  that  that  which  is  now  polished  up  was  always  contained  within.   Such  a  figure,  therefore,  may  have  spontaneously  existed  in  the  quarries  of  Chios.  But  grant  that  this  is  a  fiction,  have  you  never  fancied  that  you  could  discover  in  the  clouds  the  figures  of  lions  and  centaurs  1  Accident  may,  therefore,  some  times  imitate  nature,  though  you  denied  that  just  now.   XXII.  But  as  we  have  sufficiently  discussed  divination  by  entrails  and  lightning,  we  must  now  consider  portents  and  prodigies,  in  order  that  we  may  leave  no  branch  of  the  system  of  the  soothsayers  untouched.   You  have  mentioned  a  wonderful  story  of  a  mule  that  was  delivered  of  a  colt ;  a  strange  event,  because  of  its  extreme  rarity.  But  if  such  a  thing  were  impossible,  it  would  never  happen  at  all;  and  this  may  be  said  against  all  sorts  of  pro  digies,  that  those  things  which  are  impossible  never  happened  at  all ;  and  if  they  are  possible,  it  need  not  surprise  us  that  they  happen  occasionally.   Besides,  in  extraordinary  events,  ignorance  of  their  causes  produces  astonishment;  but  in  ordinary  events  such  igno  rance  occasions  no  such  result.  The  man  who  is  astonished  if  a  mule  brings  forth  a  colt,  does  not  know  how  it  is  that  a  mare  brings  forth  a  foal,  or  indeed  how,  in  any  case,  nature  effects  the  birth  of  a  living  animal;  but  he  is  not  surprised  at  what  he  sees  frequently,  even  if  he  does  not  know  why  it  happens;  but  if  that  which  he  never  beheld  before  happens,  then  he  calls  it  a  prodigy.  In  this  case,  is  it  a  prodigy  when  the  mule  conceives,  or  when  she  brings  forth  1  Perhaps  the  conception  may  have  been  contrary  to  nature,  but  after  that  her  delivery  is  almost  necessary.   But  we  have  spoken  enough  on  this  topic :  let  us  examine  the  origin  of  the  establishment  of  soothsayers.  For  when  we  are  acquainted  with  it,  we  shall  be  better  able  to  judge  what  degree  of  credit  it  is  entitled  to.   XXIII.  They   tell   us  that  as   a   labourer  one  day  was  ploughing  in  a  field  in  the  territory  of  Tarquinium,  and  his  ploughshare  made  a  deeper  furrow  than  usual,  all  of  a  sudden  there  sprung  out  of  this  same  furrow  a  certain  Tages,  who,  as  it  is  recorded  in  the  books  of  the  Etrurians,  possessed  the    OX    DIVINATION.  221   visage  of  a  child,  but  the  prudence  of  a  sage.  When  the  labourer  was  surprised  at  seeing  him,  and  in  his  astonishment  made  a  great  outcry,  a  number  of  people  assembled  round  him,  and  before  long  all  the  Etrurians  came  together  at  the  spot.  Tages  then  discoursed  in  the  presence  of  an  immense  crowd,  who  treasured  up  his  words  with  the  greatest  care,  and  after  wards  committed  them  to  writing.  The  information  they  derived  from  this  Tages  was  the  foundation  of  the  science  of  the  soothsayers,  and  was  subsequently  improved  by  the  accession  of  many  new  facts,  all  of  which  confirmed  the  same  principles.   Here  is  the  story  that  the  Etrurians  give  out  to  the  world.  This  record  is  preserved  in  their  sacred  books,  and  from  it  their  augurial  discipline  is  deduced.   Now  do  you  imagine  that  we  need  a  Carneades  or  Epicurus  to  refute  such  a  fable  as  this1?  Lives  there  any  one  so  absurd  as  to  believe  that  this  (shall  I  say  god,  or  man  1)  was  thus  ploughed  up  out  of  the  earth  1  If  he  was  a  god,  why  did  he  conceal  himself  under  the  earth  against  the  order  of  nature,  so  as  not  to  behold  the  light  till  he  was  ploughed  up]  Could  not  that  same  god  have  instructed  mankind  from  a  station  somewhat  more  elevated  ?  And  if  this  Tages  was  a  man,  how  could  he  have  lived  thus  buried  and  smothered  in  the  earth  1  and  how  could  he  have  learnt  the  wonders  he  taught  to  others  ?   But  I  am  even  more  foolish  than  those  who  believe  such  nonsense,  for  thus  wasting  so  much  time  in  refxiting  them.   XXIV.  There  is  an  old  saying  of  Cato,  familiar  enough  to  everybody,  that  "  he  wondered  that  when  one  soothsayer  met  another,  he  could  help  laughing."  For  of  all  the  events  pre  dicted  by  them,  how  very  few  actually  happen  ?  And  when  one  of  them  does  take  place,  where  is  the  proof  that  it  does  not  take  place  by  mere  accident  1   When  Hannibal  fled  to  king  Prusias,  and  was  eager  to  wage  war  with  the  enemy,  that  monarch  replied  that  he  dared  not  do  so,  because  the  entrails  of  the  sacrifice  wore  an  unfavourable  aspect.  "  Would  you,  then,"  said  Hannibal,  "rather  trust  a  bit  of  calf's  flesh  than  a  veteran  general?"  And  as  to  Caesar,  when  he  was  warned  by  the  chief  sooth  sayer  not  to  venture  into  Africa  before  the  winter,  did  he  not  cross?  If  he  had  not  done  so,  all  the  forces  of  the  enemy  would  have  assembled  in  one  place.    222  OX   DIVINATION.   Why  need  I  enumerate  the  responses  of  the  soothsayers,  of  which  I  could  cite  an  infinite  number,  which  have  either  received  no  accomplishment  at  all,  or  an  accomplishment  exactly  the  reverse  of  the  prediction  1  In  this  last  Civil  War,  for  instance — good  Heavens  !  how  often  were  their  responses  utterly  falsified  by  the  result !  How  many  false  prophecies  were  sent  to  us  from  Rome  into  Gi'eece  !  How  many  oracles  in  favour  of  Pompey  !  For  that  general  was  not  a  little  affected  by  entrails  and  prodigies.  I  have  no  wish  to  recount  these  things  to  you,  nor  indeed  is  it  necessary,  for  you  were  present.  But  you  see  that  nearly  all  the  events  took  place  in  the  manner  exactly  contrary  to  the  predictions.  So  much  for  responses.  Let  us  now  say  a  word  or  two  on  prodigies.   XXV.  You  have  mentioned  several  things  on  this  topic  which  I  wrote  during  my  consulship.     You  have  brought  up  many  of  those  anecdotes  collected  by  Sisenna  before  the  Mar-  sian  War,  and  many  recorded  by  Callisthenes  before  the  un  fortunate  battle  of  the  Spartans  at  Leuctra,  of  each  of  which  I  will  speak  separately,  as  far  as  seems  necessary;  but  at  present  we  must  discuss  of  prodigies  in  general.   For  what  is  the  meaning  of  this  kind  of  divination — this  dreadful  denouncing  of  impending  calamities — derived  from  the  Gods  1  In  the  first  place,  what  is  the  object  of  the  Gods,  in  giving  us  prodigies  and  signs  which  we  cannot  understand  without  interpreters,  and  in  advertising  us  of  disasters  which  we  cannot  avoid  1  But  even  honest  men  do  not  act  thus,  giving  notice  to  their  friends  of  impending  misfortune  which  they  cannot  possibly  avoid ;  and  physicians,  though  they  are  often  aware  of  the  fact,  yet  never  tell  their  patients  that  they  must  needs  die  of  the  complaint  from  which  they  are  suffering.  For  the  prediction  of  an  evil  is  only  beneficial  when  we  can  point  out  some  means  of  avoiding  it  or  miti  gating  it.   What  good,  then,  did  these  prodigies,  or  their  interpreters,  do  to  the  Spartans,  or  more  recently  to  the  Romans  1  If  they  are  to  be  considered  as  the  signs  of  the  Gods,  why  were  they  so  obscure  ?  For  if  they  were  sent  in  order  that  we  might understand  what  was  about  to  happen,  then  it  ought  to  have  been,  declared  intelligibly;  and  if  we  were  not  intended  to  know,  then  they  should  not  have  been  given  even  obscurely.   XXVI.  As  for  all  conjectures  on  which  this  kind  of  divina-    ON    DIVINATION.  ]i26   tion  depends,  the  opinions  of  men  differ  so  much  from  each  other  that  they  often  make  very  opposite  deductions  from  the  same  thing.  For  as  in  legal  suits,  the  plea  of  the  plaintiff  is  contrary  to  that  of  the  defendant,  and  yet  both  are  within  the  limits  of  credibility, — so  in  all  those  affairs  which  only  admit  of  conjectural  interpretation,  the  reasoning  must  be  extremely  uncertain.  And  as  for  those  things  which  are  caused  at  times  by  nature,  and  at  others  by  chance,  (some  times,  too,  likeness  gives  rise  to  mistakes,)  it  is  very  foolish  to  attribute  all  these  things  to  the  interpositions  of  the  Gods,  without  examining  their  proximate  causes.   You  believe  that  the  Boeotian  diviners  of  Lebadia  foreknew  by  the  crowing  of  the  cocks  that  the  victory  belonged  to  the  Thebans,  because  these  birds  only  crow  when  they  are  vic  torious,  and  hold  their  peace  when  they  are  beaten.  Did,  then,  Jupiter  give  a  signal  to  so  important  a  city  by  the  means  of  hens  1  But  do  cocks  only  crow  when  they  are  vic  torious  1  At  that  time  they  were  crowing,  and  they  had  not  conquered.  You  say  that  this  was  a  prodigy.  It  would  have  been  a  prodigy,  and  a  very  great  one,  if  the  crowing  had  pro  ceeded  from  fishes  instead  of  birds.  But  what  hour  is  there  of  day,  or  of  night,  when  cocks  do  not  crow  1  and  if  they  are  sometimes  excited  to  crow  by  their  joy  in  victory,  they  may  likewise  be  excited  to  do  the  same  by  some  other  kind  of  joy.   Democritus,  indeed,  states  a  very  good  reason  why  cocks  crow  before  the  dawn ;  for,  as  the  food  is  then  driven  out  of  their  stomachs,  and  distributed  over  their  whole  body  and  digested,  they  utter  a  crowing,  being  satiated  with  rest.  But  in  the  silence  of  the  night,  says  Ennius,  "  they  indulge  their  throats,  which  are  hoarse  with  crowing,  and  give  their  wings  repose."  As,  then,  this  animal  is  so  much  inclined  to  crow  of  its  own  accord,  what  made  it  occur  to  Callisthenes  to  assert  that  the  Gods  had  given  the  cocks  a  signal  to -crow;  since  either  nature  or  chance  might  have  done  it  ?   XXVII.  It  was  announced  to  the  senate  that  it  had  rained  blood,  that  the  river  had  become  blackened  with  blood,  and  that  the  statues  of  the  immortal  gods  were  covered  with  sweat.  Do  you  imagine  that  Thales  or  Anaxagoras,  or  any  other  natural  philosopher,  would  have  given  credence  to  such  news?  Blood  and  sweat  only  proceed  from  the  animal  body;  there  might  have  been  some  discoloration  caused  by  some    22 4  ox  DIVINATION.   contagion  of  earth  very  like  blood,  and  some  moisture  may  have  fallen  on  the  statues  from  without,  resembling  perspira  tion,  as  \ve  see  sometimes  in  plaster  during  the  prevalence  of  a  south  wind;  and  in  time  of  war  such  phenomena  appeal-  more  numerous  and  more  important  than  usual,  as  men  are  then  in  a  state  of  alarm,  while  they  are  not  noticed  in  peace.  Besides,  in  such  periods  of  fear  and  peril,  such  stories  are  more  easily  believed,  and  invented  with  more  impunity.   We  are,  however,  so  silly  and  inconsiderate,  that  if  mice,  which  are  always  at  that  work,  happen  to  gnaw  anything,  we  immediately  regard  it  as  a  prodigy.  So  because,  a  little  before  the  Marsian  war,  the  mice  gnawed  the  shields  at  Lanuvium,  the  soothsayers  declared  it  to  be  a  most  important  prodigy  ;  as  if  it  could  make  any  difference  whether  mice,  who  day  and  night  are  gnawing  something,  had  gnawed  bucklers  or  sieves.  For  if  we  are  to  be  guided  by  such  things,  I  ought  to  tremble  for  the  safety  of  the  commonwealth,  because  the  mice  lately  gnawed  Plato's  Republic  in  my  library ;  and  if  they  had  eaten  the  book  of  Epicurus  on  Pleasure,  I  ought  to  have  expected  that  corn  would  rise  in  the  market.   XXVIII.  Are  we,  then,  alarmed  if  at  any  time  any  unna  tural  productions  are  reported  as  having  proceeded  from  man  or  beast?  One  of  which  occurrences,  to  be  brief,  may  be  accounted  for  on  one  principle.  Whatever  is  born,  of  whatever  kind  it  may  be,  must  have  some  cause  in  nature,  so  that  even  though  it  may  be  contrary  to  custom,  it  cannot  possibly  be  contrary  to  nature.  Investigate,  if  you  can,  the  natural  cause  of  every  novel  and  extraordinary  circumstance: —  even  if  you  cannot  discover  the  cause,  still  you  may 'feel  sure  that  nothing  can  have  taken  place  without  a  cause  ;  and,  by  the  principles  of  nature,  drive  away  that  terror  which  the  novelty  of  the  thing  may  have  occasioned  you.  Then  neither  earthquakes,  nor  thunderstorms,  nor  showers  of  blood  and  stones,  nor  shooting  stars,  nor  glancing  torches  will  alarm  you  any  more.   If  you  ask  Chrysippus  to  explain  the  laws  hat  govern  these  phenomena,  though  he  is  a  great  defender  of  divina  tion,  he  will  never  tell  you  that  they  have  happened  by  chance,  but  he  will  give  you  a  natural  explanation  of  all  of  them.  For,  as  it  has  been  before  stated,  nothing  can  happen  without  a  cause,  and  nothing  happens  which  is    ON    DIVINATION.  '2'2i)   impossible;  iior,  if  that  has  happened  which  could  happen,  ought  it  to  be  regarded  as  a  prodigy.  Therefore  there  are  no  such  things  as  prodigies.  For  if  we  place  in  the  rank  of  prodigies  every  rare  occurrence,  it  follows  that  a  wise  man  is  one  of  the  greatest  prodigies.  For  I  believe  there  are  fewer  instances  of  wise  men  in  the  world,  than  of  mules  which  have  brought  forth  young.   So  this  principle  concludes  that  that  which  cannot  take  place  in  the  nature  of  things  never  does  take  place;  and  that  that  which  can  take  place  in  the  nature  of  things,  is  not  a  prodigy,  and  therefore  there  are  no  prodigies  at  all.  Therefore  a  diviner  and  interpreter  of  prodigies  being  con  sulted  by  a  man  who  informed  him,  as  a  great  prodigy,  that  he  had  discovered  in  his  house  a  serpent  coiled  around  a  bar,  answered  very  discreetly,  that  there  was  nothing  very  wonderful  in  this,  but  if  he  had  found  the  bar  coiled  around  the  serpent,  this  would  have  been  a  prodigy  indeed.  By  this  reply,  he  plainly  indicated  that  nothing  can  be  a  prodigy  which  is  consistent  with  the  nature  of  things.   XXIX.  Caius  Gracchus  wrote  to  Marcus  Pomponius,  that  his  father  having  caught  two  serpents  in  his  house,  sent  to  consult  the  soothsayers.  Why  were  two  serpents  entitled  to  such  an  honour  more  than  two  lizards  or  two  mice  1  Because  these  are  every  day  occurrences,  you  would  reply,  while  ser  pents  were  comparatively  rare  ;  as  if  it  signified  how  often  a  thing  which  was  possible  took  place.  But  I  marvel,  if  the  release  of  the  female  snake  caused  the  death  of  Tiberius  Gracchus,  and  that  of  the  male  was  to  be  fatal  to  Cornelia,  why  he  let  either  of  them  escape.  For  he  does  not  record  that  the  soothsayers  had  told  him  what  would  happen  if  he  let  neither  of  the  snakes  escape.  But  it  seems  T.  Gracchus  died  soon  after,  doubtless  of  some  natural  malady  which  destroyed  his  constitution,  and  not  because  he  had  saved  the  life  of  a  viper.   Not  that  the  infelicity  of  the  haruspices  is  so  great  that  their  predictions  are  never  fulfilled  by  any  chance  whatever.  And,  I  must  confess,  if  I  could  but  believe  it,  I  should  exceedingly  wonder  at  the  story  which  you  have  cited  from  Homer  respecting  the  prediction  of  Calchas,  who,  from  observing  the  number  of  a  flock  of  sparrows,  foretold  the  number  of  years  that  would  be  expended  in  the  siege  of  Troy.   DE  NAT.  ETC.  Q    2-6  ON    DIVINATIOX.   Of  which  conjecture  Homer  makes  Agamemnon1  speak  thus,  if  I  may  repeat  you  a  translation  of  the  passage  which.  I  made  in  a  leisure  hour  : —   XXX.  Not  for  their  grief  the  Grecian  host  I  blame  ;  But  vanqui.sh'd  !  baffled  !  oh,  eternal  shame  !  Expect  the  time  to  Troy's  destruction  giv'n,  And  try  the  faith  of  Calchas  and  of  heav'n.  What  pass'd  at  Aulis,  Greece  can  witness  bear,  And  all  who  live  to  breathe  this  Phrygian  air,  Beside  a  fountain's  sacred  brink  was  raised  Our  verdant  altars,  and  the  victims  blazed  ;  ('Twas  where  the  plane-tree  spreads  its  shades  around)  The  altars  heaved  ;  and  from  the  crumbling  ground  A  mighty  dragon  shot,  of  dire  portent;  From  Jove  himself  the  dreadful  sign  was  sent.  Straight  to  the  tree  his  sanguine  spires  he  roll'd,  And  curl'd  around  in  many  a  winding  fold.  The  topmost  branch  a  mother-bird  possest ;  Eight  callow  infants  fill'd  the  mossy  nest  ;  Herself  the  ninth  :  the  serpent  as  he  hung,  Stretch'd  his  black  jaws,  and  crush'd  the  crying  young;  While  hov'ring  near,  with  miserable  moan,  The  drooping  mother  wail'd  her  children  gone.  The  mother  last,  as  round  the  nest  she  flew,  Seized  by  the  beating  wing,  the  monster  slew ;  Nor  long  survived,  to  marble  turn'd  he  stands  A  lasting  prodigy  on  Aulis'  sands.  Such  was  the  will  of  Jove ;  and  hence  we  dare  Trust  in  his  omen  and  support  the  war.  For  while  around  we  gazed  with  wond'ring  eyes,  And  trembling  sought  the  Pow'rs  with  sacrifice,  Full  of  his  god,  the  rev'rend  Calchas  cried :  Ye  Grecian  warriors,  lay  your  fears  aside,  This  wondrous  signal  Jove  himself  displays,  Of  long,  long  labours,  but  eternal  praise.  As  many  birds  as  by  the  snake  were  slain,  So  many  years  the  toils  of  Greece  remain  ;  But  wait  the  tenth,  for  llion's  fall  decreed.  Thus  spoke  the  prophet,  thus  the  fates  succeed.   Now  is  not  this  a  curious  mode  of  augury1? — to  conjecture  by  the  number  of  sparrows  eaten by  a  serpent,  the  number  of  years  expended  in  the  Trojan  war.  Why  years  rather  than  months  or  days?  And  how  -was  it  that  Calchas  selected  sparrows,  in  which  there  is  nothing  supernatural,  for  the  signs  of  his  prophecy  1  while  he  is  silent  about  the  serpent,  which   1  This  is  a  mistake  of  Cicero's.  It  is  Ulysses  who  speaks.  The  pas  sage  occurs  Iliad  ii.  299 — 330.    ON   DIVINATION.  227   JTU  changed,  as  it  is  said,  into  stone  (an  event  which  is  im  possible).  Lastly,  what  analogy  or  relatkfe  can  subsist  between  the  sparrows  seen  and  the  years  predicted  1   As  to  what  you  have  said  respecting  the  serpent  which  appeared  to  Sylla  while  he  was  sacrificing,  I  recollect  the  whole  circumstance  ;  and  remember  that  just  as  Sylla  was  about  to  attack  the  enemy  at  Nola,  he  made  a  sacrifice,  and  that  at  the  moment  the  victim  was  offered,  a  serpent  issued  from  beneath  the  altar,  and  that  the  same  day  a  glorious  victoiy  was  gained,  — not  l;wing  to  the  advice  of  the  soothsayers,  but  to  the  skill  of  the  general.   XXXI.  And  prodigies  of  this  kind  have  nothing  miracu  lous  in  them ;  which,  when  they  have  taken  place,  are  brought  under  conjecture  by  some  particular  interpretation,  as  in  the  case  of  the  grain  of  wheat  found  in  the  mouth  of  Midas  while  an  infant,  or  that  of  the  bees,  which  are  said  to  have  settled  on  the  lips  of  the  infant  Plato.  Such  things  are  less  admirable  for  themselves  than  for  the  conjectures  they  gave  rise  to ;  for  they  may  either  not  have  taken  place  at  the  time  specified,  or  have  been  fulfilled  by  mere  accident.   I  likewise  suspect  the  truth  of  the  report  which  you  have  related  respecting  Roscius — namely,  that  a  serpent  was  found  coiled  round  him  when  he  was  in  his  cradle.  But  even  if  it  be  a  fact  that  a  serpent  was  thus  in  the  cradle,  it  is  not  very  wonderful,  especially  in  Solonium,  where  snakes  are  in  the  habit  of  basking  before  the  fire.  As  to  the  interpretation  which  the  soothsayers  gave  of  the  circumstance,  that  the  child  would  become  most  illustrious  and  most  celebrated,  I.  am  astonished  that  the  immortal  Gods  should  have  announced  such  great  glory  to  a  comedian,  and  preserved  such  an  obsti  nate  silence  respecting  Scipio  Africanus.   You  have  related  several  prodigies  whicli  happened  to  Flaminiusj  for  instance,  that  his  horse  suddenly  fell  with  him, — there  is  surely  nothing  very  astonishing  in  that.  Also,  that  the  standard  of  the  first  centurion  could  not  easily  be  pulled  out  of  the  earth.  Perhaps  the  standard-bearer  was  pulling  but  timidly  at  the  stick  which  he  had  fixed  in  the  ground  with  confident  resolution.  What  is  the  wonder  in  the  horse  of  Dionysius  having  escaped  out  of  the  river,  and  in  his  afterwards  having  had  a  swarm  of  bees  cluster  on  his  mane?  But  because  Dionvsius  happened  to  ascend  the   Q2    228  ON    DIVINATION.   throne  of  Syracuse  soon  after  this  event,  what  had  happened  by  chance  was  regarded  as  an  extraordinary  prodigy  and  prognostic.   You  go  on  to  say,  that  at  Lacedsemon,  the  armour  in  the  temple  of  Hercules  rattled.  At  Thebes  the  closed  gates  of  the  temple  of  the  same  God  suddenly  burst  open  of  their  own  accord,  and  the  bucklers  which  had  been  suspended  on  the  walls  fell  to  the  ground.  Certainly  nothing  of  this  kind  could  have  happened  without  some  motion  or  impulse ;  but  why  need  we  impute  such  motion  to  the  Gods  rather  than  call  it  an  accident1?   XXXII.  At  Delphi,  you  say,  that  a  chaplet  of  wild  herbs  suddenly  appeared  growing  on  the  head  of  Lysander's  statue.  Do  you  think  then  that  the  chaplet  of  herbs  existed  before  any  seed  was  ripened  1  These  seeds  were  probably  carried  there  by  birds,  not  by  human  agency,  and  whatever  is  on  a  head  may  seem  to  resemble  a  crown.  And  as  to  the  circum  stance  which  you  add,  that  about  the  same  time  the  golden  stars  of  Castor  and  Pollux,  placed  in  the  temple  of  Delphi,  suddenly  vanished,  and  could  nowhere  be  discovei'ed ;  this  seems  to  me  not  so  much  the  work  of  the  Gods,  as  the  sacrilege  of  thieves.   I  certainly  do  wonder  at  the  roguery  of  the  Ape  of  Dodona  being  recorded  in  the  Greek  histories.  For  what  is  less  strange  than  that  a  most  mischievous  animal  should  have  upset  the  urn,  and  scattered  the  oracular  lots  ?  The  his  torians,  however,  deny  that  this  prodigy  was  followed  by  any  disastrous  event  occurring  among  the  Lacedaemonians.   Now  to  come  to  what  you  have  reported  respecting  the  citizen  of  Veii,  who  declared  to  the  Senate  that  if  the.  Lake  Albanus  overflowed,  and  ran  into  the  sea,  Rome  would  perish,  and  that  if  its  course  were  diverted  elsewhere,  Veii  must  fall.  Accordingly  the  water  of  the  Alban  lake  was  subsequently  drained  away  by  new  channels,  not  for  the  safety  of  the  citadel  and  the  city,  but  solely  for  the  benefit  of  the  suburban  district.   A  short  time  afterwards,  a  voice  was  heard,  warning  cer  tain  individuals  to  beware  lest  Rome  should  be  taken  by  the  Gauls;  and  upon  this  they  consecrated  an  altar  on  the  New  Road,  to  Aius  the  Speaker.  What,  then,  did  this  Aius  the  Speaker  speak  and  talk,  and  derive  his  name  from  that  cir-    ON    DIVINATION.  229   cumstance,  when  no  one  knew  him ;  and  has  he  been  silent  ever  since  he  has  had  an  habitation,  an  altar,  and  a  name  1  And  the  same  remark  will  apply  to  Juno  the  Admonitress;  for  what  warning  has  she  ever  given  us,  except  the  one  respecting  the  full  sow  1   XXXIII.  This  is  enough  to  say  about  prodigies.     Let  me  now  speak  of  auspices  and  of  lots — those,  I  mean,  which  are  thrown  at  hazard,  not  those  which  are  announced  by  vati  cination,  which  we  more  properly  call  oracles,  and  which  we  shall  discuss  when  we  investigate  divination  of  the  natural  order;  and  after  this  we  will  consider  the  astrology  of  the  Chaldeans.    But  first  let  us  consider  the  question  of  auspices.  It  is  a  very  delicate  matter  for  an  augur  to  speak  against  them.    Yes,  to  a  Marsian  perhaps,  but  not  to  a  Roman.     For  we  are  not  like  those  who  attempt  to  predict  the  future  by  the  flight  of  birds,  and  the  observation  of  other  signs ;  and  yet  I  believe  that  Romulus,  who  founded  our  city  by  the  auspices,  considered  the  augural  science   of  great  utility  in  foreseeing  matters.      For  antiquity  was  deceived  in  many  things,  which  time,  custom,  and   enlarged  experience  have  corrected.     And  the  custom  of  reverence  for,  and  discipline  and  rights  of,  the  augurs,  and  the  authority  of  the  college,  are  still  retained  for  the  sake  of  their  influence  on  the  minds  of  the  common  people.   And  certainly  the  consuls  P.  Claudius  and  L.  Junius  de  served  severe  punishment,  who  set  sail  in  defiance  of  the  auspices ;  for  they  ought  to  have  been  obedient  to  the  esta  blished  religion,  and  not  to  have  rejected  so  obstinately  the  national  ceremonials.  Justly,  therefore,  was  one  of  them  condemned  by  the  judgment  of  the  people,  while  the  other  perished  by  his  own  hand.  Flaminius,  likewise,  was  not  duly  submissive  to  the  auspices;  and  that  was  the  reason,  you  say,  why  he  was  defeated.  But,  the  year  afterwards,  Paullus  was  guided  by  them.  Did  he  the  less  for  that  perish  with  his  army  in  the  battle  of  Cannes  1   Even  allowing  the  existence  of  auspices,  which  I  do  not,  certainly  those  at  present  in  use,  whether  by  means  of  birds  or  celestial  signs,  are  but  mere  semblances  of  auspices,  and  not  real  ones.   XXXIV.  "  Quintus  Fabius,  I  pray  thee,  assist  me  in  the  auspices."    He  answers,  "  I  have  heard."    The  augurial  officer    230  ON   DIVINATION.   among  our  forefathers  was  a  skilful  and  learned  man ;  now  they  take  the  first  that  offers.  For  a  man  must  needs  be  skilful  and  learned  who  understands  the  meaning  of  silence.  For  in  auspices  we  call  that  silence  which  is  free  from  all  Irregularity.  To  understand  this,  belongs  to  a  perfect  augur.   It  sometimes  happens,  however,  that  when  he  who  wishes  to  consult  the  auspices  has  said  to  the  augur  whom  he  has  chosen  to  assist  him,  "  Say,  if  silence  is  observed,"  the  augur,  without  looking  above  or  around  him,  answers  immediately,  "  Silence  appears  to  be  observed."  On  this  the  consulter  rejoins,  "  Tell  me  whether  the  chickens  are  eating."  The  augur  replies,  "  They  are  eating."  But  when  the  consulter  fur  ther  demands,  "  What  kind  of  fowls  are  they,  and  whence  do  they  come?"  the  augur  answers,  "The  chickens  were  brought  in  a  cage  by  a  person  who  is  termed  a  poulterer."   Such,  then,  are  the  illustrious  birds  whom  we  call,  forsooth,  the  messengers  of  Jupiter ;  and  whether  they  eat  or  not,  what  does  it  signify  ?  Certainly  nothing  to  the  auspices.  But  since,  if  they  eat  at  all,  some  portion  of  food  must  inevitably  fall  on  the  ground  and  strike  (pavire)  the  earth,  this  was  at  first  called  terripavium,  then  terripudium,  and  is  now  called  tripudium.  When,  therefore,  the  chicken  lets  fall  from  its  beak  a  particle  of  its  food,  the  augur  declares  that  the  tripu  dium  solistimum  is  consummated.   XXXV.  What  true  divination  can  there  be  in  an  auspice  of  this  nature,  so  artificially  forced  and  tortured  ?  which,  we  have  a  proof,  was  not  used  among  the  most  ancient  augurs  ;  for  we  have  an  ancient  decree  of  the  college  of  augurs,  that  any  bird  may  make  the  tripudium.  So  that,  then,  there  would  be  an  auspice  if  the  bird  was  free  to  show  itself,  and  the  bird  might  appear  to  be  the  messenger  and  interpreter  of  Jupiter.  But  when  a  miserable  bird  is  kept  in  a  cage,  and  ready  to  die  of  hunger, — if  such  an  one,  when  pecking  up  its  food,  happens  to  let  some  particle  fall,  can  you  think  this  an  auspice,  or  do  you  believe  that  Romulus  consulted  the  gods  in  this  manner  ?   Do  you  imagine  that  those  who  pretend  to  augury  apply  themselves  at  the  present  day  to  discern  the  signs  of  heaven  1  No ;  they  give  their  orders  to  the  poulterer.  He  makes  his  report.   It  has  been  reckoned  an  excellent  auspice  on  all  occasions,    OX    DIVINATION.  231   among  the  Romans,  when  it  thunders  on  the  left  hand,  except  in  reference  to  the  Comitia ;  and  this  exception  was  doubtless  contrived  for  the  benefit  of  the  commonwealth,  in  order  that  the  chiefs  of  the  state  might  be  the  interpreters  of  the  Comitia  in  whatever  concerns  the  judgments  of  the  people,  the  rights  of  the  laws,  and  the  creation  of  the  magistrates.  "  But,"  you  argue,  "  in  consequence  of  the  letters  of  Ti  berius  Gracchus,  Scipio  Nasica  and  Caius  Martins  Figulus  resigned  the  consulship,  because  the  augurs  determined  that  they  had  been  irregularly  created."  Well,  who  denies  that  there  is  a  school  of  Augurs  1  What  I  deny  is,  that  there  is  any  such  thing  as  divination.   "  But  the  soothsayers  are  diviners ;  and  after  Tiberius  Gracchus  had  introduced  them  into  the  senate,  on  account  of  the  sudden  death  of  the  individual  whose  office  it  was  to  report  the  order  of  the  elections,  they  said  that  the  Comitia  had  not  been  legally  constituted."   Now,  in  reference  to  this  case,  observe  that  they  could  not  speak  by  authority  of  the  summoner  of  the  president  of  the  centuries,  for  he  was  dead;  and  conjecture  without  divination  could  say  that.  Or  perhaps  what  they  said  was  no  better  than  the  result  of  chance,  which  prevails  to  a  considerable  extent  in  all  affairs  of  this  nature.  For  what  could  the  sooth  sayers  of  Etruria  know  as  to  whether  the  tent  they  observed  was  as  it  should  be,  and  whether  the  regulations  of  the  pomoerium,  or  circumvallation,  were  exactly  obeyed.   For  myself,  I  agree  with  the  sentiments  of  Caius  Marcellus  rather  than  with  those  of  Appius  Claudius,  who  were  both  of  them  my  colleagues ;  and  I  think  that,  although  the  college  and  law  of  augurs  were  first  instituted  on  account  of  the  reverence  entertained  for  divination  in  ancient  times,  they  were  afterwards  maintained  and  preserved  for  the  sake  of  the  state.   XXXVI.  Of  this,  however,  more  elsewhere.  At  present,  let  us  examine  the  auguries  of  other  nations  who  have  evinced  therein  more  superstition  than  art.  They  make  use  of  all  kinds  of  birds  for  their  auspices;  we  confine  ourselves  to  few:  and  one  set  of  omens  are  reckoned  unfavourable  by  them,  and  a  different  set  by  us.   King  Deiotarus  often  asked  me  for  an  account  of  our  discipline  and  system  of  divination,  and  I  asked  him  for    232  ON    DIVINATION.   information  aoout  nis.  Good  heavens !  how  different  were  the  two  methods ,  in  some  instances,  so  much  so  as  to  be  downright  contradictory  to  one  another.  And  he  had  re  course  to  augurs  on  all  occasions ;  but  how  very  seldom  do  we  apply  to  them  unless  the  auspices  are  required  by  the  people  !   Our  ancestors  were  unwilling  to  wage  any  war  without  consulting  the  auspices.  But  how  many  years  have  elapsed  since  this  ceremony  has  been  neglected  by  our  proconsuls  and  propraetors  ?  They  never  take  auspices ;  they  do  not  pass  over  rivers  by  the  encouragement  of  omens ;  nor  do  they  wait  for  the  intimation  of  the  sacred  chickens.   As  to  that  divination  which  consists  in  observing  the  flight  of  birds  from  some  elevated  spot — once  considered  of  so  much  consequence  in  military  expeditions, — Marcus  Marcellus,  who  was  consul  five  times,  as  well  as  imperator  and  chief  augur  too,  omitted  it  altogether.  What  is  become,  then,  of  divina  tion  by  birds,  which  (as  wars  are  carried  on  by  people  who  take  no  care  about  any  auspices)  seems  to  be  retained  by  the  city  magistrates,  while  it  is  renounced  by  our  military  com  manders  ?  So  much  did  Marcellus  despise  auspices,  that  when  he  was  proceeding  on  any  enterprise,  he  was  accustomed  to  travel  in  a  closed  litter,  that  he  might  not  be  liable  to  be  hindered  by  them.  And  we  augurs  now-a-days  act  much  in  the  same  way,  when,  for  fear  of  what  is  called  a  joint  auspice,  we  order  the  sacrificial  cattle  to  be  separated  from  each  other.  Not  that  I  commend  conduct  like  this ;  for  to  make  these  contrivances,  either  that  an  auspice  should  not  happen  at  all,  or  that  if  it  happens  it  should  not  be  seen, —  what  is  it  but  an  attempt  to  avoid  the  admonitions  of  Jupiter  ?   XXXVII.  It  is  ridiculous  enough  for  you  to  assert  that  this  king  Deiotarus  did  not  repent  of  having  believed  the  auspices  which  he  experienced  when  he  went  in  search  of  Pompey,  because  he  had,  by  doing  his  duty,  thus  secured  the  fidelity  and  friendship  of  the  Romans ;  for  that  praise  and  glory  were  dearer  to  him  than  his  kingdom  and  possessions.  I  dare  say  they  were ;  but  this  has  nothing  to  do  with  the  auspices.  Surely  no  crow  could  inform  him  that  it  was  a  piece  of  magnanimity  to  defend  the  liberty  of  the  Roman  people.  It  was  he  himself  who  felt  spontaneously  what  he  did  feel;  and    ON    DIVINATION.  233   birds  can  do  no  more  than  signify  bare  events,  be  they  for  tunate  or  disastrous.   Thus,  I  conceive  that  Deiotarus  in  this  affair  followed  no  other  auspices  than  those  of  conscience,  which  taught  him  to  prefer  his  duty  to  his  interest.  But  if  the  birds  showed  him  that  the  result  would  be  prosperous,  they  certainly  deceived  him  ;  for  he  fled  from  the  battle,  together  with  Pompey,  and  a  grievous  time  it  was  for  him.  From  this  general  he  was  compelled  to  separate — another  affliction  ;  and,  to  crown  his  troubles,  he  soon  had  Csesar  quartered  upon  him,  both  as  a  guest  and  an  enemy.  What  could  be  more  painful  than  this  ?  Lastly ,  Csesar,  after  having  deprived  him  of  the  tetrarchy  of  the  Trogini,  and  bestowed  it  on  a  certain  Pergamenian  of  his  train, — after  having  likewise  deprived  him  of  Armenia,  which  had  been  granted  him  by  the  senate, — after  having  been  entertained  by  him  with  most  princely  hospitality,  left  his  entertainer  the  king  wholly  stripped  of  his  possessions.   It  is  needless  to  add  more.  I  will  return  to  my  original  subject.  If  we  seek  to  know  events  by  those  auspices  which  are  sought  from  birds,  it  appears  by  this  argument  that  no  birds  could  truly  have  predicted  prosperity  to  king  Deiotarus.  If  we  want  to  know  our  duty,  that  is  not  to  be  sought  from  augury,  but  from  virtue.   XXXVIII.  I  say  nothing,  then,  of  the  augural  staff  of  Romulus,  which  you  declare  to  have  remained    unconsumed  by  fire  in  the  midst  of  a  general  conflagration ;  and  pass  over  the  razor  of  Attius  Navius,  which  is  reported  to  have  cut  through  a  whetstone.  Such  fables  as  these  should  not  be  admitted  into  philosophical  discussions.   What  a  philosopher  has  to  do  is,  first,  to  examine  the  nature  of  the  augural  science,  to  investigate  its  origin,  and  to  pursue  its  history.  But  how  pitiful  is  the  nature  of  a  science  which  pretends  that  the  eccentric  motions  of  birds  are  full  of  ominous  import,  and  that  all  manner  of  things  must  be  done,  or  left  undone,  as  their  flights  and  songs  may  indicate !  How  can  their  inclinations  to  the  right  or  left  determine  the  power  of  auspices  ?  and  how,  when,  and  by  wrhom  were  such  absurd  regulations  as  these  invented  ?   The  Etrurian  soothsayers  hold  as  the  author  of  their  dis  cipline  a  child  whom  a  ploughshare  suddenly  dug  up  from  a  clod  of  the  earth.  Whom  do  we  Romans  look  upon  as  the    26i  ON    DIVINATION.   author  of  ours  ?  Is  it  Attius  Navius  ?  But  Romulus  and  Remus  lived  several  years  before  him,  and  they  were  both  augurs,  as  we  are  informed.  Shall  we  call  our  system  the  invention  of  the  Pisidians,  the  Cilicians,  or  the  Phrygians  1  Shall  we,  by  speaking  thus,  call  men  devoid  of  all  civilization  the  authors  of  divination  ?   XXXIX.  "  But,"  you  say,  "  all  kings,  people,  and  nations  use  auspices ; "  as  if  there  was  anything  in  the  world  so  very  common  as  error  is,  or  as  if  you  yourself,  in  judging,  were  guided  by  the  opinion  of  the  multitude.   How  few,  for  instance,  are  there  who  deny  that  pleasure  is  a  good  :  most  people  even  think  it  the  chief  good.  But  is  the  Stoic  frightened  from  his  creed  by  their  numbers  ?  or  does  the  multitude  follow  their  authority  in  many  things  1  What  wonder  is  there,  then,  if  in  respect  of  auspices,  and  all  kinds  of  divinations,  weak  spirits  are  affected  by  those  popular  superstitions,  though  they  cannot  overturn  the  truth  1   And  what  uniformity  or  settled  agreement  exists  between  augurs  1  The  poet  Ennius,  referring  to  our  Roman  augurs,  says —   When  on  the  left  it  thunders,  all  goes  well.   In  Homer,  on  the  contrary,  Ajax,1  making  some  complaint  or  other  to  Achilles  about  the  ferocity  of  the  Trojans,  speaks  in  this  manner —   For  them  the  father  of  the  Gods  declares,  His  omens  on  the  right,  his  thunder  theirs.   So  that  omens  on  the  left  appear  fortunate  to  us,  while  the  Greeks  and  barbarians  prefer  those  on  the  right.  Although  I  am  not  unaware  that  our  Romans  call  prosperous  signs  sinistra,  even  if  they  are  in  fact  dextra.  But  certainly  our  countrymen  used  the  term  sinistra,  and  foreigners  the  word  dextra,  because  that  usually  appeared  the  best.  How  great,  however,  is  this  contrariety !  Why  need  I  stop  to  mention  that  they  use  different  birds  and  different  signs  from  our  selves?  they  take  their  observations  in  a  different  way,  and  give  answers  in  a  different  way;  and  it  is  superfluous  to  admit  that  some  of  these  modes  are  adopted  through  error,  some  through  superstition,  and  that  they  often  mislead.   XL.  To  this  catalogue  of  superstitions  you  have  not  hesi-   1  This  is  another  piece  of  forge tfulness  on  the  part  of  Cicero.— See  Iliad,  ix.  236.    OX    DIVINATION.  235   tated  to  add  a  number  of  omens  and  presages.  For  instance,  you  have  quoted  the  words  which  ./Emilia  addressed  to  Paulus,  that  Perses  had  perished  ;  which  Paulus  received  as  an  omen  of  success.  You  quote  likewise  the  speech  that  Cecilia  made  to  her  sister's  daughter — "  I  yield  my  place  to  you."  Nor  is  this  all :  you  cite  the  phrase,  favete  linguis  (keep  silence)  ;  and  you  extol  the  prerogative  presage  derived  from  the  name  of  the  person  who  takes  precedence  in  the  elections  of  the  comitia.  I  call  this  being  ingenious  and  eloquent  against  yourself;  for  how,  if  you  attend  to  things  like  these,  can  your  mind  be  free  and  calm  enough  to  follow,  not  supersti  tion,  but  reason,  as  your  guide  in  action  1  Is  it  not  so  ?  If  any  one,  while  speaking  on  his  own  affairs,  in  the  course  of  his  common  conversation,  drops  a  word  that  may  seem  to  you  to  bear  on  anything  which  you  are  thinking  or  doing,  shall  that  circumstance  inspire  you  with  either  fear  or  energy?   When  Marcus  Crassus  was  embarking  his  army  at  Brundu-  sium,  a.  certain  itinerant  vender  of  figs  from  Caunus  cried  out  in  the  harbour,  "  Will  you  buy  any  cauneas  /"  Let  us  say,  if  you  please,  that  this  was  an  omen  against  Crassus's  expedition ;  for  that  it  was  as  much  as  to  say,  Cave  ne  eas  (Beware  how  you  go),  and  that  if  Crassus  had  obeyed  the  omen  he  would  not  have  perished.  But  if  we  regard  such  omens  as  these,  we  shall  have  to  take  notice  of  sneezes,  the  breaking  of  a  shoe-tie,  or  the  tripping  over  a  pebble  in  walking.   It  now  remains  for  us  to  speak  of  the  lots,  and  the  Chal  dean  astrologers,  vaticinations,  and  dreams.  And  first  let  us  speak  of  lots.   XLI.  What,  now,  is  a  lot?  Much  the  same  as  the  game  of  mora,  or  dice, !  and  other  games  of  chance,  in  which  luck  and  fortune  are  all  in  all,  and  reason  and  skill  avail  nothing.  These  games  are  full  of  trick  and  deceit,  invented  for  the  object  of  gain,  superstition,  or  error.   But  let  us  examine  the  imputed  origin  of  the  lots,  as  we  did  that  of  the  system  of  the  soothsayers.   We  read  in  the  records  of  the  Prsenestines,  that  Numeriua  Sufnicius,  a  man  of  high  reputation  and  rank,  had  often  been  commanded  by  dreams  (which  at  last  became  very  threaten-   !  The  Latin  has  quod  talos  jacere,  quod  tesseras, — tali  being  dice  with  four  flat  and  two  round  sides,  and  tesserce  dice  with  six  flat  sides.    236  ON    DIVINATION.   ing)  to  cut  a  flint-stone  in  two,  at  a  particular  spot.  Being  extremely  alarmed  at  the  vision,  he  began  to  act  in  obedience  to  it,  in  spite  of  the  derision  of  his  fellow-citizens;  and  he  had  no  sooner  divided  the  stone,  than  he  found  therein  certain  lots,  engraved  in  ancient  characters  on  oak.  The  spot  in  •which  this  discovery  took  place  is  now  religiously  guarded,  being  consecrated  to  the  infant  Jupiter,  who  is  represented  with  Juno  as  sitting  in  the  lap  of  Fortune,  and  sucking  her  breasts,  and  is  most  chastely  worshipped  by  all  mothers.   At  the  same  time  and  place  in  which  the  Temple  of  For  tune  is  now  situated,  they  report  that  honey  flowed  out  of  an  olive.  Upon  this  the  augurs  declared  that  the  lots  there  instituted  would  be  held  in  the  highest  honour;  and,  at  their  command,  a  chest  was  forthwith  made  out  of  this  same  olive-  tree,  and  therein  those  lots  are  kept  by  which  the  oracles  of  Fortune  are  still  delivered.  But  how  can  there  be  the  least  degree  of  sure  and  certain  information  in  lots  like  these,  which,  under  Fortune's  direction,  are  shuffled  and  drawn  by  the  hands  of  a  child  ?  How  were  the  lots  conveyed  to  this  particular  spot,  and  who  cut  and  carved  the  oak  of  which  they  are  composed  1   "  Oh,"  say  they,  "  there  is  nothing  which  God  cannot  do."  I  wish  that  he  had  made  these  Stoical  sages  a  little  less  inclined  to  believe  every  idle  tale,  out  of  a  superstitious  and  miserable  solicitude.   The  common  sense  of  men  in  real  life  has  happily  succeeded  in  exploding  this  kind  of  divination.  It  is  only  the  antiquity  and  beauty  of  the  Temple  of  Fortune  that  any  longer  pre  serves  the  Prsenestine  lots  from  contempt  even  among  the  vulgar.  For  what  magistrate,  or  man  of  any  reputation,  ever  resorts  to  them  now?  And  in  all  other  places  they  are  wholly  disregarded  ;  so  that  Clitomachus  informs  us,  that  with  refe  rence  to  this,  Carneades  was  wont  to  say  that  he  had  never  been  so  fortunate  as  when  he  saw  Fortune  at  Prseneste.  So  we  will  say  no  more  on  this  topic.   XLII.  Let  us  now  consider  the  prodigies  of  the  Chaldeans.  Eudoxus,  who  was  a  disciple  of  Plato,  and,  in  the  judgment  of  the  greatest  men,  the  first  astronomer  of  his  time,  formed  the  opinion,  and  committed  it  to  writing,  that  no  credence  should  be  given  to  the  predictions  of  the  Chaldeans  in  their  calculation  of  a  man's  life  from  the  day  of  his  nativity.    ON   DIVINATION.  237   Paneetius,  who  is  almost  the  only  Stoic  who  rejects  astro  logical  prophecies,  says  that  Archelaus  and  Cassander,  the  two  principal  astronomers  of  the  age  in  which  he  himself  lived,  set  no  value  on  judicial  astrology,  though  they  were  very  celebrated  for  their  learning  in  other  parts  of  astronomy.  Scylax  of  Halicarnassus,  a  great  friend  of  Pansetius,  and  a  first-rate  astronomer,  and  chief  magistrate  of  his  own  city,  likewise  rejected  all  the  predictions  of  the  Chaldeans.   But  to  proceed  merely  on  reason,  omitting  for  the  present  the  testimony  of  these  witnesses.   Those  who  put  faith  in  the  Chaldeans,  and  their  calcu  lations  of  nativities,  and  their  various  predictions,  argue  in  this  manner  :  they  affirm  that  in  that  circle  of  constellations  which  the  Greeks  term  the  Zodiac  there  resides  a  ceiiain  energy,  of  such  a  character  that  each  portion  of  its  circum  ference  influences  and  modifies  the  surrounding  heavens  ac  cording  to  what  stars  are  in  those  and  the  neighbouring  parts  at  each  season ;  and  that  this  energy  is  variously  affected  by  those  wandering  stars  which  we  call  planets.  But  when  they  come  into  that  portion  of  the  circle  in  which  is  situated  the  rise  of  that  star  which  appears  anew,  or  into  that  which  has  anything  in  conjunction  or  harmony  with  it,  they  term  it  the  true  or  quadrate  aspect.   And  moreover,  as  there  happen  at  every  season  of  the  year  several  astronomical  revolutions,  owing  to  approximations  and  retirements  of  the  stars  which  we  see,  which  are  affected  by  the  power  of  the  sun, — they  think  it  not  merely  probable,  but  true,  that  according  to  the  temperature  of  the  atmosphere  at  the  time  must  be  the  animation  and  formation  of  children  from  their  mother's  womb  ;  and  that  their  genius,  disposition,  temper,  constitution,  behaviour,  fortune,  and  destiny  through  life  depend  upon  that.   XLIII.  What  an  incredible  insanity  is  this !  for  every  error  does  not  deserve  the  mere  name  of  folly.  The  Stoic  Diogenes  grants,  that  the  Chaldeans  possess  the  power  of  foreseeing  certain  events ;  to  the  limit,  that  is,  of  predicting  what  a  child's  disposition  and  his  particular  talent  and  ability  are  likely  to  be.  But  he  denies  that  the  other  things  which  they  profess  can  possibly  be  known.  For  instance ;  two  twins  may  re  semble  each  other  in  appearance,  and  yet  their  lives  and  fortunes  may  be  entirely  dissimilar.    238  ON   DIVINATION'.   Procles  and  Eurysthenes,  kings  of  the  Laceduemonians,  were  twin-brethren.  But  they  did  not  live  the  same  number  of  years ;  for  Procles  died  a  year  before  his  brother,  and  much  excelled  him  in  the  glory  of  his  actions.   But  I  question  whether  even  that  portion  of  prophetic  power  which  the  worthy  Diogenes  concedes  to  the  Chaldeans,  by  a  sort  of  prevarication  in  argument,  can  be  fairly  ascribed  to  them.  For,  as  according  to  them  the  birth  of  infants  is  regulated  by  the  moon,  and  as  the  Chaldeans  observe  and  take  notice  of  the  natal  stars  with  which  the  moon  happens  to  be  in  conjunction  at  the  moment  of  a  nativity,  they  are  founding  their  judgment  on  the  most  fallacious  evidence  of  their  eyes,  as  to  matters  which  they  ought  to  behold  by  reason  and  intellect.  For  the  science  of  Mathematics,  with  which  they  ought  to  be  acquainted,  should  teach  them  the  comparative  proximity  of  the  moon  to  the  earth,  and  its  re  lative  remoteness  from  the  planets  Venus  and  Mercury,  and  especially  from  the  sun,  whose  light  it  is  supposed  to  borrow.  And  the  other  three  intervals,  those,  namely,  which  separate  the  sun  from  Mars  and  from  Jupiter  and  from  Saturn,  and  the  distance  also  between  that  and  the  heaven,  which  is  the  bound  and  limit  of  our  universe,  are  infinite  and  immense.  What  influence,  then,  can  such  distant  orbs  ti'ansmit  to  the  moon,  or  rather  to  the  earth?   XLIV.  Moreover,  when  these  astrologers  maintain,  as  they  are  bound  to  maintain,  that  all  children  that  are  born  on  the  earth  under  the  same  planet  and  constellation,  having  the  same  signs  of  nativity,  must  experience  the  same  destinies,  they  make  an  assertion  which  evinces  the  greatest  ignorance  of  astronomy.  For  those  circles  which  divide  the  heaven  into  hemispheres — circles  which  the  Greeks  call  horizons,  and  the  Latins  finientes — perpetually  vary  according  to  the  spot  from  which  they  are  drawn ;  and,  therefore,  the  risings  and  settings  of  the  stars  appear  to  take  place  at  different  seasons  to  dif  ferent  races  of  men.   If,  then,  the  condition  of  the  atmosphere  is  affected  by  the  energy  and  virtue  of  the  stars,  sometimes  in  one  way  and  sometimes  in  another,  how  can  those  children  who  are  born  at  the  same  time  in  different  climates  be  subject  to  the  same  starry  influences  in  various  quarters  of  the  globe  1  For  instance,  in  the  country  which  we  Romans  inhabit,  the  dog-    ON    DIVIXATION.  239   star  rises  some  days  after  the  summer  solstice,  while  among  the  Troglodytes,  a  people  of  Africa,  it  is  said  to  rise  before  it.  So  that  if  I  were  to  grant  that  the  heavenly  influences  have  an  effect  upon  all  the  children  who  are  born  upon  the  earth,  it  would  follow,  that  all  who  are  born  at  the  same  time  in  different  regions  of  the  earth,  must  be  born  not  with  the  same  but  with  different  inclinations  according  to  the  different  conditions  of  climate;  which,  however,  they  by  no  means  admit.  For  they  persist  in  maintaining  that  all  chil  dren  who  are  born  at  the  same  period,  have  at  their  nativity  the  same  astrological  destinies  allotted  to  them,  whatever  their  native  country  may  be.   XLV.  But  what  folly  is  it  to  imagine,  that  while  attending  to  the  swift  motions  and  revolutions  of  heaven,  we  should  take  no  notice  of  the  changes  of  the  atmosphere  immediately  around  us, — its  weather,  its  winds,  and  rains — when  weather  differs  so  much  even  in  places  which  are  nearest  to  one  another,  that  there  is  often  one  weather  at  Tusculum  and  another  at  Rome ;  as  is  especially  remarked  by  sailors,  who,  after  having  doubled  a  cape,  often  find  the  greatest  possible  change  in  the  wind.   When  the  calmness  or  disturbed  state  of  the  weather  is  so  variable,  is  it  the  part  of  a  man  in  his  senses  to  say  that  these  circumstances  have  no  effect  on  the  births  of  children  happen  ing  at  that  moment,  (as,  indeed,  they  have  not,)  and  yet  to  affirm,  that  that  subtle  and  indefinable  thing,  which  cannot  be  felt  at  all,  and  can  scarcely  be  comprehended,  —  namely,  the  conjuncture  which  arises  from  the  moon  and  other  stars,  does  affect  the  birth  of  children  1 — What?  is  it  a  slight  error,  not  to  understand  that  by  this  system  that  energy  of  seminal  principles  which  is  of  so  much  influence  in  begetting  and  procreating  the  child  is  utterly  put  out  of  sight? — for  who  can  help  observing  that  the  parents  impress  on  their  children,  to  a  great  extent,  their  own  forms,  manners,  features,  and  gestures.  Now  this  could  hardly  happen  if  it  were  not  the  power  and  nature  of  the  parents  which  was  the  efficient  cause,  but  the  condition  of  the  moon  and  the  temperature  of  the  heavens.   Why  need  I  press  the  argument  that  those  who  are  born  at  one  and  the  same  moment,  are  dissimilar  in  their  nature,  their  lives,  and  their  circumstances  ?    240  ON    DIVINATION.   XLVI.  Besides,  is  there  any  doubt  that  many  persons,  though  they  were  born  with  great  bodily  defects,  are  never  theless  afterwards  cured  of  them,  and  set  right  by  the  self-  corrective  power  of  their  nature,  or  by  the  attention  of  their  nui-ses,  or  the  skill  of  their  physicians?  or  that  many  chil  dren  have  been  born  so  tongue-tied  that  they  could  not  speak,  and  yet  have  been  cured  by  the  application  of  the  knife '?  Many  likewise  by  meditation  or  exercise  have  removed  their  natural  infirmities.  Thus  Phalereus  records  that  Demos  thenes  when  young  could  not  pronounce  the  letter  R ;  but  afterwards  by  constant  practice  he  learnt  to  articulate  it  perfectly.  Now,  if  such  defects  had  been  occasioned  by  the  influence  of  the  stars,  nothing  could  have  altered  them.   Need  I  say  more?  Does  not  difference  of  situation  make  races  of  men  different  1  It  is  easy  enough  to  give  a  list  of  such  instances;  and  to  point  out  what  differences  exist  be  tween  the  Indians  and  Persians,  the  ^Ethiopians  and  Syrians,  in  respect  both  of  their  persons  and  characters,  so  as  to  present  an  incredible  variety  and  dissimilarity.  And  this  fact  proves,  that  the  climate  influences  the  nativities  of  men  far  more  than  the  aspect  of  the  moon  and  stars.  For  though  some  pretend  that  the  Chaldean  astrologers  have  verified  the  nativities  of  children  by  calculations  and  experi  ments  in  the  cases  of  all  the  children  who  have  been  born  for  470,000  years,  this  is  a  mistake.  For  had  they  been  in  the  habit  of  doing  so,  they  would  never  have  given  up  the  practice.  But.  as  it  is,  no  author  remains  who  knows  of  such  a  thing  being  done  now,  or  ever  having  been  done.   XLVII.  You  see  that  I  am  not  using  the  arguments  of  Carneades,  but  those  rather  of  Pantetius,  the  chief  of  the  Stoics  But  answer  me  now  this  question.  Were  all  those  persons  who  were  slain  in  the  battle  of  Cannae  born  under  the  same  constellation,  as  they  met  with  one  and  the  same  end?  Again,  have  those  men  who  are  singular  in  their  genius  and  courage,  a  separate,  some  peculiar  star  of  their  own  too  1  For  what  moment  is  there  in  which  a  multitude  of  persons  are  not  born?  and  yet  no  one  has  ever  been  like  Homer.   And  if  the  aspect  of  the  stars  and  the  state  of  the  firma  ment  influenced  the  birth  of  every  being,  it  should,  by  parity  of  reasoning,  influence  inanimate  substances;  yet  what  can  be  more  absurd  than  such  an  idea?    OX   DIVIXAT10X.  241   I  grant,  indeed,  that  Lucius  Tarutius  of  Firma,  my  own  personal  friend,  and  a  man  particularly  well  acquainted  with  the  Chaldean  astrology,  traced  back  the  nativity  of  our  own  city,  Rome,  to  those  equinoctial  days  of  the  feast  of  Pales  in  which  Romulus  is  reported  to  have  begun  its  foundations,  and  asserted  that  the  moon  was  at  that  period  in  Libra,  and  on  this  discovery,  he  hesitated  not  to  pronounce  the  destinies  of  Rome.   Oh,  the  mighty  power  of  delusion !  Is  even  the  b'irth-day  of  a  city  subject  to  the  influence  of  the  stars  and  moon'?  Granting  even  that  the  condition  of  the  heavens,  when  he  draws  his  first  breath,  may  influence  the  life  of  a  child,  does  it  follow  that  it  can  have  any  effect  on  brick  or  cement,  of  which  a  city  is  composed?   Why  need  I  say  more?  Such  ideas  as  these  are  refuted  every  day.  How  many  of  these  Chaldean  prophecies  do  I  remember  being  repeated  to  Pompey,  Crassus,  and  to  Caesar  himself !  according  to  which,  not  one  of  these  heroes  was  to  die  except  in  old  age,  in  domestic  felicity,  and  perfect  renown ;  so  that  I  wonder  that  any  living  man  can  yet  believe  in  these  impostors,  whose  predictions  they  see  falsified  daily  by  facts  and  results.   -XLVIII.  It  only  remains  for  us  now  to  examine  those  ttfo  sorts  of  divination  which  you  term  natural,  as  distin  guished  from  artificial — namely,  vaticinations  and  dreams.  With  your  permission,  brother  Quiutus,  we  will  now  treat  of  these.   I  shall  be  very  well  pleased  to  hear  you,  (answered  Quintus,)  for  I  entirely  agree  with  all  you  have  hitherto  advanced,  and,  to  tell  you  the  truth,  although  I  have  had  my  feelings  on  the  subject  strengthened  by  your  arguments,  yet  of  my  own  accord  I  looked  upon  the  opinion  of  the  Stoics  respecting  divination  as  rather  too  superstitious,  and  was  more  inclined  to  favour  the  arguments  which  have  been  adduced  by  the  Peripatetics,  and  the  ancient  DicEearchus.  and  Cratippus,  who  now  flourishes,  who  all  maintain  that  there  exists  in  the  minds  of  men  a  certain  oracular  and  pro  phetic  power  of  presentiment,  whereby  they  anticipate  future  events,  whether  they  are  inspired  with  a  divine  ecstasy,  or  are  r.s  it  were  disengaged  from  the  body,  and  act  freely  and  easily  during  sleep.  I  wish  therefore  to  know  what  is  your  opinion   DE  NAT.  ETC.  K    242  ON    DIVINATION.   respecting  these  vaticinations  and  dreams,  and  by  what  ingenious  devices  you  mean  to  invalidate  them.   When  Quintus  had  thus  spoken,  I  proceeded  again  to  speak,  starting  afresh,  as  it  were,  from  a  new  beginning.   I  am  very  well  aware,  brother  Quintus,  I  replied,  that  you  have  always  entertained  doubts  respecting  the  other  kinds  of  divination;  but  that  you  are  very  favourable  to  the  two  natural  kinds — namely,  ecstasy  and  dreams,  which  appear  to  proceed  from  the  mind  when  at  liberty.   XLIX.  T  will  therefore  tell  you  my  idea  very  candidly  respecting  these  two  species  of  divination,  after  I  have  examined  a  little  the  sentiment  of  the  Stoics,  and  espe  cially  of  our  friend  Cratippus,  on  this  subject.  For  you  said  that  Cratippus,  Diogenes,  and  Antipater  summed  up  the  question  in  this  manner : — "  If  there  are  Gods,  and  they  do  not  inform  men  beforehand  respecting  future  events,  either  they  do  not  love  men,  or  do  not  know  what  is  going  to  happen;  or  they  think  that  the  knowledge  of  the  future  would  be  of  no  service  to  mankind ;  or  they  believe  it  incon  sistent  with  the  majesty  of  Gods  to  reveal  to  men  the  things  that  must  come  to  pass ;  or,  lastly,  we  must  believe  that  even  the  Gods  themselves  are  incapable  of  declaring  them.  But  we  cannot  say  that  the  Gods  do  not  love  man,  for  they  are  essentially  benevolent  and  philanthropic.  And  they  cannot  be  ignorant  of  those  things,  which  they  themselves  have  appointed  and  designed  :  neither  can  it  be  uninteresting  or  unimportant  to  us  to  know  what  must  happen  to  us,  for  we  should  be  more  prudent  if  we  did  know.  Nor  can  the  Gods  think  it  inconsistent  with  their  dignity  to  advertise  men  of  future  events,  for  nothing  can  be  more  sublime  than  doing-  good.  Nor  are  they  unable  to  perceive  the  future  before  hand.  If,  therefore,  there  are  no  Gods,  they  do  not  declare  the  future  to  us;  but  there  are  Gods,  therefore  they  do  declare.  And  if  the  Gods  declare  future  events  to  us,  they  must  have  furnished  us  with  means  whereby  we  may  appre  hend  them,  otherwise  they  would  declare  them  in  vain ;  and  if  they  have  given  us  the  means  of  apprehending  divination,  then  there  is  a  divination  for  us  to  apprehend — therefore  there  is  a  divination."   0  acutest  of  men,  in  what  concise  terms  do  they  think  that  they  have  settled  the  question  for  ever!  They  assume    ON   DIVINATION.  243   premises  to  draw  their  conclusion  from,  not  one  of  which  is  granted  to  them.  But  the  only  conclusion  of  an  argument  which  can  be  approved,  is  one  in  which  the  point  doubted  of  is  established  by  facts  which  are  not  doubtful.   L.  Do  you  not  see  how  Epicurus,  whom  the  Stoics  forsooth  term  a  blunderer,  reasons  in  order  to  prove  that  the  universe  is  infinite  in  the  very  nature  of  things  ?  That  which  is  finite,  says  he,  has  an  end.  Every  one  will  concede  this.  What  ever  has  an  end,  may  be  seen  externally  from  something  else.  This  also  may  be  granted  him.  Now  that  which  includes  all,  cannot  be  discerned  externally  from  anything  else.  This  proposition  likewise  appears  undeniable.  Therefore  that  which  includes  all,  having  no  end,  is  necessarily  infinite.  Thus  by  the  proposition  which  we  are  compelled  to  admit,  he  clearly  proves  the  point  in  question.   Now  this  is  just  what  you  dialecticians  have  not  yet  done  in  favour  of  divination ;  and  you  not  only  bring  forward  no  pro  position  as  your  premises,  so  self-evident  as  to  be  universally  admitted  ;  but  you  assume  such  premises  as,  even  if  they  be  granted,  your  desired  conclusion  would  be  as  far  as  ever  from  following.  For  instance,  your  first  proposition  is  this :  If  there  are  Gods  they  must  needs  be  benevolent.  Who  will  grant  you  this  1  Will  Epicurus,  who  asserts  that  the  Gods  do  not  care  about  any  business  of  their  own  or  of  others  ?  or  will  our  own  countryman  Ennius,  who  was  applauded  by  all  the  Romans,  when  he  said —   I've  always  argued  that  the  Gods  exist,  But  that  they  care  for  mortals  I  deny ;   and  then  gives  reasons  for  his  opinion ;  but  it  is  not  neces  sary  to  quote  him  further.  I  have  said  enough  to  show  that  your  friends  assume  as  certain,  propositions  which  are  matters  of  doubt  and  controversy.   LI.  The  next  proposition  is  this,  That  the  Gods  must  needs  know  all  things,  because  they  have  made  all  things.  But  how  great  a  dispute  is  there  as  to  this  fact  among  the  most  learned  men,  several  of  whom  deny  that  all  things  were  created  by  the  immortal  Gods !   Again,  they  assert,  that  it  is  the  interest  of  man  to  know  those  things  which  are  about  to  come  to  pass.  But  Dicsear-  chus  has  written  a  great  book  to  prove  that  ignorance  of  futurity  is  better  than  knowledge  of  futurity.   R2    244  ON    DIVINATION.   They  deny  that  it  is  inconsistent  with  the  majesty  of  the  Gods  to  look  into  every  man's  house,  forsooth,  so  as  to  see  what  is  expedient  for  each  individual.  Nor  is  it  possible,  say  they,  for  them  to  be  ignorant  of  the  future.  This  is  denied  by  those  who  will  not  allow  that  what  is  future  can  be  certain.  Do  not  you  see,  therefore,  that  they  have  assumed  as  certain  and  admitted  axioms,  things  which  are  doubtful  ?   After  which,  they  twist  the  argument  about  and  sum  it  up  thus :  "  Therefore,  there  are  no  Gods  ;  and  they  do  not  grant  men  intimations  of  the  future."  And,  having  settled  the  question  thus,  to  their  own  satisfaction,  they  add,  "  But  there  are  Gods  ;"  a  fact  which  is  not  admitted  by  all  men  ;  "  there  fore,  they  do  grant  intimations."  Even  that  consequence  I  cannot  see  ;  for  they  may  grant  no  intimations  of  the  future  and  yet  exist  as  Gods.   Again,  it  is  asserted  ;  If  the  Gods  grant  intimations  to  men  respecting  future  events,  they  must  grant  some  means  of  explaining  these  intimations.  But  surely  the  contrary  may  be  the  case ;  for  the  Gods  may  keep  to  themselves  the  mean  ing  of  the  signs  which  they  impart  to  men ;  for  else,  why  should  they  teach  it  to  the  Etrurians  rather  than  to  the  Romans?   Again,  they  argue,  that  if  the  Gods  have  given  men  the  means  of  understanding  the  signs  they  impart,  then  the  existence  of  divination  is  manifest.  Biit  grant  that  the  Gods  do  give  such  means,  what  does  it  avail,  if  we  happen  to  be  incapable  of  receiving  them  1   Last  of  all,  their  conclusion  is ;  Therefore,  there  certainly  is  such  a  thing  as  divination.  It  may  be  their  conclusion,  but  it  is  not  proved;  for,  as  they  themselves  have  taught  us,  •'  false  premises  cannot  produce  a  true  result."  Therefore,  the  whole  conclusion  falls  to  the  ground.   LI  I.  Let  us  now  consider  the  arguments  of  that  most  excellent  man,  our  friend  Cratippus.  As,  says  he,  the  use  and  function  of  sight  cannot  exist  without  the  eyes — and  yet  the  eyes  do  not  always  perform  their  office, — and,  as  he  who  has  once  enjoyed  correct  sight,  so  as  to  see  what  truly  exists,  is  conscious  of  the  reality  of  vision ; — so,  if  the  practice  of  divination  cannot  exist  without  the  power  of  divination — and  though  in  the  exercise  of  this  power  of  divination  some  errors  may  occur,  and  the  diviner  may  be  misled  so  as  not  to  foresee    ON    DIVINATION.  245   the  truth ;  yet  the  existence  of  divination  is  sufficiently  attested  by  the  fact  that  some  true  divinations  have  been  made,  containing  such  exact  predictions  of  all  the  particulars  of  future  events,  that  they  can  never  have  been  made  by  chance,  — of  which  numerous  instances  might  be  cited.  The  exist  ence  of  divination  must  therefore  be  admitted.   The  argument  is  neatly  and  concisely  stated.  But  Cra-  tippus  twice  assumes  what  he  wishes  to  prove  ;  and  even  if  we  were  willing  to  grant  him  very  large  concessions,  we  could  not  possibly  agree  with  his  conclusions.   His  argument  is  this  :  Though  the  eyes  should  sometimes  possess  very  imperfect  sight,  yet,  provided  they  sometimes  see  clearly,  it  is  evident  that  the  power  of  vision  is  in  them.  On  the  same  principle,  if  any  one  has  ever  once  uttered  a  true  divination,  he  must  always  be  considered  as  possessing  the  faculty  of  divining,  even  when  he  blunders.   LIII.  Now  I  entreat  you,  my  dear  Cratippus,  to  consider  how  little  is  the  resemblance  between  these  two  cases.  To  me  there  is  none  at  all.  The  eyes  which  see  clearly  exert  no  more  than  their  natural  faculty  of  sight.  But  minds,  if  they  have  sometimes  truly  foreseen  future  events,  either  in  ecsta  sies  or  dreams,  have  done  so  by  fortune  and  accident ;  unless,  indeed,  you  imagine  those  who  believe  that  dreams  are  but  dreams,  will  grant  you  that  when  they  happen  to  dream  any  thing  that  is  true,  it  is  no  longer  the  effect  of  chance.   But  we  may  concede  for  the  present  these  two  assumptions  of  Cratippus,  which  the  Greek  dialecticians  would  call  lem  mata.  But  we  prefer  speaking  in  Latin  ;  still  the  presump  tion,  which  they  term  prolepsis,  cannot  be  granted.   Cratippus  goes  on  assuming  premises  in  this  manner  :  There  are,  says  he,  presentiments  innumerable  which  are  not  fortuitous.  Now  this  we  absolutely  deny.  See  how  great  is  the  magnitude  of  the  difference  between  us.  Not  being  able  to  agree  with  his  premises,  I  assert  that  he  has  drawn  no  conclusion.  Oh,  but  perhaps  it  is  very  impudent  of  us  not  to  concede  a  point  which  is  so  clear !  But  what  is  clear  ?  "  Why,"  he  replies,  "  that  many  predictions  are  fulfilled."  Yes ;  but  are  there  not  many  more  which  are  not  fulfilled  ?  Does  not  this  very  variation,  which  is  the  peculiar  property  of  fortune,  teach  us  that  fortune,  not  nature,  regulates  such  predictions  ?    246  ON   DIVINATION.   Moreover,  if  your  conclusion  is  true,  0  renowned  Cratip-  pus  ! — for  to  you  I  address  myself — do  not  you  perceive  that  the  soothsayers,  and  those  who  predict  by  thunder  and  light  ning,  and  the  interpreters  of  prodigies,  and  the  augurs,  and  the  Chaldean  astrologers,  and  those  who  tell  fortunes  by  drawing  lots,  will  all  bring  forward  the  same  argument  as  yourself  in  their  own  favour?  Not  one  of  these  men  has  been  so  unfortunate  as  never  on  any  occasion  to  find  his  pre  dictions  verified.  This  being  the  case,  you  must  either  admit  all  the  other  kinds  of  divination  which  you  now  most  properly  reject;  or,  if  you  absolutely  condemn  them,  I  do  not  see  how  you  will  be  able  to  defend  those  two  which  you  retain  as  favourable  exceptions.  For  on  the  same  principle  that  you  maintain  these,  the  others  also  may  be  true  which  you  discard.   LIV.  But  what  authority  has  this  same  ecstasy,  which  you  choose  to  call  divine,  that  enables  the  madman  to  foresee  things  inscrutable  to  the  sage,  and  which  invests  with  divine  senses  a  man  who  has  lost  all  his  human  ones  1   We  Romans  preserve  with  solicitude  the  verses  which  the  Sibyl  is  reported  to  have  uttered  when  in  an  ecstasy, — the  interpreter  of  which  is  by  common  report  believed  to  have  recently  uttered  certain  falsities  in  the  senate,  to  the  effect  that  he  whom  we  did  really  treat  as  king  should  also  be  called  king,  if  we  would  be  safe.  If  such  a  prediction  is  indeed  contained  in  the  books  of  the  Sibyl,  to  what  particular  person  or  period  does  it  refer  ?  For,  whoever  was  the  author  of  these  Sibylline  oracles,  they  are  very  ingeniously  com  posed  ;  since,  as  all  specific  definition  of  person  and  period  is  omitted,  they  in  some  way  or  other  appear  to  predict  everything  that  happens.  Besides  this,  the  Sibylline  oracles  are  involved  in  such  profound  obscurity,  that  the  same  verses  might  seem  at  different  times  to  refer  to  different  subjects.   It  is  evident,  however,  that  they  are  not  a  song  composed  by  any  one  in  a  prophetic  ecstasy,  as  the  poem  itself  evinces,  being  far  less  remarkable  for  enthusiasm  and  inspiration  than  for  technicality  and  labour ;  and  as  is  especially  proved  by  that  arrangement  which  the  Greeks  call  acrostics — where,  from  the  first  letter  of  each  verse  in  order,  words  are  formed  which  express  some  particular  meaning ;  as  is  the  case  with    ON   DIVINATION.  247   some  of  Ennius's  verses,  the  initial  letters  of  which  make,  ""Which  Ennius  wrote."  But  such  verses  indicate  rather  attention  than  ecstasy  in  those  who  write  them.   Now,  in  the  verses  of  the  Sibyl,  the  whole  of  the  paragraph  on  each  subject  is  contained  in  the  initial  letters  of  every  verse  of  that  same  paragraph.  This  is  evidently  the  artifice  of  a  practised  writer,  not  of  one  in  a  frenzy  ;  and  rather  of  a  diligent  mind  than  of  an  insane  one.  Therefore,  let  us  con  sider  the  Sibyl  as  so  distinct  and  isolated  a  character,  that,  according  to  the  ordinance  of  our  ancestors,  the  Sibylline  books  shall  not  even  be  read  except  by  decree  of  the  senate,  and  be  used  rather  for  the  putting  down  than  the  taking  up  of  religious  fancies.  And  let  us  so  arrange  matters  with  the  priests  under  whose  custody  they  remain,  that  they  may  pro  phesy  anything  rather  than  a  king  from  these  mysterious  volumes  ;  for  neither  Gods  nor  men  any  longer  tolerate  the  notion  of  restoring  kingly  government  at  Rome.   LV.  But  many  people,  you  say,  have  in  repeated  instances  uttered  true  predictions ;  as,  for  example,  Cassandra,  when  she  said,  "  Already  is  the  fleet,'' '  &c. ;  and  in  a  subsequent  prophecy,  "Ah!  see  you  not?"  &c.  Do  you  then  expect  me  to  give  credence  to  these  fables  1  I  will  grant  that  they  are  as  delightful  as  you  please  to  call  them, — that  they  are  polished  up  with  every  conceivable  beauty  of  language,  sentiment,  music,  and  rhythm.  LuL  we  are  not  bound  to  invest  fictions  of  this  kind  with  any  authority,  or  to  give  them  any  belief.   And,  on  the  same  principle,  I  do  not  think  any  one  bound  to  pay  any  attention  to  such  diviners  as  Publicius  (whoever  he  may  be),  or  Martius,  or  to  the  secret  oracles  of  Apollo ;  of  which  some  are  notoriously  false,  and  others  uttered  at  i-an-  dom,  so  that  they  command  little  respect,  I  will  not  say  from  learned  men,  but  even  from  any  person  of  plain  common  sense.   "  What !"  you  will  say,  "  did  not  that  old  sailor  of  the  fleet  of  Coponius  predict  truly  the  events  which  took  place  ?"  No  doubt  he  did ;  but  they  happened  to  be  those  very  things  which  at  the  time  everybody  thought  most  likely  to  ensue.  For  we  were  daily  hearing  that  the  two  armies  were  situated  near  each  other  in  Thessaly ;  and  it  appeared  to  us  that  Caesar's  army  had  the  greater  audacity,  inasmuch  as  it  was  Sec  book  i.  chap.  31.  2  See  book  i.  chap.  50.    ^10  ON    DIVINATION.   waging  war  against  its  own  country,  and  the  greater  strength,  being  composed  of  veteran  soldiers.  And  as  to  the  battle,  there  was  not  one  of  us  who  did  not  dread  the  result,  though,  as  brave  men  should,  we  kept  our  anxiety  to  ourselves,  and  expressed  no  alarm.   What  wonder,  however,  was  it  that  this  Greek  sailor  was  forced  from  all  self-possession  and  constancy,  as  is  very  com  mon,  by  the  greatness  of  his  terror  and  affright ;  and  that,  being  driven  to  distraction  by  his  own  cowardice,  he  uttered  those  convictions  when  raving  mad  which  he  had  cherished  when  yet  sane  ?  Which,  in  the  name  of  Gods  and  men,  is  most  likely;  that  a  mad  sailor  should  have  attained  to  a  know  ledge  of  the  counsels  of  the  immortal  Gods,  or  that  some  one  of  us  who  were  on  the  spot  at  the  time — myself,  for  in  stance,  or  Cato,  or  Varro,  or  Coponius  himself — could  have  done  so  ?   LVI.  I  now  come  to  you,   Apollo,  monarch  of  the  sacred  centre   Of  the  threat  world,  full  of  thy  inspiration,   The  Pythian  priestesses  proclaim  thy  prophecies.   For  Chrysipyus  has  filled  an  entire  volume  with  your  oracles,  many  of  which,  as  I  said  before,  I  consider  utterly  false,  and  many  others  only  true  by  accident,  as  often  happens  in  any  common  conversation.  Others,  again,  are  so  obscure  and  involved,  that  their  very  interpreters  have  need  of  other  interpreters  ;  and  the  decisions  of  one  lot  have  to  be  referred  to  other  lots.  Another  portion  of  them  are  so  ambiguous,  that  they  require  to  be  analysed  by  the  logic  of  dialecticians.  Thus,  when  Fortune  uttered  the  following  oracle  respecting  Croesus,  the  richest  king  of  Asia, — •   "  When  Crocus  has  the  Halys  cross'd,  A  mifdity  kingdom  will  be  lost ;"   that  monarch  expected  he  should  ruin  the  power  of  his  enemies  ;  but  the  empire  that  he  ruined  was  his  own.  And  whichever  result  had  ensued  the  oracle  would  have  been  true.  But,  in  truth,  what  reason  have  I  to  believe  that  such  an  oracle  was  ever  uttered  respecting  Croesus  1  or  why  should  I  think  Herodotus  more  veracious  than  Ennuis'?  Is  the  one  less  full  of  fictions  respecting  Croesus  than  the  other  is  re  specting  Pyrrhus  1  For  who  now  believes  that  the  following  answer  was  given  to  Pyrrhus  by  the  oracle  of  Apollo  ? —    ON    DIVINATION.  249   "  You  ask  your  fate ;  0  king,  I  answer  you,  yEacides  the  Romans  will  subdue  ! "   For,  in  the  first  place,  Apollo  never  uttered  an  oracle  in  Latin ;  secondly,  this  oracle  is  altogether  unknown  to  the  Greeks.  Besides,  in  the  days  of  Pyrrhus,  Apollo  had  already  left  off  composing  verses.  Lastly,  although  it  was  always  the  case,  as  is  said  in  these  lines  of  Ennius, —   "  The  JEacids  were  but  a  stupid  race,  More  warlike  than  sagacious," —   yet  even  Pyrrhus  might  without  much  difficulty  have  per  ceived  the  ambiguity  of  the  phrase,   "  ^Eacides  the  Romans  will  subdue ;"   and  might  have  seen  that  it  did  not  apply  more  to  himself  than  it  did  to  the  Romans.   As  to  that  ambiguity  which  deceived  Croesus,  it  might  even  have  deceived  Chrysippus.  This  one  could  not  have  deluded  even  Epicurus.   LVII.  But  the  chief  argument  is,  why  are  the  Delphic  oracles  altered  in  such  a  way  that — I  do  not  mean  only  lately  in  our  own  time,  but  for  a  long  time — nothing  can  have  been  more  contemptible  1   When  we  press  our  antagonists  for  a  reason  for  this,  they  say  that  the  peculiar  virtue  of  the  spot  from  which  those  exhalations  of  the  earth  arose,  under  the  influence  and  excite  ment  of  which  the  Pythian  priestess  uttered  her  oracles,  has  disappeared  by  the  lapse  of  time.  You  might  suppose  they  were  speaking  of  wine  or  salt,  which  do  lose  their  flavour  by  lapse  of  time ;  but  they  are  talking  thus  of  the  virtue  of  a  place,  and  that  not  merely  a  natural,  but  a  divine  virtue;  and  how  is  that  to  have  disappeared  ?  By  reason  of  age,  is  your  reply.  But  what  age  can  possibly  destroy  a  divine  virtue  ?  and  what  virtue  can  be  so  divine  as  an  exhalation  of  the  earth  which  has  the  power  of  inspiring  the  mind,  and  ren  dering  it  so  prophetic  of  things  to  come,  that  it  can  not  only  discern  them  long  before  they  happen,  but  even  declare  them  in  verse  and  rhythm  ?  And  when  did  this  magical  virtue  dis  appear  1  Was  it  not  precisely  at  the  time  when  men  began  to  be  less  credulous  ?   Demosthenes,  who  lived  nearly  three  hundred  years  ago,  said  that  even  in  his  time  the  Pythia  Philippized — that  is  to    250  ON    D1VIXATION.   say,  supported  Philip's  influence ;  and  his  expression  was  meant  to  convey  the  imputation  that  she  had  been  bribed  by  Philip.  From  which  we  may  infer  that  other  oracles  besides  those  of  Delphi  were  not  quite  immaculate.  Somehow  or  other,  certain  philosophers  who  are  very  superstitious — not  to  say  fanatical — appear  to  prefer  anything  to  behaving  with  common  sense  themselves  ;  and  so  you  prefer  asserting  that  that  has  vanished,  and  become  extinct,  which,  if  it  ever  had  existed,  must  certainly  have  been  eternal,  rather  than  not  believe  what  is  wholly  incredible.   LVIII.  The  error  with  regard  to  the  divination  of  dreams  is  another  of  the  same  kind  ;  their  arguments  for  which  are  extremly  far-fetched  and  obscure.  They  affirm  that  the  minds  of  men  are  divine,  that  they  came  from  God,  and  that  the  universe  is  full  of  these  consenting  intelligences.  That,  therefore,  by  this  inherent  divinity  of  the  mind,  and  by  its  conjunction  with  other  spirits,  it  may  foresee  future  events.  But  Zeno  and  the  Stoics  supposed  the  mind  to  contract,  to  subside,  to  yield,  and  even  to  sleep,  itself.  And  Pythagoras  and  Plato,  authors  of  the  greatest  weight,  advise  men,  with  a  view  of  seeing  things  more  certainly  in  sleep,  to  go  to  bed  after  having  gone  through  a  certain  preparatory  course  of  food  and  other  conduct.  Pythagoras,  for  this  reason,  coun  selled  his  disciples  to  abstain  from  beans ;  with  the  idea  that  this  species  of  food  excited  the  mind,  not  the  stomach.  In  short,  somehow  or  other,  I  know  nothing  is  so  absurd  as  not  to  have  found  an  advocate  in  one  of  the  philosophers.   Do  we  then  think  that  the  minds  of  men  during  sleep  move  by  an  intrinsic  internal  energy,  or  that,  as  Democritus  pre  tends,  they  are  affected  with  external  and  adventitious  visions?  On  either  supposition  we  may  mistake  during  our  dreams  many  false  things  for  true.   For  to  people  sailing,  those  things  appear  to  be  in  motion  which  are  stationary,  and  by  a  certain  ocular  deception,  the  light  of  a  candle  sometimes  seems  double.  Why  need  I  in  stance  the  number  of  false  appearances  which  are  presented  to  the  eyes  of  men,  among  those  who  labour  under  drunken  ness,  or  maniacs  ?   Now,  if  we  cannot  trust  such  appearances  as  those,  I  know  not  why  we  are  to  place  any  absolute  reliance  on  the  visions  of  dreams;  for  you  might  as  well,  if  you  pleased,  argue  irom    ON    DIVINATION.  251   these  errors  as  from  dreams.  For  instance,  that  if  stationary  objects  appear  to  move,  you  might  say  that  this  appearance  indicated  the  approach  of  an  earthquake,  or  some  sudden  flight ;  and  that  lights  seen  double  presage  wars,  and  discords,  and  seditions.   LIX.  From  the  visions  of  drunkards  and  madmen  one  might,  doubtless,  deduce  innumerable  const  quences  by  con  jecture,  which  might  seem  to  be  presages  of  future  events.  For  what  person  who  aims  at  a  mark  all  day  long  will  not  sometimes  hit  it  1  We  sleep  every  night  ;  and  there  are  very  few  on  which  we  do  not  dream;  can  we  wonder  then  that  what  we  dream  sometimes  comes  to  pass  ?   What  is  so  uncertain  as  the  cast  of  dice  1  and  yet  no  one  plays  dice  often  without  at  times  casting  the  point  of  Venus,  and  sometimes  even  twice  or  thrice  in  succession.  Shall  we,  then,  be  so  absurd  as  to  attribute  such  an  event  to  the  impulse  of  Venus,  rather  than  to  the  doctrine  of  chances'?  If  then,  on  ordinary  occasions,  we  are  not  bound  to  give  credit  to  false  appearances,  I  do  not  see  why  sleep  should  enjoy  this  special  privilege,  that  its  false  seemings  should  be  honoured  as  true  realities.   If  it  were  an  institution  of  nature  that  men  when  they  sleep  really  did  the  things  which  they  dream  about,  it  would  be  necessary  to  bind  all  persons  going  to  bed  both  hand  and  foot,  for  they  would  otherwise  while  dreaming  perpetrate  more  outrages  than  maniacs.  Now  since  we  place  no  confi  dence  in  the  visions  of  madmen,  simply  because  they  are  delusions,  I  do  not  see  why  we  should  rely  on  those  of  dreamers,  which  are  often  the  wilder  of  the  two.  Is  it  because  madmen  do  not  think  it  worth  while  to  relate  their  visions  to  diviners,  but  those  who  dream  do  1   Once  more  I  put  this  question.  If  I  feel  inclined  to  read  or  write  anything,  or  to  sing  or  play  on  an  instrument,  or  to  pursue  the  sciences  of  geometry,  physics,  or  dialectics,  am  I  to  wait  for  information  in  these  sciences  from  a  dream,  or  shall  I  have  recourse  to  study,  without  which  none  of  those  things  can  be  either  done  or  explained  1  Again,  if  I  were  to  wish  to  take  a  voyage,  I  should  never  regulate  my  steering  by  my  dreams.  For  such  conduct  would  bring  its  own  im  mediate  punishment.   How,  then,  can  it  be  reasonable  for  an  invalid  to  apply  for    20'2  OX  DIVINATION.   relief  to  an  interpreter  of  dreams  rather  than  to  a  physician?  Can  Esculapius  or  Serapis,  by  a  dream,  best  prescribe  to  us  the  way  to  obtain  a  cure  for  weak  health  1  And  cannot  Neptune  do  the  same  for  a  pilot  in  his  art  ?  Or  will  Minerva  give  us  medicine  without  troubling  the  doctor?  And  still  will  the  Muses  refuse  to  impart  to  dreamers  the  art  of  writing,  reading,  and  the  other  sciences  ?  But  if  the  blessing  of  health  were  conveyed  to  us  in  dreams,  these  other  good  things  would  certainly  be  so  too.  But  unfortunately  the  science  of  medicine  cannot  be  learnt  in  dreams,  and  the  other  arts  are  in  a  similar  predicament.  And  if  that  be  the  case,  then  all  the  authority  of  dreams  is  at  an  end.   LX.  But  this  is  only  a  superficial  argument.  Let  us  now  penetrate  the  heart  of  this  question.   For  either  some  divine  energy  which  takes  care  of  us,  gives  us  presentiments  in  our  dreams  ;  or  those  who  explain  them  do,  by  a  certain  harmony  and  conjunction  of  nature  which  they  call  a~u/j.Tra.Oeia  (sympathy),  understand  by  means  of  dreams  what  is  suitable  for  everything,  and  what  is  the  con  sequence  of  everything  ;  or,  lastly,  neither  of  these  things  is  true  ;  but  there  is  a  constant  system  of  observation  of  long  standing,  by  which  it  had  been  remarked,  that  after  certain  dreams  certain  events  usually  follow.   The  first  thing  then  for  us  to  understand  is,  that  there  is  no  divine  energy  which  inspires  dreams ;  and  this  being  granted,  you  must  also  grant  that  no  visions  of  dreamers  proceed  from  the  agency  of  the  Gods.  For  the  Gods  have  for  our  own  sake  given  us  intellect  sufficiently  to  provide  for  our  future  welfare.  How  few  people  then  attend  to  dreams,  or  under  stand  them,  or  remember  them  !  How  many,  on  the  other  hand,  despise  them,  and  think  any  superstitious  observation  of  them  a  sign  of  a  weak  and  imbecile  mind !   Why  then  should  God  take  the  trouble  to  consult  the  interest  of  this  man,  or  to  warn  that  one  by  dreams,  when  ho  knows  that  they  not  only  do  not  think  them  worth  attending  to,  but  they  do  not  even  condescend  to  remember  them.  For  a  God  cannot  be  ignorant  of  the  sentiments  of  every  man,  and  it  is  unworthy  of  a  God  to  do  anything  in  vain,  or  without  a  cause  ;  nay,  that  would  be  unworthy  of  even  a  wise  man.  If,  therefore,  dreams  are  for  the  most  part  disregarded,  or  despised,  either  God  is  ignorant  of  that  being    ON   DIVIXATIOX.  253   the  fact,  or  employs  the  intimation  by  dreams  in  vain.  Neither  of  these  suppositions  can  properly  apply  to  God,  and  therefore  it  must  be  confessed,  that  God  gives  men  no  inti  mations  by  means  of  dreams.   LXI,  Again,  let  me  ask  you,  if  God  gives  us  visions  of  a  prophetic  nature,  in  order  to  apprise  us  of  future  events,  should  we  not  rather  expect  them  when  we  are  awake  than  when  we  are  asleep  1  For,  whether  it  be  some  external  and  adventitious  impulse  which  affects  the  minds  of  those  who  are  asleep,  or  whether  those  minds  are  affected  voluntarily  by  tiieir  own  agency,  or  whether  there  is  any  other  cause  why  we  seem  to  see  and  hear  or  do  anything  during  sleep,  the  same  impulses  might  surely  operate  on  them  when  awake.  And  if  for  our  sakes  the  Gods  effect  this  during  sleep,  they  might  do  it  for  us  while  awake.   Especially  as  Chrysippus,  wishing  to  refute  the  Acade  micians,  makes  this  remark — That  those  inspirations,  visions,  and  presentiments  which  occur  to  us  awake,  are  much  more  distinct  and  certain  than  those  which  present  themselves  to  dreamers.  It  would,  therefore,  have  been  more  worthy  of  the  divine  beneficence  while  exerting  its  care  for  us,  rather  to  favour  us  with  clear  visions  when  we  are  awake,  than  with  the  perplexed  phantasms  of  dreams;  and  since  that  is  not  done,  we  must  believe  that  these  phantasms  are  not  divine  at  all.  Moreover,  what  is  the  use  of  such  round-about  and  circuitous  proceedings,  as  for  it  to  be  necessary  to  employ  interpreters  of  dreams,  rather  than  to  proceed  by  a  straight  forward  course  1  If  God  were  indeed  anxious  for  oxir  interests,  he  would  say,  "  Do  this — do  not  that ;"  and  he  would  give  such  intimations  to  a  waking  rather  than  to  a  sleeping  man ;  but  as  it  is,  who  would  venture  to  assert  that  all  dreams  are  true  ?  Ennius  says,  that  some  dreams  are  prophetical ;  he  adds  also,  that  it  does  not  follow  that  all  are  so.   LXII.  Now  whence  arises  this  distinction  between  true  dreams  and  false  ones  1  and  if  true  dreams  come  from  God,  from  whence  come  the  false  ones  ?  For  if  these  last  do  like  wise  come  from  God,  what  can  be  more  inconsistent  than  God  ?  And  what  can  be  more  ignorant  conduct  than  to  excite  the  minds  of  mortals  by  false  and  deceitful  visions  ?  But  if  only  true  dreams  come  from  God,  and  the  false  and    254  ON   DIVINATION.   groundless  ones  are  merely  human  delusions,  what  authority  have  you  for  making  such  a  distinction  as  is  implied  in  saying,  God  did  this,  and  nature  that  1  Why  not  rather  say  either  that  all  dreams  come  from  God  (which  you  deny),  or  all  from  nature?  which  necessarily  follows,  since  you  deny  that  they  proceed  from  God.   By  nature  I  mean  that  essential  activity  of  the  mind  owing  to  which  it  never  stands  still,  and  is  never  free  from  some  agitation  or  motion  or  other.  When  in  consequence  of  the  weakness  of  the  body  it  loses  the  use  of  both  the  limbs  and  the  senses,  it  is  still  affected  by  various  and  uncertain  visions  aris  ing  (as  Aristotle  observes)  from  the  relics  of  the  several  affairs  which  employed  our  thoughts  and  labours  during  our  waking  hours ;  owing  to  the  disturbances  of  which,  marvellous  varieties  of  dreams  and  visions  at  times  arise.  If  some  of  these  are  false,  and  others  true,  I  shall  be  glad  to  be  informed  by  what  definite  art  we  are  to  distinguish  the  true  from  the  false.  If  there  be  no  such  art,  why  do  we  consult  the  inter  preters  1  If  there  be  any  such  art,  then  I  wish  to  know  what  it  is.   LXIII.  But  they  will  hesitate.  For  it  is  a  matter  of  ques  tion,  which  is  more  probable;  that  the  supreme  and  im  mortal  Gods,  who  excel  in  every  kind  of  superiority,  employ  themselves  in  visiting  all  night  long  not  merely  the  beds,  but  the  very  pallets  of  men,  and  as  soon  as  they  find  any  person  fairly  snoring,  entertain  his  imagination  with  per  plexed  dreams  and  obscure  visions,  which  sends  him  in  great  alarm  as  soon  as  daylight  dawns  to  consult  the  seer  and  interpreter :  or  whether  these  dreams  are  the  result  of  natural  causes,  and  the  ever-active,  ever-working  mind  having  seen  things  when  awake,  seems  to  see  them  again  when  asleep.  Which  is  the  more  philosophical  course,  to  interpret  these  phenomena  according  to  the  superstitions  of  old  women,  or  by  natural  explanations  1   So  that  even  if  a  true  interpretation  of  dreams  could  exist,  it  is  certainly  not  in  the  possession  of  those  who  profess  it,  for  these  people  are  the  lowest  and  most  ignorant  of  the  people.  And  it  is  not  without  reason  that  your  friends  the  Stoics  affirm,  that  no  one  can  ever  be  a  diviner  but  a  wise  man.   Chrysippus,  indeed,  defines  divination  in  these  words  :  "  It    ON   DIVINATION.  25.0   is,"  says  he,  "  a  power  of  apprehending,  discerning,  and  ex  plaining  those  signs  which  are  given  by  the  Gods  to  men  as  portents ;"  and  he  adds,  that  the  proper  office  of  a  sooth  sayer  is  to  know  beforehand  the  disposition  of  the  Gods  hi  regard  to  men,  and  to  declare  what  intimations  they  give,  and  by  what  means  these  prodigies  are  to  be  propitiated  or  averted.  The  interpretation  of  dreams  he  also  defines  in  this  manner.  "  It  is,"  says  he,  "  a  power  of  beholding  and  revealing  those  things  which  the  Gods  signify  to  men  in  dreams."  Well,  then,  does  this  require  but  a  moderate  degree  of  wisdom,  or  rather  consummate  sagacity,  and  perfect  erudition  ? — and  a  man  so  endowed  we  have  never  known.   LXIV.  Consider,  therefore,  whether  even  if  I  were  to  concede  to  you  that  there  is  such  a  thing  as  divination — which  I  never  will  concede — it  would  still  not  follow  that  a  diviner  could  be  found  to  exercise  it  truly.  But  what  strange  ideas  must  the  Gods  have,  if  the  intimations  which  they  give  us  in  dreams  are  such  as  we  cannot  understand  of  ourselves,  and  such,  too,  as  we  cannot  find  interpreters  of :  acting  almost  as  wisely  as  the  Carthaginians  and  Spaniards  would  do  if  they  were  to  harangue  in  their  native  languages  in  our  Roman  senate  without  an  interpreter.   But  what  is  the  object  of  these  enigmas  and  obscurities  of  dreamers  1  For  the  Gods  ought  to  wish  us  to  under  stand  those  things  which  they  reveal  to  us  for  our  own  sake  and  benefit.  What !  is  no  poet,  no  natural  philoso  pher  obscure  ?  Euphorion  certainly  is  obscure  enough,  but  Homer  is  not ;  which,  then,  is  the  best  ?  Heraclitus  is  very  puzzling,  Democritus  is  very  lucid ;  are  they  to  be  compared  ?  You,  for  my  own  sake,  give  me  advice  that  I  do  not  understand  !   What  is  it,  then,  that  you  are  advising  me  to  do  ?  Suppose  a  medical  man  were  to  prescribe  to  a  sick  man  an  earth-born,  grass-walking,  house-carrying,  unsanguineous  animal,  in  stead  of  simply  saying,  a  snail ;  so  Amphion  in  Pacuvius  speaks  of —   A  four-footed  and  slow-going  beast,  Rugged,  debased,  and  harsh  ;  his  head  is  short,  His  neck  is  serpentine,  his  aspect  stern  ;  He  has  no  blood,  but  is  an  animal  Inanimate,  not  voiceless.    Z.JO  OX    DIVINATION.   When  these  obscure  verses  had  been  duly  recited,  the  Greeks  cried  out,  We  do  not  understand  you  unless  you  tell  us  plainly  what  animal  you  mean  ?  I  mean,  said  Pacuvius,  I  mean  in  one  word,  a  tortoise.  Could  you  not,  then,  said  the  questioner,  have  told  us  so  at  first  ?   LXV.  We  read  in  that  volume  which  Chrysippus  has  written  concerning  dreams,  that  some  one  having  dreamed  in  the  night  that  he  saw  an  egg  hanging  on  his  bed-post,  went  to  consult  the  interpreter  about  it.  The  interpreter  informed  him  that  the  dream  signified  that  a  sum  of  money  was  con  cealed  under  his  bed.  He  dug,  and  found  a  little  gold  sur  rounded  by  a  heap  of  silver.  Upon  this,  he  sent  the  inter  preter  as  much  of  the  silver  as  he  thought  a  fair  reward.  Then  said  the  interpreter,  "  What !  none  of  the  yolk  1  "  For  that  part  of  the  egg  appeared  to  have  intimated  gold,  while  the  rest  meant  silver.   But  did  no  one  else  ever  dream  of  eggs  ;  if  others  have,  too,  then  why  is  this  man  the  only  one  who  ever  found  a  treasure  in  consequence  1  How  many  poor  people  are  there  worthy  of  the  help  of  the  Gods,  to  whom  they  vouchsafe  no  such  fortunate  intimations !  And,  again,  why  did  this  indi  vidual  receive  such  an  obscure  sign  of  a  treasure  o,s  could  be  afforded  by  the  resemblance  of  an  egg,  instead  of  being  distinctly  commanded  at  once  to  look  for  a  treasure,  in  the  same  way  as  Simonides  was  expressly  forbidden  to  put  to  sea?  Therefore,  obscure  dreams  are  not  at  all  consistent  with  the  majesty  of  the  Gods.   LXVI.  But  let  us  now  treat  of  those  dreams  which  you  term  clear  and  definite,  such  as  that  of  the  Arcadian  whoso  friend  was  killed  by  the  inn-keeper  at  Megara,  or  that  of  Simonides,  who  was  warned  not  to  set  sail  by  an  apparition  of  a  man  whose  interment  he  had  kindly  superintended.  The  history  of  Alexander  presents  us  with  another  instance  of  this  kind,  which  I  wonder  you  did  not  cite,  who,  after  his  friend  Ptolemy  had  been  wounded  in  battle  by  a  poisoned  arrow,  and  when  he  appeared  to  be  dying  of  the  wound,  and  was  in  great  agony,  fell  asleep  while  sitting  by  his  bed,  and  in  his  slumber  is  said  to  have  seen  a  vision  of  the  serpent  which  his  mother  Olympias  cherished,  bringing  a  root  in  his  mouth,  and  telling  him  that  it  grew  in  a  spot  very  near  at  hand,  and  that  it  possessed  such  medicinal  virtue,  that  it  would  easily  cure    ON   DIVINATION.  257   Ptolemy  if  applied  to  his  wound.  On  awaking,  Alexander  related  his  dream,  and  messengers  were  sent  to  look  for  that  plant,  which,  when  it  was  found,  not  only  cured  Ptolemy,  but  likewise  several  other  soldiers,  who  during  the  engagement  had  been  wounded  by  similar  arrows.   You  have  related  a  number  of  dreams  of  this  nature  bor  rowed  from  history.  For  instance,  that  of  the  mother  of  Phalaris — that  of  King  Cyrus — that  of  the  mother  of  Diony-  sius — that  of  Hamilcar  the  Carthaginian — that  of  Hannibal —  that  of  Publius  Decius — that  notorious  one  of  the  president —  that  of  Caius  Gracchus— and  the  recent  one  of  Ceecilia,  the  daughter  of  Metellus  Balearicus.  But  the  main  part  of  these  dreams  happened  to  strangers,  and  on  that  account  we  know  little  of  their  particular  circumstances  : — some  of  them  may  be  mere  fictions;  for  who  are  they  vouched  by?   As  to  those  dreams  that  have  occurred  in  our  personal  experience,  what  can  we  say  about  them, — about  your  dream  respecting  myself  and  my  horse  being  submerged  close  to  the  bank;  or  mine,  that  Marius  with  the  laurelled  fasces  ordered  me  to  be  conducted  into  his  monument?   LXVIL  All  these  dreams,  my  brother,  are  of  the  same  character,  and,  by  the  immortal  Gods,  let  us  not  make  so  poor  a  use  of  our  reason,  as  to  subject  it  to  our  superstition  and  delusions.  For  what  do  you  suppose  the  Marius  was  that  appeared  to  me  ?  His  ghost  or  image,  I  suppose,  as  Demo-  critus  would  call  it.  Whence,  then,  did  his  image  come  from  1  For  images,  according  to  him,  flow  from  solid  bodies  and  palpable  forms.  What  body  then  of  Marius  was  in  exist  ence  ?  It  came,  he  would  say,  from  that  body  which  had  existed  ;  for  all  things  are  full  of  images.  It  was,  then,  the  image  of  Marius  that  haunted  me  on  the  Atinian  territory,  for  no  forms  can  be  imagined  except  by  the  impulsion  of  images.   What  are  we  to  think  then  1  Are  those  images  so  obedient  to  our  word  that  they  come  before  us  at  our  bidding  as  soon  as  we  wish  them  ;  and  even  images  of  things  which  have  no  reality  whatsoever?  For  what  form  is  there  so  preposterous  and  absurd  that  the  mind  cannot  form  to  itself  a  picture  of  it  ?  so  much  so  indeed  that  we  can  bring  before  our  minds  even  things  which  we  have  never  seen ;  as,  for  instance,  the  situations  of  towns  and  the  figures  of  men.   DE  NAT.   ETC.  S    '258  ON   DIVINATION.   When,  then,  I  dream  of  the  walls  of  Babylon,  or  the  counte  nance  of  Homer,  is  it  because  some  physical  image  of  them  strikes  my  mind1?  All  things,  then,  which  we  desire  to  be  so,  can  be  known  to  us,  for  there  is  nothing  of  which  we  cannot  think.  Therefore,  no  images  steal  in  upon  the  mind  of  the  sleeper  from  without ;  nor  indeed  are  such  external  images  flowing  about  at  all ;  and  I  never  knew  any  one  who  talked  nonsense  with  greater  authority.   The  energy  and  nature  of  human  minds  is  so  vigorous  that  they  go  on  exerting  themselves  while  awake  by  no  adven  titious  impulse,  but  by  a  motion  of  their  own,  with  a  most  incredible  celerity.  When  these  minds  are  duly  supported  by  the  physical  organs  and  senses  of  the  body,  they  see  and  conceive  and  discern  all  things  with  precision  and  certainty.  But  when  this  support  is  withdrawn,  and  the  mind  is  deserted  by  the  languor  of  the  body,  then  it  is  put  in  motion  by  its  own  force.  Therefore,  forms  and  actions  belong  to  it ;  and  many  things  appear  to  be  heard  by,  and  said  to  it.   Then,  when  the  mind  is  in  a  weak  and  relaxed  state,  many  things  present  themselves  to  it  commingled  and  varied  in  every  kind  of  manner  ;  and  most  especially  do  the  reminiscences  of-  those  things  flit  before  the  mind  and  move  about,  which  excited  its  interest  or  employed  its  active  energies  when  awake.  As,  for  instance,  Marius  at  that  time  was  often  pre  sent  to  my  mind  while  I  recollected  with  what  magnanimity  and  constancy  he  had  borne  his  sad  misfortunes  ;  and  this,  I  imagine,  is  the  reason  why  I  dreamed  of  him.   LXVIII.  You  also  were  thinking  of  me  with  great  anxiety,  when  suddenly  I  appeared  to  you  to  have  just  escaped  out  of  the  river.  For  there  were  in  both  of  our  minds  the  traces  of  our  waking  thoughts.  In  both  instances,  however,  there  were  certain  additional  circumstances;  as  in  mine,  the  visit  to  the  temple  of  Marius ;  and  in  yours,  the  reappearance  of  the  horse  on  which  I  was  riding,  and  who  sunk  at  the  same  time  with  myself.  Do  you  think  then,  you  will  say,  that  any  old  woman  would  be  so  doting  as  to  believe  dreams  if  they  did  not  sometimes  and  at  random  turn  out  true  ?  A  dragon  appeared  to  address  Alexander.  Doubtless  this  might  be  true,  or  it  might  be  false ;  but  whichever  the  case  may  have  been,  there  is  surely  nothing  very  wonderful  about  it ;  for  he  did  not  hear  this  serpent  speaking — lie  only    ON   DIVINATION.  2o\)   dreamed  that  he  heard  him;  and  to  make  the  story  more  remarkable,  the  serpent  appeared  with  a  branch  in  its  mouth,  and  yet  spoke :  still  nothing  is  difficult  or  impossible  in  a  dream.   I  would  ask,  however,  how  it  was  that  Alexander  had  this  one  dream  so  remarkable  and  so  certain,  though  he  had  no  such  dream  on  any  other  occasion,  nor  have  other  people  seen  many  such.  For  myself,  excepting  that  about  Marius,  I  do  not  recollect  having  experienced  one  worth  speaking  of.  I  must,  therefore,  have  wasted  to  no  purpose  as  many  nights,  as  I  have  slept  during  my  long  life.   Now,  indeed,  on  account  of  the  intermission  of  my  forensic  labours,  I  have  diminished  my  evening  studies,  and  added  some  noonday  slumbers,  in  which  I  never  indulged  before.  But  yet,  though  I  sleep  so  much  more  than  formerly,  I  am  never  visited  with  a  prophetic  dream,  which  I  should  con  sider  a  singular  favour  now,  though  engaged  in  such  weighty  affairs.  Nor  do  I  seem  ever  to  experience  any  more  important  dream  than  when  I  see  the  magistrates  in  the  forum,  and  the  senate  in  the  senate-house.   LXIX.  In  truth,  (and  this  is  the  second  branch  of  your  division,)  what  connexion  and  conjunction  of  nature  (which,  as  I  have  said,  the  Greeks  term  avp.ira.6euL,)  is  there  of  such  a  character,  that  a  treasure  is  to  be  understood  by  an  egg?  Physicians,  indeed,  know  of  certain  facts  by  which  they  perceive  the  approaches  and  increase  of  diseases;  there  are  also  some  indications  of  a  return  to  health ;  so  that  the  very  fact  whether  we  have  plenty  to  eat  or  whether  we  are  dying  of  hunger,  is  said  to  be  indicated  by  some  kinds  of  dreamn.  But  by  what  rational  connexion  are  treasures,  and  honours,  and  victories,  and  things  of  that  kind,  joined  to  dreams'?   They  tell  us,  that  a  certain  individual  dreaming  of  sexual  coition,  ejected  calculi :  I  grant  that  sympathy  may  have  had  something  to  do  in  a  case  like  this, — because,  in  sleeping,  his  imagination  might  have  been  so  affected  with  sensual  images,  that  such  an  emission  took  place  by  the  force  of  nature,  rather  than  by  supernatural  phantasms.  But  what  sympathy  could  have  presented  to  Simonides  the  image  of  the  person,  who  in  a  dream  warned  him  not  to  put  to  sea  1  Or  what  sympathy  could  have  occasioned  the  vision  of  Alcibiades,  who,  a  little  before  his  death,  is  said  to  have  dreamed  that    260  ON   DIVINATION.   ie  was  arrayed  in  the  robes  of  Timandra  his  mistress?  What  relation  could  this  have  with  the  event  which  afterwards  happened  to  him ;  when,  being  slain  and  cast  naked  into  the  street  and  abandoned  by  all  the  world,  his  mistress  took  off  her  mantle  and  covered  his  dead  body  with  it?  Was  this  then  fixed  as  a  piece  of  futurity,  and  had  it  natural  causes,  or  was  it  mere  accident  that  the  dream  was  seen,  and  came  true  ?   LXX.  Do  not  the  conjectures  of  the  interpreters  of  dreams  rather  indicate  the  subtlety  of  their  own  talents,  than  any  natural  sympathy  and  correspondence  in  the  nature  of  things?   A  runner,  who  intended  to  run  in  the  Olympic  games,  dreamed  during  the  night  that  he  was  being  driven  in  a  chariot  drawn  by  four  horses.  In  the  morning  he  applied  to  an  interpreter.  He  replied  to  him,  You  will  win  :  that  is  what  is  intimated  by  the  strength  and  swiftness  of  the  horses.  He  then  applied  to  Antiphon,  who  said  to  him,  By  your  dream  it  appears  that  you  must  lose  the  race  ;  for  do  you  not  see  that  four  reached  the  goal  before  you  ?   Here  is  another  story  respecting  an  athlete ;  and  the  books  of  Chrysippus  and  Antipater  are  full  of  such  stories.  How  ever,  I  will  return  to  the  runner.  He  then  went  to  a  sooth  sayer  and  informed  him  that  he  had  just  dreamed  that  he  was  changed  into  an  eagle.  You  have  won  your  race  (said  the  seer),  for  this  eagle  is  the  swiftest  of  all  birds.  He  also  went  to  Antiphon,  who  said  to  him,  You  will  certainly  be  conquered ;  for  the  eagle  chases  and  drives  other  birds  which  fly  before  it,  and  consequently  is  always  behind  the  rest.   A  certain  matron,  who  was  very  anxious  to  have  children,  and  who  doubted  whether  she  was  pregnant  or  not,  dreamed  one  night  that  her  womb  was  sealed  up ;  she,  therefore,  asked  a  soothsayer  whether  her  dream  signified  her  pregnancy  ?  He  said,  No  ;  for  the  sealing  implied,  that  there  could  be  no  con  ception.  But  another  whom  she  consulted  said,  that  her  dream  plainly  proved  her  pregnancy ;  for  vessels  that  have  nothing  in  them  are  never  sealed  at  all.  How  delusive,  then,  is  this  conjectural  art  of  those  interpreters  !  Or  do  these  stories  that  I  have  recited,  and  a  host  of  similar  ones  which  the  Stoics  have  collected,  prove  anything  else  but  the  subtlety  of  men,  who,  from  certain  imaginary  analogies  of  things,  arrive  at  all  sorts  of  opposite  conclusions?   Physicians  derive  certain  indications  from  the  veins   and    ON   DIVINATION.  261   breath  of  a  sick  man;  and  have  many  other  symptoms  by  which  they  judge  of  the  future.  So,  when  pilots  see  the  cuttlefish  leaping,  and  the  dolphins  betaking  themselves  to  the  harbours,  they  recognise  these  indications  as  sure  signs  of  an  approaching  storm.  Such  signs  may  be  easily  explained  by  reference  to  the  laws  of  nature ;  but  those  which  I  was  mentioning  just  now  cannot  possibly  be  accounted  for  in  the  same  mariner.   LXXI.  But  the  defenders  of  divination  reply,  (and  this  is  the  last  objection  I  shall  answer,)  that  a  long  continuance  of  observations  has  created  an  art.  Can,  then,  dreams  be  expe  rimented  on?  And  if  so,  how1?  for  the  varieties  of  them  are  innumerable.  Nothing  can  be  imagined  so  preposterous,  so  incredible,  or  so  monstrous,  as  to  be  beyond  our  power  of  dreaming.  And  by  what  method  can  this  infinite  variety  bo  either  fixed  in  memory  or  analysed  by  reason?   Astrologers  have  observed  the  motion  of  the  planets,  for  a  certain  order  and  regularity  in  the  course  of  these  stars  has  been  discovered  which  was  no*  suspected.  But  tell  me,  what  order  or  regularity  can  be  discerned  in  dreams  1  How  can  true  dreams  be  distinguished  from  false  ones  ;  since  the  same  dreams  are  followed  by  different  results  to  different  people,  and,  indeed,  are  not  always  attended  by  the  same  events  in  the  case  of  the  same  persons?   For  this  reason  I  am  extremely  surprised  that,  though  people  have  wit  enough  to  give  no  credit  to  a  notorious  liar,  even  when  he  speaks  the  trilth,  they  still,  if  one  single  dream  has  turned  out  true,  do  not  so  much  distrust  one  single  case  because  of  the  numbers  of  instances  in  which  they  have  been  found  false,  as  think  multitudes  of  dreams  estab  lished  because  of  the  ascertained  truth  of  this  one.   If,  then,  dreams  do  not  come  from  God,  and  if  there  are  ,  no  objects  in  nature  with  which  they  have  a  necessary  sym  pathy  and  connexion,  and  if  it  is  impossible  by  experiments  and  observations  to  arrive  at  a  sure  interpretation  of  them,  the  consequence  is,  that  dreams  are  not  entitled  to  any  credit  or  respect  whatever.   And  this  I  say  with  the  greater  confidence,  since  those  very  persons  who  experience  these  dreams  cannot  by  any  means  understand  them,  and  those  persons  who  pretend  to  interpret  them,  do  so  by  conjecture,  not  by  demonstration.  And  in    262  ON    DIVINATION.   the  infinite  series  of  ages,  chance  has  produced  many  more  extraordinary  results  in  every  kind  of  thing  than  it  has  in  dreams;  nor  can  anything  be  more  uncertain  than  that  con  jectural  interpretation  of  diviners,  which  admits  not  only  of  several,  but  often  of  absolutely  contrary  senses.   LXXII.  Let  us  reject,  therefore,  this  divination  of  dreams,  as  well  as  all  other  kinds.  For,  to  speak  truly,  that  superstition  has  extended  itself  through  all  nations,  and  has  oppressed  the  intellectual  energies  of  almost  all  men,  and  has  betrayed  them  into  endless  imbecilities :  as  I  argued  in  my  treatise  on  the  Nature  of  the  Gods,  and  as  I  have  especially  laboured  to  prove  in  this  dialogue  on  Divination.  For  I  thought  that  I  should  be  doing  an  immense  benefit  both  to  myself  and  to  my  countrymen  if  I  could  entirely  eradicate  all  those  superstitious  errors.   Nor  is  there  any  fear  that  true  religion  can  be  endangered  by  the  demolition  of  this  superstition  ;  for  it  is  the  part  of  a  wise  man  to  uphold  the  religious  institutions  of  our  ancestors,  by  the  maintenance  of  their  rites  and  ceremonies.  And  the  beauty  of  the  world  and  the  order  of  all  celestial  things  com  pels  us  to  confess  that  there  is  an  excellent  and  eternal  nature  which  deserves  to  be  worshipped  and  admired  by  all  mankind.   Wherefore,  as  this  religion  which  is  united  with  the  know  ledge  of  nature  is  to  be  propagated,  so  also  are  all  the  roots  of  superstition  to  be  destroyed.  For  it  presses  upon,  and  pur  sues,  and  persecutes  you  wherever  you  turn  yourself, — whether  you  consult  a  diviner,  or  have  heard  an  omen,  or  have  im  molated  a  victim,  or  beheld  a  flight  of  birds ;  whether  you  have  seen  a  Chaldean  or  a  soothsayer;  if  it  lightens  or  thunders,  or  if  anything  is  struck  by  lightning;  if  any  kind  of  prodigy  occurs ;  some  of  which  events  must  be  frequently  coming  to  pass  ;  so  that  you  can  never  rest  with  a  tranquil  mind.   Sleep  seems  to  be  the  universal  refuge  from. all  labours  and  anxieties.  And  yet  even  from  this  many  cares  and  perturba  tions  spring  forth  which,  indeed,  would  of  themselves  have  no  influence,  and  would  rather  be  despised,  if  certain  philosophers  had  not  taken  dreams  under  their  special  patronage ;  and  those,  too,  not  philosophers  of  the  lowest  order,  but  men  of  vast  learning,  and  remai'kable  penetration  into  the  conse  quences  and  inconsistencies  of  things,  men  who  are  looked  upon  as  absolute  and  perfect  masters  of  all  science.  Nay,  if    ON   DIVINATIOX.  263   Carneades  had  not  resisted  their  extravagances,  I  hardly  know  whether  they  would  not  by  this  time  have  been  reckoned  the  only  philosophers  worthy  of  the  name.  And  it  is  with  those  men  that  nearly  all  our  controversy  and  dispute  re  specting  divination  is  mainly  waged;  not  because  we  think  meanly  of  their  wisdom,  but  because  they  appear  to  defend  their  theories  with  the  greatest  acuteness  and  cautiousness.   But,  as  it  is  the  peculiar  property  of  the  Academy  to  inter  pose  no  personal  judgment  of  its  own,  but  to  admit  those  opinions  which  appear  most  probable,  to  compare  arguments,  and  to  set  forth  all  that  may  be  reasonably  stated  in  favour  of  each  proposition;  and  so,  without  putting  forth  any  au  thority  of  its  own,  to  leave  the  judgment  of  the  hearers  free  and  unprejudiced;  we  will  retain  this  custom,  which  has  been  handed  down  from  Socrates;  and  this  method,  dear  brother  Quintus,  if  you  please,  we  will  adopt  as  often  as  pos  sible  in  all  our  dialogues  together.   Indeed,  said  he,  nothing  can  be  more  agreeable  to  me.   Having  held  these  conversations  we  went  away. Alessandro Chiappelli. Keyword: academici, Alcibiade, Gli Scipione, la dialettica romana, storia dela filosofia romana, Cicerone, ambassiata, Carneade, Kant, neo-Kantianismo, external world, internal world, the reality of the external world, iconography, detailed ecphrasis of “La scuola di Atene” – dialettica ateniense, dialettica romana. Grice: To Athens, via Rome.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiappelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689429333/in/photolist-2mKBQvt-2mKBEmt-2mJ4GHU-2mGnP2f

 

Grice e Chiaromonte – parola – il cane ha molto. Definizione d’ aggetivo – la correlazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapolla). Filosofo. Grice: “Problem with Chiaromonte is that he let things influence him too much! My favourite is his tract on ‘silenzio e parola’ – where as he explains, ‘parabola,’ as used by the Greeks meant conversazione, because among primitive people, it is all about ‘comparison,’ and that is what a parabole is – by comparison we may think of miaow-miaow and the bow-bow theory of meaning!”. Esponente antifascista, appassionato di filosofia (fu discepolo di Andrea Caffi) e di teatro, fondò con Ignazio Silone la rivista culturale indipendente "Tempo Presente".   Nacque a Rapolla, in Basilicata, da Rocco e Anna Catarinella. Il padre, medico, si trasferì con la famiglia a Roma, Sin dall'età di vent'anni si votò all'antifascismo, dopo una breve parentesi fra le file fasciste, entrando a far parte della formazione Giustizia e libertà e finendo esule a Parigi per evitare l'arresto della polizia. Fu in Spagna, combattente repubblicano nella guerra civile spagnola contro le armate franchiste nella pattuglia aerea di André Malraux (la figura di Chiaromonte è adombrata in quella del personaggio dell'intellettuale Giovanni Scali, del romanzo L'Espoir), poi abbandonò il fronte per contrasto con i comunisti. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, in seguito all'invasione tedesca della Francia, riparò a New York, facendosi notare nel gruppo dei cosiddetti New York Intellectuals.  Fu propugnatore del socialismo libertario che contrappose alle spinte trotzkiste della rivista politics di Dwight Macdonald, a cui pure si legò in un sodalizio di amicizia e di frequentazione intellettuale. Ebbe legami d'amicizia con filosofi come Hannah Arendt e Albert Camus, e scrittori come George Orwell, e collaborò con Gaetano Salvemini al settimanale italiano a New York, Italia libera.  Tornato in Italia una prima volta e una seconda, si sentì esule in patria, anche per il suo rifiuto a sottostare ai compromessi che volevano la cultura strettamente legata ai partiti politici; per un periodo tenne una rubrica di critica teatrale sulla rivista Il Mondo fondata da Mario Pannunzio.  Nel 1956, assieme allo scrittore Ignazio Silone, fondò "Tempo presente", rivista culturale indipendente, esperienza innovativa nell'Italia dell'epoca che portò avanti, nonostante qualche dissapore con Silone, con grande attenzione agli autori di notevole spessore che riempivano le pagine del mensile.  Le sue posizioni furono improntate all'anticomunismo ma, a differenza di Silone, fu senz'altro più utopico; vicino alle posizioni di Albert Camus, teorizzò «la normalità dell'esistenza umana contro l'automatismo catastrofico della Storia».  Nel testo La guerra fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti (Fazi editore) della storica e giornalista inglese Frances Stonor Saunders, si sostiene che la rivista Tempo presente sia stata finanziata dalla CIA: la Saunders ne individua i fondatori come personaggi di punta del Congress for Cultural Freedom e principali destinatari dei finanziamenti della CIA per attività culturali in Italia.  Dal gennaio 1967 e fino alla morte, intrattiene una fitta corrispondenza con Melanie von Nagel Mussayassul, amichevolmente chiamata Muska, una monaca benedettina, sul tema della verità.  Opere La situazione drammatica, Milano, Bompiani, The Paradox of History, Londra, Le Paradoxe de l'Histoire, prefazione di Adam Michnik, introduzione di Marco Bresciani, Cahiers de l'Hôtel de Galliffet,  Credere e non credere, Milano, Bompiani; Collana Intersezioni, Bologna, Il Mulino, Scritti sul teatro, Introduzione di Mary McCarthy, Miriam Chiaromonte, Collana Saggi, Torino, Einaudi, Scritti politici e civili, Miriam Chiaromonte, Introduzione di Leo Valiani, con una testimonianza di Ignazio Silone, Milano, Bompiani, Il tarlo della coscienza (The Worm of Consciousness and Other Essays, Prefazione di Mary McCarthy), Miriam Chiaromonte, Collana Le occasioni, Bologna, Il Mulino, Silenzio e parole: scritti filosofici e letterari, Milano, Rizzoli, Che cosa rimane, Taccuini, Collana Saggi, Bologna, Il Mulino, Lettere agli amici di Bari, Schena, Le verità inutili, S. Fedele, L'ancora del Mediterraneo, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, Una città, Forlì, Fra me e te la verità. Lettere a Muska, W. Karpinski e C. Panizza, Una città, Forlì, Il tempo della malafede e altri scritti, Vittorio Giacopini, Edizioni dell'Asino,  Albert Camus-Nicola Chiaromonte, Correspondance, Édition établie, présentée et annotée par Samantha Novello, Collection Blanche, Paris, Gallimard, Dizionario Biografico degli Italiani. Simone Turchetti, Libri: "Le attività culturali della Cia" Galileo, Cesare Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia. Presentazione di Paolo Marzotto, prefazione di Paolo Soddu, Roma, Donzelli. Dizionario Biografico degli Italiani,  XXIV, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Filippo La Porta, Maestri irregolari, Bollati Boringhieri. Gino Bianco, Nicola Chiaromonte e il tempo della malafede, Lacaita, Manduria-Roma-Bari, Michele Strazza, Contro ogni conformismo. Nicola Chiaromonte, in "Storia e Futuro", Filippo La Porta, Eretico controvoglia. Nicola Chiaromonte, una vita tra giustizia e libertà, Bompiani. Bocca di Magra Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Nicola Chiaromonte  Nicola Chiaromonte, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Nicola Chiaromonte, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Nicola Chiaromonte,.  Fotografie e documenti di Nicola Chiaromonte La cultura politica azionista. "Nuovo Partito d'Azione". Il fondo librario Chiaromonte. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta.PRIS CIANI GRAMMATICI CAESARIENSIS.LIBER PRI MVS . DE  VOCE.   PHILOSOPHI definiunt vocem effe  ae¬  rem  temuffitmm  ftfhtm,uel  fiuwm  fenfibile  <ut  ritum, idefl  quod  propria  auribu s  accidit*  Et  p  efl  prior  definitio  ii  fubfhtntia  fiumpta,  Altera   nero  d  notione  quam  graa  ivvotav  dicunt  Jnoc  efl  ab  accidentibus -Accidit  enimuod  auditus  quantum  in  ipfia  efl*  Vedi  autem  differen¬  tia  fiunt  quatitor, arti  culato. ,m  articulata fit  ter  ata, illiterata.  A  r   ticulata  efl  qua  coarguta  ,  hoc  efl  copulata  cum  aliquo  fienfiu  mentis  eius  qui  loquitur, profertur*  Inarticulata  ejl  contraria, qua  a  nui   lo proficifettur  affccfht  mentis*  Litterata efl  qua  ficribipotefl.  I J-  literafa  qua  ficnbi  nbpot .  r nuenimtur  igitur  quadam  uocesarticn  lata, qua  &  feribi  poffitnt,  &  intellig,ut  Arma  uirtemq ;  cano*  Quadam  qua  no  peffunt feribi, mtelligiinturth, ut  fibili  heminu  &  gemitus, ha  enm  uoces  quamus  fenfiu.m  alique  fignificent  proferentis  eas, feribi  tn  no  poffiint*  Ali#  uero  funt  qua  quantus  feribantur,  tn  inarticulata  dicuntur  , cum  nihil  fignificent, ut  coax,cr a*  baseni  uoces  quanquam  intelliginuis  de  qua  fint  noluere  proferte,  tamen  in  articulata  dicutur,qma  uoxfut  fuperius  dixi){marticulata  efl,  qua  a  Milio  affvfhe  profiafdtur.  A  lia  funt  inarticulata  &  illitterd *   ta,qua  nec  feribi  pofjunt  nec  mtelligj,ut  fl  repi  tus, mugitur  ,  &  his  fimilia-  Scire  autem  debemus , quod  has  quatuor  fpecies  uocum  p-  fidunt  quatuor  fuperiores  differentia  generaliter  uoct  aeddentes ,  bi  na  per  fingulas  inuictm  coeuntes  *  Vox  autem  didht  efl  uel d  Uo*  cctndo,utduxd  ducendo, Uel  ccto  rojfioxco  jsoco. ut  quibufda  placet*   bE  L r  T  TER A.   LITTERA  E  fl  pars  minima  uods  compofita,hoc  efi  l  uods  qua  conflant  compofitione  litterarii, minima  autem  quantum  ad  totam  comprchenfionem  uoaslitterata,ad  hanc  enim  etiam  produrtauoctiles  hreuiffima  partes  in  ueniuntur ,uel  quod  omnium  efl  breuifjimum  eorum  quzdiuidi  pof  funt, id  quod  diuidi  non  potefl*  Vcffumus  &  fic  definire*  Litte  ra  e  nox  qua  feribi  poteft  mdiuidua-uicitur  autem  littera  uel  qudfi    ?RIMVJ.  5   lenter  d, eo  quod  U<gndi  iter  prabeat,ue[  a  tuaris  (ut  quilufda  pia  cet)qubdplerunq>in  caratis  tabulis  antiqui  fcrilerc  [oletans  ,  &  pojha  delere- Litteras  aut, etiam  elementorum  uocdbulo  nuncu paue  -  runt,ad  fimlitudmem  mundi  elementorum-  Sicut  enim  illa  coeutia  omne  cor  fu*  perficiunt, fic  etia  ha  conimfia  litterale  vocem  quafi  corpus  aliquod  componunt yuel  magis  nere  corpus na  fi  acr  corpus  eji,  &  nox  qua  ex  aere  icdo  confiat ,  corpus  ejfie  cflenditur  ,  quip¬  pe  cum&  tangit  aurem,  &  tripartito  diuiditur,  quod  eji  finit  corpo  ris}hoc  eji  tu  altitudinem, latitudinem, longitudine  myunde  ex  omni  parte  potefi  audiri-  Vraterea  tamen fingula  syllabe  altitudine  qui¬  dem  habent  m  tenore ,craffimdinem  nero  ct  latitudinem  in  fpiritu f  longitudinem  inttmporc-  Littera  igtut  eji  ricta  elementi}& uclut  imagp  quadam  uocis  litterata, qua  cogmfidtur  ex  qualitate  &  <fti  tute  figura linearu-Hoc  ergo  mterefl  inter  elementa, &  litteras, quod  elementa  proprie  dicuntur  ipfie  pronundationes -  n 'ota  autem  carit  littera-  Abufiue  tamen  &  elementa  pro  litteris,  &  littera  pro  ele*  mentis  uoatntur .  Cum  enim  dicimus  non  poffie  conflare  m  eadem  fiyl  labd-K,ante.V,no  de  litteris  dicimus,  fid  de  pronuntiatione  earum-  nam  quantum  ad  ficripturam  poffunt  coninng,non  tamen  etia  enu-  ciari,nifiipojlpofita-R,  ut  princeps,  sunt  igitur  figura  litterarum  quibus  nos  utimur-  XXUI-  ipfie  uero  promnciationes  earu  mul¬  to  amplior  es.  Quippe  cum  fingula  uocules  denos  mueniantur  ha¬  bentes  fionosyuel  plures,Vt  puta-a, littera  breuis  quatuor  halet fimi  differentias, cum  habet  afrirationem, acuitur  uelgrauatur,&  rur-  fus  cum  fime aft  iratio e  acuitur  uelgraudtur,ut  habeo  habemus, abeo  abimus-  Longt  uero  eadem  fex  modis  fionat,  cum  habet  afpiratio -  nem,&  acuitur  uelgrauatur,ueldrcunfleCHtur,  ut  hamis  hdmoru  hamus  -  E t  rurfits  cum  fine  afpiratione  acuitur  uelgrauatur  ucl  ctr  cunflecntur ,ut  dra  ararum  dra -  Similiter  ali*  uoatles  pofjimt  pro  ferri-  Vraterea  tatnen-i,  &.u,  uoatles }quando  media ; fiunt  alternos  inter  fie  fionosuidetur  con funder  e  ytefk  bonatofiut  uir.u,ut  optumus,  Et-i, quidem  quando  poft-u, confortantem  loco  digamma- V,fi<n<fhm  Aeolia  ponitur  breuisyfequcnte.d,uel.m,uel.r,ucl.t,  Uelx,  fonum-y,  gracauidetur  habere, ut  uideo,um,  uirtus ,  uitium,  uix-v,  autem  qudnuts  contraftum  eundem  tamen  fimum, hoc  efi ■  y, habet, inter  q}  &-efueLiyHela,diphthongum  pofltum ,  ut  que  quis  qua-  tenon  inter.  gt& ea  fidem  uoatles,cmi  in  una  fiyl  laba  fic  imenitur,ut  pin-  gtefanguisfiingtta  -  In  confortantibus  etiam  fiunt  differentia  plures,  trdnfeuntmm  in  alias  confortantes &  non  tr an  femtium, quippe  di -  uerfie  firmi  potefiatis .  ’L  tL    a  iij    DE  ACCIDENTIBV  S*  LITTERAE.    Ccidit  igitur  litterae  nomen  figura, poteffas-Uomen  uefo  a  ti.  a.b.c. Et  fiunt  mdechna  ilia, tam  apud  gr  aecos  eleme-   torum  nomina ,  qudm  apud  latinos.siuc  p  a  barbaris  inuenta  dicuntur,  fiue  p  fimplicra  haec  Z7‘  fktlilia  effe  debent, qudfi  fundamentum  omnis  do  firmae  nnmvbile ,  fine  p  nec  aliter  apud  iatmos  poterat  effe, cum  a  fias  uoabus  uocztles  nominen¬  tur, Saniuocal  es  uero  in  fe  de finant, Mutae  autem  a  fi  incipientes  uo-  atli  terminetur, quas  fiflefkts  fignificzttio  quocp  nominum  una  eud-  nefcit.v  ocdlcs  igitur  (ut  difhtm  efi)  per  fi  prolatae  nomen  fuuofien =>  dunt.Semiuocrtles  uero  ab. e,  incipientes ,  &in  je  ter  minantes.  A  bfip  x,  que  fola  ab. i, incipit  per  anafirophen  gracct  nominis. xi. quia  ne  ceffe  fuit, cum  fit  fiemtuocalts ,  d  uoath  vnapere,Zjin  fe  terminare .  quae.x,nou\ffimcd  latinis  afjumptaypofi  omnes  ponitur  litter  as,qbus ,  latina *  dichones  egent  p  autem  ab. i, incipit  eius  nomen, ofhmdit  eti -  »,  am  Sergius  in  Commento  quod  fcripfitm  Donatum  kisuer bis. Sunt,  >,  feptem  jemiuoatles ,qu<e  ita  proferuntur ,ut  inchoent  ab. e, littera,  &  „  definant  innatur  ale  fonum, ut. fl.m-n.r.s. x-Sed.x, ab. i, inchoat. \d  *>  etiam  Eutropius  confirmat  dicens.Vna  duplex. x ,quae  ideo  ab.i,m  „  cipit,quia  apud  g^ aecos  in  eandem  definit.  Mutae  autem  d  fiincipi -  entes, Z^m- e, uo culem  definentes^xcaeptis.K^t.q^uarum alteram  a, altera  in.u finitur, fua  confiant  nomina.H,enim  affirationis  ma¬  gis  eft  nota. Eigurae  acadunt  quas  uidemus  in  fingjihs  litteris •  Tote =  jhs  uero  ipfa  pronuaatio, propter  qua,  Et  figura  ZTiwia  fiunt  ficht .  Quidam  ena  a  dunt  ordinem  fied  efi  pars  pote  fiatis  litterarum. Ex  his  uocules  dicuntur, quae  per  fe  noces  perficiunt  uel  fi  ne  quibus  uox  litteralis  profirn  non  pote  fi, unde  &  nomen  hoc  praecipue  fibi  defe  dunt.Caeterae  enim  quae  cum  his  proferuntur  confortantes  appellan¬  tur.  Sunt  igitur  uocules  numero  quinque. a. e. i. o.u.  utimur  etia.y ,  gr georum  cuufia  nominum.Q  onfonantiu  aliae  fiunt  fi  mino  cedes, aliae  mutat.  Semiuocales  fint  ut  plerisp  latirwrum  placuit  fiptemfil-m  n-r-s.x.  Sed- f. multis  cfienditur  modis  muta  mazis,  de  quatpofi  do¬  cebimus  •  Z, quoque  utimur  ingruas  dcthonibushae  ergo, hoc  efi  fi-  miuo cules, quantum  uincuntur  d  uoculibus, tantum  fi  p  erant  mutas,  ideo  apud gr aecos  quidem  omnes  dichones, uel  in  uocules  uel  in  fimi-  t:ocUlcs,quae  fecundam  habent  euphoniam ,defiment, quam  nos  fiono-  ritatem  pofji  mus  dhere  ,  apud  Iatmos  autem, ex  maxima  parte, no  tamen  omnes.  Inveniuntur  enim  quaedam  etiam  m  mutas  definetes.    PRrMVS.  4   Semeuocules  autem  furit  appellata ,  qua  plenam  uocem  non  habent f  ut  fetnideos  &  femiuiros  appellamus ,  non  qui  dimidiam  partem  habent  deorum, vel  uirorwmfed  qui  pleni  dij  uel  uiri  non  fmt  •  Reliquae  funt  muta, ut  quibufdam  u\ detur , numero  nouem.  b.  c  .d-  g.h-k-p-rf-t'  Et  fnrvt:  W1  wn  bene  hoc  nomen  putant  easaccapi[fy  cumba  quoq;  partes  fintuocts- qui  nefiunt ,<p  ad  comparationem  ue  ne fonantiwmita  funt  nominata ,uelut  informis  dicitur  mulier  ,  non  qua  atret  forma  ,  Jed  qua  male  eft  formata  y  &  frigidum  dia  mus  eumynon  qui  penitus  expers  efl  atlons  ,fed  qm  minimo  hoc  utitur •  Sic  igitur  mutas, non  qua  omnino  noce  atrcntfed  qua  exiguam  par  temuods  habent-  Vocales  autem  apud  latitios  omnes  fmt  anapites,  uel  liquida  yhoc  efl  qua  fialemodo  produci  f  modo  corripi  pojfunt ,  Sicut  etiam  apud  antiquiffimos  erant  gr  acor  uni  ante  muentionem  » quibus  inuentis.t,  &o,  qua  ante  anapites  erant  reman, fe¬  runt  perpetua  breues,aim  earum  produdhtrum  loca  poffcfft  fint  d  fupradiths  uoatlibus  femper  longis .  Sunt  etiam  in  confonantibus  lo  ga,ut  puta  duplices. xy&.Zr  Slrut  enim  longa  Uocalesy  ficha  qucq ;  longam  fidunt  jy  liabam.  Sunt  fimiliter  in  confonantibus  anapites  uel  liquida yut.ly&-ryqua  modo  longam  modo  breuem  pofl  mutas  pofita  m  eadem  fyllaba  fidunt  fyllabam.his  quidam  addunt  non  irrationabiliter  m,  &my  quia  ipfe  quoq;  communes  fidunt  fyllabas  pofl  mutas  pofita yquod  diuerforu  confirmatur  aufhritate  tamgra  eorum, q  latinorum .  ouidius  in  deamo  Metamorphofeos.   Vifcofimq;  gnidon.gr  auidamq, ;  Amathunta  metallis.   »  Euripides  iit  Vphoemffis .  /Wr#i  tro c/t  hoc  pidjuov  <tio'punr.   In  cifdem .  xxax ojuitrSot.Jdco  hocmo  cmtofeis  tihvov  ,  apud gracos  fnnenitur  tamen. myante.n,pofita  nec  producens  ante  fe  uoctilem  mo  re  mutarum -Callimachus •   rcofjutv  o  juvturx  paetos  i<pn  £tvof  umctw  ouvuv.  Apud  antiquiffi¬  mos  gr acorum  non  plusq  fedeam  erant  littera ,qui'us  ab  illis  accet  ptis  latmi  antiquitatem  feruauerunt  perpetuam  ,  Nam  fi  uerxffimt  uelimus  infpicere  edus,fnoc  efl  fedeam)non  plusq  duas  additas  in  It  tmomueniemus  fermone-V-  Aeolicum  diqnmma  qS  apud  antiqwffi  mos  latinorum  eandem  uimyquam  apud  Aeoles  habuit, eum  autem  prope  Ionum  quem  nunc  habet -  V  ,fignifiatbat.p ,  cum  afpiratione.  Sicut  etiam  apudueteres  gracos  pro  -<p ^tfT-t.  Vnde  nunc  quoque  fngrads  nominibus  antiquam firipntram  fernamus  pro-<p.py&.hy  ponentesyut  Orpheus  vhaethon-pofha uero  in  latinis  placuit  uercis  pro.p  ,&-h,fjcribitut  fiina,filius.fiao  ,  locoau^m  digamma.  V,  pro  confonante-q  od  cognatione  foni  indebatur  affinis  cifc  diijjmma   d  iiij    »    »9    E  r  B  E  R   e  i  [it ter 4-  Qjiare  tum- f Joco  mutre  ponatur  ideft  p,  &  .h  y  fiue-<p  f  miror  hanc  inter  famiUocales  pofiiiffe  artium  fcriptvres.  mhil.n>ali-  ud  habet  nrec  littera  femiuoctihs  ,nifi  nominis  prolatione,  epire  duo-  (yili  incipit.  Sed  h.ec  pote  flatem  mutare  Iit  ter  re  non  deluit,  fi  enim  effet  femiuoculis  yneaffario  terminalis  nomlnu  inucniretur •  quodmi-  nime  repencs.nec  anted,  uel.r,  m  eadem  fyllaba  poni  poffet , qui  lo¬  cus  mutarum  efr  duntaxat.nec  communem  ante  eafdem  pofita  face¬  ret  fy  liabam.  Vofiremo  grrect  (quibus  in  omni  dottrina  auflvnbus  utimur)  -<p , cuius  locum  apud  nos. f,optinetyqucdofknditurinhis  ma¬  xime  dicHonibus  quas  d  grrecis  fumpfimus  y  hoc  efl  fama,  fagp,  far,  mutam  effe  confirmant.  Sciendum  tatne  q>  hic  quoq; error  d  quibus *=  dam  antiquis  graecor  um  grammaticis  inna  fit  latinos ,  qui.<p, 6  ,%./£-  mtuocztles  putabant,  nulla  alia  cUufa,  tiifi  q?  fpiritus  in  eis  abwndet  induch.quod  f  effet  ueruni, debuit. c, quoq;  uel.t ,  addita  afairatione  femiuoculis  cffe.quod  omni edret  ratione.fpiritus  enim  potefhtem  /it=  terre  non  mutat,  unde  nccuoailes  addita  ajpiratione  alire  fiunt,  &  alire  ea  dempta.  Hoc  tamen  fare  debemus  non  tam  fxis  labris  efi  pronuntianda. fy quomodo. p,&-h,dtq;  hoc  folum inter efl  inter -f,&  phyXftiam  duplicem  loco,c  ,&.s,uel  g,&'S,pofiva  d  grrecis  inuetam  afjump fimus  yut  dux  duas yr cx  regs.K,enim  &qyqudnuis  figura  &  nomine  uideantur  aliquam  habere  differentiam  cum •C.tn  eade  tam  in  fio  io  uorum  q  m  metro ycontincnt  pote fiatem -^.K, quidem  penitus  faperuarua  efr  pullam,  ratio  indetur  'cur  a ,fequente.K,  feribidebe-  dt.c  rthdgo.n.&atputfiue  per. ct  fiue per.K,fcribantur,  nullam  faciunt,  necm  fano  nec  m  potefhte  eiufdem  cofanantis  differentiam *  ytiero  propter  nihil  aliud  feribenda  mdetur  effeynifl  ut  ofiendat  feqn  era. u, ante  alteram  Uo calem  in  eadem  fyllaba  pofitum  perdere  uim  litte r^e  in  metro.  q>  fi  alia  ideo  littera  efl  exifhmanda  q>c,de-  bet.gyqncq;  cum  fimiliter  pr reponitur. u  ,  amittenti  uim  litterre  alia  putari y  &  aha  cum  id  non  facit rdicimus  enim  anguis  ficuti  quis,  O4  ruignr  fi  cuti  cur .  v  nde  fi  uelimus  cu,  ueritate  contemplari(ut  diximus )  non  plus  quam  decem  &ofh  litteras, in  latino  farmene  habemus ,  hoc  cflfadeam  antiquas  gr  re  eorum  &.fy&.x,pefka  additas eas  quoq;  ab  eifdem  famptas.nam  y  y&.^grrecvrum  afufia  nominum  (ut  fapra  difhun  efl)  afamimus.H ,  aero  affirationis  efr  nota  y  &  nihil  aliud  o.tbct  litterre  nifii  fgurdm/j"  q>  in  uerfa  firibitur  inter  alia*  litteras.Qjeod  fi  fa faceret  ut  elementum  putaretur,  nihilominus  quo  rundam  enam  numerorum  figurae, quia  in  uerfiu  inter  alias  litteras  feribuntur ,quanuis  eis  d  familes  fint, el ementa  fiunt habenda  fadmis  nime  hoc  efi  adhibend-ctn  ,  nec  aliud  aliquid  ex  accidentibus  pro-    PRTMVS.  f   prutatem  oflendit  Umufcuiufq;  elementi ,  quomodo  potefhs,qua  .Uret  affiratio-  neq *  enim  uoaths  nec  confotum  ejfe  potefl .noculi$  non  e  fi.  b^quia  dfieuocem  non  fiat ,  nec  fiemiuocuhs  cum  mlla  fyllaba  lati-  nauel  grceafper  integras  dittioes  in  eamdefnat,  nec  muta  cum  in  eadem  fyllaba, cum  duabus  mutis  bis  ponitur,  ut  phthius,  Erichtho =  tiius-nulla  enim  fyllaba  plus  duabus  mutis  poteftbabere  iuxta  fe  po  fitts,nec  plus  tribus  confonantibus  continuare  -  authritus  quoq;  tam  Varronis  q  Macri, teflv  Cenforino,ncc-K,nec-  q,neq;.h,  in  numro  adhibet  litterarum -Videntur  tamen  i,gy-u,cum  in  conlonantes  tra  fiunt  quantum  ad  pote  flatem, quod  maxrmum  efiin  elementis, alite  litterte  ejfe  pr teter  fifpradidkts -multum  enm  inter  efi  utrum  uoctiles  fint  an  confonantes-ficut  enm ,  qnanuis  in  uaria  figura,  g?  uario  fwmine  fint-K,gy.q,gj*-c,  tamen  quia  u/nam  um  halent  tam  in  metro  q  in  fono,  pro  una  littera  accipi  debent,  fle. i,  &-u,  qnanuis  unum  twmcn,g?  unam  habeant  figuram,  tam  uocules  q  con^onan  tes, tamen  quia  diuerfum  j'onum,gj*  dmerfim  umhabent  in  metris ,  g?  in  pronuntiatione  fy  liabar  um,  non  fiunt  in  ei  fidem ,  meo  iudicio ,  (lententis  acapiendte-quanuis  &  Cenjbri/w  dothfjlmo  artis  gram¬  maticae  idem  placuit. multa  enim  cjl  differentia  inter  confortantes,  ut  diximus ,  gruocttlcs-  tantum  enmflre  interefi  inter  uoculcs  gj*  confionantes , quantum  inter  animas  g?  corpora, anim.e  enim  per  fi  mouentur,ut  philofophis  uidetur ,gj*  corpora  monent, corpora  uero  nec  per  fe  fime  anima  moneri  poffunt, nec  animas  monent,  fid  ab  il  Its  moucntur -Vocales  fi  militer  g?  per  fi  mouentur,  ad  perficienda  fyllabam,g?  confionantes  mouent  fecum, confionantes  uero  fime  uoculu  bus  immobiles  fint-  Et-J, quidem  modo  pro  fi mp lici, modo  pro  du¬  plici  accipitur  confonante-pro  fimplici ,  quando  ab  eo  incipit  syllaba  in  principio  dithonis  pofita,  fiubfiquente  uocztliin  eadem  syllaba, ut  luno  Juppiter  .  pro  duplici  autem  quando  in  medio  diflioms  ab  eo  incipit  fyllaba  pofiuoatlcm  ante  fi  pofifom,  fu  fiquente  quoq;  uocttli  in  eadem  fyUab a, ut  maius, peius,  eius,  in  quo  loco  antiqui  folebant  geminare  eandem-i,l\tteram,gT  maijus,peijus,eijus  feribere ,quod  non  aliter  prominctari  poffet  quam  fi  cum  fitperiore  syllaba  prior  I ,cum  fiquente  altera  proferretur, ut peijus,cijus,tnaijus,  gy  duo. ij,  pro  duabus  conjonantibus  accipiebant. nam  quantus-  T,fit  confonans  incadcm  syllaba  geminatninngi  non  poffet.  ergo  non  aliter  quam  tellus ,  mannus  proferri  debuit. unde  Pompeiij  quoque  genitiuum  per  tria-i ,  antiqui  feribeb aut, quorum  duo  fiperioraloco  confona -  tium  accipiebant  jit  fi  diats  Pompeiij,  nam  tribus  ili ,  iunchs  qua^  lis  poffet  fyllaba  pronuntiari  ?  nam  poftremum  -l, pro  uocttli  efi    LIBER'   atcipienc lum  .  quod  C<eftri  doihjfimo  artis  gramntaticse  pla~  citum  finjje  d  Vidvre  quoqu r  in  arte grammatiat  de  fylla  is  com -  probatur-Pro  fimphct  qucq;  in  media  dithone  inuenitur  ,fcd  in  co~  pofitisfut  iniuria^diungo^iedht^reijce  Virilius  in  Bucolicis •  Tityre  pafientes  d  flumine  refice  capellas*  proceleu fma ti cum  pofuit  pro  daciylo -   Nunquam  autem  poteft  ante .  I,  litteram  loco  pofitnm  confonan-  tis,afpiratio  mucnin  yficut  nec  ante .  ii,  confortantem -unde  hiulcus  trisyllabum  rj7* ,  ##//.*  (ww  confonans  ante  /e  afpirationem  recu  pit-  V,  wcro  lo.o  confortantis  pofita  eandem  prorfius  in  omnibus  uim  habuit  apud  latinos,qudm  apud  Aeoles  digtmma  ,  F.Vnde  d  ple~  rui j;  ci  nomen  hoc  datur, quod  apud  Aeoles  habuit  ohmyFy  digama  i-HdUyab  ipfuis  uot  profetfhtm  tefk  Varrone, &  D idymo,  qui  id  ei  rujmcn  cffecfivndut*pro  quo  Ccefiar  hanc  figuram  £,fcnb  er  e  uduit,  quod  quarum  illt  reik  mfum  efty  tamen  confuetudo  antiqua  fiupera «5  uit-Adco  autem  hoc  uenvm  eftyy  pro  A  e  otico  F  ydigamma  -uyponi-  ttrr,quod  ficut  illi  flebant  accrperc  diqamma-V,pro  confonante  fim  phaytefiv  Aftyaqy,qm  diuerfiis  hoc  oficndit  uerfibus ,  ut  in  hocuerfu  o  otojucvos  VtAtvHV  iAtKcoTiJocfic  nos  quoq ;  pro  fimplia  habemus  cort  fonante  plerHnq;-Hyloco-V-dvgtmma  pofitumyuty  „  At  Venus  haud  animo  ne  quicg  exterrita  mater •   E fi  tamen  quando  Aeoles  idem-F  finueniuntur  pro  duplici  quoq;  co  fonante  digtmma  pcfmffe,ut  vt&opct  cPt  FoJ  crouSd s  -  Nof  quoqiuide-  mur  hoc  fequi  in  praeterito  perfido  &  plusquam  perfido  tertice  £r  quartce  coniugationis ,in  quibus ,1  ,ante-u ycorfo nantem  pofita  produ «  citur ,  eademqs  fiubtradn  corripitur yut  cupiui  cupijtcu piueram  cu¬  pieram, audiui  audfiaudiueram  audieram  .  inuemuntur  etiam   pro  Uocdh  correpta  hoc  digVHtna  illi  ufi,ut  Alcman-Ksh  jux  tj ?  n  <fx Fiov.pfr  enim  dimetrum  iambicum  ,  &  fic  e ft  proferendam,  Tr yut  factat  Ireuem  fiyllabam-Noftri  qucq;  hoc  ipfium  fiaffeinueniim  tur,&  pro  confonante. ii yuoatlcm  Ireuem  acc<epiffeyut  Horatiusfyl  fise  trifyllabum  protulit  in  E podohcc  uerjit-  »  -niuesq;  deducunt  I  ouem,   *  Nunc  mare  nuncsfi  liite;   E/r  enim  dimetrum  iambicum  comunfhim  penthemimeri  heroicae,  quod  aliter  fhtre  non  poteft, ucfi  fylu.e  trifyllabum  accipiatur  .  Si¬  militer  Catullus  V eronenfis  <p  Zonam  fioluit  diu  ligtam , inter  E nde  atfyllabos  vhalectos pofitit-ergp  nifi  fioluit  trifyllabum  accipias, uer-  fivs  fhtre  non  poteft. hoc  tamen  ipfium  in  deriuatiuis  uel  compofltis  fi  e  quentC'  fiolet  fieri ,ut  Heluo  uclutus,foluo  follitus ,auts, auceps,  aujfi-    PRIMVS .  6   dum,m<guriim,<UigupUS,lauo  l*u tu s,fitueo, fautor . F, aigam  ma  apud  Aeoles  ejt, quando  m  metris  pro  nihilo  decipiebant, ut  4“/“*  ^Fetpi  vccvro  6 w  7<>i  ^vuorotv  Fouiv.Ep enim  h exametr u/m heroicum, apud  latinas  quoq;  hoc  idem-u  ,inuenitur  pro  nihilo  inmtris,&  maximo  apud  uetufb.fpmos  comicorum, ut  Terentius  in  Andria -  M  sine  muidia  laudem  inuenias,Et  amicos  pares. eft.niamicum  tri¬  metrii, quod  nifi,pne  mui,pro  tribracho  accipiatur, fhtre  uerfus  non  potejl.jciendu  tamen  q>  hcc  ipptm  Aeoles  quidem, ubiq;  loco  ajpira-  tionis  ponebant  effligentes  ffnritus  affcritatem.nos  dutmmultis  qui  dem,non  tamen  m  omnibus  illos  faquimur  ,  ut  cum  dicimus  ueffera,  uis,uejhs. hiatus  quoq ;  atupt plebant  illi  mterponer e -F, digama, quod  ojhndunt  et  Poetae  Aeolidae  up,AlcmanxsH  X" yocrrJ pn  Mio/  et  'Epigrammata, qu£  egmctleg  m  tripode  uetujhfprrw  Apollinis  qui  pat  in  Xerolopho  Byzatq pc pripta/nyo<pxFcov ,\oiFonxi uv.Et  nas  quoq;  hiatus atupt  interponimus •  V doco digama ,F ,ut  dauus, arduus,  pauo,ouum,ouis,  bouis.hoc  tamen  etiam  per  alias  quapiam  cbfonan  tes  hiatus  uel  euphoniae  atufa  folet  peri, ut  prodeft  ,cbburo  ,fi  cubi  ,nu  cubi,  quod  gract  quoq;  pol  ens  facere  junntr/,oi/  utri. Sed  tamen  hoc  at  tendendam  efl  quod  pr&ualmt  in  hac  littera,idefr,in-u,loco  digam  ma  pofito,potepas fimplids  confonantis  apud  omnium  poetarum  do -  {hfpmos.in.b, et  folet  apud  Aeoles  tranfire.F ,  digama  quotiens  ab  p, incipit  diflio  qux  folet  a[pirari,ut  pdrcop  (Spnrup  dicunt  quod  di  gamma  nip  Uoaili  praeponi  &  m  principio  fyliab <e  non  pottft .  ideo  autem  locum  quoq;  tranpmtauit, quia. B, uel  diqamma  pofx-p, in  ea¬  dem  fydaba  pronuntiari  non  pote fl-  A pudrns  quoq ;  efl  munire  <p  pro. u,confonante.b, ponitur, Coelebs  codcfium  uita  ducens, p  er. b,  feri  bitur  y.u.corfonans  ante  confortantem  poni  non  potep.pcut  etia  bru  qes  0  Belenam  antiquifpmi  dicebant  tefh  Quintiliano, qui  hocofle  dit  m  primo  mfhtutionum  oratori  arum. nec  mirum  cum. b, quoq;  m  \i,eufhoni&  aufa  conuertimuenimus ,ut  aufropro  a  pro.  A ff  ira  tio  quoq;  ante  uoatles  omnes  poni  potefl,pofl  confortantes  autem  quat =*  tuor  tantummodo  more  antiquo  gr^ecoru. c,t,p,r, uthaheo, Herenni-  usberos, hyems, homo, humus, hylas, Cremes; Thrafo,  vhilippus,Vyr  rhus-ideo  autem  extrmpcus  afcribitur  uoatlibus,ut  minimum  fanet,  confortantibus  autem  mtrinfecus, ut plunmu.  omnis  enim  littera  fiue  uox  plusfonat  ipfa  fefe,cum  p  opponitur, quam  cum  anteponitur, q<t  Uoatlibus  aeddens  effe  uidetur-ncc  p  tollatur  e  a, perit  etiam  uti  f-  gnipationis ,ut  fi  duztm  Erenmus  abfq;  afpiratione,qUti  uitium  ui-  dear  facere  ,  intellectus  tamen  inteqvr  permanet .  Confortantibus  autem  pc  cohaer  et; ut  eiufdem  penitus  ptbpantite  fit  ,ut  p  aufratur ,    LIBER   fignifirttionh  uim  minuat  prorfis-ut  fi  dica  Cremet  pro  chremes*  unde  hac  confyderata  ratione  ygr  oecorum  dothffhni,finguld4  fecerit  cas  quot];  litteras, quippe  pro,th,Ofpro,ph,p, pro ,  ch,%  f  feribentet  nos  autem  antiquam  finpturam /eruamus-  In  latinis  tamen  diiho  nicits  nos  queqj  pro  ,ph, coepimus  fjeriber  e , ut  fi  lins,  fima,  faga, nifi  qnbd^utfupra  do  mimus)  cft  aliqua  in  pronuciatione  eius  litterae  dif-  firetia^oim  fono,ph,ut  ofkndit  tpfius  palati  pul fis, lingua, labro  rum-R.h, autem  ideo  non  eji  tranflatum  abillis  m  aliam  fibram, qg  nec  fle  cvhxret  huic  quomodo  mutis ,nec(fi  tolla tur) minuit  fignifid  txonem  ,quanuis  enim  fibtrafot  afpiraticne  dicamus, retor  ,  Vyrrus t  intellectus  permanet ynon  aliter  quam  fi  antecedens  Uoailwns  au fe¬  ratur.  Vnde c frenditur  ex  hocquoq ;  aliquaeffe  cognatio-r, litterae  cu  uocahbus-cx  quo  quidam  dubitauer  ut , utrum  proponi  debeat  huic  af/iratio>an  fubiungi^nde  Aeoles  loco(ut  diximus) afpirationis  di¬  gamma  ponentes  in  dictionibus  ab -p Rapientibus  j olent  loco  digam  ma-B  fcnbere /ududntes  debere  praeponi  diyrtmma  qua.fi  uoathfeA  rurfis  quafi  confonanti  digamma  in  eadem  fyllaba  preepenere  re -  cu j, 'antes ,comutxoant  id  in-Bfiparcop  fcpo Condicentes  Sed  apud grte  cos  hxc  littera /idzji ,p -multis  modu  fungitur  loco  uoculif  ,ut  in  decli  natione  nondnum  in,pcc,&  in  a  puram  dcfmentum,qu<e  fimiliter .  a, /eruant  per  obliques  cufis ,ut  ui  px  w  pocr^opCoc  <ro<p'*s-  Apud  lati  nos  autem  non  adeo -Q^ucentur  cur  inuah  &ah  poftuocrtles  poni  tur  afpiratio  -  &  dicimus  quod  apocopa  fidei  efl  extremae  uoctilif  ai  proponebatur  afpiratio  ,nam  perfidi  uaha  aha  fint-ideo  au¬  tem  abfdffione  fidhi  extremce  uocztlti, tamen  afpiratio  manfitex  [k  periere  pendens  uocrtli ,  quia  fium  eji  imterictUonis  noce  alfcondita  profrri-ltaq;  pars  abfeondii &  extremitatis  uidetur  congrue  in  in =  teritVYiefhcnis  naturali  prclahonercmanfiffe-nec  mirum  cum  in  Sy  rorum  Acgyptiorumq ;  dichoni  msf oleant  etiam  in  fine  afpirari  uo  atles.lnfrricttionum  autem  pier *q;  communes  fint  naturaliter  om¬  nium  gentium  uoces-inter-cjine  affiratioruey&  cum  af/irahoneeft  g, inter- tyquoq;  &tih,cft.d,&'  inter -p ,gr, ph,fiue-f,  efl -b Sunt  iff-  tur  hae  tres, hoc  eft -b.gfdymcdice,qute  nec  penitus  atvent  afpiratio -  ne,  nec  eam  plenam  pojfident.hoc  autem  cflvndit  etiam  ipfius  pa¬  lati  pulfi<s,&  linvueucl  labroru  confimihs  quidem  in  ternis ,  inter .  p.&.ph-uel-f&.^.&iurfts  inter -c.&.ch  .&-g- fimiliter  inter -t  &-th-&.d  fidin  humus  exterior  fit  puifus/naf/eris  interior, in  me  dijs  inter  utrvet;  fipradiihrn  locu-qdfiale  digno fci 'tur, fi  ai  te  damus  in  fipr  tdi&ismoiil  us  ora  mirabili  natura  lege  modulati  a  noces- To¬  to  aut  e  e  cognatio  earu  <p  inuice  muemutur  pro  fi  pofitee  in  qbu fidit    PRIMVS.  7   ditfionihusyt  ambo  pro  *,u<pu>t  luxus  pro  w  i  os, &  publicus  pro  TouvMHor,  trismphus  pro  dpfocyfros,  gubernator  pro  HvfitpvSx  rnr,  gobius  pro  inofcio* ,  Caere  *Vj'  toJ  %oupi  puniceus  <po/vi'*tif  deus  Stof  purpureum  Troptpj  piov.  Hoe  quocp  obfiruanduan  efl  <p  nd  computationem  aliarum  cofonantium  quae [olent  mutari  uel  abq-  dper  cti fis , immutabiles  funt  apud  nos  tresl  n-r-per  cmnes  erwn  at  frs  eaedem  permanent, ut  fil  falis ,  flumen  fluminis  ,caefin  coefaris-t.  quoq;  &  >c.  quduis  m  trilus  folis  mueniantur  nominibus  quaepof-  fint  declinari ,hoc  idem  firuant,ut  caput  rapitis,  &ab  eo  copojita,  Ut  finciput  fi 'napitis , occiput  occipitis, alec  alecis, lac  l albis, in  quoetia  t. additur  •  quare  quibufdam  non  irrationabiliter  nominatum  hoc  lath  prolatus  inuenitur -Reliquae  uero  cojonantes  mutantur , uel  ab ij  cimtur-d-ut  aliquid  alicuius  an. ut  templum, templi, peliumpelij-f  Ut  magnus  magni-x-rex  regis, nix  niuis-ln  uerborum  qucqipraete *=  ritis  p er fettis  jolent  omnes  modo  mutari  modo  manere ,  cxcaeptis-L  p.fx  Mae  enim  nunq  mutantur, ut  habeohabui,  iubeo  iuffi,compefco  compefcHi,dico  dixi,afcendo  a fiendi, laedo  Ufi, lego  legi ,  pingo  pin¬  xi, demo  dempfi, pr  emo  presfi, moneo  monui, fi  no  fui,  nequeo  nequi  ui, torqueo  tor fi, differo  differui,uro uffi,uertouertiftedv  flexi. \llae  au  tem  quattuor  ut  fiupra  diximus  nuquam  mutantur,  mpraeterito  per  fiflv.l.  ut  caelo  caelaui,doleo  dolui,uolo  uolui ,  mollio molhui.p .tur¬  po  turpaui,ftupeoftupui,fadpo  fiulpfi,  lippio  lippiui.fiquaffo  quaffik  ui,cenfio  cenfiti-arcefjo  arceffim-x-nexo  nexui. Voatles quoqiin  eifde  praeteritis  perfiflis  quaem  principalibus  fy liabis  mueniwntur  uer¬  borum, modo  ex  correptis  producuntur, modo  mutantur  in  alias  uo  cales, modo  manent  eaede-Troducuntur  plemnq *  omnes, ut  fiiueo  fa¬  ni,  ctiueo  cdui,  fedeo  sedi ,  /ego'  legi,uideo  nidi,  moueo  mom,fbueo  fo  ui, fugio  fugi .  Mutantur. a,  &. e-a. quidem  in. e. medo  produ&tm  modo  correptam.Vrodu(fhim,uta^p  egi  capio  cepi  facio  faa.fi  ango  fregi. correpta, tango  tetigi, cado  cecidi, parco  peperci .  E. uero  tran-  fitm.i.ut  eo  m,ueUij.Solinus in  colledhtneis  uel  polyhijhre.  Tatius  in  arce  ubi  nuc  aedes  efl  xunonis  Monetae  ,  qui  anno  qntv  q  mgref-  ptsurbem  fuerat  a  lauretibus  inter  e  p  tus  efl  ,/eptima  &uiqvffinia  olmpiade  hominem  exiuit.Qjteo  quiui  uel  quij. Haec  eadem  uoculis  penultima  muerbis  fi  eundae  coniu^tiois  fepe  mutatur  in-u.ut  do¬  ceo  docuiynoneo  monui,  doleo  doluuquod  fimiliter  efl  quado  in  ter¬  tia  uel  quarta  coniuqntione  patitur  aut  rapio  rapui,  aperio  aperui  M.&.o>manet  in  principalibus  fy  liabis  pofitae  immutabiles  ,tempo  Yimquoq ;  m  quibufdam.ut  ruo  rui ,  domo  domui, doceo  docui.  Hoc  queep  olfirnandu  efl  p  mnq  in  fupradifiv  tempore  poteft  qeminari    m  ]   i   i!    - n  ■  ■■  VK  - - —    UBER  .   Wf  M  principio  ncq;  in  fine  fyllaba  ni  fi  qucedtmte  incipit -  ut  ton¬  deo  totondi,  pendeo  uel  pendo  pependi ,  difco  didici  f  pofcv  popofii,  tundo  tutudi, pedo  pepedi,  iungy  tetigi, c&do  eradi ,  atdo  evadi ,  pello  pepuli,  fxllofifilii^rodo  prodidi  ,  nendo  uendidi-ex  quo  etiam  ap*  paret . f .  uvm  magis  mutce  obtinere  d  quaincipiens  eft  geminata  fyl¬  laba- S-  antvmutem  pofita  muenimtur  duo  uerba  epice  qeminant  fy liabam  m  prcetvrito.jb  ficti, fiondeo  fiepondi  -  Antiquiffnni  etiam ,  fcindo  fdadi  dicebant  ,q>  innior er  fddi  dx  erunt ,  ut  mpr&terit*  perfitfv  uerbi  ofiendemus -  nec  fine  ratione •  9.  ante  mutam  pofita  vnuemtur  qvminatum  uerbum, c/m s-  amittit unn  fiiamplcnmcp,  fic  pofita  ante  mutam,  wndenec  in  fecunda  fyllaba  repetitur-  M -quocf  ge minatur  ,  mordeo  momordi ,  quee  loco  nuttee  in  multis  fungitur,  nam  ante-n  pofitx  communem  fiat  fyllabam,  ut  r amnes  ramnetis ,  fieut  Cremes  Cremetis-  lamlicti  enim  fiunt  quee  fic  declinantur ,  quod  Callimachi  quoque  au  thr  itato  con fi  r  ma  tu  r  in  A  ct  ijs  ,ficu  t  i  am  t :f  radicium  cfl  hocucrfiu  7w;  juiv  o  uvv <rd paetos t<pn  £tvos  uAinr  cuvut-  nunquam  tamen  eadem-  m •  ante  fe  natura  lonqxm  uo-  adem  palitar  ;  n  eadem  fyllaba  ejfe  ,  ut  illam  ,  artem  ,  puppim,  i/=  Ium  ,  rcmjfiem  ,  diem  ,  cum  abue  omnes  femiuoatles  bcc  habent ,  ut  Meccenas ,  pcean  ,fol,  pax,  par  -  praeterea  fola  heee  femiuocalis  pofr-s. ponitur, quod  trntar u  cfl, ut  fimyrna,fmardgdu6,&  ante  liqui  dam  ut  fitmnis,&q>  ante-s  .pofita  in  finali  fyllaba  nominis , more  ma  tce  interpofita  i. fiat  genihuu  hyems  hycmls,ucl  uti  inops  inopis, eoe  leis  ccehbis- Apparet  igitur, <q)  elementoru  alia  funt  eiufde yvnerts ,  ut  uoctflcs,&  con fonantes. alia  eiufde  fiedei,ut  in  uocuhbus  breues,  &  longce ,  &  in  corfonantibus  fimplicvs,&  duplices ,  quee  halent  afiiratione,^ quee  non  habent ,  &  earum  medice-  alice  uero  fibi  funt  affines  per  c6rmtatione,idefi  q>imuicvm  pro  fe  pofitee  inucniim  tur,ut  breucs,CT  longce  quee  habent  afiirationem, et  quee  atrent  ea *  A  lice  autem  per  coiuqationem,uel  cognationem  cognatee  littorce ,  0*jg  feinuicem pofitee, ut. b.p.f.necnon-g  &-c-cim  afiiratione  fiue  fine  ea-x»quoq;  duplex,  fitnilitor-d.&.t. cum  afiiratione  uel  fine  ea,&*  cum  his-z-duplcs-unde  fiepe-d  feribentos  latini  hanc  exprimunt  fi  no, ut  medidics ,hcdie , antiqui (fimi  qucq;Medentius  dicebant, pro  tnt  fentius  -  Qjxinenam.fifimplexhabet  aliquam  cum  fipr adi flis  co¬  gnationem,  unde  fiepe pro-z-eam  folemus  geminatam  ponere, ut pa-  trifjo  pro  -jr<x,7(>i{w  pitiffo  pro  tnaffil  pro  juoc(oc-&do,  es  tj   pro  <rJ-wndc  nos  queq ;  tu  pro<rj  (j*  te  pro  ri-kttia  autem  tixAccr-  roc  pretia  Aderret  tipUrTXpro  tipvcrrx  &  httov  proi  crerov  ,&  /i/^i   jux^os  pro  <n/'wxXos ,  Romani  etiam  aiax  pro  tuus .  in  uoatlibus    \    V  v  >••••    V    PRrMVS.  g   quoq;  frut  affines,  e. correpta  fiue  produdht  cum  ei  dipthongy,qH<t  ue  teres  latini  utebantur  ubiqs  loco  -idongee-mnc  aut  contra  pro  ea. i.  longa  ponimus, uel.  e  produdhtm,  ut  v£\os  nilus,  uocAAio^reiu  allio =  peagopci*  chorea. e .  pe ?Utitimamodo  correpta  nwdo produ&t .  o  breuisfiue  longi  cum  u. ut  hos  pro  p>ojr  ehur,  robur  ,  pro  ehor  ro~  bor,&  platanus  pro  'TAocTx/or.A.quoq;  cwn-c.&.i-arceo  g?  coer¬  ceo. facio  infido, nec, ion  alue  cum  alqs.g?  quia  frequenter  h<e  m  om¬  nibus  pene  litteris  mutationes  non  filum  perafus,ucl  tempora,  frd  etiam  per  figurarum  compofitxones ,  uel  denuationes  gj*  tran-  jlationes  d  grreco  in  latinum  fieri  filent,  neceffarium  efi  e  arum  po  nere  exempla  .A.  correpta  conuertitur  in  productam,  faueofdui,  I n.  e .  correptam  parco  peperci ,  armatus  mermis .  I n  e.  produ -  {ktm  facio  feci, apio  cepi ■  producta  quoque- a. im. e .produ<fhtm  in¬  venitur,  halitus ,  anhelitus  in.  i  .  correptam  amicus  mmlcus ,  in  c.  etiam  juxpuocpor  marmor,  in.  u.  fitlfus  infrifiis,ara  arula-E-cor  rep tatranfit  m.  e.  produchtm,  legoleg.  in.  a.  fero  saties ,reor  r a  tus. in  i  correptam  moneo  monitus ,  lego  diligo,  in-  o .  tego  tvgt .  Antiqui  quoque  amplofli  pro  amplctti  dicebant .  Et  animaduortt  fro  animaaduerti.in-u.tego  tuguriim-Et  apud  anttquijjimos  quoti  € fcuncp.n.d.fecpumtur  vnhis  uerbts  quee  d  tertia  comugntioe  nafcun  tur loco.e.u.fcriptummucnimus ,ut  faaundnmjcgundu,  dicundum f  Kertundum,pro  faciendum,  legendwi, dicendum, uertvndnm-I.tr  an  jitin.a.ut  genus, genens  ,ypneranm, paulus  paulipoulatim  -tn,e  far  tis  forte  fortiter  fapiens  fapientis  fapienterdn.o. patris  patronus ,&  patro  uerbumglh  pro  illifaxi faxofus .  m-u.arnis  arrn/frx  anti¬  qui  pro  arnifrx,ut  lucens, pro  libes  &  pe  farnus  propefjhm.  Sci¬  endum  tamen  eft  q>  pleraq;  nomina  qu^e  cum  uer^is  fiue  partiapijs  componuntur , uel  nomiruttiui  mutant  extremam  fy liabam  in-i.cor  reptam, ut  arma  armipotens  ,homo  homicida, cornu  cor  niger  ,fivlla  fhlliger , arcus  araten es  fatum  fatidicus, nurum  nunfrx,aiifa  ctiufi-  dicus  fadhts  lucificus, cornu  cornicen,  tuba  tubicen,  fidis  fidicvnfi^  des  plurale , cuius  ftngulare  fidis  eft,unJe  etiam  diminutiuum  fidi =  cula-tibia  tibicen, pro  tibfan,  tibia  enim,  a-md-debuithmitare,  ut  fit  praditfhtm  eft ,unde pro  duabus- vj.breuibus  una  logafadla  ep\c[Uod  in  alia  huiufremodi  compofihone  non  muenies .  uulnus  uulm ficus ,  magnus  magnificus ,  amplus  amplificus,  fruflas  fruflificus ,  opus  opifrx  uel  gemtna .  ut  uir  uiri ,  umpotens ,  par  paris  parrict =-  da  quod  uel  a  pari  componitur  ,  uel  ut  alij  dicunt  d  patre  .  ergo  fi  efi  d  pari-r-euphoni£  dufa  additur  ,  find  patre  .tdn r. converti¬  tur ,  quilufdam  tamen  d  parente  uidetur  cffc  compofitum,  g?  pro    JLIBER   farentidda  per  fyncopen,&  commutationem -t.fn.r.fadbitn  parn^  eida  frater  fratris  ,fr  atruida  foror  for  oris,  foror  icida,  lux  quoqj  lu *  ets  lucifer, flo;  floris  florifer ,  fdcer  facri  facnficus,ars  artis  artifix •  p aucti  fwit  quce  hanc  non  [eruant:  regiam,  ut  auceps,  anes  atpiens0  mtnceps  ,mcnteatptus  ,municeps  munera  cupiens,  au^his  augufius  [milia •  &qute  ex  duobus  nominanuis  componuntur , ut  puta  tufiu -  randum,refpu.non  tnutant  extremam  fy liabam, fid  ea  cum  defigu*  ris  dicemus  latius  traifhtbimus  •  O  ,aliquot  Italia?  ciuitates  tefce  P linio,  non  habebant,  fed  loco  eius  ponebant. u .  &  maxime,  Vmbri,  <Z?Y  jhufa.o ,tranfit  in.a.ut  creo  creaux-vn  e.Ht  tutor , tutela, bonus  6e-  ne  71  w  genu  wi/rpes .  antiqui  compes  pro  compos. m  quo  xolesje*  nuimur.  I Ili  enim  t^ovioc  pro  ocP/vroc  dicunt,  o .  conuertitur  vnn,  tsirgo  uir <gnis-m-u.tr emo  tremui, huc  illuc  pro  hoc  illoc .  Virgin  yiij.  Hoc  tunc  ignipotes  ccelo  defcedit  ab  alto. et  pleraq ;  qu&  apud  grtfcos  twminatiuum  in,  os.  terminant, o.m-u.conuertunt  apud  nos»  Ut  h\j' pos  Cyrus ,  zvovJft  o s  fpondeus,  kv  vrpos  cypruS,  ^tA ayos  pe¬  lagus.  Multa  praeterea  uetufhffimi  etiam  m  principalibus  mutabat  fyUabis,  ut  cungrum  pro  congrum  ,  cunchin  pro  conckm,bumincm  pro  hominem  proferentes  ,  funtes  pro  fontes ,  frundes  pro  frondes .  Vnde  Lucretius  m  idibro  Angujkq;  fretu  rapidum  mare  diuidit  undis ,  pro  freto,  idem  in  tertio,  Atqui  animorum  etiam  qu<ecunc Ji  acherunte  profundo  pro  acheronte .  in  eodem  •  Nec  tityon  uolucres  ineunt  ach  er  untei  acente  m,Qjta?  tarnena  iutiioribus  repudiata  fiunt,  quafi  ruftico  more  didht •  V, quoque  multis  ltalue  populis  in  nfa  no  erat, fid  e  contrario  utebantur,  o. under  ornatiorum  quoq;  uctufhffi -  mi, in  multis  dicionibus  loco  cius-o-pofiuffe  inueniuntur,poblicupro  publicu,qi tefhttur  Vapirianusde  orthographia, polearum  pro  pul  chrii,colpam  pro  culpam  dicetes,&hercole  pro  hercule,&  maxi  mc  digamma  antecedente  hoc  faciebant,  ut  firuos  pro  firuus  ,uolgus  pro  vulgus ,dauos  pro  dauus-Tranfit  in.a.ut  ueredus  ueredarius,  in. e. pondus  ponderis, deierat  peierat  pro  deiurat  peiurap, labrum  labellum, [aerum  facellum,  antiqui  auger,  &  auger atus  pro  augur,  et  auguratus  dicebant.  I n.i-cornu  cornicen, arcus  arcitenens, flucfhis  fluttiuagus  ,curfus  ,ucl  currus  curriculus,  uel  curriculum  in. o. nemus  nemoris  cbttr  cboriSy  robur  roboris.  Votutur  ha?c  eadem  littera  itt  gratcis  nominibus  modo  loco •  oj  .  dephthong,ut  mufia  pro  juv o-oc  modo  prou  ■ correpta  ut  homerus  pro  oyupos  pro  eadem  produfhtut  fux  pro  (pupficute  contrario  pro  p>ojs  bos. modo  pro .  u  .loga,ut  probus  mus,  modo  pro  correpta  to' pepv pa  purpura.  In  plerisfy  tamen  £oles  ficuti  hoc  faarrns.  I Ui  enim  OQvycin?  dicunt  pro  Suyxrvp.oj.cor?/ **   M   »3   ♦5) PRIMVS -   ripientes  ,Uel  magif.v fino-u. jbliti  pronuntiare ,  ideoq;  afcribunt  e .  rwn  ut  dipbthongum  faciant  ibifid  ut  fo  ium-  u.  colicum  ofiendanf  Ut  Callimachus  HX\hi%tafv  %6oviF,ojpi'xs  SouyxTup.  Qjsod  nos  fi  cuti  u, modo  correptam  modo  productem  halemus ,  qua  usis  uidca-  tur-oJ -diphtkoYKg  fanmi  habere .  Pro .0, cpiocp.au ,  joletrt  frequenter  ponere  greeti  oj pos  oj aos  pro  5  poto  hos, voj  <ros pro  vo<ros  dicentes, qd  nos  frequenter  habemus  in  finalibus  maxime  fyllabts,  ut  V  namus,  pylus, pelium-u, tamen  cvrripientes-lft  quando  amittit -u^im  tam  uo  diu  q  confortantis, ut  cum  inter. q,  &  aliam  nodi  em  ponitur,  ficut  ia  commcmorauimusyt  quifquam  •  Hor  idem  pier unq;  patitur  etia  inter. g,&  aliquam  uocalem,ut  [anguis  lingua.  s ,  quoq;  antecedente  u,<&  fiquente.a,uel.e,koc  idem  fepe  fu, ut  fiadeo  fiuiws  fuefio  fe¬  tus, quod  apud  atoles  quoq;.y,fepe  patitur  et  amittit  uim  litterae  m  metro, ut  <rXT<pu)  ,%a\x  Tu/ePtoc  eA  Sin  xor/a-xrtt  purx,  f  militer  W-    av/  difyllabuminuenitur  apud  cofdcm  cnm-y-  nonef  dipthongus.   .quando  tranfit  in  confomntem  idemu,ut  vxuthf  nauta  ,  nauita,  gaudeo  sgtuifus ,  ficut  eamtrafa  confonante tranfit  inuodlem  ,ut  ft -  pra  diximus, dueo  atutus,foluofolutus,faueo  fautor ,  uoluo  uolutus .  fepe. u, interponitur  inter ufuelcm, in  gratis nominibus, ut »  pxu  herculesxcTKXurijs  <efculapiHS&  antiqui ,x\k,uh'vh  dlcununa  ,x\-  nutum  alcumceon •  I n  confonantibus  quoqi  rmltce  fune  fimiliter  con~  mutationes.  L, triplicem  ,ut  P  linio  uidetur  fonum  habet ,  exii  em,  quan  do  geminatur  facundo  loco  pcfita,ut  ille ,mctellus , plenum . quando  fi¬  nit  nomina  uel  fylldbds,&  quando  habet  ante  fi  in  eadem  fyllaba  aliquam  confonantem,ut  fol,fylua,flauus, clarus , medium  inalijs  ,  ut  ledtus  ledht  le&um»  L, tranfit  in.  x  ,ut  paulum pxuxiUsm,mala  maxilla, uelumuexillum,in.r,ut  tabula  taberna •  M ,ob fimum  inex  tremitate  dictionum  fonat, ut  templum  apertum  in  principio ,  ut  ma  gnus}mcdiocre  in  mcdqs,ut  umbra.tranfit  in.n,  &  maxime,  d,  ucl  t,uel.c,uel.q,fiquenhbus,ut  tam  tandem ,  tantum  tantundem,  idem  identidem  ,nwm  nvmcul  i,&  ut  P  linio  placet, mnquis,  nunquam,  an  ceps,proamceps.am  enmpr*pofitio.f,Hclctuel.q,fiquetibus  in.n,  mutat. m,ut  anfi  adhts, anci fia, anquiro,  uodli  nero  fi qu ente  interci-  pit.b  tut  ambitus, amhefi:s,ambufius,amb ages jntenon  etiam  in  com¬  buro  combufius  idem  fit •  F inahg  di&ioms  fubtrahitur,  m,  in  mtr •  plerunq; fi  duodli  incipit  fiquens  diflio,ut  lUum  expirantem  transfixo  pe  flor  e  flammas.   Vetufafflmi  tamen  non  fimper  eam  fubtrahelant.   'Ennius  in. x.  annali  ttm .   infignita  fire  tum  millia  militum  ofh    b    ltb  er   *  Duxit  delcftvs  b  ellum  tvller  are  potentes .   N -quoque  plenior  in  prbnis  fionat ,  in  ultimis  partibus  (yllaba -  rum,ut  nomen,  [hmen, exilior  in  medijs,  ut  amnis,  damnum, tran-  fitin.g,ut  ignofeo, ignauus,igno tu s, ignaris, igno minia,  cogno fco,  co=  gnatus-  poteji  tamen  in  quii  ufdam  eorum  fermonum  etiam  per  con -  qfionem  adempta  uideri-n, quia  in fimplitibus  quoque  potefl  inueni  r  iper  adie^nonem-g, ut  gnatus  gnarus-  &  fequente.g,  uel.c,  pro  ea  g,  fer  ibunt  graa.  &  quidam  tamen  uetujhffimi  authres  Romano¬  rum  eupnonia  cuufa  bene  hoc  facientes, ut  agchifes,agcepsyaggulu$,  agqvns-qucd  ofhndit  v arro.i. de  origine  lingua  latina  his  uerbis  •  Aggflas  aggvns  agguiUa  iggerunt.  In  eiufmcdi grati  &  Attius  no *  fvr  binam. g. feribunt  ,alq-n,& .gyquod  in  hoc  ueritatem  facile  uide-  rc  non  efhjimiliter  ageeps  &  agcora.tr an fit  etiam. n,wd,  ut  unus  ullus, nullus, uvnum  uillum, catena  catella, bonus  bellus, catinum  catil-  lum,fimiliter  collega tcolligp,  illido, collido,  tranfit  m.m-feqmntibus-  b-ucl •  m-ucl-p.  audoee  Vhnio  &  Papiriano  ,&  Probo, ut  imbibo,  wi  o  e  ilis,  bn  outus ,  bn  mineo ,  ynwvt  t  to,  im  mo  tus ,  improb  u$,  imp  erator,  mpello ,  ftmiliter  in  gr acis  nominibus  neutris  bi.on  .  definentibus  zrxAAx.Stov  paUadium  tthaiov  pclium, tranfit  etiam  in*r.ut  corrigo ,  corrunpo ,  irrito  .  Hanc  autem  mutationem  litterarum  / ciendum  ejl  quadam  naturali  feri  uccis  ratione,  propter  celeriore  motum  lin¬  gua  labrorumq;  ad  uicincs  facilius  tranfemtium  pulfus .  T rafit  fu-  pradibht  confonans-n, etiam  in-s, fando  ftifjus, findo  fiffiis ,  in.t-atnis  catulus, catellus- in- c. ecquid  pro  cnquid.pxpclhtur -n,d gratis  in-w,  definentibus, cum  m  latinam  tr anfaunt  firmam,  ut  demipho,  fimo,  leo, draco, fi cut  contra  additur  latinis  nominibus  in-  o .  definentibus  apudgracos  ut  mm  puv }kxtuv tpro  acero, cato.  Tranfit  m.u.confona =  tem,ut,fino  fiuiyfivrno,  ftraui-R.fine  afiiratione  ponitur  in  latinis,  in  graas  Ucro  principalis  uel  geminata, m  media  ditfione  afiiratitr,  ut  rhetor,  rh  entes,  rhodus, pyrrhus, tyrrh  ems  ,orrh  ena  y  pro  quo  nuc  o  fit  ena  dicentes  afpir  ationem  poft-r -antiqua  feritant  feriptura-tra -  fu  in -l.  niger  nigellus- umLr a, umbella. in-s. ut  arbos  pro  arbor, odos,  pro  odor -Plautus  in  Captiuis-  Q^uorum  odos  fub  bafiliatnos  omnes  abigit  m  firu-uerror ,  uerfius.in  duas-ffiuro  ufifi,gvro  gvffifo.H.con-  fi>iantemytero  trimfiro  feui.in.n,  ancus  pro  areus-S-in  metro  apud  uetufhffitrws yubn  fiam  frequenter  amittit .   *  v irgiiius  in. xi. aneidos, Ponite  fies  fibi  quiscp-  idem  in-xiu   ^  inter  fe  eoijjfe  uirosy<&  decernere  firro .   Nf  autem  comunthone  fequente  am  apoflropho  penitus  tollitur  ut  uidcn,fiatin,uim,pro  uidesne  fatifne  uis'ne.  necmn  etiam  in gra-    IO    M)    PRIMVS.   di  mhUmlus.^-Uet.  es.  ter  minantibus  plermtq;  tollitur,  cu  fmt  pri¬  ma  declinationis, ut  Gefa^irrhia^hedria^cherca  poeta  quoque jo*  phijht,fytha  ,  citharifkt-in  quibus  etiafner}produ<fhtm  a  correptum  conuertitur  .  tranfit  hac  eadem  in -  m.  utrurfmn  pro  rurfus,dun  mimo  pro  difminuo .  T erentius  in  adelphis  d>mmmetur  tibi  te¬  rebrum,  m-  n -  mittitur-  s-  pinguis  fangninis.  in .  r.  flos  floris,  ius  iu-  ris,curfts  amiculus  ,  «e/  curriculum -in-  x  -  aiax  pro  ausgr  pi  flrix  propiftris-in  quo  fequimur  dores.ilh  enim  o pvtE  pro  opvis.  m-  d-  cujks  cujbdis  ,  pes  pedis  ,prafes  pr a fidis,  palus  paludis .  in .  t- nepos  nepotis ,  uirtus  uirtutis  ,famnis  famnitis .  in-u.  condonan¬  tem  bosbouts .  /ape  pro  afbiratione  ponitur  m  his  dictionibus  quas  d  gracis  fump fimus ,  ut  /emis ,  fex  ,-feptem  ,fefal.  nam  ijulv.  eA/.  t  vtd  .  e .  «Ar  .  rfjwd  illos  aspirationem  habent  m  principio .  adeo  autem  cognatio  ejl  huic  littera  idefi-s,  cum  afbiratione  }quoa pro  ea  in  quibufdam  dicionibus  [olebant  bceoti  idefi  pro-s-h-fcnbere ,  nudi  a.  pro  mu fi, dicentes -huic- s.prapcnitur-p. et  loco. ‘b-grace  fungitur, pro  qua  claudius  Cafar  antifigma -  X  hac  fiqaira  fcnbi  noluit  fed  nul¬  li  susfi  funt  antiquam  feripturam  mutare,  quamuis  non  fine  ratione  kacpuoq;  duplex  d graas  addita  uideatur,  nam  multo  meliorem ,  & uclubiliorem  fonitum  habet-^.qudm-ps.uelds-ha  tamen  ideft.bs  non  alias  debent  poni  pro  ^ -hoc  ep  in  eadem  fyllaba  coniunfla ,mfi  m  fine  nominatiui, cuius  gimtiuus  m  bis  definit, ut  urbs  urbis, coelebs  coelibis ,araps  arabis -Sicut  ergo-^.  melius  fonat  quam  ps-uel.bs.fic .  x-etiam  quam- gs-  uel.es -&-x- quidem  affump fimus -i- autem  non •  fed  quantum  expeditior  eft-^-qudm- ps. tantum  ps-qudm  bs-  ideoq ;  twn  irrationabiliter  plerisqsloco  uidetur  .^.ps -debere  feribi , quod  de  ordine  litterarum  docentes  plenius  traChtb imus -x-  duplex  modo  pro  es.mvdo  pro-gs. accipitur, ut  apex  apicis,  grex  gr  e  gps,  tranfit  tamen  etiam  m-u-confonantem ,ut  nix  niuispiecmn  in.  61. ut  nox  no5hs,fu -  pellex  fupellefUhsSedhac  contra  regulam  declinari  nide ntur-fubit  etiam-x. littera  loco  aflpirationisfut  uehouexi  traho  traxi-x-uertitur  in-f.  ut  efficio  effero. &  /ciendum  cp  quoticfuncp .  ex  -  prapofitio ,   Konitur  compofita  didonibus  duocahbus  incipientibus  ,uel  ab  peattuor  confonantibus ,  hoc  eft.c  -p.t.s-  integra  manet,  ut  exa¬  ro, exeo  ,  exigo ,  exoleo  ,  exuro  ,  excutio,  expeto  f  extraho  ,  exe=  quor  ,exfpes,in  quo  uidenmr  contra  gracormn  facere  conflatu =  dinem-illi  enim. a .  fequente  nunquam  •  /  •  praeponunt ,  fcd-n -  pro  ea  tuttK$ot!ri! .  melius  ergo  nos  quoq;.  x  .  [olam  ponimus,  que  lo¬  cum  obtinet,  es- cuius  rationem  nonfolum  ipfe-  fonus  auriu  iudido  pof  fit  reddere,  fed  etu  hoc  f  qemituiru  s-Jifta  confonante  a madente   b  ij    LIBER.   minime  potefl -geminari  autem  indetur  pofr  confortantem -s-x*  antece¬  dente ,qu£  loco-c.&.sfrinqjttcr  fi  tyfia  confequatuT,ut  exfrquia  ex -  [e^uor -quod fi  liceret, licebat  etiam  pejt -bs, uel- ps. quas  loco -  dupli  as  acapnnus  adderes, ut  dicer enm  objfiffus, abjfichts ,  quod  minime  licet -nunquam  ennn  necs,riec  aha  conjonans  geminari  poteft,  ut  di¬  ximus, alia  antecedente  confionante-nunc  de  mutis  dicrmus-B -  tranfit  in  egit  occurro  fiuccnrro,m  f,ut  opfido,fifficto,fiffio,in-g,ut fuggro,  in-myut  fivmmitto, globus  glomus ,in-p  ,ut fiuppo/io,nj-r,ut  fitrnpio,ar  rtyio,ms,ut  luleo  iufp-nam  fiifdpio  &  fijluli  d  fitfrum  uel  fiurfium  aduerbio  compofiite  fiunt,  wnde  fiubtinnio  &  fihbcumlo  non  mutauem  runt-b-ins  •  fijpicor  quoque  fiffido  d  frufim  uel  fiurfibm  cvmpo-  nantur ,  fed  abqdum  urnam  s -non  enm  didamus  fufjjnao  fedfiujpU  do,quia  non  potejl  duplicar  i  conjonans  alia  fu  pquente  conjonante ,  quomodo  nec  antecedente ,nifi  fit  mutuante  liquidam, ut  fiupplex  ptf*  fr agor fi\\fifio,€ffiuo,efifirm<g),  quomodo  &  apud  grteccs  o-uyypnoopcJ  <njyYvu)f*H}<r\jyyK\j<puy<rvjAfiivn f/cov  ,tp6iyy/Ax.  C- tranfit  in.u, confio-  nantem, ut  quiefeo  quieui,pafico  paui y  afeifeo  a  fani, in- x, ut  dico  dixi,  duco  duxi,  noceo  noxa  noxius,  ins, parco  par  fi, uel  peperci, m-g,an*  te  cedente. n, quadringenta, quingenta,  feptmgenfo .  ango  quoque  pro  ancho.et  riofond  cm  cjr  f  ante  hanc  julam  mutem  finalem  inueniwn  fur  longce  uoatles,  ut  hoc, hac, sic, hic  aduerbium-nam  ante.t,fi  qua  fnueniatur  uoatlis  longa. p er  confdfionem  hoc  euenit ,  ut  audit,  mu¬  nit  fimat,pro  audiuit,munmt,funiauit-necnonpofi:.s,pofita  trafit  aliquando  m-t,ucl  ajjumit  cam,ut  irafeor  iratus,  nancificvr  nafhts,  nafivr  natus , pacificor  padhts ,pafivr  pafhts.  u-tranfit  m-c,ut  acci -  dit,quicq  iam,m  g-ut  aggero,in-l,ut  allido, in. p, ut  appono,  in-r,ut  arrideo,  meridies,  antiqui jjimi  uero  pro  ad  frequenti  [fime,  ar ,  pone -   bant,aruenas, amentor  es, aruoaitDS,ar fines, aruclar  e, arfkri,dicetes,  pro  aduenas,aduentores,aducattvsyadfines,  aduolare,  adfrri .  unde  ofienditurrefte  arcrjfo  dia  ab  arao  Herbo, quod  nuncacao  didmus,  quodefr  ex  ad  &  do  ccmpofitim-arger  quoque  dicebant  pro  agger •  tranfit  etiam  ins  ut  afifiideo,rado  rafifradeo  fiuafi  ,  in  duas  queep  ffiut  cedo  affi,  fr  dio  fv/fiis,in.t, attinet, attamino, attingo,  heee  eadem  tamen -d  frequenter  interponitur  mcompofitis  hiatus  atufa  prohih  e-  di, ut  rediw , redarguo, prodejl-  fini  trahitur  etiam  cum  fequens  fiylla  ba  abs-&  alia  aonjbnante  indpit,ut  afipiro,  afpido ,  afeendo ,  afb -  V. multis  medis  muta  magis ofkndmr , cum  pro.p , et  afpiratione  qu<*  fi  militer  mute,  e fr  acdpitur,de  quo  fiiffiaeter  fiupo  ius  diximus -qua-  q  tam  antiqui  Romanorum  atoles  frequentes  loco  afpiratioms  eam  ponebant ,  effligentes  iffi  quoque  affirationem  •  &  maxime  atni    eonfenante, re  rufabant  eam  proferre  in  latino  fermone -habebat  au-  tem  haec-  f-littera  hmc  fenum  quem  nunc  habet  u-loco  confemntis  fofita,mde  antiqui-afpro  abferibere  felebant,fed  quia  mn  potefe  MU,  idejl  diqnmma  in  finefyllal &  inueniriydeo  mutata  ejl-fm-b.  fi  filum  quoq;  pro  fibilum,tefee  Nonio  Marcello  de  do  floram  indagi¬  ne, dicebant.  G-tr  an  fit  m-;-jfargo ffarfi, mergo  mcrfi,m.x.tego  texi,  fingo  pinxi,in.fl.agor  afht; , legor  lebhi; , fingor  piflu;.  li. littera  nonejfe  ofeendjm>ts  ,fed  notam  afeirationis,  quam  gr  aecorum  anti-  qulffe.m  fimiliter  ut  latmi  in  uerfe  fer  ibebant, nunc  autem  diuiferunt,  &  dextram  eius  p artem  fefra  litteram  p onente;,pfilen  notam  ha-  bent,quam  Remnius  Palcerrwn  exilem  uocut.  Griliuis  nero  ad  vir -  gtium  de  accentibus  fcriben;, lenem  nominat,  finijlram  autem  con *  trarix  illi  afpirationi;  da  fiam, quam  Grillus  flatilem  uocrtt-K-fef  er-  tutata  eft,ut  fefra  diximus,  qu^e  quatmis  feribatur  nullam  aliam  uimhabet  quam- c.De-q- quoq ;  feffidenter  fefra  traflntum  efl  ,<pA&  nifi  eandem  uim  haberet  quam.  c.  nunquam  in  prinapij;  infinito¬  rum  uel  mtcrrogatiuorum  quorundam  nominum  fofita  fer  obii  *  quo;  atfe;  in  illam  tranferet ,  ut  quis  cuius  cui- fimiliter  d  uerbis-q »  habentibus  in  quibufdam  participi j;  m-c. tr an; fertur, ut,  fequor  feat  tu;, loquor  locutu;. trd fit  in-;. ut, torqueo  torfi,  fient  gr-c-parco  par  fifimi-iiter  abqdt.nfn  proterito  featt  &.  c .  linquo  liqui, umeo  mei .  tranfit  etiamin-x-ut , coquo  coxi, duco  duxi, apud  antiquo;  frequen¬  ti  ffimcloco.cn -fyllab*,  qm, ponebatur ,  &  econtrario ,  ut  arquus  eoqm;,oqvHlus,pro  ar cu;, cocu;, oculus, qum  pro  cu,qnur  pro  cur.  trafit  in-; -ut  uerto  uerfe;, concutio  concuffus,  osx  grxcnfro  offl.c.uc  yo  antecedente, tr  an  fit. t. in -x -ut  peflo  pexui,fleflo  flexi- v  ,& ,(,tan  tummodo  ponuntur  mgreeei;  diflionibus,  quantus  in  multi;  uctere ;  haec  quoq;  rmfaffe  mueniantur ,  &  pro-v.u-pro-'{ -  uero  quod  pro.  ff.  conimfli;  acdpitur.;.uel-d-pofeiffe,ut  fagtmurrrhapro  yuyfjuJ}*  fcc,  fegunthum  mafjk  fro  (xHvyffo;  juxfa  ,  edor  quoq;  xtto  toj  o'(ciy,  fethus  fro  {»6o;  dicente;, &Medentius  pro  M  efentius.ergp  corylus  t?  limpha,  ex  ipfe  feripturad  graed;  fempta  non  cft  dubium,  cum  f  u -ferio atur  70 7  no  puAo;  toj  vj^ucpif  Solebat  enim  Uetufhffi   mi  gr aecor um-Lpro -n-ferib ere, unde  quinquaginta  quoq;  numeri  fi°  gnum,quod  illi  per -n  ,feribunc,  no;  per-l-morc  illorum  antiquijjl-  feribimus -   D  c  ordine  litterarum.   Kdo  quoq;  aeddit  litteris, qui  quantus  in  ;yllabis  dignofrf-  *  tur  ,  tamen  quia  conimflu;  effe  uidetur  cmn  p ote[ht.teele=   mentorum , non  ah  fer  dum  puto  ei  nunc  illum  febiungerc.   .  b  ili    *»   w    •31    •9    •Jf   t*    LIBER   Uodtes  pr<epcfitiu<e  alqs  uodlibus  fitbfiquentibus  in  eif  dem  syllabis. a. e.o.fitbiu6tiu<ea:.u.ut.ae.au.eu.oe.I.quoqi  apud  antt  quos  pofi. e. ponebatur ^^bdiiphthongum  fidebat, qua  pro. omni. i,  logt  fcribebant  more  antiquo  gr  cecoru.lnuenltur  h<ec  eademi,pojl  u  an  grceds  nomimbusjut fiipTryctjiam.y .diphthcngus  cfi-Sunt  igitur  dij.  hthongi  quibus  nunc  utimur  quattuor .diphthongi  autem  dicun¬  tur  q>  binos  phthongosyhocefi,uoces  comprehendunt. nam  finqul <e  uo  dies (1*04  Uons  habent, &.  ac. quando  d  poetis  per  di<erefim  profer  tur  fecundum  graecor  per.  a- &  .i.fcribitur  ,ut  cudat, piffai, pro  auU  &*pifre-Et  Vir  glus  in  tertio .   Aulai  in  medio  libabant  pocula  bacchi.  idem  in  cdktuo •  t)iues  equum  ducs  pidhti  uefhs  &auri  •  in  gy<eds  nero  quoties  hu^  iufcemcdi  fit  apud  nos  di<erefispenultim<esyllab<e.i.pro  duplici  con  fanante  accipitur  ,ut  maiapro  juou'x  aiax  pro  cuxs.  Trafitini ,  pro  dufhtm,ut  qu<ero  inquiro, exqui  royquanuis  exqu<ero  Vlautus  dixit  in  Aulularia. intro  exquire  jit  ne  ita  ut  ego  praedico  .  l<edo  illido 9  c.edo  occido. Vonitur  pro.edongt,ut  a-^vd  fccena  &  pro. a. ut  <efiu-  lapias  pro  xraAH^/os,  inepto  <eoles  fiquimur.  illi  enim  vu^upsus  pro  vj  fiepoes  &<poujlv  pro  (pari v  diau.t  muenitur  tamen  hac  diphthon  qus ;  n  media  dicHone  correpta  tunc  ^quando  compofitce  dithonis  ante  cedentis  in  fne  ejl fiquente  uodli,utpr<eufis.v irglms  in  fiptimo .  Stipitibus  duris  agitur  fndibn*'ue  pueufti -Homerus  dv ndo' ttoAs  X*   JUOlii/VOU.    fiait  etiam  longae  uodles  flent  corripi  yut  dchifiv,virgi.in  quinto -  Infindunt  pariter  fideos  ,totu  mq;  delvfat ,   Conuulfitum  rernis roftrisq;  tridentil us  sequor. G  e  .queq;  idem  pati¬  tur  apud  grsecos  Aefchylnsoizpos  roiujdixs  rrccpSivous tuous\/ crcu-Vn  de  quidam  non  fine  ratione  imum  tempus  &  fimis  fingulas  eas  ha¬  bere  dicunt. idevq,-  fi  confiquatur  condonans  qa<e  dimidium  tempus  habet ,omni  modo  producantur •  Mt  quocp  uidetur  quafi  pati  diuifio  nem  cum.i.poft.u. addita ftranfit  eadem .Hin  cvnf  nantium  pctcfkt-  tem  ut,gtudco  gtuifits/udrus  nauitay&  vuZ:  nauis •  tranfit  et  indo.  uttaufiro  ab  finii  allatus  .Et  fiicndumi  cp  pro  ab  pr  <epofincne.au.  po  nitur  in  his  uerbis  ,aufugo  &  aufero. E  contrario  queq;  frequenter  f  let  fieri  m  antecedente. a.  C7-H  loco  condonantis  fiquente  ,fi  abijeta-  tur  uocuhs  pofitapofi  eam  idefi  pcfi.u .con fana ntem- au  dipht h o ngus  fiat.u.redeunte  in  Uodlemjut  lauor  lautus y  fiueo  fautor }auis  auceps f  augurium  yaugufiUs . trarfi i  ino.predudhtm  more  antiquo,  ut  lotus  pro  lautus, ple firum  pro  plaufiruan, cotes  pro  dates,  fient  etiam  cun=  trapro.o.au.ut  aufirum proyjl rmiguif culmi  pro  ofculmfiequcn    It    mwvj.   ufrim/q;  hoc  faciebant  antiqui, in. u.  quoq;  longam  tranfit  fraudo  de  frudo, claudo  includo  •'tu- tranfit  m.edo/igtm,ut  A  chiller  pro  x  a<o/V  .vlyxer  pro  oJvarri^quod  o frenditur  m  gninuo  ulyxei,Hora.  «  in  prime  cdrminum, Nec  curfar  duplicet  per  mare  vlyxei.in-n.etta  mutatur  fago  pro  epsdyu .  oe-eft  quando  per  dicer  e  [i  m  profertur  in  grecir  nermni  us  &gr<ectim  ) eruat  fcnpturam  pro.  o .  enim  &.i.  ponitur, que  tamen  ( jient  fr+pradiflum  efr)  locum  d  ipliar  optmet  confonanttr  ,ut  troia  pro  rr?oix}maiapro  jxoux-in  hoc  quoq ;  <eclcr  fa-  quimur  fic  enim  illi  diuideter  diphihongum  ni 7 aqv  pro  koiaov  dicut .  Apudgnecor  tamen  quoq;  .i.  fequente  producere  licet  antecedentem  breuem,ut  Homerus  in  hocuerfat  n  rtfopx  oj  h  t  Ace  BtvJ&Xti  Tnvdvrx  xip  tjuxnr   aufertur  elidejl-oe.  diphthongo,  alter  a  uoaths  faquente.  e- longi  more  attico,ut  poeta  pro  xamdr, poema  pro  xof»/aa,necnon  pYo,w/.diph -  thong  gr nor  hanc  idejhoe. ponimus, ut  «<y/W/ *  comoedia, 7  poc-  yufix  tragoedia  dicentes ,  nec  mirum  cum  pro. v. quoq;  habemur. o.  &  pro.'i.e.m  diphthog  accipimur. hoc  tamen  ad  imitationem  boeo  torum  friemur  facere. Tranfit  in. u. longam  ,ut  phoenices ,punicer ,phoe  niceon  puniceum ,  poena  punio .  Nunquam  diphthongir  in  praeterito  perfiflv  mutatur ,ut  haereo  hefa,  audio  audiui,mcenio  moeniui ,  ex¬  cepto  c<edo  cecidi  -Ei.diphthong  nunc  non  utimur  ,fed  loco  eius  in  gr&ctr  nominibus- e.uehi.produdhtr ponimur. Et  in  priore  /equimur  Aeoles  -  lUiennniw  Jh^oo-Suii  dicunt  pro  SHjuotrdtvei  &  ixov  pro  ei  xov.  Et  nor  plerunq;  cum. ei .  apud  graecor  fit  purapenulhma  ,  in  illis  maxime  femininis  que  per  adiechonem  affamunt.a.apud  gre  cor  mutamur. ei. in.e.produfktm, ut  ^ni/xeix.deiopea.’ ' hximo'   •xh  HXKKio-yreix  cztlkopea.nam  in  illis  quemda-frlum  definunt  apud  graecor  raro,fathoc,ut  arga,alexandria, nicomcdia, langa, lampia-  Statius  in.iiij .   1$  C andensq;  iugr  Lampia  niuofar/idem  in  eodem,   Hoc  quoq;  fe creta  nutrit  Langa  fub  wmbraidem  in  facundo.   TWnc  donis  Arga  nitet , uder  q;  fororis,   Ornatur  facro preculta  frperuenit  amo.Raro  autem  diximus  pro -  i  f&r  Medeam, plateam, niceam-Nam  quod  Virg.  Qui  tela  tiphoea  i  temnis. e. correptam  protulit ,doricum  efr  ,  illi  enim  frient. a  .  diph-  thong  abijeere .  i ,  In  laiinir  autem  dictioni’ m  difficile  (nuentes -i  longam  ante  uoctilem  pe  fatam  nifa  in  gnirnts  in  tus  defi  nentibus ,  ut  illius,  folius, ullius, quae  tamen  licet  &  corriperem  metro  &  in  ucr  bo  fiam  fias  fiat,  quod  ipfrm  quoq ;  contra  aliorum  eiufdem  coniugrt  tionir  fit  regulam  uerborum.  I n  tnafatlinis  quoq;. ei.  pura  m.edon -   b  iiij    M    »3    HIBER.   grm  conuertitur ,  £xkk uos  Achilleus ,  a^puos  alpheus  caror  fu  os   /pcndcus-non  fine  ratione  tamen  hoc  fitySed  quia.^purapenultima  ante.us,uciayiiel.umy  per  mminatmos  nm  muenitu r  p rodufta  in  latinis  dicncnisiis  nif  indifyllabis  &ipfis  greeas .  Nam  m greeeis  fepe  inuenimus  ut  chius  £r  diay  &  m  tino  triJylUbo  quod  apud  M  Statium  legiyut  licyus-  Statius  in  decimo  Thebaidos.  Ad  patrias  f  n  quando  domos  optafaq;  paean.  Templa  hcyc  dabis  tot  ditia  dona  fa  *  cratis  V ofibuStO4  totidem  noti  memor  exiget  auros .  m  ahjs  nero  co  fionanteyl  y fequente  pro  ei  diphthongo  longrtm.i y  ponimus  ut  rubos  nilus  •  In  femiuocaiiius  f  militer  fiunt  alia  prcepofitiuce  alijs  femtUo-  cahbus  m  cade  fiyilab  a  ytt.m,  fequente. nyut  mnefivus,amnis.Sf  quoq»  f  Ruente. m,  ut  finyrnayfmaragdus  .  nam  uitium  facium  qui.z,ante  m,  firibunt .  Nunquam  enim  duplex  in  atpite  fyilab#  pefita  potejl  cum  aha  iwngi  condonante  .  Luatnus  quocp  hoc  ofendit  in  deamo.   '*  Terga  fa dent  crebro  maculas  difhndkt  fmaragdo. nam  f  effet.^an-  te.mfiubtrahi  vnmetro  minime peffet tnec  fair et uerfus-  Syenim  irum  trofepe  uhn  conjonantis  amittit. m  fine  autem  fyllabte  omnes  liqui*  dee  f  lent  ante.s .  poniyut  plus  hyems fmons yars -fimiliter  dnte.xyexc<e  ptn.myut  falx  lanx  arx.  In  mutis  proponuntur  .b  ^.g,  fequente  >d,  ut  [ScPihv po  ?  bdellium  genus  lapidis ,abdir ,aldomcnfmygdonides.C,  uero  Zr-p , proponuntur  fequcnte.t }ut  a{htsylc£hisyaptusydiphthon  gus.  Semiuoczths  nulla  proponitur  mutis  nifi.s ,  fequete.b,  ut  afbejhfs  ajbufivs.cfuelqyut  fcutii  fquallor  .p  yut  [pes  /phatra.tjhtfusfihenni-  us-Ante  alum  autem  nullam  nuitur um  .  Mut<e  uero  fetniuo atlibus  praeponuntur  liquidis  abfip.  myomnes  pene  omnibus-bly  ut  blandus  clyut  clarus -dlyabcdlas  nomen  barbarnrn.fi frauus-gl  gladius  gla^  brio.tlytlepolemus ^tlas  pl, planus 'bnyabnuo  frd>by  magis  fiuperio *  ns  ejl  jyilaba:.  cnyc nidus. dnyadnus  ariadne.  gnygneusanyatna.  pn,  therapnefpnus.  brybrennusyumbra.crycreber-drydrances.^rygra -  tusfr, frater- prfratum.trsracfhts.  Ante. mydutmuetiiutur-c.d.g.t*  ut  py  r  a  cmony  alcrneneydragmaydmoistadmetusyagmeytmolus,ifi  mos .  T  res  aut  confio  nates  no  aliter  pcjjimt  iungi  in  principio  fiyllabce  nifii  fit  prima. syucl.cyuel  py fecunda  pofi.syquidcm.cyuel.tyuel.p.  Tofit.ct  aute  aut- p,prma pales  fiainda.tytertialHchrfd.lyin  fiohs  illis  quee  ab.symapiunt.ut  A fclepicdotus,  fiyiba fitlopus fylendidus ,  fretus .  Ingratas  etiam. <p ,t fecunda  ponitur  qudm  nos  per.ph,plerunqs  ficru  bmus.crypxyit  uittrix.fceptrum •  Nam  pofi.pt yuehdyfimul  iunfkts  l  non  inuenitur  iit  cfivndjmus,  ipfit  fioni  natura  pyohibente. \n  fine  uero  aitUonis  contra  inuenimus  primam  liquidam  fequentem  muta,  poftremam-  fiut  uris  ,fhrps  •  fin  aute\n  in  cluas  definat  confionantes   di&io    PRTMVS.  13   diMoynecejfe  cfi  priorem  liquidam  effe,et  /cquente-s-uelx-ut  fitpr*  offendimus, ude. ueUt- antecedente. n,ut  hmc,dicunt ,  amat, hunc, uel  loco-i-grace  bsuel  ps  fcribcrc  pro  ratione  <grutwi,ut  arahs  arabis,  petopr  p  elopis, coeleps  ccelibis ,  princeps  principi*. Quii ufdam  fame  Ut  fupra  docuimus ynon  aliter  uidetur-^- gr<e at  nifi  pro-psfcnben =  da.quanquam  enim  ratio  genitim  fiipradiflttm  exigat  scripturam,  tamen  cognationem  foni  ad  hoc  procliuiorem  cjfe  aiunt  hoc  tamen  fci  endum  eft,cp  principium  syllaba  omnimodo  pro. i. ps  >debcthahere0  Utpfitacns,pfiudolus ,  ipje,mbo  quccp  mp fi, scribo  scnpfi  faciunt,  quanuis  analogia  per  -b, cogat  scribere  ,/edeuphonia  fuperat ,  qua  etiam  nuptam  non  nubtam ,  &  scriptum  non  scribtum  compellit  per-p,non-b,dicere  &  scribere-  PROBI IWSTITVTA  ARTIVM.    p.  153.  M  R.  P-  ^'  30  V.   DE  VOCE.   Vox  sive  soDus  est  aer  ictus,  id  est  percussus,  sensibilis  auditu,  quan-  lUDi  io  ipso  es(,  hoc  est  quam  diu  resonat.  nunc  omnis  vox  sive  sonus  aul  articulata  est  aut  confusa.  articulata  esl,  qua  homines  locuntur  et  5  lilteris  conprehendi  potest,  t  puta  ^scribe  Cicero',  ^  Vergili  lege'  et  cetera  UHa.  confusa  vero  aut  animalium  aut  inanimalium  est,  quae  litteris  con-  prehendi  non  potest.  animalium  est  ut  puta  equorum  hinnitus,  rabies  €3Dum,  rugitus  ferarum,  serpenlum  sibiius,  avium  cantus  et  cetera  talia;  inaDimalium  autem  est  ut  puta  cymbalorum  tinnitus,  flageilorum  strepitus,  10  uodarum  pulsus,  ruinae  casus,  fistulae  auditus  et  cetera  talia.  est  et  con-  fusa  vox  sive  sonus  homiiium,  quae  litteris  conprehendi  non  potest,  ut  puta  oris  risus  vel  sibilatus,  pectoris  mugitus  et  cetera  talia.  de  voce  sive  sono,  quaDtum  ratio  poscebat,  tractavimus.   DE  ARTE.  15   Ars  est    unius  cuiusque   rei   scientia  summa   subtilitate   adprehensa.  Dam  el  Graeci  aico  TtjgciQSTijg,  a  virlute,  censebant  artem  esse  dicendam.  uDde  et  veleres  artem  pro  vlrtute  frequenter  usurpant.     nunc  huius  artis,  id  est  grammalicae,   omnis  dumtaxat  Latinitas  ex  duabus  partibus  constat,  '  hoc  esl  ex  analogia  et  anomaiia,   et  ideo  utriusque  parlis  rationem  sub20  iriiDus.   DE  ANALOGIA.   Analogia  est  ratio  recta  perseverans  per  integram  declinationis  disci-  plioam,  ut  puta   hic  Catilina,   haec  lupa,  hoc  scrijnium  et  cetera  talia;  $cilicet  (|uoniam  haec  nomina  sic  per  ||  omnes  casus  secundum  sua  genera  2S  in  derlinalione  perseverant,  sic  uli  est  analogiae  rccta  declinationis  dis-  riplina.   1    PROBI    GRAMHATICI    DB   OCTO   0RATI0NI8   MBMBRI8    AR8   MINOR.     DB   VOCE    V    Ci  COdtX   Parisinus  7519  incipit  tractatos  probi  granmatici  de  uocb  codex  Parisinus  7494  DE  TocB  fi:  cf.  PrUeian.  p.  727  conl.  Prob.  p.  306  ed,  Find.,  Pompei.  p.  187  ed,  lixd.  conl.  Prob.  p.  236  sqq.  ed.  f^ind.  4  omnis  R  communis  r  9  ruditus  corr,  ragitus  R  rndttus  rv  serpentum  R  serpentium  rv  24  scrioium  rv  scriptam  R  "  26  analogiae  recta  R  analog^ia  recia  r  analogia  e  recta  v    Digitized  by    Google    48  PROBl   p.  IM.  55  K.  p.  290.  31  V.   DE  ANOMALIA.   Anomalia  est  misrcns  vel  inmutans  aut  deficiens  ratio  per  declina-  tionem.   De  miscente.  miscens  anomaliae  per  declinalionem  ratio  esl  ut  puta  5  ab  hoc  altero,  huic  aiteri;  scilicet  quoniam  quaecumque  nomina  ablativo  casu  numeri  singularis  o  littera  terminanlur,  haec  secundum  analogiae  rectam  rationis  disciplinam  dativo  casu  numeri  singularis  o  iittera  definiun-  tur.  item  ab  hac  mula,  his  et  ab  his  mulabus;  scilicet  quoniam  quaecum-  que   nomina  ablalivo  casu  nueri  singularis  a  littera  terminantur,    haec   10  secundum  analogiae  rectam  ralionis  disciplinam  dativo  et  ablativo  casu  numeri  pluralis  is  litteris  definiuntur.  item  ab  hoc  iugero,  horum  iuge-  rum;  scilicet  quoniam  quaecumque  nomina  ablativo  casu  numeri  singularis  o  liitera  terminantur,  haec  secundum  analogiae  rectam  ralionis  disciplinam  genetivo  casu  numeri  pluralis  orum  litteris  definiuntur.   sic  et  cetera  talia,   15  quae  contra  anaiogiae  rectam  rationis^disciplinam  miscent  per  casus  decli-  natiouuro  formas,  anomala  sunt  appellanda.   De  inmutante.  inmutans  anomaiiae  per  declinationem  est  ratio,  ut  puta  hic  luppiter,  huius  lovis.'  sic  et  cetera  talia,  quae  conlra  analoglae  rectam  rationis  discipfinam  inmutant  per  casus  declinalionum  formas,  ano-   90  mala  sunl  appeilanda.   De  deficienle.  deficiens  anomaliae  per  declinalionem  est  ratio,  ut  puta  hoc  nefas    et  cetera   (alla;    scilicet  quoniam   haec  contra  analoglae   .  rectam  rationis  disciplinam  non  per  omnes  casus  in  declinatione  per-  severant.   25  Sic  iam   et  per   ceteras  partes  orationis  analogia   vel  anomalia   coo-   sideranda  est,  hoc  est  ut,  quaecumque  pars  oralionis  neque  miscet  neque  inmutat  aut  deficil  per  deciinalionis  disciplinam,  ad  analogiam  pertineat,  quae  vero  miscet  vel  inmutat  aut  deficit  per  declinationis  discipllnam,  anomala  sit  appellanda.     nunc  etiam  hoc  monemus,  quod   analogia  maxi-   30  mam  partem  oralionis  contineat,  anomalia  vero  aliqnam.  de  anomalia  et  analogia,  |  quantum  ratio  poscebat,  tractavimus.   DE  LITTERIS.   Liltera  est  elementum  vocis  articulatae.  eleroen{|tum  autem  est  unius  cuiusqi.ie  rei   initium,   a  quo  sumitur  incrementum  et  in  quod   resolvltur.   35  accidit  uni  cuique  lilterae  nomen  figura  polestas.  nomen  lilterae  est  quo  appellatur.  sane  nomen  unius  cuiusque  litterae  omnes  artis  latores,  prae-  cipuequc  Varro,  neutro  genere  appellari  iudicaverunt  et  aptote  decllnari  iusserunt.  aploton  est  autem,  quando  nomen  per  omnes  casus  uno  sche-  mate  declinatur,   ut  puta  hoc  a,  huius  a,  huic  a,  hoc  a,  o  a,  ab  hoc  a.   40  sic  et  ceterarum  lillerarum  nomina  genere  neulro  aptote  et  numero  tantum   2  esi  inmiscens  liv       26  neqne  inmiscd  Rv       29  sit]  sunt  Rv        30  orationis  o  rationis  R        34  in  quod  v  et  Diomedes  p.  415  in  quo  R    Digitized  by    Google    INSTITVTA  ARTIVM  8—24  49   p.  1U.56R.  '  p.  231.32  V.   siflgulari  declinaDda  suBt.  figura  litterae  est  qua  notatur  et  qua  scribitur.  polestas  litterae  est  qua  valet,  hoc  est  qua  sonat.  nunc  omnes  Latinae  litterae  dumtaxat  sunt  numero  XXIII.  hae  nominantur  Tocales  semivocales  el  mutae.  sed  semivocales  et  mutae  appellantur  consonantes.  sane  qnae-  rilor,  qua  de  causa  semivocales  et  mutae  consonantes  appellanlur.  hac  de  &  causa,  quoniam  coniunctis  iliis  vocalibus  sic  nomina  earundem  consonanl.  sed  cum  ad  ipsas  litteras  pervenerimus,  iliic  quem  ad  modum  coniunctis  illi.s  Tocalibus  nomina  earundem  consonent  conpetenter  tractabimus.   DE  VOCALIBVS.   Vocales  litterae  sunt  numero  quinque.  hae  per  se  proferuntur,  hocio  est  ad  vocabula  sua  nuliius  consonantium  egent  societate,  ut  puta  a  e  i  o  u,  et  per  se  syKabam  facere  possunt,  hoc  esl  ut  ipsae  inter  se  tantum  modo  misceantur  et  syilabae  sonus  efficialur,  ut  puta  ua  ue  oe  au  ui  ia  et  cetera  lalia.  Iiarum,  id  est  vocalium,  hae  duae,  i  et  u,  transeunt  in  consonan-  tium  poteslatem  tunc,  cum  aut  ipsae  inter  se  geminantur,  ut  luno  viator  15  rultus,  vei  quando  cum  aliis  vocalibus  iunguntur,  ut  vates  vecors  iam  vos  maiestas  maior  et  cetera  talia.  nunc  quaeritur,  quando  i  vel  u  litterae  loco  consonantis-  sint  positae,  vel  quando  inter  vocales  accipi  debent  quare  hoc  monemus,  ut  tunc  i  vel  u  loco  consonantis  accipiantur,  quaudo  praepositae  vocalibus  in  syllaba  scilicet  sua  inveniuntur;  quando  vero  sub- 20  iectae,  et  ipsae  vocales  iudicenlur:  ut  puta  iu,  utique  i  nunc  loco  conso-  oaDtis  et  u  loco  vocalis  accipitur;  item  ui,  utiqueu  nunc  loco  consonantis  et  I  loco  II  vocalis  consideratur.  sic  et  iuxta  |  vocales  alias,  si  i  vel  u  litte-  rae  in  syitaba  sua  praeponuntur,  vim  consonantium  habere  iudicantur;  si  vero  subiciuntur,  vocalium  loco  funguntur.  25   DE  SEMIVOCALIBVS.   Semivocales  consonantium  litterae   sunt  numero  septem.     hae  secun-  dum  musicam  rationem  per  se  proferuntur,   hoc  est  ut  ad  vocabula  sua  nullius  vocalium  egeant  societate,   ut  f  1  m  n  r  s  x.     at  vero  secundum  metra  Latina   et  structurarum    rationem  subiectae   vocalibus  nomina   sua  ao  elficiunt,  ut  ef  el  em  en  er  es  ex.  sed  per  se  syllabam  facere  non  possunt,  sciiicet  quoniam  semivocales  litterae,  si  inter  se  misceantur,  sonum  syllabae  facere  non  reperiuntur,  ut  puta  fl  ms  rx  ns;  et  ideo,  ut  diximus,  per  se  ^  semivocales  syllabam  facere  non  possunt.     ex  his  autem,  id  est  ex  semi<  vocalibus,   x  littera   duplex  in  metris  sive  structuris  ludicatur,   siquidem  3&  geminatarum  harum  consonantium  sono  fungatur,  id  est  gs  aut  cs,  ut  rex  et  regs,  pix  et  pics.    nunc  etiam  hoc  secundum   aliquos  reprehendendum  est,  quod  huic  duplici  litterae,  id  est  x,  ad  exempium  genetivum  casum   10  Tecors  o  uaecors  R  20  yocalibns  v  uocabulU  R  22  consonantis  el  1  loco  ak.  R9  ^23  iaxta  vocaies  alias  v  ex  codice  Parisino  7519  iaxta  ceteras  uucaittB  •Hu  R        37  secundum  R  iuxta  rv   GRAHMAT.  LAT.  IIII.  4    Digitized  by    Google    50  PROBI   p.  156.  67  R.  p.  232.  33  V.   videantur  subicere,  ut  puta  rex  r^is,  pixpicis;  quod  a  ratione  x  litterae,  quae  duplex  est,  longe  alienuin  esse  videatur.  at  in  Iiog  nomine  non  est  simile  huic  tractatni,  quod  est  nix  nivis.   DE  MVTIS.   «  Mutae  consonantium  litterae  sunt  numero  novem.  hae  nec  per  se  proferuntur  nec  per  se  syllabam  facere  possunL  per  se  hae  non  pro«  feruntur,  siquidem  vocalibus  litteris  subiectis  sic  nomina  sua  deOuiuiit,  ut  pula  be  ce  de  ge  ba  ka  pe  qu  te.  per  se  autem  syllabam  facere  non  pos-  sunt,  scilicet  quoniam  mutae  litterae,  si  misceantur,  sonum  syllabae  facere   lonon  reperiuntur,  ut  puta  bc  dg  tk  pq  et  cetera  talia.  nunc  et  in  his  mutis  supervacue  quibusdam  k  et  q  litterae  positae  esse  videntur,  quod  dicant  c  litteram  earundem  locum  posse  complere,  ut  puta  Carthago  pro  Kartiiago.  nunc  hoc  vitium  etsi  ferendum  puto,  attamen  pro  quam  quis  est   qui  sustineat  cuam?  et  ideo  non  recte  hae  litterae  quibusdam  super-   15  vacue  constitutae  esse  videntur.  [|  item  ex  isdem  mutis  h  aspirationis  notam,  non  litteram  esse  existimaverunt,  cum  et  haec,  sic  uti  ceterae,  certum  sonum  retineat  potestatis  suae,  ut  puta  honos:  numquidnam  onos?  aut  cetera  talia;  et  ideo  hoc  quoque  non  recte  existimasse  notandi  sunt   Nunc  quaeritur  de  consonanjtibus,  quare  in  duas  partes  dividantur,   20  hoc  est  in  semivocales  et  mutas.  hac  de  causa,  quoniam  semivocales  maiorem  potestatem  habent  quam  mutae.  nam  cum  omnes  artis  latores,  praecipueque  Caesar,  propter  rationem  metricam  et  structurarura  quaUta-  tes  singularum  litterarum  sonos  ponderarent,  hac  ratiooe  semivocales  mutis  praeferendas  iudicaverunt,  quod  semivocales  geminatae  ad  sonum  vocalibus   25  occurrunt,  hoc  est  ut  syllabam  facere  possint,  ut  puta  fla  ars  mons  iners  et  cetera  talia ;  at  vero  niutae  geminatae,  si  vocalibus  ocAirrant,.  nec  sylla-  bam  nec  sonum  scilicet  facere  possint.  quis  enim  b  cdkpqtg  gemi-  natas  vocalibus  misceat  et  sonum  syllabae  potest  audire?  et  ideo  hac  pcaelatione  semivocaies  mutas  rite  videntur  antecedere.     nunc  hoc  mone-   30  mus,  quod  h  iuncla  cum  aliis  mutis  possit  vocali  concurrere  et  sonum  syllabae  suscitare,  ut  puta  pulcher;  et  ideo  hic  aspirationis  nota,  id  esl  sonus,  non  littera  accipi  debet,  scilicet  quoniam  mutae  coniunctae,  si  vo-  calibus  occurrant,  prohibentur  sonum  syllabae  suscitare.  y  aotem  et  z  propter  Graeca  nomina  Latini  accipiunt.   35  Nunc  etiam  hoc  quaeritur,  qua  de  causa  ratio  metri  vel  musicae  pro-  clivior  sit  ad  ratiooem  Graecam  quam  Latinam. utique  hac  de  causa»  quoniam  Graecarum  litterarum  vocabula  in  dimidia  parte  sunt  dtsyliaba  et  in  alia  monosyllaba,  id  esl  ut  XXX  et  VI  sonos  contineant.  at  vero  litte-  rarum  Latinarum  nomina  cum  sint  omnia  monosyllaba,  id  est  ul  XX  et   2  at  —  nivis  alia  manu  'addUa  esge  in  eodice  adnoiatwn  esi  in  R  11  super-   vacue  coniecU  ediior  Vindobonensis  superuacuae  Rv  quod  r  quo  R  14  8uper>   uacuae  R        28  misceat  r  miscel  corr.  misceat  R    Digitized  by    Google    INSTITVTA  ARTIVM  2^-37  61   p.  167. 68  R.  p.  233.34  V.   sonum  contiDeaDt,  necesse  est  ut  et  in  ratione  roetri  vel  musicae  plus  facultatis  raUo  Graeca  quam  Latiua  obtioeaL  sed  boc  in  metris  vel  rousicis  conpetenter  traclabimUs.  dudc  et  boc  moDemus,  quod  pauci  sciuDty  siquidero  ood  semper  x  littera  dupiex  sit  accipieuda;  sed  tUDC  duplex'  accipieDda,  quaudo  subiecta  syllabam  coDfirmat,  ut  puta  dox  et  6  Docs,  lex  et  legs,  felix  et  felics.  et  celera  talia,  siquidem  tuDc  et  soDum  duaruffi  litterarum  coutiDeat.  at  vero  qqaDdo  praeposita  syllabae  existat,  noD  duplex  sed  simplex  est  accipicDda,  ut  puta  maximus  auxius:  Dum-  quiduam  macsimus  aut  aocsius?  et  cetera  talia;  et  ideo,  ut  diximus,  quo-  tieos  X  [[  littera  praeposita  syllabae  existat,  simplex  est  supputaada,  sciiicet  lo  quoDiaro  cs  et  gs  litterae  geroinatae,  si  vocalibus  praepooaDtur,  numquam  sonum  syllabae  suscitabuDt  de  litteris,  quaoluro  ratio  poscebat,  tracta-  fimus.  I   DE  SYLLABIS.   Etiaro  de  syllabis,  quouiaro  dod  brevis  ratio  est,  ideo  alio  loco  cod-  i6  petenter  cum  roetris  tractabimus.   DE  PARTIBVS  ORATIONIS.   Partes  oratiouis  snot  octo,    nomen   pronomen   participium  adverbium  coniuoctio  praepositio  interiectio  verbum. Grice: “Italians speak of ‘parola’ easier than they analise it. I play with ‘word’ and ‘sentence’. ‘Sentence’ of course comes from Cicero, ‘sententia.’ I admit that it may not be possible to provide a formula ‘Expression means …’ unless you specify the ‘syntactic type’ to which E belongs. I tried for adjectival ‘shaggy’. And even there I got into problems with the idea of a correlation, where the utterer is asked to provide a correlation of the type he has just provided!” -- Grice: “La voce e la parola”. Nicola Chiaromonte. Keywords: parola, parabola, Donatus, Priscianus, definizione di voce, vox, verbum, word, Grice on ‘word’ – Corleo on ‘parola’ --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiaromonte” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773040238/in/dateposted-public/

 

Grice e Chiavacci – poetico tra Gentile e Michelstaedter  – filosofia italiana – Luigi Speranza (Foiano della Chiana). Filosofo. Grice: “Chiavacci is a good one; Italians tend to identify him with Miichelstaedter, but surely there is more to Chiavacci than an exegesis of Michelstaedter (especially to refute Gentile’s) – my favourite tracts are three: his ‘critique of poetical reason’ – a critique we were lacking! --, his little treatise on ‘man’ – and his ‘reality’ and not appearance, as Bradley would have it, but ‘illusion,’ which is related to Latin ‘ludus,’ game – His ‘philosophical studies’ cap it all!” Partecipe della stagione neoidealista italiana, fu tra i più innovativi interpreti ed eredi dell'attualismo gentiliano.   Nato a Foiano in provincia di Arezzo da Enrico Chiavacci e Annunziata Doni, ricevette l'istruzione primaria a Cortona, e quella secondaria nel liceo di Iesi. Frequentò la facoltà di lettere del Regio Istituto di Studi Superiori a Firenze, dove fu allievo di Guido Mazzoni, e conobbe tra gli altri il poeta filosofo Carlo Michelstaedter, di cui divenne grande amico, insieme ad Arangio-Ruiz, Cecchi, De Robertis, Lamanna, Facibeni. Si laureò con una tesi sul Decameron di Boccaccio, e l'anno seguente ottenne una cattedra di insegnamento per il ginnasio inferiore.  Con l'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale, Chiavacci combatté al fronte come capitano di artiglieria. Tornato all'insegnamento, nell'immediato dopoguerra vinse una cattedra per il ginnasio superiore, e iniziò nel contempo a frequentare la facoltà di filosofia a Roma, dove incontrò Giovanni Gentile, col quale si laureò con una tesi su Antonio Rosmini.  Dal 1924 cominciò a insegnare filosofia nei licei, e due anni dopo fu promosso a preside di varie scuole, tra cui Siena dove nacque suo figlio Enrico. Divenne professore universitario di pedagogia alla Scuola normale di Pisa, e insegnò filosofia teoretica a Firenze, anche la cattedra di estetica.  Entra a far parte dell'Accademia Roveretana degli Agiati. Gli verranno quindi elargiti diversi altri titoli accademici e riconoscimenti, come la medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte. L'idealismo: tra Gentile e Michelstädter «Se mi domando [...] che cosa debba al pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta di questa: la dottrina dell'atto puro.»  (Gaetano Chiavacci, L'eredità di Gentile, in «Giornale di metafisica». La filosofia di Chiavacci si muove tra l'idealismo attuale di Gentile da un lato, e l'anti-dialettica esistenziale di Carlo Michelstaedter dall'altro, conciliati in un'ottica spiritualista cristiana.  Dell'attualismo gentiliano egli intende rivalutare la portata atemporale dell'atto puro dello Spirito, a cui riconosce piena realtà, a differenza dell'attualità concepita come un presente situato storicamente tra un passato e un futuro illusori.  Riappropriandosi al contempo del criterio della persuasione di Michelstädter, Chiavacci ritiene che non si debba a sua volta fare dell'atto una teoria, una filosofia panlogista staccata dalla vita e dal suo stesso attuarsi, «perché deve essere essa la vita».  Gentile ha avuto il merito di elaborare una filosofia anti-intellettualistica che non si esaurisce nel concetto, ma è autoconcetto, mostrando come il mondo consista nell'autocoscienza dell'atto pensante, in cui vi è «assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi». Egli tuttavia non avrebbe compreso appieno le conseguenze di questo attuarsi dell'atto, e sarebbe rimasto a sua volta dentro un "concetto" dell'autoconcetto, cioè in una forma di mediazione logica, di costruzione intellettuale, in un logo astratto che supera e smarrisce la «fonte della verità».  L'atto invece, per Chiavacci, proprio perché non può essere ridotto a fatto, cioè ad oggetto, è un atto «che sfugge ad ogni metro di criterio preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro».  Tale consapevolezza interiore che «il soggetto ha di sè senza oggettivarsi», è per Chiavacci fondamentalmente un'intuizione, un sentimento, che permea la dialettica dell'atto pensante articolata nel soggetto e nell'oggetto. Essa bensì è anche un processo mediato, da cui risulta un logo "pensato" senza cui non si avrebbe coscienza formante della sua stessa origine intuitiva, ma un pensato che resterebbe vuota astrazione, «caput mortuum, se si distacca dalla sintesi di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e che è l'intuizione costitutiva dell'attualità dell'io e che forse meglio si potrebbe dire sensus sui».  Essa è infine, negli esiti religiosi dell'ultimo Chiavacci, essenzialmente fede.  Opere Tesi di laurea: La Commedia nel Decamerone (Iesi, tipografia Fiori) Il valore morale nel Rosmini (Firenze, Vallecchi) Illusione e realtà. Saggio di filosofia come educazione (Firenze, La Nuova Italia), concepita come una traduzione in forma propositiva del tema della «persuasione» che era stata esposta nell'opera di Michelstaedter in maniera indiretta e non sistematica come contrapposizione alla «rettorica». Saggio sulla natura dell'uomo (Firenze, Sansoni), dove il conflitto michelstädteriano tra illusione e realtà diventa quello tra natura e ragione umana, superato dalla dialettica dell'atto spirituale. La ragione poetica (Firenze, Sansoni), divisa in due parti: Il momento dell'Indifferenza, che affronta il problema della discordanza tra natura e intelletto, ovvero tra fatti e concetti, e tra questi e valori; e Il momento della libertà, che assegna alla libera creatività di una ragione non logica ma poetica il fondamento di quei valori, attraverso le dimensioni dell'arte e della religione. Chiavacci ha inoltre curato l'edizione delle Opere di Michelstaedter (Firenze, Sansoni), oltre a redigere, su richiesta di Gentile, la voce "Michelstaedter" per l'Enciclopedia Italiana.  A lui si devono poi altri due saggi sul Rosmini:  Filosofia e religione nella vita spirituale di A. Rosmini (Milano, Bocca), e La filosofia politica di A. Rosmini (Milano, Bocca). Postume Quid est veritas? Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi, introduzione di Eugenio Garin, Firenze, Olschki, GentileChiavacci. Carteggio, Paolo Simoncelli, Firenze, Le Lettere. Roberto Grita, Gaetano Chiavacci, su treccani. Antonio Russo, Gaetano Chiavacci, interprete di Michelstaedter, Trieste. Così Chiavacci ricorderà il suo primo incontro con la figura di Gentile: «Leggendo per la prima volta la Teoria generale dello spirito, ebbi un lampo di luce, pel quale intravidi la possibilità di comprender la vita, di potervi trovare quel valore senza del quale ogni altra cosa non ha pregio» (da una lettera di Chiavacci a Gentile, cit. in Gentile-Chiavacci: CarteggioSimoncelli, Firenze).  Scheda su Gaetano Chiavacci [collegamento interrotto], su agiati.org.  Cit. anche in G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, A.M. Chiavacci Leonardi, Olschki. Gaetano Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, articolo sul «Giornale critico della filosofia italiana». Chiavacci, Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, in «Giornale critico della filosofia italiana», Gaetano Chiavacci, Il centro della speculazione gentiliana: l'attualità dell'atto, Gaetano Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, A. M. Chiavacci Leonardi, Olschki, Gaetano Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo, Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter. Eugenio Garin, Introduzione a G. Chiavacci, Quid est veritas? Saggi filosofici, Antonio Russo, Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter, Gaetano Chiavacci, su sapere.  Gaetano Chiavacci, Michelstaedter Carlo, in «Enciclopedia Italiana»,  Roma. Gustavo Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia, La Scuola, Augusto Guzzo, Gaetano Chiavacci: la "Ragione poetica", in «Giornale di metafisica», Francesco Valentini, Recenti studi sull'attualismo, in «Rassegna di filosofia»,  Antonio Testa, Michelstaedter e i suoi critici, in «Rassegna di Filosofia», Gianfranco Morra, La scuola gentiliana e l'eredità dell'attualismo, in «Teoresi», Vito A. Bellezza, Gentile e l'attualismo nell'ultimo ventennio, in «Cultura e Scuola», Dario Faucci, L'«attualismo» di Gaetano Chiavacci, in «Filosofia»,  Antimo Negri, Giovanni Gentile: sviluppi e incidenza dell'attualismo, Firenze, La Nuova Italia, Antonio Russo, Gaetano Chiavacci (1886-1969) interprete di Michelstaedter, Sergio Campailla, in  La via della persuasione. Carlo Michelstaedter un secolo dopo, Venezia, Marsilio, Attualismo (filosofia) Giovanni Gentile Idealismo italiano Carlo Michelstaedter La Persuasione e la Rettorica Enrico Chiavacci  Gaetano Chiavacci, in Dizionario biografico degli italiani.  L’encomiabile Bibliografia michelstaedteriana1, regolarmente aggiornata, che appare sul  sito della  Biblioteca statale isontina,  ha ormai assunto  dimensioni più che ragguardevoli e,  nell’ultimo  anno,  per  via   del   centesimo   anniversario   della  sua  morte,  essa   si   è   di  molto  arricchita2.   Sembra,   quindi,   cosa   ardua   dire   qualcosa   di   nuovo   su   Carlo   Michelstaedter.  Un’ulteriore problema, poi, che presenta lo studio della sua opera, sorge allorché si tien conto  che con il giovane pensatore goriziano (1887-1910) ci troviamo di fronte ad un intellettuale  anomalo, del tutto sconosciuto in vita e scomparso in un’età in cui di solito gli altri muovono  i primi passi nella vita pubblica. La stessa sua opera principale, La persuasione e la rettorica,  era destinata ad essere la sua tesi   di  laurea   ed   è  stata data alle stampe postuma; sicché il  riconoscimento tardivo e la fortuna, non solo nell’ambito del panorama culturale italiano, ma  anche di carattere internazionale, che essa ha avuto, sono  in   gran   parte   dovuti   alla   devota  sollecitudine di un pugno di amici, cui si deve la sua pubblicazione e quella degli altri scritti  di Michelstaedter. A loro si deve, infatti, dopo la sua scomparsa prematura, il merito di aver  sottratto alla morte la sua memoria3 Tra di essi, e sono soprattutto i nomi che contano nella ristrettissima cerchia degli amici  fiorentini, spiccano   Vladimiro Arangio  –  Ruiz e  Gaetano  Chiavacci.4  Il  lavoro paziente   e  meticoloso del secondo, in particolare, per rendere accessibile la conoscenza degli scritti di   Michelstaedter, con la sua edizione delle  Opere  (Firenze, Sansoni, 1958), “costituisce una  pietra   miliare   nella   vicenda   storico-culturale   e   storico-critica   del   giovane   pensatore  goriziano...L’edizione Sansoni del Chiavacci è all’origine del lavorio critico e interpretativo  che è seguito negli ultimi trent’anni e che non accenna ormai a declinare”5.           In  uno  studio su   Michelstedater,  non   si  può  allora   perdere  di   vista  questa   verità;  e,  soprattutto non si può non tenerne conto. Occorre, allora, affrontare il compito di chiarire il  senso e i termini della ricostruzione del suo pensiero proposti da Chiavacci e da Arangio –  Ruiz.        E parlare dei due fraterni amici di Michelstaedter significa non poter passare sotto silenzio  un   autore,  Giovanni   Gentile,  le   cui  suggestioni   sono  penetrate   per  canali   vari  e   hanno  raggiunto un’egemonia ancora non del tutto esaurita  nella cultura italiana. Non a caso, con  aderenza  più o meno piena, da lui hanno preso le mosse  molti autori che poi hanno svolto  idee originali e autonome, accentuando, ripensando o rivedendo l’uno o l’altro aspetto della  sua  filosofia. Nella sterminata  letteratura critica che gravita sull’attualismo,  i due pensatori  ‘fiorentini’   compaiono,   sia   pure  con   caratteristiche   proprie   che   li   distinguono   dall’uno   e  dall’altro indirizzo d’interpretazione, come “notevoli esponenti” della sinistra (Vl.Arangio –  Ruiz) o della destra gentiliana (G.Chiavacci)6.            Tuttavia, il loro lungo e travagliato svolgimento dell’eredità neo-idealistica, sia pure  ripensata “in novitate spiritus”7, perloppiù non è stato mai messo a fuoco con efficacia e nei  suoi risvolti più significativi ed è stato oggetto solo di qualche timida e stentata paginaNon deve perciò apparire strano che su questi problemi e su questi autori, e in particolare  sulla loro collocazione speculativa nell’ambito del panorama attualistico, si torni ad insistere:  essi esordirono come attualisti; poi, seguirono e “amarono” Gentile9; non persero mai di vista  l’approfondimento  del  suo  pensiero  e  si   riconobbero   in  esso  nell’arco  di  alcuni   decenni,  giungendo  ad  un  suo  “sincero   ripensamento”10.  Una  lettera   di   dedica   a  Gentile,  datata   8  agosto   1943   (che   apre   il   volume  La   ragione   poetica,   Firenze,   Sansoni,   1947),   mette  ampiamente in evidenza l’effetto che provocò sul giovane Chiavacci, nel marzo del 1919, la  lettura della Teoria generale dello spirito come atto puro :”ebbi un lampo di luce, pel quale  intravidi la possibilità di comprendere la vita, di potervi trovare quel valore, senza del quale   ogni altra cosa non ha pregio”11.     A questi dati se ne potrebbero aggiungere molti altri. Qui, tuttavia, per ragioni di tempo e   di spazio, occorre prescindere da una approfondita analisi delle rispettive biografie teoretiche  e del contesto. E, poi, per lo stesso motivo, si rende necessaria una ulteriore limitazione del  discorso al solo rapporto Chiavacci – Michelstaedter - Gentile, anche perché “Arangio – Ruiz  non   ha  lasciato   un   grosso   volume   sistematico,   ma   solo   volumi   di   saggi;   e   quanto   a  Conoscenza e  moralità,  che   già subito non lo appagava più...egli  stesso  lo considerava un  saggio, non un trattato”12; e, poi, egli fu non tanto un pensatore sistematico, quanto un fine e  colto letterato, un autore “di prosa morale o di polemica antintellettualistica o di discussione  su  problemi di estetica e di critica  d’arte”. Infine, tutta  la sua  opera è pervasa  sin dai suoi   momenti iniziali da “una polemica coi suoi più vicini maestri: Croce e Gentile” 13; invece, le posizioni speculative di Chiavacci presentano tratti più sistematici, rientrano nel grande alveo  dei   motivi   tipicamente   attualistici   e   culminano  con   maggior   consapevolezza   ed   esiti   più  cospicui in un tentativo di rielaborazione, di compiuta espressione dell’idealismo14.        Qui,  come   termine  di  riferimento   e  di confronto,   occorre   prendere  in  considerazione  l’insegnamento di Gentile negli anni in cui la sua attività didattica e scientifica trovò il suo  più maturo affermarsi, a partire dal 1918 a Roma.15 Sono, infatti, gli anni in cui si pongono le  basi di un fitto tessuto di relazioni  che  interviene   a   connettere   Chiavacci a Gentile, in un  rapporto   che   diventerà   sempre   di   più   assiduo,  “amichevole   e   confidente”16.   La   prima  domanda da   porsi, per  sgomberare  il  terreno   da equivoci,   è di   sapere, attraverso  l’analisi  puntuale dei principali documenti letterari, quali furono il consenso e i punti di dissenso.     Ma vediamo i termini del discorso, senza perdere il contatto con i testi.      Giovanni Gentile si   occupa  ripetutamente di  Carlo   Michelstaedter. Su sollecitazione   di  Chiavacci (lettera 14 novembre 1920), che nel 1919 si era iscritto in Filosofia, all’Università  di Roma dopo averne letto i testi e ascoltato le lezioni17, interviene presso Vallecchi, una delle  sue  cittadelle   editoriali,   per   caldeggiare   l’edizione  de  La   persuasione   e   la   rettorica  data  effettivamente alle stampe nel 1922; nel 1933 (lettera a Chiavacci del 21 novembre) chiede  allo stesso   Chiavacci di   redigere  per  l’Enciclopedia  Italiana  la  voce  Michelstaedter   di 10  linee, e qualche giorno dopo decide di elevare lo spazio per la stessa voce a 30 righe18. Nel  1922, poi, recensisce l’opera di Michelstaedter data alle stampe per i tipi della Vallecchi. Nel  farlo,   tributa   innanzitutto   elogi   all’iniziativa   ad   opera   di  un   “fido   gruppo   di   amici”   di  Michelstaedter; rileva  subito  dopo che   si   tratta di  uno   scritto giovanile  in   cui non  c’è   un“approfondimento metodico” degli argomenti trattati, e né un loro  “sviluppo  sistematico 19.  Infine, prende  in considerazione “il problema  dell’opposizione tra la persuasione  vera, che  corrisponde al possesso della vita, e la falsa persuasione, scopo della rettorica”20.        Per Gentile, in   Michelstaedter la persuasione  serve ad indicare il  fatto che il “possesso  della realtà e della verità...non cerca vanamente fuori di sé il suo mondo”, ma è caratteristica   “della sufficienza, dell’autarchia, come dissero i greci. La persuasione del vero sapere, come  lo intuì e lo volle Socrate, tranquillo, sereno, saldo sul punto che è il centro del suo mondo:  nel suo animo”21. Di contro, la rettorica è espressione dell’individualità illusoria, inganna e  s’inganna, è superficiale, prende il posto del vero sapere, si prende “gioco dell’uomo, gli fa  credere di vivere in mezzo ai piaceri”22;   la   rettorica   uccide   la   vita,   irretisce   l’uomo  “nella  vana   teoria   dei   concetti”,   “sdoppia   il  sapere   e   la   vita”,  oppone   “alle  cose   direttamente  affermate il pensiero che afferma le cose” e così mostra “l’insufficienza delle cose che hanno  nella persona il loro correlato e l’insufficienza della persona, che ha nelle cose il suo termine  integrante”23.  Tuttavia,   per   Gentile,   anche   se   il   Michelstaedter  sceglie   giustamente   a   suo  bersaglio la rettorica, alla quale dedica gran parte delle proprie forze speculative e del proprio   lavoro di tesi, “non ha né tempo né animo per considerare direttamente e con pari studio la  persuasione.   Sono   accenni   qua   e   là,  e   qualche   spunto   del   suo   pensiero   positivo   si   può  scorgere”   nelle  Appendici  e,   più   precisamente,   ne  Il   prediletto   punto   di   appoggio   della   dialettica socratica24. La persuasione, è vero, dice Gentile, viene definita come caratteristica  “di chi permane. L’unica via di chi permane è la sua forza; la forza di non asservirsi al futuro,  e tenere raccolta nel presente la propria  vita”25. Ma qui si ha a che fare con una immagine  poetica, non con un concetto filosoficamente dimostrato; permangono perciò interrogativi sul  cos’è la vita, questo permanere, ecc. Il merito indiscusso del Michelstaedter, il suo guadagno  speculativo   più   cospicuo,   secondo   Gentile,   consiste   nel   mettere   in   rilievo   un   universale  aspetto di verità,   che  consiste nel  fatto   che  l’uomo “rientra   in   se stesso, liberandosi   della  rettorica e gettando la salda ancora della vita nel porto della persuasione”26.     Quali furono le reazioni di Chiavacci a questo giudizio di GentileUno sguardo da   vicino  all’elenco dei  suoi   scritti e una  loro   attenta  analisi consente   di   accertare   che   la   sua   personalità   speculativa,   ma   anche   quella   di   Arangio   –   Ruiz,   nasce  dall’incontro con Carlo Michelsteadter, cioè “da un humus fortemente sentimentale”, e il suo  “culto” per l’amico comune  “restò fino all’ultimo  sempre vivo”27. Entrambi gli autori, poi,  pur se  procedono con  diversa,  e non certo  marginale, fisionomia sistematica  e speculativa,  fanno proprie le istanze teoretiche gentiliane centrali e le affrontano sotto le suggestioni di   Michelstaedter,   nel   tentativo   di   riguadagnare,   come   nel   caso   del   Chiavacci,   l’essenza  dell’attualismo   e   così   di   offrire  un   contributo,   “perfettamente   consentaneo”,   alla   sua   più  compiuta espressione28.     L’intero percorso speculativo di Chiavacci, ad esempio, manifesta fino in fondo la fedeltà a  conservare queste istanze, comunque egli si muova, quali che siano gli andarivieni del suo  pensiero. In particolare,  egli dà  alle stampe, già nel 1921, nella “Rivista di cultura”, di cui   Gentile era membro del comitato di redazione, un testo intitolato Le due nature29. In esso, egli  affronta il   problema del rapporto tra  finito e infinito, sostenendo  che “l’infinito ideale non  può realizzarsi come immanente al finito, ma come immanente alla negazione del finito”30. Il  testo viene pubblicato con una postilla dello stesso Gentile, in cui il filosofo siciliano lo invita  a non insistere tanto sulle differenze tra le sue posizioni e quelle dell’attualismo e, soprattutto,  ad approfondire  meglio gli aspetti relativi   al ruolo della “negatività  nella dialettica propria  dell’idealismo”, con particolare riferimento al tema dell’attuosità dell’atto, della negazione in  cui si deve cogliere una attività che passa e supera il limite che si è posto e si afferma nella  “sua libertà da ogni limite”, come valore o realtà infinita, laddove il finito non rinvia ad una   trascendenza, ma è il “campo nel quale si celebra e trionfa la potenza dello spirito nella sua  concretezza”31.         Dopo   questo   intervento,   due   anni   dopo,  ossia   nel   1924,   e  sulla   scia   evidente   delle  sollecitazioni  di  Gentile,  nel  Giornale critico  della  filosofia   italiana,  la  rivista   fondata   e diretta dallo stesso Gentile, Chiavacci dà alle stampe un corposo articolo su Michelstaedter in  cui cerca di mostrare, rispondendo ai rilievi critici del suo maestro siciliano, che il pensiero di  Michelstaedter  non  è   riconducibile   ad  “una  realtà  negativa”,   ma  è  “la  positività   dell’atto  negante, in  quanto vero atto, cioè vita”; esso non è “pura  negatività”, e tutta  la  sua novità  consiste nel fatto che  “il positivo di Michelstaedter è l’attività che crea se stessa dal nulla” e   perciò è senza condizioni o, in termini gentiliani, “libertà senza limiti”32.        Tutto il  testo  di Chiavacci è una serrata,  e pacata, replica  e a Gentile,  in cui  si pone il  problema   di   precisare   e   difendere  le   giuste   esigenze,   quasi   come   una   esplicitazione   in  positivo del pensiero di Michelstaedter e in particolare come una prosecuzione della sua tesi  su  La  persuasione   e  la  retorica.  Già  il   titolo  dell’articolo  di   Chiavacci   è   una  risposta  a   Gentile, che negava al Michelstaedter l’esistenza di una vera e propria dottrina filosofica, di  un   approfondimento   metodico   e   di   uno   sviluppo   sistematico   e   parlava   piuttosto   di  “personalità filosofica”33.      Per Chiavacci, invece, Michelstaedter “non parla direttamente della persuasione”, ma non  per questo è “giusto dire che ne dia pochi cenni...della persuasione si parla in tutto il libro,   perché essa  è il criterio della lotta contro la rettorica”34. Egli non ne fa la teoria, “come non fa  la teoria del positivo della persuasione, così si rifuta di considerarne il risultato, come un fatto  staccato dal processo”35. Il criterio che Michelstaedter usa non è una nuova teoria accanto a  tante altre teorie che si sono avute nel corso della storia del pensiero, ma “è Michelstaedter  stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni sua affermazione è il sistema, e il suo  organismo vivo che non può contraddirsi”36; e perciò la definizione della persuasione risulta  “da tutto il libro”37. Una tale filosofia, nel nucleo essenziale del suo pensiero, è l’attività vera,   la vita, non ha fuori di sé la vita “perché deve essere essa la vita” 38. “La via della persuasione  è se stessa e non ha un fine fuori di sé. Essa intanto è la vita dell’infinito nell’individuo finito,  è la vera vita del finito: è processo, vita”39.      Michelstaedter non è un mistico; il suo ideale non è un qualcosa di trascendente, “ma è la  realtà  stessa  più   profonda  del  soggetto”  40;  quel  che   egli  nega  del   particolare   “è  insieme  affermazione,   come   dice   l’idealismo”:   si   nega   la   particolarità   del   particolare,   “nella   sua  32 G. Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia italiana”,  2, 1924pretesa immediata, quel che si afferma  è   quel   che   implicitamente  era in lui di universale,  senza di che non poteva neppure esser particolare: è lo sviluppo della sua parte migliore che  dormiva. Quel che di lui perisce era quel che non valeva, che non era mai stato reale: quel che  del particolare ci deve premere, la  sua   aspirazione   all’universalità,  quella non perisce, ma  s’invera. E’ in fondo quel che dice il Gentile stesso quando parla dell’immortalità”41. Questo  particolare, questo esserci del mondo come particolare, come finito, non è possibile senza “la  richiesta dell’universale”, è “il campo in cui lo spirito si celebra  e trionfa...’è  il lampo che  rompe la nebbia’ “42; è sviluppo spirituale, mondo come fare non come è dato.      La convergenza delle due posizioni, e su punti e aspetti decisivi della vulgata attualistica,  diventa qui profonda. In concreto, l’idea di individuo, non più un essere naturale e che “non  si restringe nei limiti del particolare: perché egli non può né pensare, né sentire, né altrimenti  realizzarsi,   che   in   un   modo   universale”43,   caposaldo  e   tipica   espressione   dell’attualismo  gentiliano chiamata in causa nel testo di Chiavacci del 1924, viene pienamente accolta. E si  pongono così le basi di un consenso che non si discosterà molto negli ulteriori svolgimenti  del confronto tra i due autori.         Per cogliere ulteriormente i tratti principali del consenso tra Gentile e Chiavacci, al di là  dei  punti  di   convergenza  fin  qui   messi  in risalto,   è   necessario  tener  presente   i  principali  scritti di Gentile di quegli anni, in cui la sua attività didattica e scientifica “trovò…il suo  primo affermarsi con  volontà   rivoluzionaria.  Si determinava una   svolta   essenziale del suo  pensiero e della sua azione”44. Il 10 gennaio del 1918, Gentile, infatti, al culmine della propria  maturità   scientifica,  iniziava   il  corso   di   Storia  della   filosofia.  E,   nel  concludere   la  sua  prolusione, tracciava le linee direttrici per un programma di rinnovamento della filosofia, con   l’intento di “rifare l’uomo intero, che senta come pensa, e operi come parla”45, perché “il  vecchio letterato è  morto…l’accademia   e   la  filosofia da eruditi devono essere   davvero   un  passato irrevocabile” : la vita deve diventare una milizia continua46.         Come documento più significativo di  questa svolta  può essere preso il proemio (del 19  ottobre 1919) del primo numero del “Giornale critico della filosofia italiana”, la rivista della  Scuola romana gentiliana, in cui viene portato avanti lo stesso discorso della prolusione del   1918. Non a caso, in esso, Gentile “propone di guardare all’avvenire” per incominciare una  nuova   vita,   uscendo   dall’individualismo   e  dall’egoismo.   E,  per   farlo,  egli  dice,   occorreprecisare il rapporto tra scienza e filosofia, contrapponendo le due forme di sapere. Da una  parte   c’è   la   scienza   e   dall’altra   la   filosofia.   La  prima   presuppone   il  proprio   oggetto   di  conoscenza ed è analisi disgregatrice “sintesi impotente a ricreare la vita distrutta...la quale se  potesse veramente realizzare il suo stesso ideale, sarebbe affatto morta e quindi inesistente:  critica presuntuosa, intenta a rendersi conto della vita restandone fuori”47; la seconda, invece,  e lo stesso discorso vale per la religione, “non presuppone, ma pone; non guarda, ma crea;  non analizza perciò, ma vive; non è astratta teoria, ma teoria che è prassi”48. Il problema di  questo rapporto è un principio essenziale dell’attualismo e costituisce l’aspetto fondamentale  del programma della nuova rivista 49. Gentile parla qui di sviluppo dialettico che si risolve e si  supera   in   un   dramma   eterno,   che,   proprio   perché   continuo   superamento,   rinvia  necessariamente   al   continuo   superato,   all'oggetto   nel  soggetto.   Cosicché   la   realtà,   o  atto  spirituale, è una unità, ma non una mera unità immediata, bensì unità del suo opposto, ossia   della molteplicità. Tale idea di uno svolgimento dialettico dello spirito, ribadita a più riprese,  significa che  la   filosofia  non è più "teoria e  contemplazione   del  mondo, ma solo azione e  creazione del mondo stesso. Azione che non è, tuttavia, un immediato agire, bensì coscienza  di   agire''.   Tanto   che,   come   afferma   Ugo   Spirito,   "l'idealismo   trionfa   veramente   di   ogni  intellettualismo non in quanto   esso   rimane  una teoria dell'atto, ma solo in quanto si attua,  sicché il suo  valore   teoretico  è assolutamente nulla   (intellettualismo)  se non diventa etico  (attualismo)''.50           Gentile insiste,  in altre  parole, sul valore  dell’attività creatrice dell’uomo e sviluppa il   concetto di un mondo che   noi   facciamo  e dobbiamo fare. Anzi,  esso   è   l’unico veramente  esistente. Tutto il suo pensiero, perciò, è caratterizzato dall’esigenza pedagogica e dal posto  che il problema dell’educazione occupa nella sua speculazione, che è così ”il massimo centro  della sua concezione” e mette in luce “la finalità più profonda del suo pensiero, tutta raccolta  in   quell’umanesimo,   che   dà   significato   fin   da   principio   alla   teoria   e   alla   storiografia  dell’attualismo.  La   vita spirituale   è educazione,   anzi  autoeducazione...questa   affermazione  non   ha   un   significato   parziale,  e   relativo   ad   una   determinata   questione,   ma   rappresenta  l’essenza del concetto di  spirito che qualifica tutto il pensiero del Gentile”.51 E, perciò, per  intenderne a fondo il senso e l’importanza, occorre  ”guardare al lato più propriamente etico  della sua filosofia: a quello cioè per cui la filosofia, essendo giunta alla completa liquidazionedel vecchio significato intellettualistico, si  afferma   come   identica  alla vita, come il valore  stesso   della   vita.   La   filosofia   del   Gentile   è   tutta   Etica   o   meglio   Pedagogia.   Poiché  una  filosofia   che   non   è   concetto   della   realtà,   ma   autoconcetto,   non   può   essere   più   teoria   e  contemplazione del mondo, ma solo azione e creazione del mondo stesso”52.      In forza di queste considerazioni, è chiaro che non si può indulgere a nessuna inerzia. Una   tale filosofia, infatti, non può risolversi più in una pura e semplice contemplazione. Prima il   filosofo   poteva   rintanarsi   nell’ozio   speculativo,   far  propria  una   ideologia   estetizzante   da  filosofo - letterato, ed avere come unico compito quello di guardare e giudicare, per intendere  una realtà altra ed indipendente da lui. Si trovava così dinanzi a sé un mondo già dato, che per  il suo stesso esserci limitava e vanificava la libertà dell’uomo. Col Gentile, invece, cessa ogni   dualismo e ogni astratto concetto di filosofia. Quest’ultima, anzi, diventa, azione consapevole  di sé, vita umana, sociale, e quindi anche educazione e politica. Vi è identità di conoscere e   fare e viene   meno la separazione meccanicistica, e con essa  ogni   residuo dualistico, tra le  varie sfere dell’attività umana; perciò filosofo, educatore e politico diventano tutti termini  sinonimi di uomo. Noi siamo artefici assolutamente liberi e responsabili del nostro mondo e  di conseguenza natura,  società, storia, ecc. non costituiscono più un limite. Tutto, infatti, è   assolutamente immanente nel nostro io più intimo. La nostra stessa umanità non è più quella  degli uomini presi nel loro atomismo particolaristico, ma “quella della nostra personalità, più  profonda che non è di fronte ad altre personalità, ma tutte le affratella raccogliendole nel suo  seno in una vita  unica   che   deve  farsi sempre più una, e   cioè   sempre  meno particolare ed  egoista”53. Così  viene  vanificata  la   nozione individualistica   della  persona,  nel   tentativo di  guadagnare  una  societas in interiore  homine, perché, per  usare le stesse parole del  Gentile  della  Teoria   generale  dello  spirito  come atto   puro :“altri, oltre   di  noi, non   ci  può  essere,  parlando a  rigore,   se noi lo conosciamo, e ne  parliamo.   Conoscere è identificare, superare  l’alterità   come   tale.  L’altro   è   semplicemente  una   tappa   attraverso  di   cui   noi  dobbiamo  passare, se dobbiamo  obbedire   alla  natura immanente del   nostro   spirito :   ma   passare, non  fermarci”54. Questo stesso concetto, poi, verrà ripreso e ulteriormente approfondito in Genesi  e struttura della società (1943), dove si afferma che l’individuo non da considerare come un  atomo; ad esso, infatti, è  :”immanente al concetto di individuo è il concetto di società. Perché  non c’è Io, in cui si realizzi individuo, che non abbia, non seco, ma in sé medesimo, un alter,  che è il suo essenziale socius”.55  L’uomo, allora, non può più rinchiudersi nella sua angustaempiricità e nella sua particolare competenza, ma deve invece realizzare se stesso e la propria  “personalità nella coscienza di una vita universale”.56        Gentile, secondo Ugo Spirito, non solo è pervenuto a questo nuovo concetto della realtà,  ma con la propria vita ci ha dato l’esempio per l’attuazione più alta e coerente della nuova  idealità. In lui filosofia e politica, vita individuale e vita sociale si sono realizzate nella sintesi  più   concreta  e   consapevole.   Egli,   perciò,  nel   significato   più   proprio   della   espressione  hegeliana,   è  un  individuo   portatore   dello   spirito57;  anzi,   “è   il   simbolo,   e,   meglio,   che   il  simbolo, l’iniziatore di una nuova Italia”, perché la sua umanità non si riduce ad una vuota e  vaga  astrazione,  ma   egli   è  un  uomo   intero,  appunto  perché   è  quella  “universalità  che   si  concretizza nella storia e nell’individuo...vive concretandosi nell’individuo”58.         Il che, nei suoi termini essenziali, non è altro che lo stesso discorso che Chiavacci aveva  svolto nel suo articolo del 1924. Per il filosofo fiorentino, infatti, come abbiamo avuto modo  di  vederlo  più   sopra,  anche  Michelstaedter   non  elabora una  teoria   della  persuasione,  e   il  criterio che egli usa “è Michelstaedter stesso vivente. Filosofia non sistematica, perché ogni  sua affermazione è il sistema, e il suo organismo vivo che non può contraddirsi”59; e il nucleo  essenziale del suo   pensiero,  quindi, è l’attività vera, la vita,   che   non ha fuori di sé la   vita  “perché deve essere essa la vita”60. “La via della persuasione è se stessa e non ha un fine fuori  di  sé.  Essa  intanto  è   la  vita  dell’infinito   nell’individuo  finito,  è   la  vera  vita  del finito:   è  processo, vita”61.          Lo stesso tema  verrà   ulteriormente   ripreso   dal   Chiavacci  negli anni successivi. Il suo  volume  Illusione  e  realtà,   del  1932  e  sua  prima   opera  sistematica  di   filosofia,  per  usare  un’espressione   di   Eugenio   Garin,   può  essere   intesa   “come   una  sorta   di   esplicitazione  in  positivo”62 del pensiero di Michelstaedter e in  particolare come una prosecuzione della sua  tesi su La persuasione e la retorica volta a metterne in risalto gli aspetti per così dire positivi,  cioè  il tema della  persuasione. Dopo pochi anni,  ossia nel 1936, dà alle  stampe un   Saggio   sulla natura dell’uomo  (Firenze, Sansoni) animato dal proposito di tradurre nella tensione  dialettica di natura/uomo la precedente coppia di termini illusione/realtà e, così, di continuare  la   chiarificazione   delle   principali   istanze   michelstadteriane   in   rapporto   alle   posizionigentiliane. Tale  compito campeggia sin dalle prime battute discorsive  del saggio del  1936,  che perciò viene presentato come una “visione di scorcio”, un discorso che “dovrebbe riuscire  ad   una   riaffermazione   di   idealismo”.63  Nell’Epilogo,  poi,   il   risultato   dell’argomentazione  discorsiva,   considerato   nelle   sue   rigorose   e   ultime   conseguenze,   lo   porta   ad   individuare  nell’atto gentiliano, ossia in quella che egli chiama la ragione poetica, il punto focale della  riflessione   attorno   a   cui   disegnare   il  tracciato   del  confronto   Michelstaedter   –  Gentile.   E  questo atto consiste in una liberazione e in un  distacco da tutto ciò che è caduco e relativo;  epperò,  nello  stesso   tempo,  conduce  “a   vivere  con   altra   mente   la  vita  che   ci  troviamo  a  vivere, un consistere nel qualunque punto la sorte ci abbia gettato, è accettazione, perché tale  atto “non cerca nulla fuori di sè e l’unica sua gioia – unica pura gioia, se tale può dirsi – è lo  stesso suo puro conoscere, la stessa sua assoluta liberazione interiore”64.   In un altro saggio  del 1947, apparso ancora una volta nel “Giornale critico della filosofia  italiana”, Chiavacci  affronta di nuovo, e non a caso, Il centro della speculazione gentiliana: l’attualità dell’atto.   Nel  farlo  ammette   che  il  centro   dell’attualismo  è  l’attualità  dell’atto,  ossia   l’affermare  la  realtà come un unico processo, un perenne “farsi quel che deve essere e non è”, atto come  processo che è “assoluto possesso, realtà attuale immanente al suo farsi”65. Per spiegare come  sia da intendere questa affermazione di carattere fondamentale, Chiavacci analizza alcuni dei  principali   testi  del  Gentile;  mette  in   evidenza,   poi,   che  la  realtà  di  cui   il  filosofo   di  Castelvetrano parla non è un fatto, ma libera creatività “che sfugge ad ogni metro di criterio   preconcetto, e che, per comprenderlo, bisogna rivivere dal di dentro”66. In questo processo, il  finito, l’io empirico, il mondo, “che deve essere negato nella sua pretesa sufficienza, nella sua  pretesa di sostituirsi all’infinito”, non viene abolito, ma “acquista tutto il suo valore, quando,  vedendosene   l’insufficienza   in   sé,   è   considerato   nel   suo   essenziale   rapporto   con  l’infinito...perché   visto  con   altri  occhi   nella   sua  vera   realtà”67  Per  Chiavacci,   in  questo  consiste la verità elementare e il valore incontestabile, positivo, di ciò che il gentilianesimo  indica quando parla di attualità dell’atto. Non più filosofia in senso logico, ma vita in atto,  attività giudicante e nello stesso tempo attività creatrice. Questo è l’aspetto  più importante,  avvincente e persuasivo, ossia il concetto della processualità dello spirito, in cui “il processo  è veduto come perenne farsi, come assoluta perenne novità, e al tempo stesso come assoluta unità, come un nuovo che è sempre identico”68, un conoscere che è nello stesso tempo fare e  vivere. In questa  concezione,   per   Chiavacci   sembra   annidarsi, comunque, una difficoltà di  fondo, cioè:  anche l’attualità dell’atto  sembra essere una  forma di mediazione, di logica, e  quindi in definitiva di oggetto; e perciò sembra cadere nell’accusa di panlogismo già rivolta a  suo tempo contro la filosofia hegeliana. Ma questa difficoltà si supera se si tien conto che per   Gentile l’attualità non è da considerare come una cosa, ma come “spirito, non fatto ma atto,  farsi.  Viene  facilmente   pensato  che  questa  sia la   nuova  mediazione;  giacché   un  farsi,  un  divenire, non può essere in sé un immediato, ma deve essere passaggio in atto dal non essere  all’essere...Ma anche questa è mediazione logica”69. La soluzione di   questo   problema   è   di  capitale importanza per poter intendere effettivamente il pensiero di Gentile e per far si che  esso non sia da abbandonare come una realtà del passato definitivamente tramontato, ma sia  “più  vivo   che   mai”.   Per  sciogliere  i  nodi  del   problema   e   dissipare  i  dubbi,  in  modo   da   comprendere l’essenza stessa del nucleo centrale dell’attualismo, occorre tener presente che  la mediazione attuale, di cui parla Gentile, nel caratterizzare il suo modo di intendere l’atto in  atto, “è una mediazione non  di opposizione, ma   di distinzione, in  cui non si  afferma né si  nega più, ma si vive direttamente, si possiede la propria vita, in quanto si vive la vita altrui, e  si vive   l’altrui in quanto si vive   la  nostra”70.  Questo è il vero  e  incontestabile   attualismo,  ossia “lo spirito che sempre si fa, sempre non è, e che pure giunge a vivere questo suo non  essere  (cioè questo suo superare il finito) come l’eterna assoluta realtà (cioè come vita del  finito  in cui  si realizza l’infinito)”71. Nei testi Filosofia dell’arte e  Genesi e struttura della   società, in particolare, Chiavacci trova conferma a questa sua rilettura del Gentile, soprattutto  quando si parla nell’ultima opera del filosofo siciliano dell’individuo all’interno della Società  trascendentale o societas in interiore homine: “la realtà, che è spirito, è originariamente, già  nel suo  principio,   non un’unità semplice, un io indivisibile,   un   individuo atomistico: ma è  unità fra un io e un altro che noi portiamo dentro di noi, una società orginaria per la quale  soltanto  ci  possono   essere  l’io  e   l’altro”  72. Si   tratta  di  fondare  una   società,  in  cui   “l’io,  essendo conciliato con se stesso, si trova anche conciliato con gli altri, e la vita di ciascuno è  la stessa, identica vita di tutti. Solo nella misura in cui l’uomo giunge a realizzare se stesso, si  crea per lui una più vera e libera società in cui l’uomo non è homini lupus, ma io nella sua più  vera   realtà,   ora   consapevole   e   perciò   soltanto   ora   veramente   reale   nella   sua   concretaindividualità”73.   Si   tratta   in   altri   termini   di   una   dialettica  tra   logo   e   attualità   o   attualità  dell’atto, che consente al Gentile, secondo Chiavacci, di prendere le distanze e di realizzare  un fondamentale progresso rispetto allo stesso Hegel.      Gli stessi termini fondamentali del lessico gentiliano fin qui illustrati (ma poi anche quelli  di “illusione” e “realtà”) traducono in linguaggo attualistico la distinzione michelstaedteriana  tra persuasione (vita del finito in cui si realizza l’infinito, campo in cui lo spirito si celebra e  trionfa)  e   rettorica   (affernazione   illusoria   di  vita,  individuo  atomistico,   ecc.).   A   ulteriore  dimostrazione   di   quanto  fin   qui   affermato,  c’è   un  altro   testo   di   Chiavacci,   datato   1952,  significativamente intitolato L’individuo74, in cui sin dalle prime battute discorsive si dice che  non si “comprende Michelstaedter se non si comprende cosa significhi per lui ‘individuo’ “.  Per cogliere il vero senso del pensiero di Carlo Michelstaedter, occorre allora tener presente  che “egli è un uomo d’azione: il suo parlare è agire...un imperativo dunque, volto a creare una  nuova realtà, in  cui il  mondo e gli altri siano a lui identici, siano una cosa sola con lui, in   quanto egli abbia raggiunto una vita che abbia in sé la ragione, e che perciò sia giusta verso  tutti,  perché abbia raggiunto quel valore individuale che fa vivere ‘ le cose lontane’ “.75 E,  nella stessa pagina, nell’intento di mettere a in luce e cogliere il vero significato del pensiero  di Michelstaedter, Chiavacci ribadisce ulteriormente che :”il valore individuale...è la concreta  consapevolezza che la nostra essenziale esigenza trascende ogni singola determinazione. In  tal modo si porta a una decisione la nostra vita,...allora la coscienza acquisterà un’unità reale,  che  né   spazio  e   né   tempo  potranno   minacciare,   e   il   molteplice   del   mondo   si  unificherà  anch’esso e si farà a noi interiore”.76       Giunti  fin  qui,  il  quadro   che   nei  suoi  tratti   più  peculiari  ci   si   presenta   agli  occhi,  in  particolare dopo la sintetica analisi svolta di alcuni dei passi fondamentali e della vulgata  attualistica e dei testi dati alle stampe da Chiavacci nell’arco di alcuni decenni, è quello di  un  tentativo   di   riguadagnare   il  più   profondo   significato   dell’attualismo.   Chiavacci,   in   altri  termini,   a   partire   dai   primi   anni   Venti,   riprende   un   motivo   tipicamente   attualistico,  espressione  di   quell’idealismo  che  egli   considera come   la  “più  ricca  eredità  tramandataci  dalla storia  della filosofia moderna”77, e  cerca di mostrare  i legami di  fondo che stringono  Gentile a Michelstaedter.   Colloca   così in primo piano   i   punti  di forza del   momento   dellapersuasione e, nello  stesso   tempo,  del momento dell’attualità dell’atto per mostrare in che  misura entrambi convergono, seguitando a dare frutti. Di Michelstaedter accentua, prolunga e  rinnova   il  problema   della   persuasione   e  di   Gentile   quello   dell’atto   in   atto,  che   si   fa  continuamente,   che   è   vita.   Il   suo   intento  è   quello  di  collocarsi   all'interno   dell'attualismo  nell'intento di chiarirne alcuni suoi problemi fondamentali, per cogliere il senso più pieno, più  recondito, del lascito gentiliano - e de  La persuasione e la rettorica - e di non lasciare che  esso   venga   ridotto   a   teoria,   ad   una   chiusura   sinteticistica   o   una   formulistica   ripetuta  pedissequamente. Lo   stesso  Gentile,  per   Chiavacci, non   sempre  ha  avuto   piena coscienza  degli ulteriori svolgimenti impliciti nel suo discorso sulla affermazione dell’attualità dell’atto,  e ancor di più ai suoi seguaci è sfuggito il significato profondo di questa sua conquista, ma  questo non autorizza ad arrestarsi alla lettera del suo discorso, ad una ripetizione puramente  verbale di ciò che egli disse. Anzi, proprio questo “sarebbe non solo tradire lo spirito del suo  pensiero, ma addirittura contravvenire al suo esplicito imperativo, di superare perennemente  le forme individuate in cui il pensiero via via si realizza”.78      Così Chiavacci ritiene di poter cogliere negli scritti di Michelsteadter una forme maitresse,  la cui chiave d’oro è data dal significato che quest’ultimo attribuisce all’individuo, come una  di quelle verità fondamentali che una volta scorte non possono più essere perse di vista, ma  che  possono  essere  pienamente  accolte  e   fatte   oggetto   soltanto  di  ulteriori   svolgimenti   e  approfondimenti. Questa caratterizzazione dell’individuo, non più inteso come atomo e che  perciò non può più rinchiudersi nella sua angusta empiricità, ma deve realizzare se stesso  nella coscienza di una vita universale - cioè far si che nasca in noi “una nuova realtà, così che  il mondo sia con noi una sola cosa”79  -, e che perciò “sceglie di permanere, sceglie l’ora, il  qui, convertendoli   in  sempre   e dovunque  :  sceglie  la   qualunque situazione   che si   trova a  vivere,  e   esaurisce   in   essa   l’infinita   sua   esigenza:  far  finito   l’infinito,   far   vicine   le   cose   lontane”80, rientra, sul terreno speculativo, nel grande alveo della teoresi gentiliana, della sua  dottrina dell’atto puro, e rivela una profonda e sostanziale convergenza con essa, al di là di un  differente   uso   terminologico   e   di   enunciazioni   gentiliane   non   sempre   rigorosamente  univoche.     Nei testi successivi, fino ad arrivare agli ultimi scritti dati alle stampe tra il 1964 e il 1967,  Chiavacci   conferma   e   sviluppa   ulteriormente   queste   posizioni,   sempre   sullo   sfondo   del  dialogo con Michelstaedter   e   con Gentile, ancora una   volta   nel  tentativo di  conciliarne   leesigenze di fondo. Così in un saggio del 1955, significativamente incentrato su L’eredità di   Gentile,  si  propone   il   compito   di  individuare   e   descrivere  ciò   che   deve   al  filosofo   di  Castelvetrano. E nel farlo afferma senza mezzi termini:” Se mi domando...che cosa debba al  pensiero filosofico di Gentile, quale mi sembri essere il nucleo più vitale della sua dottrina,  che egli ha lasciato come preziosa eredità a quelli che son rimasti dopo di lui, e che sentono  l’impegno di non disperderlo, così come i figli buoni sentono il dovere di non dilapidare, ma  anzi accrescere, il patrimonio  che   il   padre  per amor loro onestamente aveva guadagnato e  saggiamente risparmiato, non trovo, a voler tutto restringere in una parola, risposta più esatta  di questa: la dottrina dell’atto puro”81. Su questo terreno speculativo, la chiave di volta è l’io;  ed   è  un   io   senza   residui   intellettualistici   che,   per  poter   assolvere   opportunamente   il   suo  compito e realizzarsi senza  impietrarsi, non deve avere alcuna realtà  presupposta, ma deve  “reintegrare la realtà dell’oggetto, senza farne un presupposto del soggetto, nè in ogni modo  qualcosa fuori di  questo”82. Si tratta qui di  un   io il cui carattere   peculiare   è di avere una   infinita apertura e attualità - che si sottrae alle leggi precostituite di una logica formale, di una  natura   presupposta,   di  un   mondo   di  idee   già  codificato   e  platonicamente   costruito   sin  dall’eternità   -,  che   si   alimenta   tutto   e  sempre   “sull’infinita,   indefettibile,   unica   attualità   dell’atto” e consiste nell’essere “l’io pensante nelle sue infinite individuazioni storiche” o “la  consapevolezza   che   l’atto   ha   di   sè   come   forma   immanente   dello   stesso   suo   concreto   e  individuato  agire”,  “assoluta   responsabilità   di  chi  si   assume   attualmente  la  responsabilità  della propria vita nel cui infinito anelito è implicata la vita dell’universo”.83  Sicché non può  esservi altro che una “eternità che sia il senso immanente della temporalità...un infinito che  si  realizzi nel finito redimendone la finitudine”; e questo è il guadagno speculativo più cospicuo  dell’attualismo gentiliano, ossia “la più esauriente risposta alla ricerca del pensiero moderno,  e tale da aprire la possibilità dei più felici sviluppi”84.       Tuttavia,   secondo   Chiavacci,   il   filosofo   siciliano   non  è   riuscito   a   dare   alla   propria  riflessione una  formulazione   in tutto  e   per tutto  univoca;   e anzi  ha   mantenuto aperte   due  possibilità interpretative, che hanno dato vita ad altrettante enunciazioni del suo pensiero, col  rischio di invalidarne le ragioni più genuine e geniali. In particolare, Gentile non avrebbe  assolto   pienamente   al   proprio   compito  di   riformare   la   dialettica   hegeliana   :   avrebbe   sì  investito  in  maniera   efficace   e  acuta  Hegel   dell’accusa   di  intellettualismo,  per  esser   eglrimasto legato ad una dialettica del pensato, ma poi non avrebbe tratto tutte le conseguenze di  questa   sua   battaglia   e   sarebbe   ricaduto   egli   stesso   in   una   dialettica   a   sua   volta   intellettualistica, cioè in “una teoria del reale che non è essa stessa il movimento per il quale  il reale è; è il concetto dell’autoconcetto,   per   dirla   con Gentile¸ e cioè non l’autoconcetto  stesso, che per essere tale non può essere concetto, ma autocoscienza superante il concetto”.85  In altri termini, una volta intesa veramente la dialettica come dialettica del pensare, nella sua  attualità, come vita dell’atto che è conceptus sui, questa attuosità non può essere colta da una  teoria ad essa  staccata  e   sopranuotante  che trascenda e definisca il tutto, ricomponendo in  sintesi la tesi e l’antitesi e ponendosi come terzo rispetto ai due momenti. Cosi facendo, per  Chiavacci, si ricade soltanto, e ancora una volta, in una forma di platonismo o di dualismo;  invece, la vita interiore dell’atto o, meglio, della soggettività dell’io trascendentale “non può  esser   conosciuta   che   per   la   consapevolezza   che   il   soggetto   ha   di   sé   senza   oggettivarsi,  consapevolezza immanente al processo, in cui un momento in tanto è se stesso, in quanto è  conscio del suo rapporto   all’altro,   così   che il soggetto come vivente relazione non è terzo  oltre i due momenti, ma è tra i due momenti stessi, che in tanto sono due in quanto ciascuno  di essi è per se stesso il vivente rapporto di sé all’altro. La dialettica dell’Atto non può essere   che una monodiade”.86 Il passo che Gentile avrebbe dovuto compiere per condurre a rigorosa  coerenza il   suo discorso   filosofico  consisteva  nel  far  propria   l’esigenza  di   una “dialettica  attuale,  fra  momenti   attualmente  vissuti  nella   loro  reale soggettività...la  dialettica   triadica  degli opposti era un dannoso impaccio”; occorreva  intendere “l’atto come il vivente attuale  processo unitario in cui gli oppos  ti si trasfigura non in distinti, in quanto l’io, realizzando la   proprio apertura  infinita,   supera  le determinazioni intellettive e attua quella coincidenza   di  individuale e di universale, così profondamente vista e così suggestivamente proclamata tante  volte  dal  Gentile,   la   quale   mal   si   concilia  con   la   solitudine   del   logo   come   sintesi.  Essa  richiede invece un interiore  dialogo fra logo e sentimento, che ben  si può scorgere nel più   profondo   dell’esigenza   gentiliana”87.  Solo  così,  ossia   liberando  la   dialettica  dai   residui  intellettualistici   che   ancora   ne  gravano   la   comprensione   e   il   pieno   sviluppo,   è   possibile  riaprire   il   discorso   e   operare   un   rinnovamento   dall’interno   dell’attualismo,   per   farne  fruttificare il lascito più genuino e importante. E questo è appunto l’intenzione fondamentale  che   pervade   anche   gli   altri,   successivi,   scritti   di   Chiavacci   -   tutti   volti   alla   miglior  comprensione e all’approfondimento delle stesse istanze speculative – che aspira a connotarsiquesta   sua  più   significativa   e   innovativa   scoperta90;   ed   egli   resta   in   definitiva   ancora  impigliato nelle stesse difficoltà di Hegel. Per rendersi conto di queste conclusioni, secondo  Chiavacci occorre porsi all’interno della filosofia di Gentile e prendere in esame il problema  del processo dialettico dell’autoconcetto, che è, appunto, il problema dell’intuizione, ossia  dello   spirito   che   vive   nell’intuizione91;   e   poi   è   necessario   cercare   di   rispondere  all’interrogativo sul modo in cui l’io “distingue se stesso dal suo opposto, e nascano insieme  soggetto e oggetto, nasce cioè la coscienzacome restitutrice del loro peculiare pregio ai motivi più propri dell’attualità dell’atto, per così  dire mortificati da certe inadeguatezze, difficoltà di interpretazione, incomprensioni.        In  un   altro,  denso  e   complesso,  saggio   della  tarda  maturità  su  L’autocoscienza   nella  filosofia di Giovanni  Gentile, del  196488,  le   posizioni  fin qui prese in esame ricompaiono,  imperniate sul bisogno di fornire ulteriori precisazioni e sviluppi alle stesse istanze teoretiche.  Esse,   infatti,   ruotano   sempre   attorno   al   problema   dell’atto   e   ai   vari   aspetti   ad   esso  strettamente correlati, e si concentrano soprattutto sulla dottrina dell’autocoscienza e sulle sue  articolazioni, perché essa, in quanto “intimità soggettiva dell’atto del pensare, in cui consiste  l’essenza   e  l’esistenza   concreta   dell’Io,   diviene  il   centro   che  sostiene   la  realtà   di   tutto  l’universo”.89 Per Chiavacci, tuttavia, nonostante che attorno a questo problema graviti tutto il  pensiero gentiliano, negli scritti  del filosofo siciliano,  tranne qualche sporadico cenno, non  compare una esposizione  adeguata   del modo in cui   l’Io   trascendentale  ha coscienza  di   se   stesso. Nella Teoria generale dello spirito come atto puro, nel Sommario di pedagogia  e in  qualche  altra opera,  ad esempio, si dice quà e là, e in maniera stringata, che l’Io, l’atto, in  quanto realtà presa nella sua infinità, come tutto, non è oggettivabile e che la vita dello spirito  si conosce per via di intuizione, ma non vi è mai una esposizione e una trattazione esplicita di  questo aspetto.     In Gentile, poi, si dice anche che non v’è conoscenza che non sia logica, mediazione; e si  riconosce  che   ogni  grado   della  consapevolezza   (sensazione,  percezione,   rappresentazione,  intuizione, sentimento, e così via) è cosciente  perché si  tratta di distinzioni relative di certi  atti psichici  con certi altri,  e in quanto  tali, sul terreno del  logo astratto, esse  sono sempre  espressione   di   un   pensiero   logico.   Tuttavia,   affinché   l’atto   spirituale   sia   veramente   uno,  questa distinzione per   gradi  tipica della   psicologia   empirica e di   una  concezione analitica  dell’anima   umana,  nell’attualismo   viene  abbandonata.   In  forza  di   queste  considerazioni,  Gentile, secondo Chiavacci, per evitare di ricadere in una visione cristallizata dell’atto e così  di considerarlo come mero fatto, oggetto tra oggetti, individua e ammette nell’intuizione una  forma di logo che non è quella astratta del logo oggettivo, epperò la traduce in termini diversi  da quello di intuizione, ossia con auto-concetto,   facendo   valere   la  distinzione tra pensiero  pensante  e  pensiero   pensato.   Tuttavia,   pur   se  questa  via  è   in   profonda   dissonanza  con  i  modelli della comune concezione psicologica precedente, sfugge al Gentile la piena portata dPer Chiavacci, la distinzione tra i due termini del discorso emerge in chiaro soltanto nel  momento in cui c’è una forma dell’io  che conosce se stesso distinta  da quella con  cui l’io  conosce l’oggetto, perché nel lessico gergale idealistico,  stricto sensu  parlando, l’io non ha  alcun contenuto; la realtà si risolve tutta nell’io, in quanto forma e contenuto si identificano.  Questo  è  un  aspetto   che   orienta  tutto  il  quadro  di   pensiero   di   Gentile   -   e   su   cui   egli   è   costantemente ritornato, sottolineando l’esigenza unitaria e monistica della sua filosofia – la  cui   chiarificazione  comporta   la  necessità   di   precisare  come   concepire  l’autocoscienza   e   “quell’autotrasparenza per la quale mentre vive la sua conoscenza delle cose, sa di essere in  atto di conoscerle” .93          Si tratta qui di una iniziale  intuizione di sé, che si svela ancora  una volta come un atto  logico, perché senza la mediazione propria del pensiero pensato, concettuale e oggettivante,  “non ci sarebbe neppure l’intuizione del soggetto”. Questo atto iniziale però ha un carattere  intuitivo, la cui peculiarità diventa ben distinguibile se si prende in esame il processo della  conoscenza sin dal  suo   primo  momento e se  si   tien   conto, secondo Chiavacci,  di   come  a  partire da esso si articola l’unione/distinzione di soggetto e oggetto. Ci si accorge allora che si  tratta di “un atto di analisi che dà per risultato due termini intuiti, cioè conosciuti, come reali,   concreti, come due sintesi. Ed è questo carattere sintetico la spiegazione del fatto che anche  l’oggetto, pur essendo opposto al soggetto, è come lo specchio in cui il soggetto si riflette, il  contenuto della sua vita, il mondo che costituisce la sua vita: la stessa cosa è il suo vivere e il  mondo che vive. E’ un conoscere logicamente anteriore al giudizio predicativo pel quale si  può dire propriamente che nasce il concetto”.Negli   ulteriori  svolgimenti  discorsivi,  poi,   sul   terreno  che  in   termini  attualistici   viene  coperto  dall’area  semantica   del  pensiero pensato,   in  cui  si   analizza   il  contenuto  sintetico  datoci  attraverso l’intuizione e si costruisce  un fitto tessuto di relazioni  concettuali, cioè  la  kantiana sintesi a priori del giudizio, non si fa altro che accogliere pienamente e non perdere   di vista la verità “di quella sintesi a priori che c’è già nell’oggetto sintetico analizzato”, per  esplicitarla in   maniera analitica. Una cosiffatta  mediazione  concettuale, infine, da  punto  di  vista del   filosofo  di Castelvetrano   non può  non   riconoscere la   propria  astrattezza,   cioè   la  coscienza di essere una “esplicitazione che rimane caput mortuum, se si distacca dalla sintesi  di cui vuol rendere conto, da quella sintesi che gli dà un contenuto vivo e sempre nuovo, e  che è l’intuizione costitutiva dell’attualità dell’io e che forse meglio si potrebbe dire sensus   sui” .95 Quel che così si viene a colpire è la logica del pensiero pensato che per quanto utile e   per certi aspetti finanche necessaria, come  momento essenziale dello sviluppo dialettico, se  abbandonata a se stessa verrebbe ad annullarsi e a ridursi ad un puro e semplice vaniloquio,  ma che  invece se si alimenta  alla fonte di ogni   mediazione, che è la  consapevolezza di sè  dell’io, crea per ciò stesso la propria ricchezza di sviluppi e trova nell’intuizione, cioè nella  concreta unità dell’atto che è la sede dell’autocoscienza e certezza della verità, la sua vera e   proficua radice.      Questa certezza Chiavacci la chiama anche fede, un termine contro cui si sono addensate  non poche critiche, ma che a suo dire potrebbe tener conto adeguatamente dell’apertura alla  religiosità   della   vita   spirituale   mostrata   da   Gentile   in  tutto   l’arco   della   sua   produzione  scientifica  e,  in  particolare,  negli   ultima anni   della  sua  vita.  L’atteggiamento  del   filosofo  siciliano   nei  confronti   della   religione,   tuttavia,   in   proposito   avrebbe   potuto   essere   più  evidente  e   di maggior   respiro, se   egli avesse   stabilito  con   chiarezza  inequivocabile  come  individuabile   specificazione   dell’autoconcetto   ciò   che   esso   veramente   è:   intuizione   o  sentimento Nel tracciato del grandioso disegno speculativo di Gentile, invece, è proprio questo il punto  più   debole   e   bisognoso   di   una   riconsiderazione   critica.   Per   Chiavacci,   infatti,   la   sua  costruzione logica, pur se foggiata in maniera geniale e improntata a una visione metafisica di  grande rigore filosofico e fortemente innovatrice, presenta “il torto di tutte le metafisiche, di  oltrepassare con   la  costruzione  intellettuale,  col loro  logo pensato, l’unica   autentica  fonte  della verità, il  logo pensante, in quanto trasparenza della nostra vita a se stessa nell’attualità  dell’atto”96. Questo  non  significa affatto sminuirne l’importanza e le grandi   possibilità  che  essa   ci   dischiude;   anzi,   il   valore   sostanziale   delle   sue   tesi   comporta   il   più   ampio  riconoscimento e consiste nel fatto che con esse noi “mettiamo a profitto ciò che egli solo ci  ha insegnato, riprendendo l’aureo filone dell’analisi dei grandi filosofi sulla vita spirituale, e  arricchendolo nella sua maschia originalità...Certo è che la filosofia del Gentile mi attirò fin   dal mio primo contatto con essa; e più tardi, nel primo dopoguerra, quando ero quasi giunto al  mezzo del cammin di nostra vita, mi fu di grande conforto per riconquistare fiducia, il che mi  permise di  riprendere   il  mio cammino attivamente. E di questo   non  cesserò mai di sentire  gratitudine. E’ una gratitudine non minore di quella che debbo a lui in persona, per avermi  sempre incoraggiato e aiutato affettuosamente in ogni circostanza della mia vita97”.       Questa conclusione riassuntiva implica il  riconoscimento  dell’importanza fondamentale  della teoresi gentiliana e, nello stesso tempo, comporta anche l’impegno a farne fruttificare il  più genuino e fecondo lascito. Chiavacci, proprio per questo, sottopone la teoria dell’atto ad  approfondimento   e  revisione   interna,  in   un  ampio,   continuo  e   serrato  dialogo,   con  una  disamina volta a   stabilirne  una più  rigorosa   coerenza  che valga   a   guidare e inquadrare   la  propria riflessione speculativa. In particolare, la prospettiva a cui giunge Chiavacci, nel corso  del  suo   lungo  cammino   intellettuale,   presa  nel  suo  complesso,  comporta   in  definitiva  un  triplice guadagno:      1) un riuscito tentativo di promozione dell’opera dell’amico goriziano, per accreditarle una  sua peculiarità e dignità filosofica, col metterla a confronto con la speculazione gentiliana;      2) Chiavacci nello stesso tempo raggiunge anche una sua personale elaborazione teoretica  dell’attualismo; 3) gli spetta così il merito, con questo suo atteggiamento rivalutativo di entrambi gli autori  citati, non  solo di aver  speso con efficacia   le sue migliori   fatiche in difesa dell’amico,  ma   anche  un posto  d’onore, con una sua originalità e  competenza, nell’ambito della letteratura  che gravita su Gentile e l’attualismo, tanto da poter essere considerato come espressione di un  indirizzo del pensiero filosofico contemporaneo in cui egli “appare indubbiamente tra quelli  che più sono progrediti”.98    Senonché, a parte i riconoscimenti fin qui menzionati che gli sono stati variamente tributati,  le acute indagini e la argomentazioni del Chiavacci, volte a svolgere una vigorosa opera di  individuazione   e   di   messa   in   chiaro   di   un   comune   ambito   teoretico   tra   Gentile   e  Michelstaedter, non sempre trovarono unanime consenso; in alcuni casi esse suscitarono non  poche perplessità. E’ questa, ad esempio, la convinzione di Ugo Spirito che, nel concludere la  propria   risposta   all’amico  Chiavacci,   nel   1953,  non   esita  ad   affermare:   “a  me   sembra  Chiavacci, profondamente legato alle esigenze dell’attualismo e a quelle michelstaedteriane,  non abbia   potuto  conciliarle  fino   in fondo,  sia  rimasto in   una  posizione  intermedia  tra la  concezione dell’assoluto dialettico e quella dell’assoluto adialettico”.99       Su questo punto, comunque, la riflessione critica  che gravita sugli autori fin qui presi in  considerazione  (alquanto lacunosa, a dire il vero,  soprattutto negli ultimi anni e per quanto  concerne   l’esigenza   e   il   compito  di   saggiare   storicamente   le   posizioni   di   Chiavacci!!)   a  tutt’oggi   non  è   concorde   e  perciò   il   problema   della  conciliazione   tra   la  speculazione  gentiliana   e   quella   di   Michelstaedter   ci   sembra   tuttora   aperto   a   ulteriori   sviluppi   e  approfondimenti che sono ben lontani dal venire realizzati, come un compito non ancora del  tutto assolto. Ben consapevoli di queste difficoltà, in queste paginei abbiamo inteso soltanto   delimitare   e   precisare   l’ambito   di   indagine,   che   è   da   valutare   come   un’ulteriore  approsimazione al  problema,  e offrire   degli  spunti utili   a   sostegno della  prosecuzione   del  discorsoGaetano Chiavacci. Keyowords: poetico, critica della ragione poetica, illusion, allusion, ludo, la natura dell’uomo, carteggio con Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiavacci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772774831/in/dateposted-public/

 

Grice e Chiocchetti – prammatico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Moena). Filosofo. Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are unable to pronounce, but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on Vico as proposing ‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he went further – he studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and his ‘modi di significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of abuse it MUST be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a ‘pragmaticist’ who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford being the epitome of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused term, ‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici, or scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” --  Emilio Chiocchetti (Moena) filosofo. Nato a Moena, in Val di Fassa, vestì l'abito francescano nel 1896 e l'anno successivo concluse gli studi secondari a Rovereto. Durante il corso di teologia si appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne concessa la possibilità di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la Facoltà teologica di Vienna. Nel 1903 venne ordinato sacerdote.  Fino al 1908 studiò filosofia a Roma presso il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto per insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò un'assidua collaborazione, su invito del padre Agostino Gemelli, alla Rivista di filosofia neoscolastica fin dalla sua fondazione (1909).  Tra il 1908 e il 1909 progettò uno studio sistematico sulla filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente nel 1910 per approfondire ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro degli studi neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore le lezioni di psicologia di Wilhelm Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto nel 1912, assunse la direzione della Rivista tridentina.  Note  Chiocchetti, Emilio, su siusa.archivi.beniculturali. 20 marzo.  G. Faustini,, Emilio Chiocchetti, Antonio Rosmini e la cultura trentina: un filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri, 2008 G. Faustini,, Emilio Chiocchetti: un filosofo francescano di fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia e cultura, Trento, Pancheri, 2006 Padre Emilio Chiocchetti un filosofo francescano tra il Trentino e l'Europa: atti del seminario di studio promosso dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento il 3 dicembre 2004, "Archivio Trentino", 1, 2005,  101–215 S. Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-Chiocchetti (1911-1949), Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 2004 R. Centi, Un filosofo francescanoEmilio Chiocchetti, Trento, Gruppo culturale Civis, C. Coen, Chiocchetti Emilio, in Dizionario biografico degli italiani,  25, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1981 (Dizionario biografico degli italiani) G. Consolati,,  diEmilio Chiocchetti filosofo trentino (Moena 1880-1951) rettore generale francescano e professore di storia della filosofia moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento, Saturnia, Emilio Chiocchetti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Emilio Chiocchetti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di Emilio Chiocchetti,.   Pubblicazioni di Emilio Chiocchetti, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.  LE GRANDI CORRENTI DEL PENSIERO    (COLLEZIONE DIRETTA DA VALENTINO PICCOLI    °° (L20560  E. CHIOCCHETTI (0. F. M.) È    della Università Cattolica di Milano       IL 5a  PRAGMATISMO    agi    E 7              EDIZIONE ATHENA  1926  MILANO - Via Vigentina' 7-9             s santo,    MRETTRI              ProPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA    (ORC)       s» ,  è ita, canina eno  er insit) miri iztarta e    ea  Nihil obstat quominus imprimatur 19  Mediolani, 26 Apr. 1926. :    Mons. G. Bernareggi.    ——_—_——_—_—_—    Nihil obstat quominus imprimatur  Mediolani, 26 Apr. 1926.    Mons. Can. Cavezzali.       ALL'AMICO  P. ARCANGELO MAZZOTTI  CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE PIÙ TENUE  SA CERCARE E COGLIERE    LA FILOSOFIA    sg    AL LETTORE    ca    Ripubblico, a richiesta d'amicì, in volume questi  «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati, parecchi  anniì sono nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per-   chè il Pragmatismo contiene aspetti di verità che non  A vanno dimenticati. Quali siano quest» aspetti verrà  rilevulo nella esposizione che ne faccio seguendo i  Uue principali rappresentanti di esso il James e lo   Schiller.   f In questa esposizione ho introdotto solo mulazioni  accidentali, più che altro verbali, che mettano quella    corrente nei tempi suoi, già mollo lontani spiritual-  mente dai nostri.    a E. C.               | L  LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO       N Sommarto : $ 1. II Pragmatismo anglo-americano. — ks  T ) 2. Pragmatismo e Umanismo. — $ 3. Pragma- i  tismo e conoscenza.        SI. — Nell' Inghilterra e nell'America, come è  Noto, la filosofia ha avulo sempre un carattere pre-.  valentemente pratico, cioè, ha studiato con partico-  lare predilezione quei problemi filosofici che si rife-  riscono alla teologia, alla morale, al diritto e alle  scienze pratiche, in generale; e, anche quando si è  sollevata alle più alte speculazioni, non ha mai per-  duto il contatto intimo con la vita pratica «ed è stata  più sollecita della ricerca del vero in vista dell'orga-  nizzazione della vita reale, che non dell'astrazione  collivata per sè stessa e per la sodisfazione dello   | Spirito » (1). Per ciò che riguarda l'Inghilterra basta  pensare alla filosofia di Hobbes e di Bacone, all  filosofi cmpirica e crilica di Locke, alla filosofi  naturale di Newton, alle dottrine teologiche dei De                             (3) Cfr. «Revue Néo-Scolastique» Novembre 1909, dove son  tiLortate dall'opera: La Philosophie en Amérique del VAN B  CELAERE' (New-York 1904) le parole citate. La «Revue Néo-Sc  Stiquen ne di un amplo riassunto col titolo: Le mouveme  hilosophiqgue en Amérique, p. 607 seg. Vedi anche i riassunti  cli relazioni sullo stato della filosofia contemporanea in Inghil-  Mica in America: « Rivista di Filosofia Neo-Scolastica wu N. IL   SEE.              (6) Linee fondamentali    sti, alla fase clica del movimento empirico del se-  colo XVIII, all'Associazionismo e all'Utilitarismo. —   Nell'America i primi a interessarsi di speculazioni  filosofiche furono i colonizzatori della nuova Inghil-  terra, degli inglesi emigrati, i quali naturalmente  portarono al di lù dell'Oceano la caratteristica della  filosofia della madrepatria: l'atteggiamento pratico,  che assunse allora, per speciali circostanze storiche,  un carattere religioso. È vero che, nell’Inghilterra,  «una corrente più profonda non ha mai cessalo di  rimontare in senso opposto (alla corrente empirica).  Essa si manifesta con Herbert di Cherbury, con i  Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del  ‘senso comune, e apparisce nella sua forma più sor-  prendente in Berkeley, fondatore dell'’idealismo in-  glese; è rinforzata più tardi da Kant, Lichte, Hegel  e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha  mai perdulo il'carattere pratico, sperimentale, e  tende ad appoggiarsi più volentieri sulla volontà e  sul sentimento e a trascurare le categorie puramen-  le logiche dell’Idealismo tedesco » (1). Lo stesso sì  deve dire della filosufia in America.   Quando la rivoluzione americana pose fine al pe-  Tiodo coloniale e nel libero paese cominciarono a  manilestarsi varie e nuove correnli filosofiche —  ppiella del senso comune, il Trascendentalismo di  Kunt e de’ suvi discepoli, specie di Hegel; l'Ideali-  smo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre  la tendenza ad avvicinare la speculazione alla vita,  a non perdere il contatto con la realtà, a far risal-  lare il carvaltere pratico dei problemi filosofici. « Ne-  gli scritti, p. es., dei seguaci dell'Idealismo Kan-  liano non è la critica che tiene il primo posto, ma la  psicologia cosidella scientifica in opposizione alla  psicologia metufisica» (2).    (1) Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica » (1 i S-  sunto della relazione del MACHENZIE: La EIA  nea in Inghilterra, donde sono prese le parole citate.   (2) «Revue Néo-Scolastique », I. c.    rat ET tit, 0 ELLI a_n GI                   Il Pragmatismo ('S   Allualmente i due indirizzi filosofici predominanti  nel mondo inglese-americano sono o erano qualche  anno fa il Neo-hegelianismo e il Neo-volontarismo.  Quale dei due trionferà? Se la storia ci può ammae-  strare, se il carattere cinico dei due paesi può servire  di fondamento a una previsione, se, sopratutto, i sc-    si guì dei lempi sono veridici — intendo la reazione "i  Vivissima contro l'indirizzo Neo-hegeliano e la ten- DI    denza della filosofia contemporanea a dare il valore Li  principale della valutazione delle vedule speculative i  al sentimento e alla volontà — possiamo applicare  anche all'Inghilterra quello che il Turner scrive del-  l'America: « È verosimile che il corso fuluro del pen-  | siero filosofico non subisca tanto l'influsso dei Neo.  hi  legeliani quanto quello dei Neo-volontaristi ».  Ebbene, poichè il Neo-volontarismo americano non  è che il Pragmalismo, non sarà senza interesse lo  studiarlo, lauto più che esso non è più limitato a  quelle regioni, ma ha suscitato anni addietro vivo  a interesse in lutto il campo filosofico, dove, accanto e  ; ul critici severi, trovò dei caldi ‘ammiratori. 1 suoi  nu espositori cd apostoli più autorevoli ne annunziava-.  n° no, con lono da epinicio, il trionfo sicuro su tutte le  filosolie avversarie. Già lo Schiller aveva annunziato  il maturarsi di grandi eventi nel mondo intellettuale  à danno delle antiche forme di pensiero e a tulto  vantaggio di una forma nuova. È, come a sintomi |  di un tempo propizio a nuove intraprese filosofiche  secondo la nuova forma, egli guardava con compia-  cenza al successo che ha avuto l'opera del Balfour:  «Le basi della fede»; alla serie di opere popolari.  del James: «Lu volontà di credere, Immortalità  _ mana, Le varie forme della cuscienza religiosa»  | alle letture di James \vard « Naturalismo e agno È  | Slicismo», e, sopratutto, all'esser uscito da Oxforà,  «una volla centro di Idealismo, un manifesto così  dace com'è «L’'idealismo personale» dello stesso  | Schiller e di altri membri dell’Università, e ai lavori                                            Linee fondamentali    della scuola di Chicago (alla testa della quale slava è  il Prof. Dewey), pubblicali nelle « Decennial Publica ‘  tions» della Università (1). i;  Quivi afferma pure che il Pragmatismo «non  passa più inosservato: esso ha raggiunto la fase  del «batti ma ascolta!» e quando i falsi concetti, È  dovuti a prella mancanza di famigliarità con la dot- |A  — trina, saranno dissipati, entrerà in una fase di ulile D  applicazione ».  D'allora fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è *  affermato con sempre crescente energia, suscitando  vive polemiche, incontrando simpatie e disprezzo,  seguaci c avversari, così che polè scrivere il James:  «Oggi la parola Pragmatismo empie le pagine delle  .. © riviste filosofiche » (2). E ancora: «Parecchi indirizzi  di pensiero che mancavano di un denominatore comu-  ne lo trovano nella parola Pragmatismo » (3).   Esso ha avuto in tutte le nazioni rappresentanti di  grande valore, fra quali, i principali sono: in America  il James e il Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Ger-  mania il Simmel e il Jerusalem (4), in Ilalia gli seril-  tori del Leonardo, specialmente il Papini; in Francia ,                     (1) ScHiLcen, IJumanisim, VIII-IX, London, Macmillan 1903. Ri;    (9) Der Pragmatismus. Ein neuer Name fr alte Denkmetho-  «en, trad, in tedesco dal Prof. \VILHELM JERUSALEM, p. 29, Leip-   zig 1908. Verlag. von Dr, Werner Klinkhardt. Di questa tradu-  zione tedesca mi servo nella esposizione del Pragmatismo.    (3) Zbid.    (4) Sì è voluto vedere un Pragmatista anche nell'Eucken. In  s tà il suo «ttiwismo non ha niente a che vedere col Pragma-  tsmo, L'Attivismo poggia sopra determinate presupposizioni  metafisiche, mentre il Pragmatismo è puramente empirico; a  eno il Pragmatismo inglese e americano, «Il ripudiare com  fa l'Eucken, Ja concezione intellettualistica della vita, non è  una caratteristica del  Mo- |  | talismo e di Misticism    ca  À       «    n           Pragmatismo ma di ogni specie di  (OA 2       vrib CE:              Il Pragmatismo .    il Blondel, il Le Roy, il Bergson e molti fra i moderni-  sli più avanzati (1).   Come si vede, aveva un po' ragione lo Stein quando  scriveva: «Abbiamo di nuovo una « parola d'ordine»  filosofica, che è diventola grido di guerra di un nuo-  vo indirizzo di pensiero, di un movimento filosofico  che passa potentemente dall’ America sul vecchio  mondo e comincia a incerospare la superficie - delle  nostre acque stagnanti (2) ».   Facciamoci a considerare davvicino una tale filo-  sofia, allenondoci specialmente ai suoi due rappre-  sentanti più illustri: il James e lo Schiller.   gs 2 — Il nome «Pragmatismo » viene dal greco  «pragma» che significa «azione, operazione », vie-  ne dalla stessa radice che ha dato origine alle parole    «prassi, pratico»; perciò, più italianamente sì chia- -    mercebhe praticalismo. Jl primo a introdurlo nella fi-  losofia fu Charles Sander Peiîrce (3) «nel senso di  un metodo che consiste nel giudicare del valore di  una affermazione dalle sue conseguenze nella pra-  lica », ossia di un metodo che era già stato applicato  dall’Empirismo inglese alla valutazione delle cono-  scerize umane. Ecco in breve Ja sua dottrina.   È un falto psicologico che il dubbio, l'incertezza  producono in noi uno stato di malessere, di irrita-  zione; uno stalo spiacevole insomma,   Per uscirne — e noì vogliamo uscirne — è neces-  saria una convinzione, una credenza in cuì l’attività    del pensicro possa riposare: la credenza attutisce    le sofferenze del dubbio. Produrre la credenza è la    sola funzione del pensiero: il pensiero in altività —    non persegue allro fine che il riposo del pensiero e    lo distinguono profondamente dall'inglese-americano.  (2) «Archiv. fur system Philos.» XIV, 1, 1908.        (3) Egli espose il suo sistema fino dal 1878, ma non fu che —  | dopo essersi servito lungo tempo della parola CART EVA    nella conversazione, che la stampò nel 1902 in un articolo .    | dizionario del Baldwin. Così MARCEL HénerT, Le Pragmatism Bi.    Alcan, Paris 1908, p. 6. Lan    "a    (1) IL pragmatismo francese ha peculiarità tutte proprie che. 2A        f                                        10 Linee fondamentali    quindi tutto ciò che non contribuisce alla formazione  della credenza non fa parte del pensiero propria-  mente detto. La credenza, poi, ha per fine di pro-  durre un'abiludine alliva, che diventa regola per  fazione. Se le credenze mettono fine allo slesso dub-  bio, creando la stessa abiludine e la stessa regola  d'azione, non diversificano fra loro.   Per sviluppare, quindi, il senso d'un pensiero non  c'è da far altro che determinare quali abitudini essa  produce, poichè il senso d’una cosa consisle sempli-  cemente nelle abiludini che essa implica. Il caral-  tere di un'abiludine dipende dal modo con cui essa  ci fa agire in ogui possibile circostanza... e il fine  dell'azione è di condurre a un risultato sensibile.  Noi prendiamo, così, il sensibile e il pralico come  base di qualunque differenza di pensiero, per quanto  sottile possa essere. Non v'è nuance di sigmificalo  così sottile da non polev produrre una differenza  nella pratica (1). In allre parole: Il pensiero crea la   “convinzione, la convinzione è regola dell'operare e  in tanto vale in quanto ci fa operare; fine dell’ope-  l'are è il risullato sensibile, pratico: questo, dunque,  deve servirmi di crilerio per giudicare del valore del  pensiero, per conoscere con chiarezza il significato  dei concetti. Come render chiare le nostre idec? In-  lerpreliumole dal punto di vista pratico, domandia-  nio ad esse quale efficienza pralica contengono, quali  Sensazioni possiamo aspellarci dall'oggetto che ci  bappresentano, e quali reazioni dobbiamo preparare.  La rappresentazione di questa efficienza pratica, me-  diaia 0 immediata, costituisce per noi l'intera rap.  presenlazione dell'oggello e in ciò sla tutto il signi-  ficalo positivo della rappresentazione. « L'idea di una  cosa è l’idea dei suoi effelli sensibili », dice il Peir-  ce (2). «E contradittorio il dire che si conosce con    (1) Così nell'articolo «ITow to make our ideas clear pub  pippoz pt Egnular Science SOA Y >, 1878-XII, e tradotto   «Rev HosophiQuew 1879-VII: «( x È  ados sansa DI phig TO-VII Comment vendre nos    (2) « Revue philosophique» 1. c. p. 47.       | IRIS          Il Prugmatismo    precisione l'effetto di una forza, ma che non si com-  prende ciò che è la forza in sè slessa; conoscendo  gli effetti della forza si conoscono tutti i fatti impli-  cili nella affermazione della esistenza della forza e  uon v'è più nulla da conoscere » (1).  Come render chiare le nostre idee? «Pensando »,  risponde il Des Carles, conducendole alla evidenza  della proposizione: « Cogilo ergo sum ». Agendo, ri  sponde il Pcirce; rendendo esplicita la potenzialità  ‘* d'azione che è in esse, nell'oggetto rappresentato:   è ciò che agisce, è distinto ciò che produce effetti di-  stinti nella vila pralica: dunque al: «Cogito ergo.  sum » sì cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta la  funzione della filosofia è di scoprire quale differenza  definitiva forà a ine 0 a te in definiti istanti della  vila se questa è quella formuia del mondo fosse la  vera. 4   Tale è il principio del Pragmatismo. Rimasto inos-  servato per venVansi fu mpreso dal James ed appli  calo alla religione (2), prima, alla conoscenza 10:C Ca  nerale poi. D'ullova in por tanto il nome quanto i  principio hanno falto forluna, così che i due leader:  pragmalisti ce no possono dure una esposizione co  vaggiosa e abbastanza sistemalica in due opere ap  parse nel niondo anglo-sassone e diffuse rapidamen-  te fra i cultori di filosofia. “a   Per comprendere l'importanza del principio enun: 3  ciato, ci avverte il James (8), bisogna abiluarsi ad  applicarlo vi casi particolari, come fece con perfetta   | chiarezza, senza nominare il Pragmatismo, l' Osl-  - wald nelle sue lezioni sulla filosofia della. nalu    -. TTI) Ivi, p. 92. Ne  (2) Tm una conferenza tenuta nel 1898 davanti alla società. fil  “sofica di Howison nella università di California, Al JAMES il n  | me non Dpince, ma ormai «è troppo tardi per cambiarlo »;  egli dice nella prefazione al « Prugmatismus», D. X.  (3) Zweite Vorlesung, P. 29.                                  12 Linee fondamentali    conforme a ciò che egli stesso scrisse al James:  « Tutte le realtà influiscono sul nostro operare c  ? questo influsso è quello che per noi esse significano.  - Nelle mie lezioni iv sono solito domandarmi: in  qual differente rapporto starebbe ‘il mondo se fosse  vera questa v quella alternaliva? Se non trovo niente  per cui sarebbe differente, l’alternaliva non ha sen-  si so » (1). Che è quanto dire: le opinioni rivaleggianti,  «nel caso. hanno identico significato pratico e non  esiste che un solo significato: il pratico (2). Ossia:  qual'è il valore di un’idea? Risolvetela in fatti; il  valore di questi ‘rappresenta il valore dell'idea. E  poichè i falli in tanto sono in quanto sono da noi  csperimentali, il valore di un'idea mi è dato se la  risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo, p. es.,  sil principio del Pragmatismo all'idea di sostanza.  Una sostanza noi la conosciamo per i suoi attributi  (accidenti) ai quali si riduce tulto ciò che di essa si  può esperimentare: che sotto gli accidenti ci sia o    di essi, è pralicamente indifferente, lanto che, se  Dio, lasciando l'ordine degli accidenti, distruggesse  la sostanza, noi non lu potremmo neanche sapere.  Se del legno mi resta la combastibililà e la struttura  Vascolare che può imporlarmi del quid in sè inacces-  sibile ad ogni forma di esperienza?  d Dunque Ja sostanza come un quid in sè distinto  dagli accidenti non ha valore alcuno: per me la so-  | Slanza non è che il complesso de' suoi accidenti.  L'unica applicazione pragmatistica dell'idea di so-  Stanza si ha nell'Eucarislia, dove, per il caltolico  non sono gli accidenti che valgono, ma la soslanza  del corpo e del sanguc di G. C. Così la crilica del  Berkeley della sostanza materiale è affatto pragma-  lîslica, e pragmalistica è la critica del Locke e del-     l'Hume della sostanza Spirituale, e, per parte del  Bea,    o    n () P. 29:50. Anche l'OstwaLo è contato f   | dlallo SCHILLEK e dal JAMES; a ragione, secondo SIT RESTRA   3 oro, secondo il Croce. Cfr. « Critica» A. VI, {. IÎT ;  (2) Ibfa. A    non ci sia un quid come soggetto, sostegno, substrato.       ià It Se           ll Pragmatismo 13    Locke, è l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi, in un  dato istante della vita, ci ricordiamo di quello che  eravamo in altri istanti e sentiamo questi istanti co-  me parli della stessa serie personale di avvenimenti  vissuti. Se, nella ipolesi dei sostanzialisti, Dio ci to-  gliesse l’'autocoscienza, a che ci gioverebbe la so-  slanza dell'anima? Ed ecco perchè l'Hume e, dopo  di lui, la maggior parte dei psicologi empirici, negò  l’anima addimttura (1).   Altro esempio. Il teista afferma che il mondo l'ha  cercato Dio; il materialista lo dà come il risultato di  forze fisiche, cieche.    Ebbene, le due teorie sono identiche, se il mondo si.  considera come un tutto terminato, completo. Poi-  chè «che valore ha Dio per il mondo, per noi, se  Egli non lo può mutare e far procedere di un passo?  Sé il mondo fa lutto quello che Dio fa?» Ma se il  mondo non è al termine della sua evoluzione, allora  la questione: «Materialismo e Teismo» acquista  una importanza vitale. La ‘scienza della natura pre-  “dica che la fine di ogni cosa e di ogni sistema di  cose cosmiche è lragica morte! Tutto sarà come non  fosse slato mai: luomo e il mondo, la virlù e gli  ideali, i dolori e gli amori: ceco l’ultima parola del  materialismo! Ma se Dio esisle, se è Dio che dice  al mondo l’ullima parola, allora potrà perire il mon-  do materiale, ma gli ideali saranno conservati e  lrionferanno altrove. Il Materialismo nega l'ordine  morale e recide le speranze che su quello si fonda-  no; lo Spiritualismo afferma un eterno ordine mo-  rale del mondo e lascia libero spazio alle speranze    (1) Dritte Vorlesung, p. 52 seg. Non per nulla il JAMES ha    dedicato il suo libro alla memoria dello Stuart Mill, confes-    sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di Giovanni    Stuart MIN, dal quale ho imparato la prima volta la pra-  gmatica apertura dello spirito e che, nella mia fantasia, figuro.  così. volentieri come il nostro duce, se vivesse al presente    Non per nulla il sottotitolo aggiunto al Pragmatismo suon  . uun nome nuovo per alcune vecchie maniere di pensare»,  sua: sono, nient'altro, che Je maniere del vecchio Empirismo  inglese,       14 Linee fondamentali    dell'uomo (1). Lo slesso principio si deve applicare  alla questione della finalità nella nalura e della li-  bera volontà. Dio, finalità, volontà libera, pragmati-  slicamente hanno un senso; intelleltualisticamente  nessuno (2). ) x   Empirismo, dunque, e Pragmatismo applicano lo  stesso principio, giungendo, naturalmente, alle stes-  se conseguenze. Con una differenza però, tiene a  dirci il James. I vecchi empiristi non fecero che un  uso frammentario del principio pragmatislico: ne era-  no un semplice preludio. Il Pragmatismo rappre-  senta l'empirismo in una forma più radicale e meno  aperla alle obbiezioni. Esso volta le spalle risoluto,  una volla per sempre, a una mollitudine di abitu-  dini antiqualo, care ai filosofi di professione: alle  astrazioni e alle sottigliezze, alle soluzioni puramen-  le verbali dei problemi, alle argomentazioni «a prio-  bi» ai principî fissi, ai sistemi chiusi, all’assoluto e  all'originario, alla vecchia melafisica intellettuali-  sfica, Insomma, la quale, quando ha dato al princi.  pio dell'universo un nome misterioso: Dio, materia,  ragione, assoluto, energia, crede di possedere il si-  smficalo ullimo dell'essere e di aver raggiunto il  fermine delle sue ricerche metafisiche 13). — L'atteo-  giamento di opposizione del Pragmatismo all’intel-  Ieltualismo, alla filosofia dell’assoluto, all'a priori è  dci più decisi (4).   Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, al-  l'agire, alla forza, è signore della disposizione em-  pirica, ama l’aria libera e le molteplici formazioni  della natura, sì oppone al dogma, alle artificiosità,  alla pretesa di aver raggiunto la verità definitiva (9).    (1) Dritle Vorlesung, p. 59 sgg.  (2) Ibid. p. 76. «Eine andere als dicse praktische. Bedeu-    tung haben die Worte: Gott, Will Z, -  MO ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber    (3) Zweite Vorlesung, D. 31-33.  (4) E Spesso violento contro i Neo-hegellani. Più che nel  James tale violenza apparisce nello Schiller, il quale si trova    di fronte ad un hegeliano Vi  gni ig non meno aggressivo, quale è {l    (5) IUid. p. 32.    ne 1° MN i 14    PACI ZZZ                Il Pragmatismo 15  Il Pragmatismo è radicalmente empirico e anti  intellettualista perchè vuol essere una dottrina per   la vita prima che della vita, un metodo ordinato alla  sodisfazione dei bisogni umani quotidiani. « Esso non  ha dogmi, non ha dottrine, non ha che il suo me-  lodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai principî,  dulle calegorie, da presupposle necessità, e ci fa  volgere lo sguardo alle cose ullime, ai frutti, alle  conseguenze, ai fatti (1). Perciò non accella nulla,  non ripudia nulla a priori. a  “sso chiede a tulte le teorie, a tutti i sistemi, a sa  lulli i concelli: qual'è il vostro valore pratico? siete.  utili e come e quanto siete ulili alla vila pratica, —  all'adattamento dell’uomo alla natura e della natura  all'uomo? L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e   di principî, di scienza e di religione. Ebbene, quale  filosofia si offre all'uomo per soddisfare a questi suoi  bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo  Materialismo e nega la religione, o il Razionalismo  religioso bensi, ma lontano da ogni contatto col mon- :  do, colle nostre gioie e coi noslri dolori e per il quale  le cose reali sono un niente: è questo il dilemma at-  luale nella filosofia (2). ma  Il Pragmatismo invece può soddisfare ambedue  quei bisogni: può conservarsi religioso come i si-  9 slemi razionalistici e può mettersi in intima unione  coi falli (3;. Il Pragmatismo, come dice il Papini, si.  trova nel mezzo delle teorie come un corridoio in un  albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo che la-.  vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza  ulligua un allro chiede a Dio con la preghiera fede  «e forza; in una {erza un chimico ricerca le proprietà  dei corpi; nella quarla sì sta abbozzando un sistema    »                      Vily]             (1) Ib2d. n». 34. «Er hat keine Dogmen und keine Leh  ausser . seiner Methode. Die pragmatische Methode bedeutet.  Keineswegs bestimmte Ergebnisse, sondern nur eine orlentie- — *  rende Stellungnahme ». >»    (2) Il JAMES consacra alla illustrazione di questo dilemma  tutta la prima lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in der  — Philosophie ».    (3) Erste Vorlesung, DD. 10-12.              o  x    è                                      16 2 Linee fondamentali    di metafisica idealistica, nella quinta un Tizio dimo-  stra la impossibilità di ogni metafisica. E il corridoio  appartiene a tutti. Tutti vi debbono passare se ab-  SE bisognano di una via praticabile per entrare e per  hi uscire (1). ,  Così il Pragmalismo è anzilulto un metodo: il suo  fine è di por terminc alle beghe filosofiche presen-  ì lando un criterio Pratico per giudicare del valore di  NY”. lutte Je dotlrine. Il mondo è una uni B  va plicità? — Vi domina il fato 0 vi è una volontà li-  bera? — È materiale o spirituale? — I giudizi dati in  Proposito valgono tanto che niente e le discussioni  sono interminabili. Ebbene, in questi casi il metodo  ; Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di interpretare  a ognuno di questi giudizi dalle sue conseguenze pra-  i tiche. Quale differenza pratica risulterebbe per qual-  cheduno se fosse vero l'uno o l'altro di quei giudizi?  Se nessuna, i due giudizì opposti si equivalgono r.ra-  icamente e ogni discussione è oziosa (2): dove 1.n  c'è differenza di Significato pratico non vi può es-  sere differenza di significato teoretico. Con questo  metodo, sempre secondo il James, si  sare gli allriti, attenuare le contese ie  intelligenze, riuscire alla concordia e alla pace, Esso  © dunque un mataviglioso eirenicon perchè «non  «Vale la pena di opporre l'una all'altra nel campo  «della speculazione due teorie che abbiano le medesi-    f    me fo eguenze pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE  Pi» (3). . :   Contrariamente alla vecchia metafisica il Inelodo   Pragmalistico non permette    ecc. come lermine ultimo della  ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella corrente dell'espe-  — rienza: le teorie non    sono soluzioni, ma programma  per nuovo lavoro; non risposte definitive, ma stru-    menti d'azione, ma indice che cj addita i mezzi per.    Ì ) di considerare le parole : È  __ Dio, materia, energia,    ty Gazelle Vorlesung, p. 34,   2) p. 28. Questi concetti sono SvIluppati specialme t Il  Lettura seconda: « ]J'gs will der Praggn, tall,   J ll Pragmatismo?), er Pragpmatismus? (Cosa vuole   “Ri ORANDO, La Mlosoha   | «Rivista Rosminiana » A Apologetica Moderna]                         dell'azione e vr  » N. I, 1906,          not? PO UTNE e ne I                         Il Pragmatismo 1? k    i)   | 1 quali le realtà esistenti possono esser mulate e  adattate all'uomo (1). Il Pragmatismo toglie così alle   i leorie la loru rigidezza, le rende malleabili, le fa la-   j vovare (2). Esso si accorda col Nominalismo nello È   i attenersi al parlicolore, con i’Utilitarismo nell’ac- es   | cenluare gli oggetti pratici, col Positivismo nel di- ,   i sprezzo delle questioni inutili, delle soluzioni ver- “@   i bali, delle astrazioni metafisiche, di tutto ciò in-  somma che non serve all'uomo nella vita reale. Per-  chè luomo è il centro dell'universo, afferma l'Uma-    nismo (3) conlro il Noaluralismo che considera l’uomo | è.  come parte della natura e contro l'Idealismo che lo son  subordina ad un Assoluto. Alla concezione cosmo-   centrica (Uanlica) e alla teocentrica (la medioevale) ani  deve sosliluirsi l'aniropocentrica. «L'uomo è la mi-  sura di tulle Je cose!» proclama lo Schiller, il neo- È    prolagorista, con Prolagora l’umanista (4). L'Uma-  nismo consiste semplicemente nel rendersi conto che  sono degli esseri umani coloro ai quali è proposto.  il problema filosofico, degli esseri umani che si sfor-  zio di comprendere un mondo di esperienza umana |  coi mezzi che fornisce lo spirilo umano.   Secondo l'Umanisimo sono «il sentimento e la vo  lonlà che custiluiscono l'interesse centrale dell’es-  sere che usa i sensi e la ragione come suoi strumenti  nel mondo esterno ».    (1) « Theorien werden... zu Werkzeugen », p: 33.  (2) Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten n.  (2) Fra V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal  James, c'è differenza poco più che di nome. Secondo lo Schil-  «_ ler l'Umanisino è più largo, il suo metodo sì applica a tutto:  i d@ll'etica, all'estetica, alla metafisica, alla teologia, mentre il  Pragmatismo non si applica che alla teoria della conoscenza.  In realtà Je applicazioni che fa lo Schiller del suo metodo, —  È le sa o le accetta anche il James, Lo confessa il James stesso,  ] P. Al. n°  AE  | _.,(4) Protagora l'umanista, è il titolo del «Saggio XIV» d  Gli: Studies in Mumanism, p. 302. A p. 36 egli stesso chiam  il suo sistema « Nèo-Protagoreanismo », > o              ip”            td  54                                                   18 - Lince fondamentali    Perciò l'Umanismo implica il Volontarismo, ossia  la filosofia più autropocentrica che si possa dare.  L’«ago ergo sum», del Pierce può essere sostituito  «dal «volo ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un  melodo: ciò che lo caratterizza è il suo alleggia-  mento benevolo di fronte a tutte le concezioni, pur-  che non si voglia erigerle a un che di « assoluto ”,  ma sì prendano come pure interpretazioni umane  5, dell'esperienza umana. Non si dimentichi — avverte  lo Schiller — «che l’uomo è la misura di tutte le  cose, cioè di iullo il mondo dell'esperienza... non si  dimentichi che l'’uomu è il fattore delle scienze che  servono aì fini umani» (1). Tutto dall'uomo, tutto  all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il  Pragmatismo accetta questa dottrina umanistica, e  «io — dice il James — la tratto sotto il nome di  Pragmmalismo » (2). L’Uinanismo è, per così dire, il  soflio, l'anima che pervade le affermazioni pragma-   | lisliche: non ha valore che ciò che ha un significato  per l'uomo.    $ 3. — La logica finora ha tentalo di essere una  pscudo-scienzu di un, processo non esistente e im-  | possibile chiamaio pensiero puro. In nome di essa  ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero  Ogni traccia di sentimento, d'interesse, di desiderio  © di emozione, come le Diù perniciose surgenti di er-  tore. Così la logica fu ridolta ad una pura rappre-  | Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare al-   luale, perchè non si è voluto osservare che quegli  __ inMussi (sentimento, emozione) sono egualmente fon-  le di verità e pervadono tutto il nostro processo co-  | gilulivo (3). Poichè «il Primo passo nella acquisi-            (1) Humanisme, (Prefazione) p. xx.  (2) Lettura seconda, p. 4I,    (8) ScHirLen, Humanism, p. X. E allo Sc    € dobbiamo principalmente 10 SEITE ELE    0 logico e gnoseo-       zione di nuove conoscenze è l'intervento di un postu-  lato emozionale » (1).   Non si può passare dal noto all'ignoto, o, certo,  la natura data di un conosciutu non può formare il a  fondamento logico per la inferenza di caratteristiche 0  opposte nel non conosciuto, se non c'entra il deside- |. Ù  rio. Come posso, p. es., inferire dal male che c’è nel ò  mondo la necessità dell’esistenza di un mondo mi:  gliore, sc il ragionare — come afferma la logica tra-  dizionale — è il prodotto di un pensiero puro non  affetto da volizione?    «Sollanto se una trasfigurazione sconosciuta del-  l'altuale è desiderata, può esser pensata e, in parec-  chi casì, ‘rovata. Tutte le concatenazioni di un pen-  siero puro non influenzato dall'affetto non potrebbero  mai raggiungere e ancor mero giustificare quella  conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero de-  ve ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri  menti della volizione e del desiderio » (2). La ragione -  «pura» e una pretla finzione c una impossibilità si   psicologica; lu strultuva reale della ragione attuale E  è essenzialmente pragmatistica ed è penetrata fino n]  nelle midolla (permeated (lhrough and through) da  ulti di fede, da desiderì di conoscere e da volontà di  credere, di non credere, di far credere. E altrove: Dini”  La intellezione pura non è un fatto che abbia luogo |  in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il * a  nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo,  dai nostri interessi e dalle nostre preferenze, dai       | Il Praghiatismo 19  /  i  |    nostri desiderî, dai nostri bisogni e dai nostri fini. x  Questi formano il potere movente della nostra vita  intellettuale.   « Vi souo ragioni del cuore delle quali la testa non 3:  sa nulla (3), postulati di una fede che sorpassano la È    2    (1) Ibid. p. XI.    >» (2) p. XII «To attain it, cur thougth needs to be impelled vi  ‘na guided by the promptings of volition and desiro ». -  POS) (3) L'aforismo, citato dallo Schiller, è di BIAGIO PASCAL, —    _(Pensées), LA       4    20 Linee fondamentali    intelligenza pura e possiedono una razionalità più  alta che un gretto inlellettualismo non è riuscito a  comprendere. L'irrazionale si trova ad ogni passo,  in ogni processo della vita conoscitiva ». La fede    «sla a base di ogni «ragione» e la pervade, anzi la    razionalità stessa è il supremo postulato della fede.  Senza fede non c'è ragione; la fede è un ingrediente  nel progresso della conoscenza; realizza sè stessa  nella conoscenza che ne abbisogna e ia aiula alle  conquiste fulure. Così sparisce l’antitesi tra fede e  ragione perchè la razionalità pura non esiste (1). Il  carattere leleologico della vita mentale influenza e  pervade le nostre ullivilà cognoscilive più remole.  Questo, secondo lu Schiller, è il pensiero centrale del  Pragmatismo: ne dà la vera definizione (2). Il pen-  siero Non è un prosesso aslrallo, ma si svolge in una    - psicologia concrela, è una funzione vitale è perciò    finalistica. L'uomo non pensa per pensare e il Prag-  malismo è: «una prolesta sistematica contro l'igno-  vanza della finalità nella‘conoscenza » (3). La volontà,  lintenzionalilà è da per tutto: il Volontarismo si  constata nella psicologia, nella logica e nella meta-  fisica, È questo uno dei lralli caratteristici del Punto  di visia leleologico. Il Pragmatismo si formula da per  lutto in funzione della finalili..   «La ragione è un'arma nella lolla per l'esistenza  cun mezzo per l'adattamento » (4). Ne segue che  l’uso pratico che ha presiedulo al suo (della ragione)    (1) Questi concetti lo Schiller li ha svolti speci: te i  JI S ° seialmenie in  un articolo: NFailh, reason and religion pubblicato SI The  Ilibbert Journal» 1V, 2. Vi si dice, tra l'altro, che è base es-  senziale in scienza e in religione partire da supposizioni che  TS OLolale provate o che non possono provarsi. Così, se  ; Viviaino per fede può anche esser veri r -  Ralemo pen pata L e esser vero che cono  (2) Mumanism, D. 8. Cfr. anche Stud. in Ium, p. 4, 5.    (3) Stud. in Hum Essay, I &  * Èssay, I $ II — È ques a ses  sette definizioni che lo Schiller ci dà del PRE Se    nite e collegate l’una con l'altra nei  S S b ;3  (4) «I cannot but conceive the Or AR]  In the struggle for existence and  tation è. pag. 7, Humanism,    reason as being... a weapon  a means of achieving adap-       à, cea                                    Il Pragmatismo i    svolgimento, deve essersi impresso profondamente   nella sua strullura, se pure non l’ha formata da  istinti prerazionali. Una ragione che non ha valore n   pratico ai fini della vita è una mostruosità, una aber-   razione morbosa, una mancanza di adattamento che   la selezione naturale presto o tardi deve far spari-   re {1). Quindi, da questo punto di vista il Pragma-   lismo polrebbe definirsi: « Una applicazione coscien-   le alla epistemologia (0 logica) di una psicologia te-   < leologica, che, in ultima analisi, implica una metafi-  sica voloniaristica » (2). pis  TANA Nice di questa psicologia felcologica applicata  alla conoscenza i problemi della logica devono appa-  rire sotto un aspelto nuovo e si deve dare una im-  porlanza decisiva ai concetti di proposito e di fine.  Ta conoscenza presuppone essenzialmente uno sfor-  zo diretto a conoscere, che, come ogni sforzo, è te-:  leologico, ispirato da un bene che si vuol consegnire. SI  Non cè conoscenza senza valutazione; la conoscenza  è una forma di malore, 0, in allre parole, un fattore   di bene (3).   Lo aveva cià dello il Lotze, nola lo Schiller. Il  | Lofze, come è noto, insegnava che «la scienza, come  TU la logica, che ne è lo strumento, e come la metafi-  sica che ne è il coronamento, ha il suo fine e la sua  giuslificazione nell'elica, e irova il suo fondamento  | slabile e sicuro in quel primo dato originario e di |  Ù conoscenza immediata che è la nostra vita interiore,  i col suo ricco contenuto di sensazioni, rappresenta  zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo corredo  di forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr  scindere in qualsivoglia nostra concezione e valut  zione» (4).            (1) Mumanism, p. 8.  (2) È la settima definizione del Pragmatismo. Le altre Je  AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel Pragma- |   smo. - ae  p (3) Humanism, p. 10. — Cfr. anche sl quarto «Essay» di  questo volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i »  = (4) L, AMBROSI, Per una monografia italiana sopra Herm  otze — «La Cultura Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295,             ai  dui       #  iii ar E° vee                                  Linee fondamentali    Non è qui il luogo di dimostrare che, se il Lotze  ha dei punti di cuntalto con l'Umanismo, egli perè  non è un umanista alla Schiller.    La ragione nelle sue esplicazioni molteplici, è una  strumento ordinato ai fini della vita. È questa la  concezione strumentalistica della conoscenza esposta  dal Dewey e dallo Schiller (1) e accettata dal James.  Essa è un portato del metodo evolutivo e della con-  cezione biologica della conoscenza. Darwin con la  teoria della «lotta per l’esistenza » e della « selezio-  “ne naturale» aveva insegnato «che nulla può sus-  Sistere o svolgersi che non abbia un determinato  Significato per l’intera concatenazione della vita ».  Scrittori posteriori (Spencer, Romanes, ecc.) sosten-  nero che lu vita è un continuo accomodamento alla  natura circostante, fisica, sociale, morale. E ora la  teoria della evoluzione è chiamata da molti a spie-  gare anche il sorgere e il progressivo. svilupparsi  ella vita cognoscitiva (2) e così i principt evolutivi  di cambiamento, di relalività e di movimento sono  ipplicali a spiegare l'origine e ‘lo sviluppo del pen-  siero in generale, il suo carallere, il suo valore, allo 2  Stesso modo che erano già slali assunti a lumeggia- i  __Te c spiegare l'origine, Îo sviluppo, il significato, il   — Valore della stutlura, degli organi, di fulte le dif-  __ Ierenziazioni biologiche. Come in bio   non ha valore nè senso che per la sua ulili  dine all’adatlamento dell'individuo  condizioni fisiche circostanti, ha, cioè un valore e  un senso puramente Pratico, così in psicologia qua-  ai 5          ao    (1) L'opera principale del Dewey è: Studies 1  Theory bey John Dewey, with the Cooperation of embe  Fellows of the Departement of Philosophy. Decennial Pubbli-  1 one of the University of Chigago — Second Series vol. XI  e» Peli ha esposto le sue teorie anche in: The esperimentai  Pe: # in: eguig otel Mina (N. S. 59) 1906, Vol. XV Pp. 293-307;  din; nd the Criterion uti Of Tdeas (N Sì  6) "Vol NV she SII for tne Trutt of Ideas (N. S.    Lol), Cir. Baowr, 7hioughi and rh; i *  AP TS, ggpletaco, p. VILe VII. 11 Salto; Vol. 1: Functional    GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha parecchi puntf    Il Pragmatismo 23    lunque differenziazione : sensazione, coscienza, pen-  siero ecc., trova tutta la sua raison d’étre e la sua  giuslificazione nell’uso, nelle conseguenze, nella ef-  ficacia pratica. La questione di valore non si può  scindere dalla queslione di origine e di sviluppo; la  considerazione statica deve dar luogo alla conside-  vazione dinamica e quindi, per ciò che riguarda il  pensiero, la logica formale alla logica funzionale (1).   La concezione biologica della conoscenza (2) ha  fatto un passo innanzi: non ha detto semplicemente :  applichiamo alla psicologia il metodo evolutivo, (il  che, per sè, non inchiude la riduzione della psico-  logia alla biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti  del pensiero teorelico hanno un carattere utilitario »  (biologico) «cioè servono come strumenti al conse-  guimento di fini essenzialmente biologici, perchè mi-  rano a dare soddisluzione alle esigenze dell’organi-  smo cioè ai bisogni della vita» (3).   Questa subordinazione della vita teoretica alla vita  pratica è capilale per il Pragmatismo: nessuna ma-  raviglia quindi se i suoi leaders l'hanno accettata e  fatta oggetto di studi speciali (4).   Il Dewey, oltre alla funzione generale della cono-  scenza, ha soltoposto ad analisi il suo aspetto tipico:  il giudizio; mentre lo Schiller s'è occupato partico.  larmente degli assiomi primi della conoscenza.   S'è veduto in che cosa consiste la concezione stru-  mentalistica 0 umanistica della conoscenza ; in base                (1) Baldwin, Op. c. 1. c. passim.  (2) È sostenuta specialmente dall’Avenarius, dal Mach, dal  Jerusalem, dall'Ostwald, dal Petzoldt e dal Simmel. Cfr. le  monografie di A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul Mach, e sull Ost-  wald in «Cultura Filosofica» a. II, n. 3, 5,7% a. DI, n. 3, 4.  . Lo Psicologismo logico dì A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4,  specialmente pp. 242-255.  Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo anglo-americano, —  « Cultura Filosofica » a. III, n. 2.  (3) A. LEVI, Lo Psicologismo logico, La « Cult. Fil.» a. IMI,  n. 3, p. 254. pà &  {4} Intendiamoci: hanno accettato la dottrina della subor-  ‘dinazione della vita teoretica ai fini pratici, in generale, no  ai fini biologici esclusivamente, È                          24 Lince fondamentali    ad essa il giudizio (dal Dewey) è interpretato in ter-  mini di funzione; esso è una armonizzazione di varie  parti della esperienza; è uno sforzo « per determi.  nare gli elementi che realmente procedono di con-  serva e per respingere quelli che solo si collegano  apparentemente »: così esso si forma, per differen-  ziazione, sotto l'impulso del bisogno di armonia e  di unità nelle esperienze (1).   To Schiller (2) afferma e dimostra, a modo suo, che  gli assiomi fondamenlali della conoscenza o primi  princip! (di identità, di contradizione, del terzo esclu-  so, di causa) sono dei semplici postulati. Un postu-  lato è «una supposizione, che senza dubbio l’espe-  rienza ha suggerilo ad una mente che ricercava, ma  che non è, nè può essere lenuta come provata, poi-  chè spesso di poi la si assume solo perchè la desi-  deriaumo, contro tulta l'apparenza dci fatti» (3). I  postulali sono domande che noi facciamo alla espe-  rienza; processo di esperimento ordinato a porre il  mondo in armonia coi nostri desiderì; sono perciò  un processo di sviluppo non dissimile dalle altre at-  tività e funzioni umane, derivando dalle esigenze  dell’uomo, dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal  suo volere: sono quindi un prodolto della attività  umana voliliva e affelliva. Noi desideriamo che una  cosa sia quello che è, che 4 sia sempre a, d sempre  Db, ecc. perchè diversamente, come polremo conoscere  la sua condotta futura rispetto a noi? e, per conse-  g&uenza noi desideriamo che nulla venga a distrug-  gere quella idenlità: così nascono il principio di  identità e di contradizione, che sono due aspelli (po-  Silivo e negalivo) dello stesso principio, Noi esigia-  Mo delie distinzioni precise, delle disgiunzioni com-  plete, perchè con esse possiamo dominare (assimi-    (1) Op. cit. II, passim, Vedi anche  N. c. 257 dove si trovano le parole da’  (2) Personal Idealism — « Arioms  902.    La Cultura Filosofica »  me citate,  Macmiizs o! as Postulales n — London,    (5) ScHILLER in 3    «The Hibbert Journal» }, e,                             Il Pragmatismo    lando ed eliminando) il lusso ininterrotto della espe-  rienza: vogliamo che una cosa sia o non sia: ecco  il principio del terzo escluso. Noi desideriamo di pro- si  durre degli avvenimenti utili alla vila e di impedire  i nocivi; per agire abbiamo bisogno di un mondo  connesso, ordinato, postuliamo, cioè, una causa €  una ragione sufficiente. In realtà nulla è, tulto di-  venta; l'identità perfella non esiste. La enntradizio-  ne è pensata frequentemente contro la grescrizione -  della legge; l'esperienza non sodisfa le nostre esi- ae”  genze, perchè in essa non v'è una ragione suMceiente,  e ve la poniamo noi.    A chi opponesse a questa concezione volontari-  slica delle leggi del pensiero, i loro caratteri di uni-  versalità e di necessità, lo Schiller risponde che:  «Ia universalità di un postulato deriva dalla sua  stessa natura, inquantochè, quando ci serviamo di  una proposizione di cui abbiamo bisogno, intendiamo  di farne uso ogni volta che ci piacerà; la neces-  sità di un postulato designa semplicemente il biso-  gno che noi ne abbiamo, ossia... deriva dalle esì-  senze di una volizione intelligente e finalislica; la  incapacità di pensare il contrario di una proposizione  si riduce... ad un nostro rifiuto di compiere un certo  atto del pensiero ».   Il James accetta e fa sue le dottrine dello Schiller  e del Dewey (1) ce proclama: «Dalla logica scienti-  fica è stala cacciata la necessità divina, e al suo.  posto fu messo l’arbitrio umano ». E altrove: pla  mostri melodi fondamentali di pensare sono inven- —  . zioni dci nostri antichissimi antenati e si sono. potuti —  conservare attraverso {tutte le esperienze successive. —                    pe    (1) Il James considera gli « Studies in Logical Theory » com  | fondamentali per il Pragmatismo. Cfr. Der Pragmatism  Vorwort, XI, AI            ve,    26 Linee fondamentali    Essi formano ciò che si chiama «il senso comune »,  che, in filosofia significa l’uso di certe forme dell’in-  lelletto e di determinate categorie del pensiero. Noi  pensiamo per calegoric: esse ci sono necessarie  per mettere unità e ordine nella piena confusa, nella  Varietà sensibile delle esperienze, per combinare con  meno dispendio di forze possibili le nuove con le  vecchie esperienze, per fare i nostri piani, per con-  neltere il iontano dell'esperienza col vicino, per adat-  lare, in una.parola, la esperienza ai nostri bisogni    dopo averla dominata. E la dominiamo razionaliz- \  zandola.    i «Se fra le impressioni dei sensi e i concetti pos-  è».    cai  È, t ATI    tas    siamo trovare rapporti univoci abbiamo già razio-  nalizzato le impressioni sensibili. I senso comune   > mette questa razionalità nelle esperienze (vollzieht   diese Ralionalisirung) con vna serie di concetti, dei î   sà quali i più importanti sono i seguenti ; 4   = Cosa (in sè) —- Identità e Diversità — Specie — Spi- x   , rili -— Corpi — Un lempo — Uno spazio — Soggello b   e ullributo — Influsso causale — Immagini fanta- >   stiche — Realtà (1). 9    Queste categorie lrovale forse in momenti felici  ai nostri antenati si sono conservale e sono dive-  nule la base del nostro pensiero per la loro sufficien-  za a servire ai fini della vita pratica. Ma sarebbe  possibile che calegorie diverse dalle enumerate po-  __lessero servirci, come quelle che usiamo ora, alla  elaborazione della nostra esperienza. Del resto il  Senso comune non è che una fase della evoluzione  dello spirito umano, c, nonostante che la filosofia  _bemipatelica abbia tentato di fissare per sempre le  Sue categorie, concatenandole ordinandole in si-   _ stema, Mon si può dire, tuttavia, che la concezione  MICCCALVII È a più i  DI lipi o fasi di pensiero: il naturalistico 6 il car    a scienza della natura e la filos riti  hanno. rotto i limiti del pensiero ATao CECI            (1) Finfte Vorlesung, p. 108.          la    ll Pragmatismo i 27    Con la scienza della natura cessa il Realismo in-  genuo. Le qualità secondarie perdono la loro realtà:  non restano che le primarie. La filosofia critica di-  strugge lutto: le categorie del senso comune non si-  gnificano più nienle di reale.   Esse non suno che astuti provvedimenti del pen-  siero umano; sono l'unico nostro mezzo per isfug-  gire alla inquietudine in cui ci getta l'incessante cor-  rente delle sensazioni (1).   Noi abbiamo così tre tipi caratteristici e diversi di  pensare il mondo: Ugnuno ha i suoi meriti (il natu-  ralistico, almeno, può vantarsi di aver servito ai fini  pratici quanto il senso comune; si pensi al Galilei,  ad Ampere, al Faraday! ìl critico invece, pur trop-  po, nun ha dato che soddisfazioni teoretiche, 0 qua-  si); nessuno di essi è assolutamente più giusto e più  vero degli altri (2). e;   La loro verità dipende dalla loro utilità nei casi  particolari.   Questo il Pragmatismo nel suo metodo e nelle sue  presupposizioni gnoseologiche fondamentali: melodo  & presupposizioni che ne costituiscono la vera es-  senza. Il James dice che un aspetto essenziale del  Pragmalismo è anche la sua leoria genetica della ve-  rità (3). Lo Schiller, dal canto suo, scrive che: «pa-  rallela alla teoria della verità è quella della realtà »,  e perciò la trallazione della prima non può andar  disgiunta dalla esposizione critica della seconda (4).  A me pare che tanto l'una che l'altra, più che dottri-  ne essenziali del Pragmalismo, siano corollari, 0  applicazioni del metodo alle due forme oggettivo-  soggettiva c oggettiva dell’essere. E   Di queste due applicazioni dobbiamo ora occuparci  lrattando della teoria della verità e della realtà nel  pragmatismo. \    (1) Ibid., p. 117.  (2) Ibid:; p. 118 Par  (3) Der Pragmatismus, p. ki: Das wdre das Wesen des    Pragmalismus: erstens eine Methode und zweilens cine. gene    tische Wahrhettstheorie »,  (4) Stud, tn Hum., p. 284,    "E    lla ate    RA A da LTL       II.  LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTA       Sommario : $ 1. La condotta. — $ 2.  La dottrina della  verità, — j 8. La dottrina della realtà.    SI. — «Che cosa ci sa dire la filosofia intorno alla  condotta? La pone in allo o in basso, la esalta ponen-  dlola sopra un piedestallo all'adorazione del mondo 0 |  la deprime perchè venga calpestata dalle persone i  Superiori? In allre parole: qual'è, secondo la filoso- |  fia. lo relazione della lcoria colla pratica della vita,  della cognizione coll’azione, della ragione teoretica  colla pralica? » (1). Così comincia lo Schiller il suo    primo saggio del volume: « Umanismo, — La base  È elica dellu metafisica ». E continua: «La dottrina di  È, questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più in-  bi tricali della storia del pensiero. Da questo capitolo    della storia risulla chiaramente un fatto: che le pre-  lese delle teorie antagonistiche (leoreticiste e prali-  gra * cisle) sono così larghe e così insistenti da rendere   impossibile ogni compromesso fra loro; bisogna sce-  pai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la vita.  i O è nulla; 0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì  un sogno: aul Caesar aut nullus » (2). Noi sappiamo    a giù quale dei due estremi abbia scelto il Pragmati-  sil smo. Invece di supporre che il pensiero sia altra cosa  o dall'azione, esso tralta il pensiero come una forma di  , È condotta, come una parle integrale della vita attiva.       (1) umanism, Essay I, D. 1-2,  ‘(2) Id., p. 3.       Sai                                                                      Il Pragmatismo    Invece di considerare i resultati pratici come poco  o affatto importanti, fa dei valore pratico un deter-  minvute della verilà teoretica. Im una parola: la  condotta, in luugo di svanire nella nullità di una il-  lusione, è ristabilita nel potere di controllo di ogni  dominio della vila.   Dal punto di vista pragmatislico della psicologia le-  leologica, inlcsa come s'è vedulo, tanto i problemi  logici quanio i metafisici si presentano in una luce  | nuova, poichè vien dala una importanza decisiva i  | concetti di proposito e di line.   SH Il Pragmalismo è una protesta sistematica contro  l'abitudine di iguorare, neile nosire lcorie sul pensie-  ro e sulla realtà, la finalità del pensare attuale © i  rapporti delle nustre realtà attuali ai fini della vila;  è r'aflermazione delta basc chica della iogica e della  id metafisica. « La valutazione (cologica è una sfera  speciale della ricerca clica, € quindi il Pragmatismo,  To con la sua accentuazione della teleologia in ogni  (campo del pensiero, assegna al metodo lipico «della  elica una validità metalisica » (1), alfermando la su-   preva autorità della concezione etica di bene sopra |  da concezione logica di vero € la metafisica di reale.  II bene, il valore pratico © un determinante essen-  ziale così della verità come della realtà. La condotta  è la sostanza del tulto. La nostra apprensione del  reale, la nostra comprensione delia verità si effet  luano sempre in esseri che tendono al consegui-   mento di qualche bene: sono penetrate, informate  “dalla tendenza a un fine pratico, dalle esigenze della    condotta. pt    g 2. — Chi studia seriamente i processi conoscitivi  della intelligenza umana viene subilo a trovarsi d  fronte al problema dell'errore. Tulte le proposizioni          30 La teoria della realtà e della verità                                logiche hanno l'audace pretesa, senza riserva e senza d  riguardi alle pretese delle altre, di esser vere. Eppure  gran parle di esse non sono che delle menzogne :  non sono realmente vere e la scienza deve respin-  gere la loro pretensione. Per far questo è necessaria  una scella di ciò che è realmente vero dalle verità  apparenti: una condanna del falso ed una ricogni-  zione del vero; il logico, in altre parole, deve valu-  tare le ioro prelensioni di verità (1). Con qual crì-  levio? Come dislinguere fra proposizioni che preten-  dono di esser veré c non sono, e le pretese buone  che pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il  carattere distintivo della verità? Così si pone il pro-  blema crileriologico; e una teoria della conoscenza  che è impolenle a scioglicrio è già condannata (@). ©  Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una  proposizione alla quale è stato in qualche modo al-  luccalo (attached) ialtributo «vero» e che, conse-  __Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La ve-  Tila è la lolalità delle cose alla quale e stato appli-  «cato o è applicabile questo modo di lraltamento sia  | ©hesi eslenda o meno alla totalità della nostra espe-  _ Rienza» (3). È una qualità di certe rappresentazioni  «© precisamente: l'accordo di certe rappresentazioni  con l’oggello {4). È questa la definizione comune che  | accellano, come qualcosa di evidente, intellettualisti  * pragmalisti. Il dissidio fra le due parti comincia  Quando si tratta di sapere che cosa propriamente si-  —_ Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »; ovvero la «realtà »  con la Tuale devono convenire le nostre idee (5)  |, Secondo la concezione Opolare | n BRA  { ot ROIO Popolare l'accordo consiste  > In una copia dell'oggetto. Alcuni idealisti affer  ne ue le nostre idee sono vere quando corrispondono. a or  \<iò che Dio vuole che no pensiamo intorno al loro  alla /eoria della       *&gello, Altri, streltamente fedeli    (1) ScHmzLER: Stu  (2) Id., Jvta.  (3) Id., p. 14. Essay Y.     @ JAMES, Der Pra  i o gmatismus, p,  i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI, Vor],    dies in MHumantsm, D. 3. Essay I    Il Pragmutismo_ 31                                    i ì tre idee in  copia («copytheory»), dicono che le nostre in  nilo sono vere in quanto corrispondono ai pensieri  elerni dell'assoluto. Vediamo quanto valgano queste    concezioni. ;   Intanto la verità assoluta, scrive lo Schiller, non  esiste. La storia del pensiero umano è caratlteriz-  zata dalla inslabilità delle opinioni, dalla mutabilità  delle credenze, dalle vicissitudini della scienza, In-  somma. dalla lransitorietà di ciò che è o passa per  verità, Ogni verità umana, com! è attualmente e  com'è stata storicamente, sembra fallibile e transi-  toria... le verità del passato sono riconosciute come  errori al presente; quelle del presente sono in via di  essere riconosciule erronee in un domani più o meno  lontano. Quindi la verità umana non può affacciare  pretese di assolutezza. Per isfuggire allo scetticismo  che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. ri-  valutazione e transvalutazione delle verità, che for-  ma la storia della conoscenza, si è ricorso ad una  verità assoluta trascendente indipendente dalle vicis-  situdini della verità umana; la quale verità assoluta  si concepisce come un modello da imitarsi, come una  misura per la valutazione delle verità nostre, come  una rocca inespugnabile in cui non può penetrare  cangiamento alcuno (1). i   Si slabilisce, cioè, una distinzione fra verità al  luale o umuna e verità assoluta, ideale, che è posta  al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le  nostre verità sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri  . flesso imperfetto, ma valido, misleriosumente tran-  sustanziato per la immanenza in esso dell'Assolulo    e per la partecipazione della sua stessa sostanza. i  Mau l'espediente è fulile e dannoso. |   l'utile perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e im- a  mutabile, non può discendere dagli eccelsi cieli della        logica a trasformare le nostri ‘i Ì  La, e verità e a togliere la  transitorietà alle nostre concezioni; la verità umana,    (1) ScuiLLER. Stud. in Hum,, Essay VIII, p. 204.    32 La teoria della realtà e della verità    dal canto suo, non può SORIrare alle prerogative so-  Rraumane dell’Assoluto (i). Se la verità assoluta  non può identificarsi, in qualche modo con la umana,  e se la cognizione umana non può diventare assolu-  la, non può congiungersi con l'Assoluto, l'Assoluto  per nvi non esiste e non può quindi redimere dal  ilusso perpeluo le nostre verita. I che lale unione  luon esista, anzi che sia impossibile, si deduce dal  contrasto di caralleri fra la copia (verità umana) Cc  tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità  lrascendente).   La verità umana è fluida, non rigida; temporale e  lemporanea, mon elerna e perenne; arbitraria, non  necessaria; scella, non inevilabile ; nata, come Afro  dite, di passione e di slancio da un Inare schiumoso  di desideri, non puramente intellettuale e spassio-  nata; incomplela, non perfetla ; fallibile, non iner-  tante ; assorbita nella tendenza di ottenere ciò che  ion c uncora compiulo; non beala nella. sua com-  iiulezza. Questi caratteri della verità umana risul-  tano dalle condizioni stesse onde ha origine ogni ve-  tilà. Essa è discorsiva perchè non puo abbracciare  lutta la realtà; © fallibile perchè è ‘essenzialmente  parziale € puo quindi Sempre venir corretla e com-  pletala da una cosuizione più vasta. Invece la ve-  rità assolula si estende al lutto e dipende dalla cogni-  zione del lutto. Li sua ussolulezza si fonda sulla sua  onMucomprensività (2). Se non V'è conoscenza conm-  pielamente adeguata all'intero sistema della reallà    _ on vi può essere verita assoluta (3). Orbene, la no-    stra mente è capace di {ale conoscenza? No. Ap-  punio perchè parziale, la verità umana poggia su  dati parziali, è generala dalle parzialità dell'alten-  stone selelliva ed'e diretla a fini parziali. Un abisso  Separa le due specie di verità: fra loro non vi può  essere ne Corrispondenza nè interazione (4). È quindi   verità attuale sia in « accordo con la    b RP assurdo che Ju   he (I) SCHILLER, 07, cl, 7.  E (I Ide TER OD. ci, p, 207,  via {9) Id., 4bid.  E (4) SCHILLER, 1a., p. 2,   i   Le   Lia       - di                                        Il Pragmatismo 38    asta ideale, eterna, Irascendente » come pretendono gli as-  solutisti. be  La concezione della verità assolula è anche perni  ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la differenza fra  ia verità assoluta e la relativa o non la percepisce.  Nel primo caso egli disprezzerà le verità umane, 1m-  . perfette, mutabili, le tratterà come apparenze, € lo  | Scelticismo sarà inevitabile. CIÒ è tanto vero che,  ‘anche attualmente, la linea di divisione. tra questa  specie di assolutisti e gli scettici è molto indecisa:  insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà  come assolute anche le nostre verità. E poichè l’as-  soluto non soffre aumento nè alterazione, egli non  _ si sforzerà di migliorarla coi suoi sforzi, rigetterà  come falso tutto il nuovo, non vi-sarà progresso al-  cuno nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con l'as-  surdo Ja rovina della teoria della conoscenza. Nel  nostro conoscere c'è aumento, c'è alterazione: e una  teoria della conoscenza che non li può spiegare, anzi  li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenera-  zione, e non ci salverà dallo scellicismo, reso anci  ui tabil ; SE ’ «anche  du Anevitabile dalla impossibilità e dal rifiuto di  ‘0 FUNe I nostro reale progresso cognosellivo:   ud est verilas? È forse un «accor  realtà ; La Accordo »  Questa ipotesi reatitiae csfetto, del fallo. sterno?   A LI ‘a — dice ancora lo Schiller   ci conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5  CIOS alermare degli incredibili paradossi,    con la    cha: 1 SE  Rc e die   n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e RI  » che «eg hipothesi » 16/x trascende SD   i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS È   e]  | Pragmatismo - 3 x = SONA È    [e    È    |<    PRE e  %% È Da teoria della verità e della realtà                           c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che la  «corrispondenza » tra il fallo, quale è in sè stesso  fuorì della noslra-conoscenza, e il fatto, quale appare  nella nostra conostenza, è in qualche modo perfelta  e completa {1), il ehe è assurdo, perchè noi non pos-  siamo conoscere indipendentemente da un lato il pen-  _ siero, dall'aîtro Voggello esterno.  Nè si può dire che la verilà consista nella « cocren-  za sistematica ». Nell’universo non v'è delermina-  “zione assolula e perciò la verità c la realtà possono  «essere costruite im diverse maniere, cioè in diversi  Sistemi, con diverse «cocrenze » sistematiche: biso-  cana lener conto delle possibilità pluralistiche (2). RR  . il problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero  e quale è falso? »  Im che consisle la verità del «sistema coerente? »  Dal punlo di visla del razionalismo, cioè «a priori »,  on è possibile dare una risposta reale alla questio-  ne; non si può indicare nessun metodo praticabile di  ululazione delle verità (e dei sistemi di verità) se  non concedendo alle applicazioni pratiche, alle con-  | seguenze, di saggiare la validità delle rappresenta-  zioni (c dei sislemi di rappresentazioni); se non rica-  | Noscendo uno stadio intermedio, nel facimento della  s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero e  tn ideale completo di verità assoluta (3). Il Pragma-    smo è appunto il tentativo dì tracciare il modo del    > (I) Id, p. 181, Essay, VII.    (2) Di qui 11 nome di pluralismo dato a   dottrina _pragmatistica della verità e della A  ita «ex professo « nella quarta lezione (del vol. cit.): Etn-  lett uni Vielheit « Unita e Pluralità. — © pluralismo è la  gucazione Metafisica della realtà come di una molteplicità di  ct Separati, indipendenti. Si divide in matcrialistico (Ato-  TRIaIDO), in spiritualistico (Monadologia) è in duatistico (Dua»  smo). La concezione pluralistica è stata poi dal JAMES ulte-  ente svolta nel volume: .1 pluralistic universe, London,    Longman Green 1909, tradotto in f  [cato co. Nolo PRI oS Francese da Le BRUN e pub-  mar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris, Flam-    (3) SCHILLER, Stud. in Hum. Essay I, p. 4.            ce       Il Pragmatismo 35    facimento aztuale della verità, le maniere attuali di  distinzione tra vero e falso per giungere alle sue ge-  neralizzazioni circa il metodo di determinare la na-  tura della verità (1): mette in luce, in altre parole,  lo sladio intermedio del divenire della verità, il modo  della convalidazione delle pretensioni di verità. Or-  bene, come s'è veduto, non si può spiegare il movi-  mento del pensiero verso qualche cosa senza fare  appello a motivi psicologici: desiderio, sentimento,  interesse, attenzione ecc. ; non è possibile descrivere  cosa alcuna in puri termini logici e senza costante  ricorso alla psicologia (2), ec quindi «i termini ullimi  della definizione della verità sono anzitutto psicolo-  gici»; ogni verità attuale è, in primo luogo «un pro-  cesso psichico, c, come tale, condizionato dalla va-  rietà degli influssi psicologici sentimentali e voliti-  vi» (3). i   E così anche i sistemi di verità. L'esistenza di un  numero di giudizì cocrenti connessi in sistema non  basta per avere da noi la ricognizione della verità.  li «sistema» per esser vero, deve anche aver valore  ai nostri occhi; la tendenza al «sistema» è parte  della tendenza più vasta all'«armonia attuale », 0  per lo meno ideale, della nostra esperienza. Il si-  stema non è semplicemente un tutto di consistenza  logico-formale, ma anche il prodotto di influssi ema-  <ionali. in vista di soddisfazioni emozionali. Perciò    nessun sistema è giudicato intellettualmente « vero »  se non è migliore — in rapporto alle nostre esigenze  -— di un altro, se non abbraccia e non soddisfa qual-  cosa di più che gli aspetti intellettuali astratti delle.    esperienza (4).    (1) 1d., ibid., p. 4-5. « Pragmatism essays to trace out the  actual «making of truth», the aciual ways In which discri-  _minations between the true and the false are effected, and  derives from these its generalisations about the metliod of  determining the nature of truth ». ?   (2) Id., Humanism, Essay III, p. di.   NI (3) Id., ibid. Cir.: Riv di Filos. Neo-Scol. A. II, N. 2, Spe-  cialmente p. 152 Sgg.  (4) ScuiLLer, J/umanism. Essay II, D. 42-50.       ‘36 La teoria della realtà e della verità    Vi sono dei sistemi che, nonostante la loro coeren-    za, non hanno valore di verità, perchè non TiMUON Π no e non risolvono un senso di disaccordo finale nel-    l’esistenza; tali sono i sistemi pessimistici (1); e n  sono delle verità, valutate come tali, per la loro effi-    cienza di armonia sebbene non siano connesse in si-|    slema (2). Non si dimentichi mai — ci avverte conti-    nuamente lo Schiller — che la nostra conoscenza èi  maleriata di inleresse, di desideri e di sentimento;    che la verità e il sistema della verità è il prodotto dei  mostri sforzi lelcologici (3). Da ciò risulla che il pro-  hlema della verità è essenzialmente psicologico, €  deve essere formulato così: « Qual’è la natura psi-  chica della ricognizione della verità? A qual parte  della nostra esperienza è applicata questa ricognizio-  ne?» (4) N Pragmatismo risponde : «La verità è una  ferma di valore; la natura psichica della sua rico-  gnizione è la valutazione » (3). « La valutazione della  nostra esperienza è un processo naturale ininterrotto  in una coscienza normale. Sponlaneamente, neces-  sariamente noi giudichiamo le cose « buone» e «cat.  live », «belle » e « prulte », «vere» e «false». È l’osi-  stenza di quesl’abito che fa sorgere le scienze nor-  mutive rivolle a dirigere e sistemalizzare le diverse  valutazioni (per esempio «l'estelica » per le valuta-  zioni del «bello» e del « brutto»; Peolica » per le  valutazioni del «buono» e del « cattivo »). Anche la    (1) 1d., tDid. «AI pessimismo in filosofia » lo Schiller consa-  cra il IX Essay del sno /umanism. Anche il « pessimismo, come  ogni sistenin, è un determinato atteggiamento di fronte alla  grande classe di tiudizi che sono conosciuti come giudizi di  valore a, « La Vila è adeguata all'ottenimento del fine supremo  dell'azione* Se St. essa ha valore, è degna d'esser vissuta; se  no, il suo valore è nullo e non merita d’esser vissuta. Nel pri-  Rpanraso abbiamo l'ottimismo, nel secondo il pesstalsmo  LA .    (2) Mumanism, D. 50,    (5) Specialmente là dove tratta del ri a e  Re ti el rapporto fra logica    (4) Humanism, Essay III, p. 54.    (5) «Truth is a form of a Value »..  Would be no «tru    ren    o na    er at    - * Without valuation there Ri  the at all» tv p. 55.    (4 4umunism, Essay II, p. 55. >    7 Il Pragmatismo . 37    logica è una scienza normativa che ha per fine di re-  golare e di ridurre a sistema le nostre valutazioni di  «vero » e di «falso » (1).   Come in ogni altra classe di valulazioni anche nella  valutazione della verità (2) l'inleresse umano è vi-  tale, il che vuol dire: che una verità ha conseguenze  (ciò che non ha conseguenze è senza significato), ha  una portata sopra qualche interesse umano, e che le  conseguenze debbono valere, debbono essere conse-  guenze per qualcheduno, in vista di un fine determi-  nato, cioè, devono essere «buone» e «pratiche ».  berciò, a tulle Ie asserzioni che prelendono di esser  vere noi dobbiamo intimare: « Mostrateci che siet>  buone di una bontà pralica, e vi riconosceremo pet  tali. Voi non avete una ragione intrinseca di verità;  noi dobbiamo altenerci alle vostre conseguenze: dal  frutto conosceremo l’ albero n. Una asserzione che  soddisfa un interesse umano pratico, che corrispon-  de al fini pratici dell'uomo è «vera»: è vero ciò che  è praticamente buono; è falso ciò che è praticamente  cattivo (3). 1 predicati «vero» c «falso» non sono  in fondo che indicazioni di valore logico, comparabili  come valori, coì valori «elici» ed «estetici» (4).   Similmente anche W. James: «ll Pragmatismo,  invece di considerare la verità intellettualisticamen-  le, cioè, come un rapporto puramente statico fra rap-  presentazione e oggetto, si pone, di fronte ad ogni  pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una  rappresentazione 0 un giudizio affaccino la preten-  sione di verita, noi chiediamo: Quale diffevenza con-  creta produce nella vita concreta di un uomo quel  tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà es-  sere vissuta? In che sì moditicherebbe il complesso  dell'esperienza se quel tal giudizio fosse falso (0.    3    (1) Id., bid. La parentesi è mia    |’ (®) Sarebbe meglio dire: «valutazione-verità », perchè que-  | Sta fla verita) non è che il processo della valutazione. Ingl,  | «truth-valuation ». ‘    | (8) Stud. in Hum, p. 5-8:             38 La teoria della realtà e della verità    vero)? Qual'è il valore della verità se noi la cambia:  mo în moncla di esperienza? » (1) ue   Per il Pragmatismo porre la questione è scioglier-   la: «Sono vere quelle rappresentazioni che possiamo  far nostre, cioè che possiamo far valere, lrasforma- —   re in forza e «verificare», sono false quelle che non   sono suscettibili di lule trasformazione in valore pra-   tico » (2). La verità di una rappresentazione non è   una proprietà immobile che le è inerente: la sua ve-   rità è un accadimento: una rappresentazione non   è vera, ma divien vera; è un divenire, è il progresso   della sua auloverificazione (der Vorgang ihrer Selb-   È stbewahreilung); 1 valore della verità non è altro  che il processo del suo farsi valere (3). E si fa va-  È: lere, e si verifica con le sue conseguenze pratiche,  con la sua utilità: anzi il farsi valere e il verificarsi  non sono in fondo che queste conseguenze (4).  Dalla definizione della verità come vulore logico (5) —  segue che lutte le verità debbono essere verificate.  Una rappresentazione che non vuole o non può sol:  tomettersi alla verificazione è già condannala. Essa |  può avere lull'al più una verità potenziale, senza si-  «| _°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o congetturale, e dipendente  “fl da condizioni non uvverate. Per diventare realmente          da  3 (1) Der Pragmatismus, VI Vor, p. 125. <   è» (2) « Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir uns aneigqneny   die wir gellend machen, in Kraft setzen und verifizierem hòn-  pe; nen, [alsche Vurslellungen sind solche bei denen dies alles  ("g nicht moglich ist», 1A., IUld., p. 125-126. È il Jaines stesso che  n sottolinea. :  % (3) Id., 126. E lo SCHILIER: «Che cosa erano le verità prima   p di venir scoperte?» La questione è oziosa, Se «vero» significa    «valutato da noi» è naturale che ogni verita diventa vera  quando è scoperta... Noi possiamo concepire tre stadi, mel  LA processo della verità: verità da venir fatta, verità diveniente,  i verità fatta. Il processo è unico e identico per tutte le verità a.  _ Stud. in Huni. p. 195-199. i    (4) JAMES. fui. SCHILLER, Stud, in Hum. p. 5. Non sono que:  Sei in fondo, che formazioni e syolgimenti del principio del   EIKCE. \   (5) È la prima definizione del Pragmatismo, secondo lo.  Schiller: «'The doctrine that lrw{hs are logical values» (Stud  in Hum.) p. 5. Me:            ati t 44                                            Il Pragmatismo 39    vera deve venir dichiarata e provata, e non si dichia-  ra nè si prova che nell'applicazione, nell'uso che 30.  ne fa: la verità di un'asserzione dipende dalle sue  applicazioni (1). Le verità astralte, come tali, non  sono verità. Perfino le verità aritmetiche derivano il  loro esser vere dall'applicazione all'esperienza.   Osservale per esempio ll’ enunciazione astratta:  22=4. Esso è incompleta. Noi dobbiamo, prima di  aderirvi, conoscere a che cosa si applicano 2 e 4,  poichè l’enunciazione non sarebbe ugualmente vera  applicata a due leoni e due agnelli; a due piaceri e  due dispiaceri, a due + due goccie d'acqua, ecc.  Così si dica delle verità tutte in generale (2).   Vi sono delle verità fuori d'uso, e vi sono delle  verilà che chiedono d'essere incarnate nella vita con-  creta. Finchè non operano nel mondo della esperien-  za immediala sono ambigue (3); solo la potenza e le  conseguenze del loro operare le tolgono all’ambi-  guilà mostrandole, con la verificazione esperimenta- M  le, vere o false. Le verità sono regole per l'azione;  ma una regola che rimane nei campi dell’astratto  non significa nulla, non regola nulla: il significato  d'una legge sla nelle sue applicazioni (4) ec ogni st  gnificato dipende dal proposito (5), perchè qualunque  applicazione della verità all'esperienza è in istretta  connessione con qualche fine il quale determina ta  natura dell'intero esperimento. Per ragione della di-  pendenza della logica dalla psicologia, ogni signifi-    (1) E la seconda definizione del Pragmatismo (ivi p. 6).    (2) Stud. in Hum. p. 9. ; Ria  ioè: sono in potenza alla verità € alla falsità. 0)  mind di questo AT delle idee astratte lo SCHILLER nana  consacrato un saggio intero: il V (Stud. in Hum): «The  ambiguity of Trutn» p. 141-162. >  (4) Secondo ALFRED SinGWicK_ — seguito in questo dallo |  ScuiLcer — le parole sot.olincate contengono l'essenza del med  todo |pragmatistico, e ne sono la terza definizione (Stud. in  Hum, p. 9). . ,  (5) Questa defin. del Pragmatismo risulta dalle due PD  denti. (Id., ibid.).    ib pi A    40 La teoria della verità e della realtà    cato è selettivo e teleologico: il giudizio logico è «va-  lutazione » (1). °   Resta da rispondere alla seconda questione: « A  qual parte della nostra esperienza è. attaccata la ri-  cognizione della verità? » i Re:  _Ciot: a che cosu riconosciamo o neghiamo noi 1l  valore di verità? Qualìi sono i principi direttivi nella  valulazione della nostra esperienza? È «vero» ciò  che è praticamente buono, sta bene; ma che cosa  chiamiamo noi «praticamente buono?» (2).    «La risposta a quesla questione — dice lo Schiller  — ci mette nel cuore siesso del Pragmatismo, ci  spiega in che senso il Pragmatismo professi di avere  un criterio di verità » (3). E la risposta non è diflì-  cile. Il nostro pensiero tende all’armonia e alla quic-  te del pensiero, a ridurre a sistema, con un lavoro  di selezione guidala dall’interesse, il complesso della  esperienza, a coordinare, in visla d’un fine, tutti gli  elementi della vilu: quindi è vero, (cioè buono, il  che è, per lo Schiller lo stesso) «ciò che armonizza  con le leggi proprie del pensiero e con tulta la nostra  esperienza anteriore » (4) e ci serve di base e di cen-  tro vitale per ulteriori esperienze. È vero ciò che ci  fa progredire. Il possesso della verità non è fine a sè  stesso, ma mezzo per la soddisfazione di qualche ne-  cessità della vita (5). La verità non è altro che la  via, per la quale noi siamo condotti da un fram-  mento dell'esperienza ad allri frammenti che mette  conto di far nostri (6). La verità è una guida all’a-  zione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in una selva  în pericolo di morir di fame. Scopro qualche cosa  che assomiglia ad una strada, immagino in fondo ad  Cssa una casa; mì melto in viaggio e mi salvo. La    (1) Stud, in Hum, Essay I e V, 9 e 154, passim,  (2) Id., ibid.   (3) Id., ibid.   (4) IZumunism. Essay JII, p. 57.   (5) JAMES, Op. €. VI, Vorl. 127.   (6) JAMES, Op. c. p. 128.    2°                                        Il Pragmatismo    |  I rappresentazione della casa è vera perchè è verifi-  \i cala dalla sua ulilità; mi salva facendomi prendere  | la strada che vi conduce (1). Questo semplice e per-  | severante carattere di « guida» che possiede e mo-  | stra una rappresentazione è il vero prototipo del pro-  cesso della verità. È vera quando, finche-e in quante  |                                       «conduce n: e si intende vera di verità reale; poten-  zialmente è vera la rappresentazione alla a condur- _  ve, falsa la inutlu.   ’lulto ciò sta bene. Ma un complesso di valutazioni  soggettive, individuali, che sono il prodotto di inte- da  ressi psicologici e mirano ad una soddisfazione s0g- —  gettiva, non può formare che un complesso di verità  soggellive, individuali: la mia esperienza è soltanto  n la miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto  valulazioni mie: come si esce dal soggettivo? non x  | siamo in pieno «solipsismo? » (2) No — risponde lo eo  Schiller. Nessun protagorcamisla (umanista), facendo na  dell'individuale il suo punto di partenza, intende fili  fermarvisi.   Egli sa che 1 giudizi individuali non sono che una  piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi.  Sa che l'uomo è un animale sociale e che la verità è  in gran parle un prodotto sociale. La verità non ‘si  salva finche rimane pura valutazione individuale: Ra.  bisogno di una ricognizione sociale, deve trasformar-  si in proprietà comune, E diventa sociale appunto  per lu sua utilità ed efficienza. Come nell’individuo        3 (1) 10, p. 19). — Anche lo ScuiLLer parla spesso della «con:  duciveness a «proprietà di condurre», come di un criterio di  Verità, Le «conseguenze pratiche» non sarebbero in fondo, che  questo « Hinfùhren» che permette poi uni specie di «previ-.  sione » di cio che è utile, Cf, a questo proposito: «La previ-  stone nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento A. I, Fa-  ‘scicolo II, 1907) di MARIO CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro: « Per  conseguenze pratiche» vanno intese le esperienze particolari   ‘che la dottrina o l'affermazione in questione permette di pre-  «vedere» p. 191. «Esperienze che costituiscono il criterio non   | solo della verità e della falsità ecc...» Id., ivid. -&  (2) Del «solipsismo» lo SCMILLER si occupa nel X Essay   (Stud. in Hum.) « Absolutism and Solipsism» 258-265. Per   | questione se «l'empirismo radicale» sia «solipsistico» ctr   ournal of Philosophy, vol. II, N. V e IX.    li    42 La leoria della verità e della realtà    Îl criterio dell'uso, della ulilità regola Ie valutazioni  soggellive, consolida e subordina i vari interessi ai  fini principali delia vila, così lo stesso criterio (del-  lVuso) fa una selezione lra le valutazioni individuali  e cosfruisce, con maleriale delle valutazioni scelle,  la verità oggelliva che ottiene la ricognizione sociale.  Ciò che non è socialmente ulile, elliciente, operativo,  presto o lairdi viene eliminato. L'utilità sociale è così  l'ultimo delerminante della verità (1). Protagora ha  detlo: «L'uomo è la misura delle cose ». 1 commen-  latori sì domandano: uomo si deve intendere in sen-  so individualislico 0 generico? Tutte e due le inter-  pretazioni sono esatte — dice lo Schiller. L'umani  smo di Proiagora era abbastanza vasto per esten-  dersi all'uomo individuale e agli uomini (2), Egli ri-  conosce dolie distinzioni di valore fra le diverse per-  cezioni individuali (3): fra i giudizi di valore indivi-  duali si stabilisce una selezione dei migliori, che so-  pravvivono agli altri e si consolidano in grandi siste-  mi di verilà oggellive accettabili da tutti (4). Ed ora  SI capisce anche come la verità è fatta (how truth is  made), «come viene prodotla dalle nostre operazioni  sui dali dell'esperienza umana. La conoscenza. cr'e-  sce in estensione e in fidalezza (trustwartiness) per la  fecondità e la buona riuscita del suo funzionamento,  per l'assimilazione e incorporazione di nuovo mate-  riale da parte dei complessi organici preesistenti di  cognizioni. I sistemi (come organismi viventi) sono  Im un conlinuo processo di « auloverificazione » di    (1) Humanism. Essay l1I, p. 58-50.    (2) «His Humanism Was Wide enough to em  and men», Stud, in Hum., Ess. JI DI 34. RIS a    (2) Nel Teeteto (16G-S) di Platone sì fa dire a Protagora che,  se le percezioni di uno non possono essere più vere di cuelle  MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il giudizio di  mo ignorante o rdinario sta È  saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35, sgg. melo ASI LUoO    (4) Humanism, p. 59: «Fra due teorie rivili noi accettiamo  come vera la migliore, quella che possiede «greater conduci-  Veness». Con questo criterio (sclusivamente sì C  astronomia copernicana, così semplice   troppo complessi. (Id., ibid.)       Il Pragmatismo 49    prova della propria validità dalle conseguenze e dal  potere di assimilare, predire, controllare fatti nuo-  vi (1). Ma, a simiglianza di quanto avviene nel pro-  cesso biologico, così anche qui assimilare significa  transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle  nuove, per la compenelrazione delle nuove, assu-  mono un aspetto dillerente e cambiano in realtà, in-  Irinsecamente poichè diventano più operalive ed effi-  cienli in causa della loro maggior coerenza ed orga-  nizzazione; ci conducono meglio ai nostri fini, acqui-  slano maggior capaciià di armonizzare le esperienze  future in reiazione a noi, al nostro interesse e ai  nostri desideri (2). In realtà siamo noi che facciamo  la verità. Dipende da noi l’accettare o il respingere  falli nuovi, muove esperienze: il fattore della sele-    ‘zione, è il nostro interesse, è la loro utilità rispetto    a noi. È questo processo di fare la verità è continuo,  progressivo e cumulativo. La soddisfazione di un  intento conoscitivo conduce alla formulazione di un  altro; una verità nuova diventa presupposizione di    ulteriori imdagini (3). I così all’indefinito: la conqui-    sla della verita assoluta, cioè della verità adeguata  ad ognì fine umano non è che un ideale, com'è pura:  mente ideale la verità stabile, immutabile, eterna (4).  Ogni verilà può esser mulala da una nuova espe-  rienza. La Verità non esiste: esistono le verità. « La  Verità con leltera maiuscola è un mito. In realtà esi-    stono nel mondo umano soltanto le verità, altrettante  quanti sono gli: uomini, cioè le rappresentazioni e le  affermazioni praliche di cose che non sono, ma di-    vengono, e divengono per il polere che l'io esercita su  di esse, lanto più eflicace, quanto più, con l’azione    esso passa dall'incosciente al consapevole ed al ri-    liesso (5). 4  (1) Stud. in Iuni., «The Making of Truth», VII Ess. 194-195.  (2) Id,, ibid. 23,   (3) «A new truth, when established, naturally becomes ti e   presupposition of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.) E,  4)Id,, Ess. VIII, par. 8, Pp. | ILEN  a GIULIO VITALI, Note pragmatistiche. (Rassegna Nazio ita   le, 18 Dicembre ‘1906, p. 646, S6g.). de          4h La leorìa della verità e della realtà    Qual'è dunque il senso accettabile della nola defi-  nizione della verilà: «accordo con l'oggelto, con lu  realtà? » «La parola accordo — dice James (1) —  comprende ogni processo mediante il quale da una  tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avve-  himento fuluro corrispondente ai nostri interessi v  bisogni, cioè utile alla nostra progressiva evoluzio-  ue» (#). IL nostro dovere, poi, di cercare e di ricono-  scere la verilà non è che una parte del dovere ge-  herale di cercare e di riconoscere ciò che torna conto.  Il tornaconto, contenuto nelle idec, è l’unica ragione  che ci obbliga di allenerci ad esse» 3). k lo Schiller:  «La risposla alla questione » Che cos'è la verità?  è la seguente: se si ha di mira il fallo psichico della  verilà-valutazione, là verilà può definirsi: «la fun-  zione finale (ullimate) della nostra allività infellel-  liva; se si ha riguardo agli oggetti valutati come  Veri essa è: quella manipolazione di essi che lì rende  Utili primariamente ad ogni fine umano, ultimamen-  le allu perfetta armonia della nostra vita intera che  cosliluisce Ja nostra uspirazione finale » (4).    $ 3. — La dottrina della realtà è affine a quella della  verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con essa.  ll principio umanistico di Prolagora è universale:  umano genera e informa lutto ciò che è; anzi...j ma  uscolliamo i due leaders del Pragmatismo.    Il Pragmalismo segua un passo in avanli nell'a-    niutusi della nostra esperienza è, quindi, un prog) sso  ln quella cognizione di noi stessi dalla quale dipende.  li-cognizione del mondo. ‘ale passo in avanti non è  Ineno imporlanie di Quello che, nella storia della fi-  losofia, ha fatto compiere alla questione cpistemolo-  logica la priorità sulla questione ontologica (5).    (1)-1d., {bid., Vorles, VI, p. 135-136.  (2) Id., ibid. e passim in tutta la medesima lezione.  ° (5) «Das Lolnende, das unsere wahren Ideen enthalten, ist  ner DES Grund, der uns verpflichtet uns an sie zu halten»    (4) SCHILLER, Humanism    » III, p. 60-61.  (5) Id., Ibid., p. 85. :    <>    at loin    | +    cat       ”    Il Pragmatismo : 45    Che cos'è la realtà? Così, cioè in lermini ontolo-  gici, era posta ia questione fino a Kant, Ebbene, fino  a tanto che non si melle in chiaro come la realtà  possa venire in noi, è impossibile qualsiasi risposta  alla questione; non esisfe, per noi, nessun reale se  non in quanto è conosebile; una realtà inaccessibiie  alla nostra cognizione è inutile e quindi si distrugge.  Perciò la vera formazione del problema metafisico è  questa: Che cosu posso io conoscere comc reale? (1).  La dollrina della reallà è condizionala dalla dottrina  della conoscenza; la ontologia suppone come fonda-  mento la epistemologia: ecco quella che Kant chia-  mava: «la rivoluzione copernicana in filosofia ».   Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora  il Pragmalismo rispello alla formula epistemologica.  lisso dice: ta nostra conoscenza non è una operazio-  ne meccanica di intelletto puro. spassionato: i nostri  interessi ci impongono le condizioni del rivelarsi a  noi delle reallà. Questa, infalli, ci rivela soltanto  quegli aspelli che sono termine di un nostro deside-  rio attuale, di una tendenza a conoscere: tutti gli  altri sono per noi inconoscibili e quindi irreali (2).    (1) Id., Ibhid., p. 9    (2) Il BERGSON +- il rappresentante, in Francia, della Philo-  sophie nouvelle — scrive: «La vita esige che noi apprendiamo  le cose nel rapporto che hanno coi nostri bisogni. Vivere con-  siste nell'agire. Vivere significa accettare degli oggetti sol-  tanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan 1908, « Noi  cerchiamo fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o  queto, in qual genere noto rientra, e quale specie di azione 0  di attitudine dovrebbe suggerirei (Introduction a ta Méta-  pliysigue). Cfr. anche La cultura dell'anima, Vol. 8. ENRICO  RerGSON: Lu filosofia dell'intuizione, trad. del PAPINI, p. 43.   Il Bergson è pragmatista? Risponda lui stesso: « Bisogna  distinguere due maniere profondamente differenti di conoscere  una cosa... la prima si ferma al relativo, l'altra ragglunge  l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione per simboli, per  concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno all'og:  getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di simpatia  intellettuale per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto |  per coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenzi  d'inesprimibile; con l'assoluto »... «La prima nasce dalle esi-  genze della vila pratica e non è filosofica, ma empirica: lil  seconda nasce dall’affrancamento dagli schemi pratici, dal  concetti-ctichette ed è quella per cui è possibile la vera meta-    46 La teoria della verità e della realtà    Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se non  ciò che è oggetto di una nostra tendenza, di un no-  stro desiderio e volere; e non si desidera, non sl  vuole che il bene. Dal che si inferisce: nè la questio.  «me di fatto (ontologica), nè la questione di conoscen-  3a (cpislemologica) sono possibili a considerarsi in-  — (ipendentemente e senza coinvolgere come loro base  la questione di valore (psicologico-etica) (1). Le nostre  | valutazioni pervadono la nostra esperienza tulla  «quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni cogni-  zione. Perciò la verità della formulazione epistema-  logica del problema della realtà è incompleta finchè  «non realizza, tutto quello che è implicito nella cogni-  zione nostra: cioè il desiderio, la tendenza, l’inte-  SEEGS 3  La completa il Pragmatismo così: Che cos'è la  realtà per uno che aspira a conoscerla? «Reale» si-  gnifica: reale per qual proposito? per qual fine? per  qual uso? (2). È la «volontà di conoscere » che pons  la questione e quindi non potrà venir risolta che in  termini della volontà di conoscere (3). Ecco la spie-  | gazione. della diversità di dottrine che intorno al  «reale» ci hanno dato le scienze e le filosofie. La di-  x rezione della sforzo determinata dalla «volontà di  * conoscere» entra come fattore necessario e isradica-    IN                Di  ar  v    fisica, cioè la cognizione dell'assoluto » (Ibid.} passim). E an-  cora: «Il faut s'habituer à penser l’'Étre directement, sans  faire un détour.. Il faut tAcher ici de voir pour voir er non  plus de vor pour agire. (L'Evolutlon creatrice, p. 323).   JI Bergson riedifica sulla intuizione il tempio dell'Assoluto  che prima aveva fatto crollare dimostrando l'inanità dell'ana-  list, della cognizione per idee astratte. Poco importa che non  ci sia riuscito. (Cfr.; La filosofia di Enrico Bergson di Gius.  PREZZOLINI, Rocca S. Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA, L'intui-  zionismo contro la filosofia, La Cult. Filos., A. TIT, N. TIT ecc...)  La distinzione delle due differenti maniere di conoscere; in-  tuitiva (metempirica) e analitica (empirica) spiega l'apparente  inconciliabilità dei passi citati e d'altri ancora,    (1) Z/umanism, I, p. 9-10.  (2) Id., Ibil.    (3)... the answer... comes in terms of the will to know which  puts the question» Ibid., p. il.       Il Pragmatismo urti    . bile (ineradicable) in ogni rivelazione della realtà a  nol.   i La risposta alle nostre questioni dipende dal loro  carattere, ma questo dipende in tutto da noi. Siamo  noi che le poniamo così e così; l'iniziativa è del tutto  nostra. Dipende da noi il consultare l'oracolo della  nalura o l'astenercene; dipende da noi il formulare  le nostre domande alla natura. Se la domanda è  falla bene la nalura risponderà; se è fatta male non   risponderà, e noi dobbiamo ritentare la prova (1).   ci Che cos'è dunque la realtà? Procediamo -con or-   dine. Vediamo prima di lutto quali caratteristiche at-   « lribuiscano alla realtà le scienze.   . Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è trattata   nelle scienze, la realtà presenta i seguenti caratteri:    a) non è rigida, ma plastica e capace di sviluppo.    h) non è reale assolutamente e incondizionatamen-  le, ma relaliva alla nostra esperienza e dipendente  dallo stato della nostra cognizione.    7.6) La concezione che noi abbiamo della realtà cam-  bia e perciò:    d) riduce spesso all'irreale ciò che è slato accettalo  lungo fempo come reale.       e) Una «realtà iniziale» (come una «verità ini-  ziale») è reclamala da ogni cosa sperimentabile: è  necessario, CENCI un principio selellivo che ci serva  come di criterio a distinguere fra «realtà iniziale »  e «realtà reale » (2).    (1) «M vecchio oracolo ammonisce: ogni cosa ha due ma-  Michi: bada di prendere quello giusto ». Emerson, American  È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ PASCOLATO. « La natu-   ta, quindi non risponde sempre, a nostro piacere :... « Natura  Mon nisi parendo vincitur», ha seritto Bacone ». Si noti bene   Questa confessione dei pragmatisti: vedremo poi se è in corri.   spondenza con altre loro asserzioni.   (2) SCHILLER. Stud. in Hum. Essay VIII, p. 214. Vedremo  tto Ja differenza fra realtà «iniziale» (primaria) e realtà  reale». :  VELA         i                    48 La teoria della verità e della realtà    Contro la dottrina scientifica il Razionalismo af-  ferma: «La reallà è immutabile, è finita e completa    . da tutta VPeternità (1). Essa è una perehè ha un fine    uno, forma un sistema, narra un'unica storia (2).  La nostra esperienza della realtà è mulevole come  la nostra cognizione della verità, non perchè verità  e realtà divengano, mutino, ma perchè la esperienza  dell'una e la cognizione dell'altra sono processi psi-  chici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e Realtà  sono indipendenti da noi: noi le scopriamo, cono-  scendo, non le fucciamo. La realtà è-stalica, rigida,  uon migliorabile; è e sarà quello che è stata; non  diviene 4).   Il Pragmatismo si pone dal punlo di vista delle  scienze. Per csso la reallà assoluta è futile e dan-  nosu come la verilà assoluta per le medesime ra-  gioni. Lu concezione della realtà assoluta non entra  nelia nostra cognizione attuale della realtà (5); non  e conoscibile, il che è quanto dire: non esiste. Non  esiste la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre  esperienze, che crescono e decrescono. Fingiamo che    le realtà ora conosciute e accetlate siano un milione :    tsse non esauriscono tulle ie possibilità dell'univer-  SO: VI possono esistere accanto ad esse allri dieci  milioni, capaci di essere scoperti e riconosciuti-come  lalî se noi applichiamo certi esperimenti che sono in  mostro potere: molle realtà in potenza, cioè irreali,  al presente, possono venir realizzale dai nostri sfor-  zi E viceversa: molle delle realtà conosciute pos-  sono benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate ir-  leali e rigellale (6).   Non v'è nulla di assolutamente posto. La realtà  come la verità, diviene senza posa (7). La natura    (1) James, #0id., VI, Vorl. p. 143   (2) Id., ibid., IV Vorl, p. ot.   (3) Id., ibid., D.. 143.   (4) Id., tbid., passim.   (5) SCHILLER. Stud. in Juri, VITI D. 219,  (6) Stud. in Mum., p. 218.   (7) 1d., ibid.    È lui che sottolinea.    iii    - — —_ _—_ Sali    I       Il Pragmatismo 49    delle cose non è delerminata ma determinabile come  quella dei nostri simili. Prima del nostro esperimento  su di essa è indeterminata non solo per la nostra  ignoranza (soggettivamente), ma da ogni punto di  vista, cioè anche realmente (oggellivamente); si de-  termina sotto i nostri esperimenti come il carattere  umano. La nozione del «fatto in sè », come quella  della «cosa in sè, è un anacronismo filosofico (1).   Noi chiediamo allo Schiller: su che cosa facciamo  i nostri esperimenti se la reallà non c'è e se è di  pendente da noi?   Schiller risponde: Noi ammelliamo bene, a guisa  di postulato, una base iniziale di fallo, come condi-  zione dei nostri esperimenti (2), ma quesla prima  base è affatto indelerminala e plaslica: può diven-  lare tullo quello che nvi vogliamo che essa diven-  li {8). Fra le infinile possibilità noi possiamo sce-  gliere e realizzare la migliore (4).   Noi chiediamo ancora: «qual'è la natura delia  realtà iniziale prima, della base di fatto dei nostri  esperimenti? »   E come può ammetterla il Pragmatismo se essa  sfugge alla nostra esperienza, se non è conoscibile?»   Schiller risponde: «La difficoltà di concepire nel  Pragmalismo l’accellazione del falto come base non  dev essere traltala come obbiezione ai metodo prag=*  matico, ma come un mezzo per mettere in rilievo  lulto il suo significato.   Dalla pertrallazione di essa potrebbe ricever luce  la distinzione importante tra realtà che è «fatta»  soltanto per noi, soggettivamente, cioè «scoperta »,  e ciò che noi supponiamo che venga «fatto » real    (1) Humanism, p. 12 in nota  (2) Stud. in Mum. vp. 428-XIX. x    -    (8) EMERSON scrive: «Com'era plastico e fluido nella mano    di Dio, così Il mondo è in mano nostra». Queste parole sem:  brano un commento alle parole dello Schiller: « Noi possiamo  quanto può Dio nello schema intellettualistico di Leibniz».    «E il nostro dovere e il nostro privilegio di cooperare nella    formazione del inondo », ibid.  (4) Stud. in Hum. p. 219, VIII.    Pragmatismo - 4          50 La teoria della verità e della realtà                           mente, oggettivamente, in sè (I). Che noi facciamo  tale dislinzione è chiaro, ma perchè la facciamo? Se  tanto ìl soggettivo come l’oggellivo « facimento della  rcalla» {making of reality) sono il prodotto dello  slesso processo cognoscitivo, sotto l'impulso degli  sforzi soggellivi, come può sorgere o mantenersi, da  ullimo, quella distinzione? Ebbene: anzi tutto è chia-   «ro che l'accellazione del metodo pragmatico nè ci   ; costringe ad ignorare quella distinzione, nè ad affer-   i mare «the making of reality » in senso oggettivo. Sia   È può benissimo concepire quel facimento come pura-  | mente soggettivo, solo in rapporto alla nostra co-  quizione della realtà e punto in relazione alla sua  esistenza abituale. Il Pragmatismo non fa della me-  lafisica, ma della epistemologia: si può essere prag-  mualisli in epistemologia e realisti in metafisica (2).  Sia che si ammetta, sia che si neghi che la realtà è  fatta da noi anche oggettivamente resta sempre vero  che sono necessari i nostri sforzi per iscoprire la   _‘—‘vcealtà, che i nostri desideri, i nostri interessi deb-   è bono anticipare le nostre «scoperte» e farci la via  id esse e che, perciò, la nostra concezione del mondo  .clipende sempre dalla nostra selezione soggettiva di  Giò che cì inleressa di scoprire nella tolaliltà dell’esi-   stenza (3). }   .__,Noicì proponiamo i nostri fini, noi scegliamo i no-  Sti mezzi; noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel  Jlusso omogenco degli eventi (4).   Per noi la realtà iniziale è pura potenzialità, come  la. verità iniziale è «Je» {materia prima) di tullo  | ciò che è deslinalo a diventar reale (5). È un concetto   # Ride: un: punlo, di appoggio, e di partenza delia   ; U.C0E e; è la possibilità indeterminata di   __ lutto cio che sarà, di lutto ciò che noi facciamo, co-   nuscendo: ogni realtà attualmente riconosciuta si                              () Id., ivu., p. 428, XIX Gi    (2) Id., ibd., p. 42) «in nota»,  (3) Id., 40id., p. 499-XIX «in nota»,  i) Jd, ibid, IN p. 299.  (9) Jd., ibid., XIX p. 222.    (6) Ia., ibia., p, 12 in nota, È    Il Pragmatismo 51    deve concepire come evoluta dal processo e nel pro:  cesso conoscitivo nel quale ora la osserviamo e come  destinata ad avere una storia (1). Per la teoria prag-  inalica della conoscenza i principî iniziali sono lel-  teralmente dei semplici termini @ quo, scelti varia-  mente, arbilrariamente, casualmente, nella speran-  sa e nel tentativo di avanzare verso qualche cosa di  meglio (2).   lullo ciò che è, è reale. Bisogna distinguere fra  vealtà «primaria» (primary reality) e reallà reale  (real realtty). La realtà primaria è semplice domanda  di divenir reale: è la realtà non veryicata © com-  pele anche alle «apparenze ». Non c'è distinzione nè  criterio di distinzione a priori fra apparenza e realtà.  La distinzione sorge soltanto quando la mente, mos-  sa dall'interesse, dal desiderio di operare su di essa  passa a controllarla (3). La reallà «primaria » che ri-  sponde alle noslre domande interessate diventa real-  la «reale»; quella che non risponde ad esse si ma-  nifesta come apparenza. La realtà «reale» non è  che la realtà primaria passata a traverso il fuoco del  criticismo esperimentale e promossa a un grado su-  periore (i). I poiche gli interessi crescono. e variano  continuamente e i propositi sono continuamente dif-  terenziati, anche la realtà « reale » cresce in comples-  stla, viene dillerenziala in serie, le serie si ordinano  in sistemi, i sistemi vengono coordinati e- subordi-  nati fva loro (5).   E così all'inciciimto. Il processo della nostra co-,  suizione della realtà (= della nostra creazione delle  reullà) si estende dal caos assoluto fino alla saddi-  sfuzione assoluta (6).    (1} 14. td.  (2) ju., tbid., p. 439.    (3) Id., IX, p. 233-234, «Watever is, is «real» ls what we  begin with,..    (4) Id., p. 244... «real» reality which has survived the fire    of criticism and been promoted to superior rank. - Le conse- %  | guenze provano la realtà come provano e fanno la verità,    (6) Id., ebid., VIII 221.       SCART ROTA    À ge    52 La teoria della verità e della realtà    La realtà è plastica. Forse (1) la lasticilà del reale  dipende (anche) da una vena di indeterminazione, di  libertà che corre per l'universo: questo giustifica il  nostro trattamento delle idee come di forze reali e  Passerzione cho il nostro fare la verilà è necessarla-  menle il /ure ia realtà (2). Conoscendo facciamo la  verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva.  della nostra esperienza «reallà» e «verità» cresco-  no pari pussu (3). Realtà significa « realtà per noi»  precisamente come verità è «verità per nol». Noi  assumiamo come «reale» e accettiamo come « fatto »  ciò che giudichiamo come « Vero » (4). E il vero è  il bene, l'ulile; l'elica, dunque, è la base della me-  lafisica e della logica.   È il James: « Keallà è ciò di cui le nostre verità  debbono dar ragione, debbono controllare. Da que-  slo punto di visla la corrente delle nostre sensazio-  ni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci  sono imposte, ci vengono non si sa donde. Non ab-  biamo nessun controllo sulla loro natura, sul loro  ordine e sulla loro quantità (5). Esse non sono nè  vere nè false, ma semplicemente sono. Sollanto ciù  che noi diciamo di esse, i nomi che diamo loro, le  teorie intorno alla loro natura, al loro essere, ai loro  rapporti possono essere veri o falsi.   Il secondo elemento della realtà è costituito dai  rapporli tra le sensazioni e le immagini loro nella    4 (1) Siamo in piena metafisica e come! Non solo la livertà  è nel reale ina anche la cognizione. « L'usare e l'essere usato  implicano «conoscere a cd cssere conosciuto («to use and to  be used includes to know and to be know»). La nozione della  « materia » morta... non trova più favore nella scienza mo:  derna » — «Bul is not this sheer hylozolsm?2 Non importa:  l'umanismo è largo: non indietreggia davanti alle parole « ilo-  zoisino » 0 « panpsichismo » posto cne siano utili alla interpre-  tazione del basso (inferiore) in termini del superiore, « Sebbene  non sia che un metodo, tuttavia esso inclina a questa 0 &  quella metafisica secondo che meglio corrisponde a’ suoi ca-  noni fondamentali ». -— Stud, in Hun, p. 422-4na.   (2) Id., p. 427.   (3) Id., p. 426.   (4) Id., 20i4,    (5) JAMES, iUid., Vorl. VII, p. 155. vr arde    è RS  | eee VI                       Il Pragmatismo    nostra coscienza. Di essi alcuni sono variabili e ac-  cidentali; p. es. quelli di spazio e di tempo, altri sono  sempre uguali a sè slessi ed essenziali perchè si fon-  dano sulla intima natura degli oggetti corrispon-  denti.   Gli uni c gli altri di questi rapporli vengono perce-  pili immedialamente: sono «falli ». Tultavia la spe-    cie di falli più importanti per la teoria della cono- Fi  scenza è l'ullima, perchè comprende le relazioni e- sas  terne, le quali vengono apprese ogniqualvolta gli Da  i oggelli sensibili sono messi in rapporto fra loro e  | debbono essere sempre riconosciute dal pensiero lo- e >    gico-matematico.  : Il ferzo elemento della realtà consta delle verità È  antecedenti che debbono esser prese in considerazio- es  ne in ogni nuova ricerca: questo elemento ci oppone    | molto minore resistenza degli altri due: finisce quasi  ty sempre col cederci il passo (1).  i Ora, sebbene questi elementi della realtà siano un    po’ fissi, tuttavia, operando in essi godiamo di una  cerla libertà. Le sensazioni, p. es., sono, è vero; il  loro essere non dipende da noi; però dipende da noi,  dal nostro interesse di rivolgere l’attenzione a que-  ste più tosto che a quelle; dipende da noi di tener + a  conto di alcune e di tralasciare le altre; dipende da  noi di dare, nei nostri giudizi, una importanza de- +  cisiva alle prime 0 alle seconde (2). LS  Noi leggiamo le stesse cose diversamente secondo   il punto di vista da cui le guardiamo. La battaglia  di Waterloo è considerata come riltoria da un ingle-  ‘se, come sconfitta da un francese. Così l’ottimista.  legge nell'universo la parola « vittoria», il pessimi.                (1) Id., îbid, Come? tra le verità antecedenti vi sono ancl  le relazioni elerne fondate sull'intima struttura dell'oggett  mi cedono il passe anche queste? Ma il loro valore non è i  discutibile? non formano esse la struttura del nostro pensiero?  ‘Non deve riconoscerle sempre il pensiero logico-matematico?  À parte questa incoerenza, è certo che il James non sl pre  «senta con le audacie quasi spavalde dello Schiller: a vol   sembra di trovarsi, leggendolo, davauti a un realista e intel  | lettualista autentico. Cfr. « Revue Néo-Scholastiguev, Vol. 15,  «Bulletin d’Epistemologie » p. 278-298. =  (2) James, î'2d., p. 156,                     pers    i: La teoria della verità e della realtà       È, sta la parola «sconfitta». «La esistenza della real- ©  tà appartiene (ad essa) ma il contenuto suo di-  pende dalla nostra scelta, e la scelta dipende da   | noi» (1). La realtà è muta. Le sensazioni dei rap-   (SAh porli loro non ci dicono niente intorno alla propria  natura: siamo noì che parliamo per loro. Noi rice-   2 viamo il blocco di marmo, ma siamo noi che vi scol-   piamo la statua. Giò vale anche per le parli « eterne »   della reallà. Noi scompigliamo le nostre percezioni   Mei rapporli inlrinseci e le ordiniamo a nostro pia-   . cere; le classifichiamo in serie, le raggruppiamo in  classi, consideriamo ora l'una ora l’altra come fon-  damentale, finehè le nostre credenze formino quei  sistemi di verilà che conosciamo solto il nome di lo-  gica, di geometria, di aritmetica. Im ognuno di quesli   ‘sistemi la forma e l'ordine è evidentemente opera   (umana (2). È difficile parlare di una realtà indipen-   «| ‘dente dal nostro pensiero. Essa si riduce al concetto   di ciò che è già nel campo dell’esperienza, ma non è   | @ncora denominato, oppure all'assolutamente mulo,   o a, un limite puramente immaginario della nostra   coscienza (3). Ad ogni modo è inaccessibile, inaffer-   | rabile: quando crediamo d’'averla còlla noi ci tro-  viamo lra Je mani un semplice surrogato, una crea-   . lura del pensiero umano anteriore che ce l'ha rega-   lala per il noslro uso e consumo (4). La corrente   delle sensazioni c'è, chi lo nega? Ma ciò che noi di-   ciamo di quel flusso è creazione nostra dal principio   sino alla fine. Noi condensiamo la corrente plastica   | în cose, a nostro capriccio: noi creiamo i soggetti e   1 predicali*dei nostri giudizi veri e falsi: tutto cià   «che è, è frutto della nostra elaborazione. «Il mondo   «| non è — come vogliono i razionalisti — l'edizione in                       (1 1a. dbig. « Die Existenz der Wirklichkeit gehòrt ihr, aber    hr Inhalt hingt von der Auswal ‘  RO vahl, und die Auswahl hangt    (8) 1d., p. 159.  | (a) Ia., ivia.       Il Pragmutismo 56    folio infinita, l'edizione di lusso elernamente com-  plota che le coscienze individuali non riescono a de-  cifrare nella sua interezza e rifanno in lante piccole  edizioni finite, piene di errori di stampa, più o meno  deformate e mutilate; ma è un’edizione non ancora  perfetta, che viene completandosi a poco a poco spe-  cialmenle per l’attività degli esserì pensanti » (1). E  questi la stampano nelle loro edizioni; la plasmano  nei loro schemi connoscitivi, in mille modi diversi,  secondo i loro diversi fini. E quei modi son lutti veri,  hanno tutti lo slesso valore di verità se rispondono  al fine per il quale furono elaborati. L'anatomico con-    sidera l'individuo come un organismo: la sua realtà  sono i suoi organi ; l'istologo vede in esso un comples- È  so di cellule, il chimico un insieme di molecole (2). Il n    numero 27 si può considerare come la terza potenza  di 3, come il prodotto di 3 e 9; come la somma di  26 + 1, come 100 — 73, ecc. ecc. Noi siamo creatori nel 0,  conoscere come nell’operare. Il mondo aspetta la sua  forma _finale dalle nostre mani, Così il Pragmatismo  apre nuovi orizzonti alla forza divino-creatrice del-  Puomo (3); così il pensatore è rivestito di dignità    LI    nuova piena di responsabilità. 6 i  Noi «solleviamo ad altezze nuove la realtà pree- »  sistente » se sappiamo credere, agire, lottare: la fede    ci fa salvi, ci porla alla conquista dell'universo, ul  niglioramento progressive della realtà (4) La no:  stra sorle è nelle nostre mani! Lungi da noi il fata-  lismo, il quielismo, l’indifferentismo: la vita è un ar:  cobaleno: vi troviamo tutti i colori, a nostro grado:  la noslra azione ve li crea (9). a    VP    | (1) 10. ibid., pi 165... Cfr.: La cultura filosofica, N. 2, Pi 124, >  dove ho tolta la traduzione delle parole qui citate.    i (2) Id., p. 161-161; passim.    Ù (8) La frase è del PAPINI, «der Fiihrer der italienischen  V80 Pragmatisten » come lo chiama il JAMES, ibid., p. 104. NP».  int (4) Le parole sono prese dall'EuckeN ima non si ha alcuna  e) citazione di opera; EUCKEN parla di una « Erhohung des vorge-    i fundenen Dascins » -- p, 163. ine.  (5), James, p. 170 sgg. SCHILLER: «like a rainbow Life glitters  ti în all the colours». /fum, 16, \?,                    uindi, o uomini, imparale a conoscere voi stes-  vi consapevoli delle vostre vocazioni; in-  allargate le vostre finalità: sollevatevi  i | dominazione in dominazione; sappiate volere e  sappiate creder?, cioè uermare con tutto il vostro  essere che le cuse stanno realmente come voi le po-  ele, © le cose vi ubbidiranno, e la fede \} farà salvi,  ioè vi permetterà di conseguire i. fini della vostra  esistenza. Sappiate che dopo lutto la verità non esi-  ste in sè; ma parlate, pensale, agile come se real  ente fosse tal quale voi la vedete, voi non servi,  na padroni suoi © suoi fallori» (1).   ‘Questa è lu dottrina della realtà sostenuta dal  agmalismo.                                    INI.  LA RELIGIONE ‘NEL PRAGMATISMO       “Sommario: x l. Le preoccupazioni etiche e religiose. —  $ 2. L'esistenza di Dio. — $ 3. Il concetto di Dio.  — \ 4. Religione e religioni.    g. 1. — Esporre con una certa ampiezza le dottrine  pragmaliste, senza fare un posto speciale al modo  con cui in esse sono presenlali e risolti i problemi  religiosi, sarebbe una mancanza grave.   — Chi ha studiato o lello con amore, le opere — al  meno le principali — dello Schiller e del James, sa  “che, allraverso ad esse, si sentono passare, come  n fremito, più o meno distintamente, due preoccu-  | pazioni; luna, più generale, che tulto pervade, tulto   “colora, tulto fondamenla: la preoccupazione etica:  l’altra, più speciale, che nasce dalla prima come  condizione necessaria o postulato del coronamento  dei valori e delle esigenze eliche: la preoccupazione  — religiosa (I).   È vero che questa (la religiosa) nello Schiller non  è così intensa e così manifesta come nel James; lo    (1) Per questo io credo che, se si può e si deve parlare di  nn pragmatismo religioso (e così pure di uno epistemologico,  metafisico ed estetico) come di un complesso di applicazioni  del principio del Peirce alla religione (alla metafisica cecc.),  non si può invece parlare di un pragmatismo etico, come di  lina specie 0 soltospeci® del pragmatismo: Tutto il pragma-  ismo è etico: l'etica è alla base della epistemologia, della me-  a Lab della SESLIgione °, della IOICUCE Di quest'ultima non  È ames e Jo Schiller non se ne son Ù A   articolare, Il non ne sono occupati    5          0 58 La Religione nel Pragmatismo    Schiller — il véro filosofo del pragmatismo, sebbene  meno popolare del James — ha lavorato sopratlulta  a stabilire e consolidare la base stessa dell’edificio:  il carattere, cioè feleologico-morale di ogni nostra at-  tività e di ogni prodotto dell’altività umana: tutta-  via sono numerosi i saggi nei quali egli si occupa  ex-professo, più o meno largamente della religione,  V, e da per tulto si sente che per lui la religione vale.  - Del resto: non ci dice lui stesso, espressamente, che  il pragmatismo «non è soltanto un movimento che  riguarda un insieme di dottrine tecniche intorno al  7 problema della conoscenza, ma anche un tentativo  di determinare i rapporti tra «fede, ragione e reli   . gione?» (1).   Quanto ai James è nolo — per la sua stessa con-  fessione — che la prima applicazione da lui falla del  principio del Peirce fu un'applicazione ai problemi   KS. religiosi (2). Ed è noto del pari che, dal giorno del  ; suo primo discorso pragmatista all'Università di Ca-   È lifornia (1898) fino all'opera: « A _Pluratistic Univer-  | Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le varie  forme dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism »,                             lulte le volte che gli si presentò l'occasione, ha posto \  e risollo, a modo suo, i più fondamentali tra i pro- i  blemi della religione. Il James fu un? anima carat- -  leristicamente religiosa. Dice di lui il Boutroux: :    «Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per  il inisticismo del grande pensalore svedese Swe-  dlenborg, il principio del quale era la relazione tra’  gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa  «dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la  opera del James» (3). Egli lrovava «la forza e lu  pace del cuore e dello spirito nella fedeltà alla crc-  denza che fuori del mondo del nostro «pensiero co:  Sciente ve ne sono altri, ai quali noi allingiamo le  energie capaci di arricchire e di trasformare la no- 4             (1) Studies in Humanism, Essay XVI, p.  (2) Pragmatismus, p. 29.    |. 13) E. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5  Novemira, 1919, Db, isa ( © Metaph. et de Morale,    349, SEE.    culi *       Il Pragmatismo 59    stra vila» (1). «Chi sa — scriveva egli, conchiuden-  do un’opera classica sulla religione — se la fedeltà  di ogni uomo alle sue umili credenze personali non  possa aiutare Dio stesso a lavorare più efficacemen-  {e ai deslini dell'universo? » (2).   Aggruppo l'esposizione intorno a questi tre punti:   1.) Esistenza di Dio; 2.) Concelto di Dio; 3.) Reli-  gione e Religioni.    «2. — Cominciamo col James,   La storia della filosofia è in gran parte la storia  del conflitto dei temperamenti umani, Ogni filosofia  è l’espressione, il riflesso del carattere intimo del-  l'uomo, la traduzione in idee del lemperamento; ogni  intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più  nè meno che un complesso di reazioni del carattere  umano assunte, o a propria insapula, o deliberata-  mente, in faccia alla realtà (3). Questo spiega il sor-  gere dci sistemi e il batlagliare continuo dei filosofi.   Noi possiamo distinguere due principali tipi spi-  rituali d'uomini aventi caralterisliche affalto diver-  se: l'uomo dalla (empra tenera (lender-minded) e  l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè il tipo  simpatico c il cinico (4).   Mettele questi due tipi profondamente diversi in  faccia all'universo e chiedele loro una dottrina: a-  vrele da una parle il malerialismo sensualista, con  lutto il suo contenuto di scetticismo e di pessimismo,  come traduzione del temperamento rude e cinico;  dall’altra lo spiritualismo con contenuto ottimistico,  quale espressione deì tipo dalla tempra tenera.   L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto  dei due lemperamenti malcrialistico e spiritualisti    co assumono tulto il loro speciale rilievo di opposi- |    zione davanti al problema dell’esistenza di Dio. Il    (1) L'Expérience religleuse, p. 436.  (2) /ui, p. 437. :    Li Mi  (3) JAMES, Der Pragmatismus, I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ;    Universe, p. 20  (4) Der Pragmatismus, ivi, p 7: A Plural. Univ. p. 29. »    -    ?    60 La Religione nel Pragmatismo    complessa delle cose che vediamo, che esperimentia.  mo e che abbiamo convenuto di chiamare « mondo »  sono il prodotto della materia o di Dio esistente fuo-  ri e sopra la maleria? «La materia produce tulte le  cose 0 e'è anche un Dio?» (1). Ecco il problema. Il  quale non sarà risolto mai — e la storia è là a di-  mostrarlo — in base alle vuote, astratte e. sottilis-  sime discussioni sull'essenza intima della materia €  sui suoi caratteri osservabili o su pretese visioni h-  telleltualistiche de! Dio che è in questione (2). Ogni  speculazione è impotente — di fronte al materiali-  smo ateo — a dare una solida base razionale alla re-  ligione: i due grandi (entativi sistematici di dimo-  strazione dell’esistenza di Dio — il teismo scolasti-    ‘co e l'idealismo trascendentale — hamno fallito al  loro scnpo.    ‘Tulli conoscono gli argomenti classici della filo-  solia Scolastica. Ebbene, Hume, col cacciare per  sempre la causalilà dal mondo fisico, ha reso impos-  sibile ogni inferenza dal creato a una causa prima;  del resto l'idea di causa è troppo oscura per servire  di fondamento a tutta una teologia. Dopo Hume,  Kant ha dimostralo che, Dio, l'immortalità e la li-  berlà, non avendo alcun contenulo sensibile, sono  parole vuole di-senso dal punto di vista della cono-  scenza (corica, e ha fatla giustizia una volta per  sempre della vecchia leologia, che ora non regna che  nel volto e non è difesa che da qualche ritardatario.  Il darwinismo ha dato il colpo di grazia alla prova  per mezzo delle sue cause finali. L'ordine e il disor-  dine che noi troviamo nel mondo non sono che in-  venzioni umane: chiamianio ordine ciò che corri-  sponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne    (1) I metodo praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (tra-  duzione PAPINI).    (2) Occorre far notare che questa visione degli ontologi non  è da confondersi con la ?n!uizione del sentimento, intuizione  sorda e vivente, della «philosophie nouvelle»? Vedi: PIAT,  Insuffisance des Philosuphies de l'Intuition, p. 129, Sg.    Il Pragmatismo 61    allontana (1). Finalmente il pragmalismo, cacciando -  dal mondo la necessità logica, ha tollo ogni speran-  a di una soluzione per coucetti del problema in que-  stione, di modo che le prove dell’esistenza di Dio non  sono valide che per coloro che già credono in Dio    i  e debbono trovare degli argomenti per difendere tale 3  3  i  A       “pre credenza (2).  ; L'idealismo trascendentale non è più felice nel suo  SG tentativo di dare una base solida alla fede: vedremo  quali assurdilà sono implicite nel concetto di una  coscienza concrela infinita che sarebbe l'anima de! x  - inondo: vedremo a che si riduce l'Assoluto. e  «E allora? Quale altra via rimane aperta per risol  vere il problema? Già nell'opera : La volontà di cre-  dere, il James assegnava ai molivi emozionali un  valore definitivo, nel casu che l'intelletto non poles-  E se offrire delle ragioni sulficienti per l'adesione a  i doltrine di caraltere religioso. La via è aperta: met-  liamoci in essa. La questione: « Dio esiste? »per il  pragmatismo si risolve in questa, più determinata e  più chiara: «Quali conseguenze pratiche importa  (| per la reallà, per noi, l'esistenza di Dio?» Se prali-  = camente, cioè dal punto di vista del criterio della uti-  .lita pratica, la negazione dei malerialisti vale quan-  lo l’allermazione dei leisti, le due teorie sono equi-  valenti in lutto poichè delle teorie non esiste che il  di lato e il valore pratico (9). 7  | Ebbene, la questione se il mondo sia creazione di  Dio o prodotto delle forze materiali può essere con-  pe sideralo da un doppio punto di visla: relrospettivo  + e prospettivu. lFingiamo che il mondo sia completo.  ti ed evoluto in tutte le sue partì (punto di vista retro-  | spettivo). Esso non sarebbe che una somma di ri  sultali buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun-                              >*              (1) Jaars, L'Expérience religicuse, D. 418 (in nota), p    ce 369-331. ia   a JAMES, L'Erpérience reliyicuse, p. 368-309: « Pour celui  qui déjà croit en Dieu ces arguments sont solides... La On  {ltoure... des arguments pour défendre ces croyances le    doit les trouver ». : di  Ò NI Vol., p. 59; L'Experience        (3) JAMES, Der Prugmatismus,  religlouse, pas. 132.    INA  La Religione nel Pragmatismo                                    que aumento e qualunque alterazione. Da un mondo  lale noi non avremmo nulla da sperare e nulla da  temere, perchè il potere creativo, qualunque fosse  slato, si sarebbe esaurito tutto in quello che è, che  è irrevocabilmente, in tulle le sue particolarità: uno  dono che ci è stato dato e che non può essere ripre- ì  so. Orbene, in lale ipotesi, «quale sarebbe il valore  «di Dio, sc ci fosse con la sua opera compiuta e ìl suo  mondo già trascorso? » (1). Egli non varrebbe niente  più del suo mondo; da lui, come dal suo mondo, non  avremmo nulla da sperare e nulla da lemere, poichè  egli, secondo tale ipolesi, nulla potrebbe togliere 6  aggiungere a ciò che è. A un Dio simile noi saremmo  riconoscenti per quello che ha fallo, non per altro.  lì ora prendiamo l'ipotesi contraria, che, cioè, le  parlicelle di materia, seguendo le loro «leggi» po-  lessero fare lullo quello che, nell’ipotesi precedente  Da fatto Dio: saremmo noi loro meno riconoscenti  che a Dio? «In che soffriremmo noi mancanza se  lasciassimo cader: l’ipotesi di Dio e facessimo respon-  subile la sola maleria? Come, essendo l'esperienza  definitivamente cd irrevocabilmente ciò che è sfata,  “polvebbe la presenza di Dio in essa renderla più vi-  vente e più ricca al nostro sguardo?» (2) « Chiamia-  mo materia la causa del mondo e non leviamo nep-  pure una parle di quelle che lo compongono; nè, sc  chiamiamo Dio la causa, esse aumentano ». Dunque  «materia e Dio significano precisamente la stessa  | cosa, cioè il potere, nè più né meno, capace di fare  | questo mondo celerogeneo, imperfello e tuttavia ter-  | Minato », e perciò «la dispula tra il materialismo e il  leismo diventa, in questo caso, oziosa e insignifi-  ante». Se la presenza di Dio «non porta un giro v  lin risultato differente all'insieme del mondo, non  Ù può certumente accrescerne la dignità; nè gli (al:    RE TIE           (I) JAMES, 12 metodo pragmatista, in Saggi È   : MES, li SI, gi pragmatisti,  x D. 15-17. Noto una volta per sempre che le Datore Calo da  3 Saggi pragmatisti, e messe tra virgolette sono della traduzione  | del PaPINI e del LruNarbo, Jl PAPINI ha tradotto IL Metodo  | pragmatista dall'inglese,    | (2) James, 0 Metodo Prag matista, pp. 16-17; Dì  mus) ip, 06 g Dp. 16-17; Der Pragmatis: —    JI Pragmatismo 63    -                             mondo) verrebbe nessuna indegnità se Dio non hi  fosse e se gli atomi rimanessero 1 soli attori ch È  scena» (1). È saggio colui che volta le spalle a siffat-  ‘la inulile discussione (2). 3  ‘Meltiamoci ora a considerare il mondo da un punto  di visla prospellivo; poniamoci « questa volla nel  inondo reale in cui viviamo, mondo che ha un fulu-  ro, che è tullavia incompleto... ». ; 3  «In questo mondo non finilo l’allernativa di «ma-   lerialismo o teismo è intensamente pratica». Essa  si può formulare così: «In qual modo il programma  della nostra vila è allo a variare, secondo che si con-  siderano i fatti dell'esperienza come configurazioni  di atomi senza finalità (materialismo), oppure come  dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero  che in questo mondo non finito la materia fa prati  camente lutto ciò che può far Dio, che essa equivale  u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni legiltima ri-  chiesta della sua esisienza? E vero che «la materia,  di cui paria Spencer, per la quale si compie il pro-  i cesso dell'evoluzione cosmica, è veramente un prin-  | cipio di perfezione infinita quanto Dio? ». (8)  Vediamo. Secondo il materialismo e la sua « teoria  dell'evoluzione meccanica, le leggi della distribuzione  della materia e del moto» sono rivolte incessante-  _Inente al disfacimento del mondo, «a dissolvere tutte  le cose che hanno falto evolvere ». Così il Balfour  cl rappresenta l’ullimo previdibile stato dell'universo  quale ce l'ha dalo la scienza evoluzionista: «Le e-  Nergie del nostro sistema si consumeranno ; la gloria  del: TR cselrata, e la terra, inerle e desolata,  a disturbato 1a oltre la razza che per un momento  E SS GLILI a sua soliludine. L'uomo cadrà nel  EF va suoi pensieri periranno. La inquieta  a... le «azioni immortali » moriranno, e l'a-  i More, più forte che la morte, sarà come se non foss  _ mai slalo. Nè vi ‘'à Il i i sli se  1 sarà nulla che sia meglio o peggio    i fu) Ivi, PP. 17-18; pp. 59-63.  a (2) Ivi, p. 81; p. 61.  (8) d04, DD. 18-21, pp. 63-64/             64 La Religione nel Pragmatismo          per lulto ciò che il lavoro, il genio, la devozione e la  sofferenza dell'uomo avranno fentalo di effettuare  durante età innumerabili » (1). Dunque la sorte ulti-    ma di ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmica-  mente evolute è tragedia. Nulla rimarrà di ciò che  è slalo: non un'eco, non una memoria: la rovina  sarà universale. È si noti: « questa rovina e trage-  dia finale sono nell'essenza del materialismo scien-  lifico. Le forze più basse, e non le più alte, sono le  forze eterne o quelle che sopravvivono ultime nel  solo ciclo di evoluzione che noi possiamo definiliva-  mente vedere » (2).   Ma se Dio esiste, i risultati pratici dell'evoluzione  dlel mondo saranno ben altri. « Un mondo che con-  lenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi ar-  derè o ghiacciare, ma però noi pensiumo che Egli  pensa sempre ar vecchi ideali e ne assicura che al-  riveremo a goderne; perciò il naufragio e la disso-  luzione non sono mai assolulimente finali. Ml bisogno  di un ordine morale eterno è uno dei più profondi  bisogni del noslro cuore... ».   «Qui giacciono i significati reali del materialismo  e leismo...; matlcrialismo signitica Ja negazione del.  l'ordine morale eterno e l'esclusione delle speranze  ultime; il teismo significa l’afiermazione di un eler-  no ordine morale e dà libero corso alla speranza » (3).   Un'altra conseguenza pralica di grande importan:  za deriva dalla affermazione feislica: il sentimento  d'intimità col mondo.   I mulerialismo con la sua visione impersonale  dell'universo ci pone di fronte a una realtà muta, in:  differente, brutale che distrugge via via ltutlo ciò che  crea, senza curarsi del bene e del male, e dei biso   - gni umani. I bisogni umani! Ma che cosa è ma  l'uomo per il quale si dovrebbe avere dei riguardi:  L'individualità di ciascuno di noi è come una    (1) BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede)  p. 30, citato dal JAMES in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in.  Der Pragmalsmus, pp. 64-65.   (2) JAMES, IL Met. Pragm., p. 22; Der Pragmat,, D. 66.   (3) Zuî, pp. 23-24; p. 66 sg.                                 65  Il Pragmatismo    = rrasca,  7 are in burra  sopra: unt ma senza tre-  qui epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT  sj venti e le onde c iizoirenomoni Uasc  due i i non siamo che degli €} gli eventi (1). Come  otza (dol flusso irresistibile deG Letta così falla?  È Si simpatia e amore per o a senoi mettiamo  6, invece, nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono  n Dio una som idenzar allora. lime al nostro cuo-  | ù calde, viù vicine a e voni saremo più estra-  "o pensiero : >  e al Nostro La non lo saranno a noi. Ri  Mg ici co ce eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe dire  Da un punto di vista DER fra il maferialismo e il  le la differenza che passa fra de senlire i no:  CE "nali el concepire e sentire  ; O spiritualismo) nel concepire : I ROGIE  BLOGO SÌ differenza sociale. £  i rapporti col mondo è una eee  iamo malerialisti, noi dobbiamo DR È SIGrgnn  {ra socio, il mondo, difidenti e USE E  guardia che non ci GU slringorit  Spiritualisli noi possiamo fidare li, S SECOLI  Nexbitualisti SIAE n ere fidenti sulla nostra  " tai Ise peosstere ident so utile, che  on ai Rostri bisogni emozionali, che ci fa  ‘Procedere coraggiosi nelle nostre esperienze sulla  Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle do-  —  mande che le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della  | Verità, noi dobbiamo concludere che il (eismo è vero  © il materialismo è falso.  Vi sonoaltre ragioni che autorizzano a tirare  conclusione in favore dell’esistenza di Dio. Se  Dio, Egli produce differenze prati  porti call'universo; se c'è un Dio,  renze « nella sorte finale del mondo :  lo. Ma possiamo dire d    questa  c'è un  che nei nostri lap-    questo s'è vedu-    i produca differ  . Ina durante tutto il  ere che l’esistenza di    Mella sorte finale  do» (3) Ammetl    ì, L'Expérience    religieuse, D. 409, 411.  >, Il Metodo pr    agmut., p. 15; 4 Pluratistie Univer  Il Met. Ppragm., p. 25.    Egli produce diffe    È più: se c'è un Dio noi possia-.  no aspellarci che egl enze non solo,  | corso del mon-  Dio non possa a               66 La Religione nel Pragmalismo    — cangiar nulla nella nostra esperienza non è affermare  ‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla ap-  punto in quelle differenze che debbono essere ammes-  se nella nostra esperienza, ove il concello sia ve-  “ro. Ebbene queste esperienze esistono cd hanno un  ‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La  Z esperienza fisica, o percezione degli oggetti esterni, e  la esperienza psicologica pura c semplice limitata alla  tà percezione deil'io, non colgono la realtà tolale e pie-  ‘q namente reale, e non sono le uniche forme di espe-  ricoza: ve n'è una terza: l’esperienza religiosa che  (ci dà una massa di esperienze concrele affalto ori-  «_—‘ginali. «Se voi chiedete cosa sono queste esperienze  vi dirò che sono conversazioni coll’invisibile, voci e  visioni, risposte fl preghiere, mutamenti di cuore,  Ta liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura  zioni di appoggio, ogni qual volta certe persone si  mettono in una cerla attitudine interna, con certi  modi appropriati. Il potere viene, va e si perde, e  può esser trovalo soltanto in una certa direzione de-  terminata, proprio come se fosse una cosa concreta  e maleriale» xl}, Vedremo più sotlo perchè pratica-  mente parlando è cosa di poco momento che il Dio  della teologia sistemalica esista o non esista; «ma  se il Dio di queste particolari esperienze è falso, è  una cosa lerribile per quelli la cui vita è poggiata  su tali esperienze » (2).  _, Concludendo: «la controversia teislica assume un  lreniendo significato se noi la saggiamo coi suoi re-  ; sultati nella vita attuale » (3). Il naluralismo, il posi-  ARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con cu-  lusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fa-  talmente nella tristezza e nello scoraggiamento inerte.  Se invece, come afferma il teismo, la nostra vita  ‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un universo mo-  rale, armonivso, elerno; se ognuna delle nostre sofl-                                        a    O TAES: ALI relty., ). 432.   ‘ AMES, Mel. pragm., pp. 28-29. — Sono appunto queste  | ‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci  CRA la e la materia di: L'Experience  — (3)/£ Metod. Pragni., pp. 29-30.    a    N       ll Pragmatismo 67°    ferenze ha la sua ragion d'essere e il suo valore;  se il cielo sorride alla terra e se gli dei vengono a  visitare gli uomini; se la fede e la speranza sono  come l'atmosfera della nostra anima, allora la no-  stra vila scorre abbondante © colorita in mezzo a  grandiose prospellive (1) i   Possiamo tirar subito una conseguenza importan-  le dal punto di vista pragmatlistico ; la speculazione è-  impotente a condurci a Dio; noi affermiamo la gran-  de probabilità della sua esistenza in base alle con-  seguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che  derivano dall'accettarlo come esistente. Naturalmen-  te, e lo vedremo sotto, il pragmatismo non può darci  più che una probabilità.   Lo Schiller con lo stesso metodo giunge alle stesse  conseguenze. Col James egli rigetta le prove tradi-  zionali dell'esistenza di Div e fa una guerra spietata  alla identificazione con Dio dell’Assoluto degli idea-  lisli trascendentali.   Per lui la comune insufficienza delle prove tradi-  zionali sta nella loro astrattezza. Esse, infatti, sono  applicabili alla concezione di un universo qualsiasi,  non ul nostro mondo particolare. Per esempio: l'ar-  gomento cosmologico inferisce Dio dal fatto che vi è  eausazione in astratto; l'argomento fisico-teleologico  è costruito arguendo, in maniera affatto generale,  dall'ordine un ordinatore (2). Ebbene questi argomen-    ‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo.    Dal momento che si possono applicare ad'ogni sol-  ta di mondo, buono o cattivo che esso sia, ne segue  che la divinila inferita con questa specie di argomen-  tazioni è affatto indifferente al contenuto del mondo,  al bene e al male che esso racchiude: è un Dio  amorale, che si può inferire così bene da un universo  ollimo come da uno pessimo. La inferenza di Dio dal  mordo sarebbe ugualmente buona nel Cielo e nel  l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a  Dio attribuli morali sono condannati a ;certo insuc-    (1) Ivi, p. 30.  (2) JAMES, L'Experionce religieuse p. 117.       4  Se    |  il  |             68 'La Religione nel Pragmatismo    cesso. Trascurando gli aspetli morali del nostro mon-  do come si può giungere a un principio morale gli  esso? Ebbene, non è di codeste prove che noi abbia-  mo bisogno; non chiediamo una prova dell'esistenza  di Dio che sia valida per ognì universo pensabile, mù  per il nostro mondo aituale, che tenga conto del con-  tenuto concreto, reale delle cose che noi: esperimen-  liamo; ci occorre un Dio il quale ci dia sicurezza, che  nel nostro mondo vi è un polere capace e disposto a  dirigerne il corso (1). È È   Il dialogo: Gods and Priestes (Dei e Sacerdoti) (2)  è lullo una critica birichina degli argomenti raziona-  li (teorici) dell’esistenza di Dio. Dice Filono: «Mi pa-  re che Vesislenza degli Dei si possa inferire dall’esi-  stenza dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero,  e che ci starebbero a fare i sacerdoli? » Un argomen-  lo puerile, a dir poco, come si vede. Eppure Anlino-  ro risponde: «Questo argomento è... migliore della  più parte di quelli dei teologi » (3). Più oltre Antinoro  dice: .« Finchè il Dio ignoto non è desideralo è inco-  moscibile » (4). Noi sappiamo che « inconoscibile », per  l’umanismo, vuole dire «non-esistente ». Ma dunque  il nostro desiderare, volere Iddio è creare, fare Iddio?  Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. « Gli  dei sono reali in quanto responsi ideuli ai reali biso-  gni umani, che ci funno realmente agire» (5). Dio 6  un postulato della fede ed è delia stessa nalura dei  postulati della scienza (6), cioè una supposizione uli-    (1) SCHILLER, Humanism., Ess, 1V, « Lotze's Monism »; p. 82.  = lo non posso indugiarmi a esporre largamente le teorie re-  liglo5e dello SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un articola  non basta a ciò, Del resto non è neanche necessario, perchè lo  SCHU.LER, quando pula di religione. si appoggia spesso al  JAMES, €, sostanzialmente, lo riproditeo   (2) ScHiLLER, Studies in Humanism, Essay XV, pp. 326-348.   (3) Ivi, p. 227.    (4) Ivi, p. 347.    (5) IVI, pp. 340-341: «They (gods) nre real as the ideal re-  sponses to real human needs, which really move us,   (6) Studies in Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita qui: La  tolontà di credere del James,    = "i si » etiam  Lu e e ir__nnnn_nn_    RPEI EN                             oli Pragmulismo    le, una domanda di qualche cosa che corrisponda alle  esigenze dell'uotno e mella armonia in una speciale  sfera di esperienze.  L'uomo fa la verilà e la realtà, come s'è veduto: È  è vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la  soslanza è allivilaà, e l'attività non esiste se non come  attività per noî. La domanda di Dio non è la doman-  da di un essere lrascendente, ma di uno perfezio-  È nante la esperienza nostra (1). Perciò la questione:  LI, Dio esiste? significa: Qual'è il valore per noi del con-  X cetto di Dio? | siecome le concezioni di Dio sono mol-  | le, qual'è il valore di esse, 0 dei varì tipi ai quali  lulte sì possono ridurre? E qual'è il migliore fra i  concetti di Dio?    $ 9. — Nella filosofia spiritualisla noi troviamo due  specie di (eismo in senso largo: il leismo dualistico,  o teismo propriamente detlo, e il leismo monistico  o panteislico. Il primo è la elaborazione teologica  della filosofia scolastica, il secondo è proprio dell’idea-  lismo posl-kanliano, 0 idealismo assoluto, o ideali-  smo simpliciter, che si voglia chiamare (2). Esponia-  noli brevemente ed esaminiamone il valore alla luce  del pragmatismo. >»  Il'ieisino scolastico insegna che Dia è la Causa Pri-  ma, la quale differisce tolo genere dalle sue creatu-  re. La sua essenza è di essere a sé. L'ascità è la fon-  le di ltulli gli altri allributi metafisici: necessità e  assolutezza, immaterialità e semplicità, infinità e per-  sonalità metafisica, ecc.; e degli attribuli morali:  sanlità e onvipolenza, onniscienza e giustizia, im   mutabilità e amore, ecc. (3). Ebbene, applichiamo a    -    (1) ScuuLer, ivi. Considerazioni simili a quelle del James  contro ia visione materialistica della vita nol troviamo li  — Humanism, Ess. XIV, pp. 250 seg.: «The ethical significance.  of immortality ». Vi dintostra che la vita non è degna d'esser  "vissuta se non sono conservati i valori ideali. /    (29) JAMES, A Pluralistic Universe pp. 23-24; Der Pragma-  lismus, VIII Vorl. p. 192. a  (3) JAMES, L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376; Saggi prag-  mat., IL metod. pragm., pp. 25-20. ) ar    -                                                        n . 70 La Religione nel Pragmatismo    RO T   questi attributi di Dio il principio del Pierce ec vedre-  L mo che fra essi ve n'ha di più e di meno importanti.  i Infatti, dal punto di visla pragmalistico che diven-  N gono gli altribuli metafisici di Dio, distinti dai suol  attributi morali? Quali effetti possono produrre sulla  nostra condotta? Che cosa importa per la vita del.  l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti a sè stesso,  che Dio non appartenga & nessun genere ecc. ecc.?  «Come può mai l'« aseità » di Dio loccarmi inlima-  mente? Quale speciale cosa posso io mai fare per    adattarmi alla sua « semplicità? n «O come devo de-    terminare lu mia condotta da qui innanzi se la sua  «felicità» è assolutamente completa?» Anche quan-  ‘do di quesli attributi ci si desse una dimostrazione  logica rigorosa noi dovremmo confessare che essi  non hanno senso, 4                                     poichè sono lontani dalla morale,    lontani dai bisogni umani (1).  ‘Non è così degli attribuli morali. Essi risvegliano  il limore e la speranza e sono il sostegno dell’ani-  ma. Se Dio è santo non può volere che il bene; se  è onnipotente ne può assicurare il trionfo; con la  sua onniscienza ci vede nelle tenebre; per la sua  iustizia, Egli punisce le nostre colpe anche segrete.  ègli è tulto amore, dunque perdona; è immutabile  e quindi possiamo contare sul suo amore. i  Iddio, nella creazione, si è proposto come fine la  manifestazione della sua gloria; « questo dogma ha  certamente una qualche elficace connessione pratica  ©. colla vila, 0, meglio, Phu avula per l'enorme influen-  | za che ha esercitato sulla storia ecclesiastica e per  ? ripercussione sulla storia degli Stati curopei» (2).  Cerlo, quest'ullimo dogma, connesso con la concezio-  ne monarchica del mondo, di una divinità con la sua  corle e le sue pompe non corrisponde più alla nostra  mentalità, ma gli aliri attributi hanno un valore re-  ligioso anche attualmente. Sc la teologia scolastica    (1) JAMES, L'Excpérience religieuse, DD. 375 S86.: Il Metod.  Pragm. (op. c.), p. 25-27.   .(2) JAMES, L'Expérience religicuse, p. 376; Il Metod. Pragm.  (op. c.), pagina 27-28. i    LA    4  s  =    lì Pragmalismo 1  polesse stabilire in modo irrefutabile che Dio li pos- e)  siede (gli attribuli morali}, darebbe una base solida si    alla religione. Ma, come per l’esistenza di Dio, cusì 19  per gli allribali morali essa ba fallito nel tentalivo sl  {lo Schiller ce ne ba detto il percl®). Si può provare d  storicamente che essi non hanno mai convertito nes- È  suno. Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno |    che dubita della bontà di Dio, che Dio è buono per- ì  chè non vi è non-essere nella sua essenza! (1) Quegli ni    altribuli hanno valore non perchè e in quanto sono  dedolti, dalla scolastica, a filo di logica da certi du-    (erminali concetti o calegorie, ma perchè e in quanto ur;  eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A  livo e fanno appello a qualche particolare condotta =  da seguire» (2), non quindi in base a speculazioni, | Pi    - ma per la loro efficacia pratica. |,   V'ha di più. La concezione leistica (scolastica) di-  pingeudo Dio e la sua creazione come distinti l'una  dall'altra, anzi come affatto diversi, mette il soggel-  lo umano fuori di ogni contatto con la più profonda  realtà dell'universo. Dio è separato dal mondo e dal- .  l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot= in  - lo unilaterale, non reciproco. La sua azione può toc- :   carci, si afferina, (conte possa toccarci è un misleto)  ma Lui non può essere affetto dalla nostra reazione.  Il rapporto fra noi e Dio non è sociale: i due terni. |  ni sono separali da un abisso (8). Dio non è cuore  del nostro cuore, ragione della nostra ragione, ma  nostro maestro e giudice, ll nostro dovere inorale  è di obbedire ineccanicamente a’ suoi comandi, di  aderire pussivamente alle verità che non noi faccia  > mo, ma che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE  ‘ decrec» (4). Ebbene, lutto questo meccanismo LEO= N  logico, che ha parlato così vivamente all’animo dei  nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, |  con la sua creazione dal nulla, con la sua moralità    ta W) JAMES, L'Erper. relig., DD. 370-977. “26  o). - (2) JAMES, IL Met. pragm., PD. 26 . Ca  ye 2 (3) JAMFS, A Plural. Univ., pp. 25-27. “i |    (4) James, «Ad Plural. Univ., pp. 27-23. * |             72 La Religione nel Pragmalismo    giuridica ed escatologica, col suo gusto per le ricom-  pense e le punizioni, col suo considerare Dio cone  un Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al piu  di noi come se si trattasse di una religione selvag-  gia di stranieri. Le ampie vedute aperte dall’evolu-  Zionismo scientifico e lo marea monlanie degli ideali  delia democrazia sociale hanno cambiato il tipo del  la nostra menlalità, e il vecchio leismo monarchico  è vielo e fuori di moda. IL posto del divino nel mon-  do dev'essere più organico G più intimo. Un creatore  esteriore e lc sue islituzioni pussono essere professa-  le ancora, verbalmente, nella Chiesa in formule che  sopravvivono grazia aila loro inerzia, ma la vila è  lontana da esse, non lano più adito nei nostri cuo-  sti (1). Quel magnifico uomo nou naturale (2) che è il  ‘Dio del teismo non cì soddisfa più; è solto il livello  delle idee morali correnti e perciò condannato dal-  l’'alinosfera morale regnante, divenula per noì indi.  spensabile.   «I frulli che un tal Dio ha dato ai nostri avi hanno  perduto ogni valore per noi, le idee morali e sociati  nostre ci costringono, sc abbiamo bisogno di Dio, a  foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni e agli  ideali del lempo nostro (3).   Ed ecco che l'anima contemporanea ha veduto la  possibilità di una più intima Weltunschauung; la vi-  sione panteislica di un Dio immanenfe come sostar-  za inlima del mondo, e il mondo come parle di quesia  profonda realtà. Questi concezione hu assunto due  forme diverse: la monistica e la pluralislica (4).    (1) Ivi, pp. 29-30. — Lo stesso pensiero è espresso più lar-  gamente in: L'Eaperience reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la  Saintele, pp. 250-284   (2) La frase è dell'Arzold. Cir: A Plural. Univ., p. 24.   (3) JAMES, L'Ewper. relig., p. 282. — Si è detto che”il Dio  tiel tolsmo è rigettato dal JAMES semplicemente perchè così  porta la moda, Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare  «il complesso delle idee morali e delle forme sociali» di una  data epoca, l'osservazione è giusta; se per moda s'intende quel-  la brutta cosa che tutti conoscono, non credo che sia esatto  il dire chè il James giudica di Dio in base ad essa. Cfr..  L'Erpér, relig., 1. c.   (4) JAMES, LI Plural. Uniw., pp. 30-31.                                  Il Pragmatismo 78  Secondo il monismu la sostanza umana (e mondia- ©.   le) si identifica bensì con Ja divina, ma non diventa  veramente tale che nella forma della totalità. Lo spi- -   3 rifo finito non ha realtà che neila comunione con lo   pi spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste autenticamente   È solo quando è esperimentato nella sua assoluta l0-   rà lalità. Pev il monista essere significa due cose: se si   È predica delle cose finite significa: essere un oggetto   Ì dell’Assoluto; se si predica dell’Assoluto stesso vuol   i dive: essere il pensamento dell'insieme degli oggetti.   " LvAssolulo ci Îa pensandoci, precisamente come noi,  nei sogno, facciamo gli oggetti sognandoli, o, in una  storia, i personaggi immaginandoli. Mondo e asso-  julo sono la stessa cosa espressa con nomi diversi:   " pensiero e pensato (Gedanke und Gedachles). «Quale  grandiosa concezione nella sua terribile unità!» esela:  ma il James (1). Quale intimità fra il mondo e 1 AS-  solulo! >   Ma, pur troppo, a un esame diligente questa 31 LI    St  x.    milà ci apparisce illusoria e materiale; in realtà il  divino è affatto estraneo al mondo come nel teismo  monarchico (2). E in vero: per lassolulisla noi, POSI   ad uno ad uno nella nostra finilezza empirica non  abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per far  (parle di esso dobbiamo perdere l'essere nostro indi-  vidnale con la sua limitatezza e coi suoi difetti. L'As-  Ea solulo è noì e lutte le allre apparenze, ma non è  I nessuno di noi in quanto fali, poichè nel tutto TION  x siamo « trasformati» diventiamo altra cosa. Dio qua-  Fat: tenus infinilus est è altro da Dio, qualenus humanam  wr mentem conslituit — ha scritto lo Spinoza, il primo  ; grande assolulisla (3). La vera conoscenza di Div =  serive l'Hegel — comincia quando conosciamo che le  cose, quali ci si mostrano immediatamente, non han:  ‘no verilà (4). L'Assoluto — secondo il Taggarl —  non è processo, ma stato immobile: il movimento            (1) JAMES, ivi pp. 34-37,  (2) Zbta.  (3) James, A Plural. Univ., pp. 40-47,  (4) Ivi, p. Di.                                                    » DI art ri È  aaa” * -- ul = Pa.        ASTRA La Religione nel Pragmatismo    il cangiamento sono assorbiti nella sua immutabili  È i come forme di mera apparenza (1). Che cosa più  DA estranea a noi di un essere che non è nè intelligenza  nè volontà, nè una persona, ne una collezione di per-  sone, nè vero, nè bello, nè buono nel senso che noi  diamo a queste parole? — come. ha scritto il Brad-  ley (2). Che cosa facciamo di questo mostro metafi-  sico incapace: di odiare e di amare, di soffrire e di  desiderare? (3) L’Assoluto non può essere personale  nel senso ordinario della parola; dunque non può  interessarsi delle persone: la sua relazione con ess?  è tutt'al più una relazione di inclusione, puramente  logica, quindi, non morale (4). Io non posso avere  nè cuore nè pensiero per un essere che nulla ha co-  mune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitu-  dine non s’inleressa di me come posso io interes-  sarmi di Lui? (5) =  Non solo l'Assoluto non è un principio morale,   ma non ha neppur valore scientifico. Per aver valore  scientifico dovrebbe essere un aiuto alla compren-  sione intellettuale dell'Universo. Ebbene Esso non  è la ragione suprema ed ullima di ogni cosa in par ;  ticolare (e l'universo si compone di cose particolari) >  appunto perchè è la ragione esplicativa di ogni cosa î  in generale; e qual'è il valore di una spiegazione ge-  merale che non spiega nulla in particolare? (6). È,   come si vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat-   lezza dei concetti con i quali sì prova, in teologia,  2 che Dio esiste e se ne deiermina l’essenza, secondo  lo Schiller.          s (1) JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p  o i ud. in Hum. Essay XII, passim;  (2) JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g. e:  (Essr IV, pagine 111-140. — IDRA RRE  (3) JAMIS, ©p. cut., avi,; SCHILLER, Ess. JV.  (4) ScHILLER® Stud. in Hum,, D. 287.  | (5) James, A _Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. —  bp, 391; « If th» One is neither of these {hings (beautiful and  | good), I will not worship it. nor call it Good. If it is indif-  ferent to 9ur Gocd, I am indifferent to its existence n.    (6) SCHI,LER, Stud, in IHum., p. 25).       db    Ît Pragmatismo Ti)    Ma c'è di più. Uno dei problemi che ha maggior-  mente alfalicalo il pensiero umano è il problema del î  male, il più fondamentale e il più pressante dei pro-  blemi religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno pratico.   Il teorico si formula: « Com'è possibile il male?» —   Il prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor-   ge dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio.  con la sua onnipolenza e con la sua infinità. Se Dio   è il tutto, la perfezione assoluta, senza limitazione   nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se Dio   è onnipotente perchè non trionfa del male, di tulru   il male? (1). li panteismo assolulista ci dice che la  periezione di Dio è la sorgente delle cose; ebbene,  guardate: il primo altu di questa perfezione è la spa  ventevole imperfezione di tutto il finito sperimenta   bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede 7  queste schifose forme di vita che troviamo nella real-  tà? (2). Ecco il problema che nessun assolutista € .  nessun infiniusta potrà maì risolvere. Negarlo nou  è risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la im-  pertezione del tuito non è che apparenza, una illu-  sione degli esseri finiti, che il maligno non esiste 0  è assorbito con Dio nella sintesi superiore dell’As-  soluto, ecc., ecc., non è risolvere, ma ingarbugliare  il problema. Il male c è è noì vogliamo liberarcene.   L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x  la quantita del male che è nel mondo? ». Il lato pra-  tico del problema, chie è il solo veramente impor-  tante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò che  è, è necessariamente come apparenza dell’Assoluto :  ogni cosa l determinata nel suo essere e nel suo di-  venire; ia connessione fra le cose è assoluta, ogni ——  evento è determinato da lulti gli eventi (3). Non esi-    lai” sad    (1) SCHILLER, Ivi, po 287-258. nati    (2) James, 1 Pturat. Univ. p. 117, — Una simile domanda è  rivolta dal James al teismo creazionista del Leibniz (e si può |  rivolgere ad ogui specie di creazionismo). Vedi: A «Plural.  Univ., vp. 119 120. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo  imperfetto, e non si contenta di contemplarlo nello schema  ideale perfetto? » >    95 James, 4 Plural. Univ., pp. 55 © 77. 2a                La Religione nel Pragmatismo    ioni; i é che  stono possibilità di nuove connessioni; non vi è c ;  DE ‘possibilit: quela che s’identitica Son IP DESeRa  silà. L’indelerminatezza del reale e la bo. FR  na sono chimere. Ecco a che conduce. la  Assoluto.  Eibovo queste terribili accuse ACCIAIO  deil’Assolulo noi ci aspettiamo di NEdSri dan  nato alla irrealtà dal metodo PrOgmal sa MEO  amet no RO . Dal punto di vista intel:  ì es (1), E ris : ) 5 :  CRA gua SelSsolnio Do i SA ISRUIL SDOlai  elipotesi RO se l'Assoluto rende dei ser-  Di all'uomo. Orbene, quantunque l'Assoluto  sia e non possa essere il Dio della religione popo-  laure ordinaria e non si debba confondere col Dio  del Cristianesimo c della Lcologia ortodossa — ne  vedremo più sotto il perchè — tuttavia è stalo e può  essere il Dio di una certa classe. d'uomini, che in  Lui solo trovano la pace {?). Ciò che sembra logica-  nente assurdo c impossihi  può essere dimostraio in q    non    le — dice lo Schiller  ualche modo con una fede  eroica e palelica, Non v'è materiale così poco pro-  Inettente che non possa divenire il fondamento di una  veligione. Non' vi sono conclusioni così bizzarre che  non possano essere accellale con fervore religioso.  Non vi sono desideri così assurdi Ia cui soddisfa-  zione non possa essere riguar    data come un atto di  cullo (3).  Perciò l’assolulo può esistere ed esiste come Dio  se ha una reale iniluenza s    ulla vita umana, se è qual-  “ehe cosa di vitale e di valutabile pragmalicamente.  Ebbene, la storia delle religioni ne ha dimostrato  l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una  sicurezza assoluta che l'esito del mondo sarà buono,  che l'universo non audrà in isfacelo sotto il COZZO    (1) Zut, p. 110,   (2) Jul, pp. 110, Iii, 1923; Der Pragmatismus, VIII Vorl.,  ASSI,  (3) SCHILLER, S/ud. in Ilum., p. %6.                i    Iîì Pragmatismo Ti    degli clementi instabili e fortuiti; lale sicurezza non  può aversi che ammettendo un'assoluta necessità e  una interna coerenza del mondo, una determinazione  a priori del futuro.   Vi sono anime che provano un sentimento d’orgo-  glio al pensiero di essere una parle, una «manife-  stazione », un «veicolo» o una ripreduzione della  Mente Assoluta (1). Vi sono quaggiù anime stanche,  accasciate sotlo il peso del male, incapaci di trovare  in sè stesse la forza di vincerlo; la loro vita si sfa-  scia ed hanno bisogno di risolversi nell’Assolulo, co-  me una goccia d'acqua nel mare. Noi tutti abbiamo  dei momenti in cui aspiriamo al Nirvana, alla libe-  razione di noi stessi dalla esperienza finita. Questo  stato è proprio degli Indiani, dei Buddisti e dì certi  temperamenti mistici ai quali è conforto ed ebbrezza  il sapere « che tutto è necessario ed essenziale, anche  l’uomo col cuore e con l’anima ammalati: che tutto  è uno in Dio e che in Dio lullo è buono. che in que-.  slo mondo di apparenze, qualunque sia il nostro suc-  cesso, siamo sempre dei miserabili » (2).   Vi è dunque un istinto dell’Assoluto. L’Assoluto  può servire all'uomo, e perciò, nonostante le sue as-  surdilà, il pragmatismo lo rispetta — ci dicono a una  voce il James. e lo Schiller — poichè gli istinti uma-  ni sono preziosi © sacri (3) e tutto ‘ciò che opera è  vero finchè opera. IL’Assoluto è salvo sotto le grandi  ali della misericordia... del pragmatismo. ,   Il quale pragmatismo inclina tuttavia ad un'altra  concezione del mondo e quindi di Dio. L’'Assoluto  mena necessariamente all’indifferenlismo e al quie-  lismo; non è uno sprone al lavoro audace dei forti  che non rifuggono dal male della vita ma lo affron-  tano pur nel dubbio di trionfarne, esso è per le ani-  me un oppio spirituale; è il Dio dei deboli, degli stan-    (1) JAMES, Mer Praymatismus, VITI Vorl., pp. 174-194, passim;  SCHILLER, Stwal. in Mum., PP. 289-290.    (2) JAMES, ivi, pp. 187-188. Numerosi esempi di questo singo-  lare stato d'anicao ha offerto il James in: L'Expér. relig.,  Chap. X, pp. 353-358,    (3) JAMES, Der l'ragmat., p. 176; SCHILLEK, op. c., p. YI.                fo) La Religione nel Pragmatismo    chi (1); il pragmatismo non può accertarlo. Si è aC-  cusato il pra matismo di irrceligione; @ torto però.  Non è a credere che la dottrina pragmalista, rigel-  tando VAssoluto e il Dio del teismo monarchico, ne-  ghi che il mondo contenga in forma di coscienza qual-  cosa di più grande e di meglio che la nostra co-  scienza. Forse che la nostra fede istintiva in esseri  superiori, il nostro persistente rivolgersi verso una  società divina non è che una illusione patetica di  anime incorreggibilmente sociali e immaginative? (2).  No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una eMceacia  reale; per quanto possano essere gravi le difficoltà  che le si oppongono, l'esperienza dimostra che essa  opera. Il problema di Dio consiste in questo: come  elaborare l'idea di Dio in muniera di farla entrare  in accordo con le allre verità operative? (3), Ebbene,  è logicamente possibile di credere in esseri sovruma-  ni senza punto identificarli con l'Assoluto. Il con-  _celto dell’Assoluto sta in funzione del monismo idea-  listico ; il concetto pragmalista di Dio sla in funzio-  ne del pluralismo: è la forma pluralistica del pan-  teismo religioso.  Il pluralismo — in quanto ha rapporto con la re-  ligione — ammette col monismo la immanenza di  Dio nel mondo, come vita e sostanza profonda delle  “cose, sostanzialmente identica con la vita e con l'es-  sere più vero dell'uomo (4), ma differisce inconcilia-  bilmente dal monismo negli svolgimenti ulteriori  della lesi unica.  — Per il pluralismo la vera realtà delle cose è la loro  individualità. Il mondo è collezione, non unità. Ogni    (1) JAMES, iui, pp. 176 @ 188.    (2) Jimes, Her Praugmal., pp. 178-192, Anche lo Sc   È Ste 4 DI È 162, A o SCHILLER pro-  is contto LASERSA CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove dottrine  f adley, Cfr: Stud. in Mum., D. 195. — Per Îl res della  citazione, vedi; A Plural, Unlv., n° 133. Per E    (3) Jamrs, ber Pragmat., p. 192.    (4) James, A Plarai. Univ, p. 31 -- Lo Schiller parla del  Pluralisino in generale in: Stud. in Human D 907 è 459; vl  ROSSO alla sfuggita in altri luoghi per la relazione del. plu-  ralismo con l'Umanismo, vedi. Humanism, pagina XX    PI    LA  SE    -                          did    HI Pragmatismo 79    cosa pensabile, per quanto vasta e inclusiva, ha un  ambiente esteriore: non è mai (ullo-inclusiva (AU  inclusive). Nessuna inchiude lulte le cose assorben-  done la realtà tutta, nessuna domina su tutte. Men-  {re la realtà del monismo è caratterizzata dalla All  form (formia del tutto o dell'uni-tulto), quella del plu-  valismo è caratterizzata dalla Zach-form (forma del  le individualità o distributiva, come altrove la chia-  ma il James): è la forma dataci dalla esperienza im-  inediata. Il mondo pluralistico è piuttosto una repub-  blica federale che un impero, un regno. L'unione  delle cose singole — atomi e unità spirituali — non è  compenetrazione di tulte in ognuna, non è il tipo del  la unione monislica della tosalità-unità (Alleinheit),  non è complicazione universale, ma contiguità, con-  tinuità, concatenazione di individui; è il lipo di unio-  ne synechislica (1), quindi vi è dislinzione e indipen-  denza. Perciò nessun centro di coscienza, nessuna  azione puo lutto abbracciare: qualche cosa sfugge  sempre e non può mai essere ridotta all'unità to)  Non c'è un'assoluta unità causale del mondo; non  cè un'assolula unila generica; non e'è un'assoluta  unità teologica e morale; non c'è un’assolula unità  estetica, non c'è un’assolula unità noelica attuale    (1) JAMES, A Plural Univ., pp. 34, 321, 325. — Il «synechi-  smo» è quella tendenza del pensiero filosofico che fa dell’idea  di continuità una delle più Importanti in filosofia. Il continuo  è inteso come qualens cosa le di cui possibilità di determina-  zione sono inesavribiti.    (2) Oltre questo synechismo — che è metafisico — ve n'è    uno epistemologico, cioè la concezione della verità sistematica  come gradualmente approssimabile, ma non mai interamente  taggiunsipilo dal pensiero. I.'uomo tende a una interpreta-  zione scinpre più razionale e coupleta dell'universo, ma ogni  fase del processo conoscitivo non è che una razionalizzazione  parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE Pragmatism nel  ictionary of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce il |  Pragmatismo è parte deila dottrima più larga del synechismea.  (Credo che il nemne sia del Peirce). Cfr. la bellissima opera  Thegries of Knowledge, del P. WALKER S. T., TLongmans, Lo;    dra 1910: da essi ho prese queste cliazioni n proposito del    symechismo,  dal 7                                         9    80 La Religione nel Pragmalismo    dell'universo (1). Vi sono «reali possibilità, reali  indelerminazioni, reali incominciamenti, reali finì,  roali mali, reali crisi, reali catastrofi e reali scom-  pi (2). Nel mondo accanto all'ordine vi è il Cso  ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza, accanto a  bello il brutto, accanto al bene il male: non vi è  dunque perfetta, unità, ma molteplicità reale neil u-  nità imperfetta. Forse l’unità perfetta non vi sarà  mai; forse non potranno essere liberate dalla di-  sgregazione e dal disordine che certe parli del mon-  do, quelle alle quali si estende la nostra allivilà uni  ficatrice. Ad ogni modo la piena unità, se sarà pos-  sibile, nella ipotesi pluralista non è al priucipio ma  alla fine, non un primo ma un ultimo (3); la salute  — ogni salule, anche ia parziale — non è necessa-  ria, certa a priori, ma solo possibile. Nella concezio-  ne assolulista il fondamento della realtà è l’unità sta-  tica; nella pluralista sono delle possibilità, pure pos-  sibilità. Il pragmatismo riconosce un valore reale al-  la prima, ma preferisce la seconda, come più in ar-  menia col suo temperamento, poichè essa è alta a  suscitare nel nustro spirito un numero maggiore di  esperienze future e sprigiona in noi determinate al-  livilà. Il suo effetto sull'uomo non è il quielismo, 1a  il lavoro strenuo, poichè com’essa insegna, da lui  {dall’uomo) dipende la vittoria sul male: vittoria pos-  sibile a prezzo di lotta contro i pericoli e la resi  stenza della realtà ad essere redenta è unificata. Così  il jvagmatismo tiene Ja via di mezze fra l'ollimismo  — per il quale la salvezza del mondo e dell’uomo è  “sicura — e il pessimismo per il quale ogni salute an-  che parziale è impossibile. Il pragmatismo è melio-  tristi: per esso il fuluro sarà di più in più migliore  del vresente come il presente è migliore del passato.  E la possibilità anzi la probabilità della salvezza per    (1) JAMES, Mer Pragmatismus, p. 79-102; A Puwal. Univ.  specialmente Zesi. VIII pp. 303-331.    (2) JAMES, Will to Believe, p. IX { Schiller: In  Huinanism, pagina SI p , Gitato dallo Schiller    (1) JAMES, Der Pragmatismus, pp. 79-102 e 180.    _    i                 mo.    il Pragmatismo 8    ja liberazione dal male e per la diminuzione della  moltiplicità non unificata aumenta in proporzione  del numero e della bontà delle forze iiberatrici.   Vi sono delle forze sovrumane che lavorano e lot-  tano con noi?   Allora la incertezza della salute è ridoita di mol-  lo; possiamo sperare che l'esito del mondo sarà buo-  no. Qui si mostra in tutto il suo valore reale l'ipo-  lesi di Dio; per questo gli uomini religiosi del tipo  pluralistice hanno sempre credulo in Lui (1). Ma chi  accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze sovru-  mane (2), deve elaborare il concello di queste in mo-  do da accordarlo con le esigenze e con le verità ope-  rative di tale dollrina. Quindi: la realtà divina (o le  lealtà: vedremo più sotto se al singolare o al plura-  le) deve coesistere con lulte le altre realtà indivi-  duali inferiori, non assorbirle;j deve lasciar sussiste-  re le possibilità, le indeterminazioni, la libertà e quin-  di la incerlezza del futuro; dev'essere personale al  iagdo nostro, poichè diversomente ci è impossibile   1 mità con essa: in una parola: può e deve es-  SIRO più grande di noi, ma ron infinita, più potente  RT Ta Tio onnipotente. Noi non sappiamo che  Alon Si Di s7ranico alla nostra natura; noi vo:  FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in  Tondo dr 5 amen e umano, al mondo in quanto è  ONT sperienza. Noi e il mondo di cui siamo  Perche Dig SO nel tempo e abbiamo una storia;  RSA la f apporti reali, non puramente astrat-  CES col mondo deve esistere nel tempo e   una storia, deve quindi escludere la staticità    È RE Der Pragmat., pp. 182, 183, 191.  IESUe i celli accetta il pluralismo con tutti i suoi pericoli e  Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du solo per rendere  Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui reli-  Tenero » che pool temperamento diameualmente opposto «al  tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede, il pragmatismo  sulla AT i mezzo — che è la via aurea — perchè conta    a dleì temperamenti umani. I più degli  sono dai i . I pi egli uomini  : si EONANO I SIANZA dei due temperamenti opposti: a questi    mamente ul tipo meltorislico del telsmo,. Ivi, p. 193-    Pragmatismo - 6    v    PEPE], Pg ASS RE. I RARE          1 pragmatismo    È s2 La Religione ne    ,”  ed avere Un ambienté    esiratemporale dell'Assolulo  esterno come noi. essere, IN una arola, uno degli  euch, UD mombro del mondo pluralistico, una conti  nuazione di esso (1). i ;  Uno o più? Monoteismo 9 polteismo? Si può con:  cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente _.  ‘dice il James — purchè sj ammetta la sua finità; è  Vunica via per sfuggire a tutti gli assurdi e gli 1n-  convenienti che por sè l Assoluto (2). Tuttavia  il pragmatismo inclina evidentemente al politeismo,  alla concezione di diversi del, ognuno dei quali Ss!  occupa di una frazione dell'universo; © di una ge-  rarchia di coscienze inferiori che vanno dalla c0-  d una suprema, senza soluzione    scienza della razza ® | i  a non è infinita perchè                        di continuità; © la suprem infir  ‘sintesi di coscienze finite (3); © è — dice il Boutroux  — ‘un sostituto pragmatistico dell'Uno astratto degli    idealisti; in essa € per essa le coscienze inferiori pos-  sono entrare in relazione fra loro, amarsi e compren-  dersi (4): sla qui il suo valore pratico.   ‘Tanto il James come lo Schiller tengono molto a  rovarci che la loro concezione del divino sì accorda  perfettamente con la religione pratica, con la espe-  rienza religiusa dell'uomo ordinario, e con la teolo-   ia orlodossa non inquinata dal veleno monistico. —  «Ne Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre Ce-  Jeste del Nuovo hanno nulla di comune con l'Asso-  julo se non questo, che lutti e tre sono più grandi  dell'uomo. Difficilmente io posso concepire qualche    fn 9”  cosa di più diverso dall'Assoluto del Dio di David 0    (1) JAMES, A putrat, Univ., DI. 318.    (2) JAMES; Ivi, p. 310-311.  13) È la teoma di Fechner che il JAMES €S sone nella IV Let  ‘tara del suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning. Fechner »: 133-177    0 oo  : ì questa coscienza feclneriana « esistente dietro le quinte ;  da È del mendo» e non ienulicabilc con l'Assoluto dei ° rascenden- ‘  ° talisti, il James sveva già pirlato in una conferenza « sull'im- i  Saggi “Pragmatisti: « L'ime |    i    | mortalità dell'anima » nel 1898, Cfr:  (mortalità dell'anima » p. 199,    (4) Op. c. Di JI.    =    Il Pragmatismo 83    di Isaia. Il loro Dio è un essere essenzialmente fini-  to... nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti  locali e personali » (1).   La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio par-  ziale, un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi po-  veri framinentli finiti del tutto (2). In nessuna religione  il Divino, il principio dell'aiuto e della giustizia, è ri-  guardalo come onnipolente in pratica (3).   Il politeismo originario dell'umanità si è svolto solo  imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il  monoteismo stesso, in quanto è veramente una reli-  gione e non il tema di conferenze universitarie, ha  sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un  primus int:r pares in mezzo alle altre potenze che pre-  sicdono alla storia del mondo e la formano {4). Il tei-  simo pratico e popolare è sempre stato piu o meno  francamente un pluralismo, per non dire un politei-  smo. Cioè, il leismo volgare si adatta a un universo  risullante di più principì indipendenti gli uni dagli al-  tri, purchè gli sì permetta di credere che il principio  divino (dal quale viene l’aiuto) sia il principio supre-  mo, al quale gli altri sono subordinati (5). E vero che  questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filo-  sofi, di qualcuno di quegli attributi melafisici che ab-  bianìo così severamente giudicali. È «unico », è «in-  finito »; l'idea che possano esistere -più dei finiti nn  è neanche discussa. Ciò si spiega dal falto che il po-  polo s'inchina davanti alla autorità dei filosofi amanti  di unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In  reullà la credenza religiosa è semplicemen'e la fede  in qualche cosa di più grande in cui si può trovare la  liberazione dal male. I bisogni pratici e le esperienze    (i; James, A Plural. Univ., pp. 110-111 Cc 194,   (2) SQUILLER, Stud. in Zum., p. 280, Lo Schiller aveva difesa.  e svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz  Cfr.: Le Dieu fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos., VIIL, Dp.  447-457, anno 1906.    (3) Scun LER, Stud, in IHum., p. 19ì.  (4) TAMES, Der Pragmat., p. 192.  (5) JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p.       pormi —_—T—_u__oei”niuocoenau<{iite0tt@    en TEZZE       RR a ge    84 La Religione nel Pragmatismo    dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza che  esta: esisle per ogni individuo una porsnza supe:  riore & lui, e a lui favorevole, alla quale può \.nirsl  perchè parlecipa della sua stessa nabvura. Per susci-  tare la confidenza dell’uomo pasta che quel potere sia  assai grande, sia più grande dell'io cosciente, non è  necessario che sia infinito © unico. Si potrebbe conce-  irlo come Un “ jo» più grande € più divino, del quale  io attuale non sarebbe che l'espressione in piccolo:  Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic di questi  «io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti usso-  luta. Questa specie di politeismo è sempre stata la  religione del popolo e 10 è ancora (1). La credenza  opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni provVI-  denziali; non prova nessuna difficolià @ mescolare il  mondo ideale è il mundo reale, i supporre che le po-  lenze spirituali intervengano nel gioco delle forse tisi-  Vide che a determinarne gli avvenimenti particolari ». Qui  sta il vero valore di Dio o del Divino e ì praginaUusti  sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali.  smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja  mes; e io sono persuaso che questa è L'ipotesi che sod-  ita disfa un più gran numero di legittime aspirazioni del  cuore e dello spirilo: per questo il pragmatismo la fa  sua, ed anche perchè è mirabilmente confermera da  ai cerle esperienze religiuse. Quelli che le hanno provate  st Riti sanno che nol abillamo in un ambiente spirituale in-  visibile, donde ci viene l’aiuto; che la nostra anima  è misteriosamente una con un'animu più vasta di cul  noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a credere che  uesta anima sla intinita, perfetta : l'ipotesi più nalu-  rale e più probabile è ammettere che VI ha un Dio, ina  finito, sia in potere 0 in sapere 0 nell'uno e neli'al-          } tro (2).  1:4% (i) gas, L'Erpér. relig., DD, 194495 -  7 i, (2) JAMES, LED. 131-193, dove si trovano le parole sottoli  î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308, gli. — A_PAE: 125 è più    Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2 Giovanni Mul il quale  DI aveva detto che bio non può essere oggetto di religione ine  L che non gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: “ To credo che  : unicamente un Dio finito è degno di questo nome », appunto  perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio della religione.    * bd  mici dissi a    = o    Ie Les                                   Il Pragmatismo    E così è sciollo il problema del male. Im questa con-  cezione Dio non è responsabile dell’esistenza del male,  non lo sarebbe nemmeno se il male non dovesse mai  esser vinto, Nel mondo panteistico, come s’è veduto, -  il male, come ogni altra reallà, deve avere il suo prin-  cipio in Dio: e la bontà di Dio, che è essenziale asso-  lutaumente alla religione — dice lo Schiller — come sì  salva? Ebbene ammettiamo che fin dall'origine il mon-  do è un insieme di principî distinti, che il male non è  parte essenziale, ma un elemento indipendente e la  bontà di Dio è salva: il problema teorico del male è-  sciolto.   E col leorico anche il pratico. Se tullo ciò che è, è  essenziale, come parte dell'Assolulo, il male è indi-  struttibile; se invece è elemento non appartenente al-  essenza della realtà, noi possiamo sperare di poter-  Ì lo espellere (il male) presto 0 tardi (1). Perciò lutte a  le forme di teologia, eccettuata quella più filosofica che ee  ha subito l'influsso degli assolutisli, concepiscono di  fulto il male come dovuto a un potere che non è Dio  e ne è in qualche modo indipendente: è denominato  variamente: «materia », « volontà libera », 0 « il dia-  volo ». La onnipotenza di Dio dei teologi non è quella  dell’Assoluto: essa è dipendente da necessità metafi-  siche (2). HE   Concludendo: In questa concezione di Dio elaborala  col criterio del valore pratico sulle rovine della critica.   È dell'Assoluto e del leismo scolastico e in armonia col  si pluralismo, abbiamo tutto ciò che corrisponde alle.  4 esigenze umane del divino; è salva la libertà del-  l'uomo: è dato un fondamento alle sue speranze è al  suoi desideri di salule ed è resa possibile la massima.  intimità fra il mondo c Dio: intimità di sentimento e  intimità morale, cioè la vera religione, che tanto ha  operato e opera sulla condotta. :  Noi chiediamo ; « Di che natura sono le reallà spl       TOA =             (1) L'Expér. relig., Chap. V, D. 107. . “A  () ScHILLer, Stud, in Mum., p. 288; JAMES, 4 Plural. Uniw,,         - -.86 La Religione nel Pragmatismo    ; P,   rituali più alte? » « Io l’ignoro » risponde il James (1).  Chiediamo ancora: ‘ esistenza di Dio è un puro  "contenuto soggettivo, ovvero è oggettiva? » Poichè am   mettiamo bene che l’azione di Dio, nell'esperienza re-  | ligiosa, è reale, che ha un'efficacia reale e che tutto  | accade come Se una forza sopramondana agisse diret-  tamente sul mondo dell'esperienza umana (2); am  mettiamo bene che l’esistenza di Dio ha un reale va-  lore pratico quando è affermata con fede, specialmente  coloso com'è quello del pluralismo ;    ‘in un mondo peri  ina noi sappiamo dal James stesso « che certi oggetti  ovocano in nol delle reazio-    uramente intellettuali pr C i C î  ‘così 0 più forli che gli oggetti sensibili o reali (3).  Ora è precisamente questo che domandiamo: le realtà    sovraumane hanno un'esistenza oggeltiva, indipen-   dente per sé dalla nostra esperienza soggettiva, 9 in-   dipendente solo perchè noi, con Patto di [ede, V'alfer-   -  miamo lale?   e TS il pragmatismo questa domanda non ha sen  -S0; richiamiamoci alla mente la sua dottrina della  verità, della realtà e della conoscenza.   Una dottrina che nega il valore rappresentativo dei  concetti e professa il nominalismo; che dichiara di  te abbandonare la logica francamente, recisamente ©  irrevocabilmente (4) » non può condurre che all'agno-  slicismo e allo scetticismo. È                          G 4. — Ben poco ci rimane da dire dell’applicazione   pragmalistica del criterio delle conseguenze alla reli-   gione dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui.  Che cos'è la religione? È assai probabile che nen    e che quindi è impossibile definirla. « Religione » non  designa un principio unico, ma piuttosto una collezio-  ne: non v'è un'emozione religiosa elementare, come    (1) L'Expér. relig., D. 136.   (2) James, L'Erper. relig.. D. 433,  (3) Zut, p. 45. ù   (4) A_Plur, Univ., p. 24.    arriveremo mai a scoprire “ l'essenza della religione »-       Il Pragmatismo 87_    non esistono nè un oggelto religioso nè un atto reli-  gioso specificamente determinati. Se è impossibile da-  re una definizione astratta della essenza della religio-  ne non è però impossibile delimitarne il campo e in-  chiudere in una formula i lraiti caratteristici empimci  délla religione. Una divisione salta subito agli occhi:  tra istituzioni religiose (0 religioni stabilite) e religioni  individuali (0 personali). La religione stabilita è un in-  sieme di istituzioni, di cerimonie, di riti, di sacrifici  propiziatori, di dogmi, di organizzazione del clero; si  può definirla: un'arte pratica di assicurarsi il favore  della divinità, La religione personale è la vita interio-    re dell'uomo religioso; gli atti che essa produce sono |    personali, non rituali ; l'individuo sbriga da sè i pro-  pri affari con la divinità ; e la chiesa coi suoi preli, coi  suoi sacrumenti e con tutti i suoi intermediari passa  in ultima linea. Si può definire: «le impressioni, i  sentimenti, gli atli dell'individuo preso isolatamente  in quanto si considera in rapporto con ciò che gli ap-  parisce conie divino » (1), comunque poi s'intenda que-  sto divino: come legge dell'universo, come anima del  mondo o come un Dio personale.   Parliamo anzitutto del valore della religione in senso  personale e poi del valore delle religioni o istituzioni  religiose. — Per quanto grande sia la differenza con  cui l'elemento religioso si combina nell'uomo con gli  altri elementi del pensiero, anzi, per quanto diverso  sia il principio stesso religioso nella molteplicità delle  sette, dei credo, e dei tipi religiosi (2), noi possiamo  affermare che le credenze più caratteristiche della  vita religiosa sono: 1.° Il mondo visibile non è che  una parte d'un universo invisibile e spirituale, dal  quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine dell'uomo  è l'unione intima, armoniosa con questo universo.    (1) James, L'Expér. relig., D. 2427. — « Nous entendrons  exclusivement par le divin une réalité première de telle na-  ture que l'individu se sent obbligé de prendre vis-A-vis_ delle    ‘une attitude solennelle et grave, en Jaissant de coté tout  blasphème et toute plaisanterie » (p. 34). — Son io che sot» |    tolineo.    (2) JAMES, L'Expér, relig., P. 406,    tas dee tie. nea          880. La Religione nel Pragmatismo   9.0. La preghiera, cioè la comunione con lo spirit   dell'universo — sio esso un Dio 0 solamente una  ; legge — è UV atto che non resta senza effetto: ne  i risulla un influsso di energia spirituale che può mo-  “A ‘ dificare in una maniera sensibile (anto i fenomeni    materiali quanto quelli dell'anima (1). (ei   Nella valutazione di queste credenze il criterio non  sarà, naluralmente, un sistema speculativo o {eolo-  gico, ma i frutti, le conseguenze pratiche : dal frutto .  sì conosce. l'albero. E poichî nella religione il senti-  mento vi ha la parte fondnmentale, vediamo qual'è  il valore affettiva della religione. Tolstoi ha detto che  Ja religione fa vivere gli uomini. Il sentimento veli-  gioso è uneccitazione giocunda, un'espansione dine-  mogenica che tonifica e rianima la potenza vitale:  aggiunge n valore nuovo alla vita, c agli oggetti  più ore inart un fascino e uno splendore insolili. Se  la religione non avesse che questo valore soggettivo,       IR non fosse che una serie di fenomeni psichici, senza  } $ nessull contenuto intellettuale, vera 0 falsa che cessa  RAI — fosse, nol sarebbe meno una delle funzioni biologi-   UU: che più importanti della specie umana; ciò che ha  SRO, fatto dire al Leuba che il fine della religione non è  373 Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio    2: non si conosce, non si comprende, Ma si sfrutta (2).  Ma la religione ha anche un'immensa fecondità  pratica sociale.   JI frutto della vila religiosa è la santità, che inchiu-  de in sè tutto ciò che di meglio ci abbia dato la sto-  ria. La santità ha avulo bensì delle manifestazioni  ché la coscienza moderna non può acceltare, ma VE  n'ha di quelle — e SONO più numerose — che ci rive-  lavo nei santi dei precursori © dei creatori. La san-  lità accresce nel mondo în somma di energia mora:  le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con la    (1) JAMES, Ivi, p. 405. — Nol sappiamo già a quale fra le  varie convezioni «el divino il pragmatismo dà la preferenza  e per quali ragioni. 2   (2) Citato dal JAN:S, ivi, D. 199-193: «Il ne faut Pas dire    que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire que  l'on s'en serta,       nn                                                                 HI Pragmatismo 89    sua forza d'animo, col suo amore eroico pei mise-  rabili più ributltanti, col suo spirito di. sacrificio, è  un fallore essenziale del benessere sociale. La reli-  gione è la condizione necessaria di certi effetti, la  «fonte dei quali nè l'individuo nè la società hanno sa-  | puto trovare altrove: il disinteresse, l'energia, la per-  severanza (1). : 2 BAR   Olire questo valere affettivo, o biologico, indivi  duale e svciale, la religione ha anche un valore in-  lelleltuale? Questa questione si divide in due — dice  il James: — «Solto la moltitudine delle credenze vi  sono delle affermazioni comuni? » E: «sono vere tali  affermazioni?» La risposta alla prima questione è  affermativa: in tutte le religioni vi sono due stali —»- —.  d'anima identici: il sentimento d’inquietudine che <S  in noi c'è qualche cosa che va male, e il sentimento  che noi siamo salvati dal male entrando in rapporto  con esseri superiori — con qualche cosa più yrande  di noi: lotta e liberazione: ecco la sintesi della reli-  gione personale e il perchè del suo immenso valore  sulla vita. Ma che cos'è questo qualche cosa di più  grande? È reale o immaginario? Come possiamo en-  {rare in rapporto con lui? Qual'è, insomma la verità  della religione?   Xispondeve a quesle questioni impiicile nelia  se-.  conda è costruire delle sopracredenze (surcroyances)  individuali e collettive, tutte buone se aiimentano il  nucleo vitale della religione. Vi possono essere e vi  sono di fatto tante aggiunte individuali alla credenza  unica quanle sono le anime o i lipi religiosi (2), Il  «rapporto col divino potendo essere, o essere inter-  { pretato come rapporto o morale o fisico, o rituale,   «Si capisce come possano nascere delle costruzioni 7A  _ losofiche e leologiche — delle quali abbiamo visto  | Valore — e anche come sorgano le Chiese (3).  . James, e con lui, naturalmente, più o meno tuil       SA (1) JAMES, L'Expérien. relig., Chap. VIII e IX.    E)  (2) JasrEs, ivi, pp, 406 e 423-125, — Ci è nota la sua  croyance. 0%                      ‘La Religione net Pragmatismo    pragmalisti — non ama — a dir poco — le Chiese,  con la loro organizzazione, coi loro. dogmi, con le  loro tradizioni, perchè in esse è uccisa la vita inte-    AQ ogni modo e dogmi e culto e mi debbono es:  sere giudicati daì frutti individuali e social, e i frutti  della vita religiosa sono sommessi alla giurisdizione  del buon sense (2) e dei pregiudizi filosofici e istinti  morali — dice allrove (3). Ed essendo questi pregiu-  ‘dizt, questi istinti e questo buon senso frutti, essi  stessi, dî una. evoluzione empirica incessante, anché  le idee religiose si andranno incessantemente modi-  ficando. Dal giorno che ìi frutti di una data forma re-  ligiosa perdono ognì valore, dal giorno che la vec  chia credenza è in contraddizione con un nuovo idea-  le; dal giorno che la ragione la dichiara lroppo pue-  rile, troppo assurda o troppo immorale... essa cade  trascinando, nella sua caduta, il Dio creato dall'uo-  | mo per «servirsene » (4). E noi confessiamo che in i  una dottrina interamente antropocentrica, nella qua- d  le l'uomo è la misura di iulte le cose, cioè, le esi» È  enzo, i desideri e gli interessi umani nel modo che  s'è veduto, lutto ciò è logico ©... anche utile, fino &  un certo punto: Ed è naturale che il pragmatismo  creda di fare un mondo di bene alla religione € alle  religioni. Ci dice lo Schiller: Il pragmatismo jo uma  nist,0) ha dimostrato che la volontà di credere sta.  ulla base, non solo della religione, ma di qualunque  - gpecie di inferenza 0 di atto razionale, e che, quindi,  la sfera dei iudizi di valore non è coestensiva solo |  |» alle verità religiose, ma a qualunque verità: la fede i  lia così cessato dì essere un ‘avversario e un sosli- i  | futo della ragione ed è diventata un suo costitutivo |  essenziale. ‘  Come potrà la ragione contestare la validità della    dor: L'Erpér. relig., speclalinente Chap. IK, pp. 281-293:  IA Ivi, p. 293.   (9) /vi, p. 281. 7  (4) Ivi, p. 272. — Pel «s î  actetta: p. 27 Pel «servirsene» cita ancora il Lepba L       x»                             lì Pragmatismo dI    fede, se la fede è essenziale alla sua stessa validi-  tà? (1). — E altrove: « Tutte le religioni (concrete)  possono profillare dell’atteggiamento di simpatia che  l'umanismo assume davanti agli istinti religiosi del-  la nalura umana e verso le evidenze e i metodi delle  religioni. 1l pragmatismo, affermando il fatto reli-  gioso e il suo valore sulla base dell'esperienza inte-  riore e dei risultati individuali e sociali, rende vani  gli altacchi razionalistici e mette la religione al sicu-  ro dalle confutazioni dialettiche. Il pragmatismo inol-  (re, come si è mostrato un eccellente « eirenicon » tra  le dottrine filosofiche, apparirà un «eirenicon» non  meno efficace tra le religioni. Non è vero che lutte  operano (in senso pragmatista) in una cerchia più o  meno vasta? Ma allora esse sono identiche nella loro  parle veramente vilale, attiva: e che importa sc dif-  feriscono teoricamente? Terzo beneficio: il: pràgma-  lismo libera, così, le religioni da ciò che vi è in esse  di non-funzionale, dalle incrostazioni parassilarie ed  csiziali, e, per tal modo, le rinvigorisce. — Che cos'è  la parte non-funzionale della religione? È il suo lato  teologico (2). 18 qui una tirata contro i sistemi teolo-  gici, contro le infiltrazioni della metafisica greca nel  « Credo atanasiano » e contro l’identificazione di Dio  con «l'Uno». Già! — La conclusione possiamo ac-  cettarla anche noi, ma basandola su fondamenti af-  futio diversi da quelli del pragmatismo: «La reli- 5  gione più vera è quella che proclama una vita mi- $  , gliore e la promuove» (8). ;                  (1) Stud. in Hum., pp. 352-353.  | (2) ScurLrer: Stud. in Hum., p. 363.  | ,..(8ì E la conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri    ligion in: Stud. in Humarism, p. 369: «the truest reli tons  that Which issues in and fosters the best life», Rd       A  \-       IV.    SCHILLER L LA LOGICA FORMALE    — —    eri della Logica formale nella con=    Sommario: S 1. Caratt  — { 2. La validità formale.    cezione dello Schiller.    gi. Lo Schiller (1) sotto il nome di « logica forma-  le» inchiude e condanna non solo quella che da al  tri è designata col nome di « logica formalistica » mn    anche la logica formale propriamente detta, e, cri    | licando e condannando quella, presume di aver cri    ficato e condannato anche questa, cioè, in blocco, .  tulla la logica tradizionale e classica, alla quale do-  vrà sostituirsi la logica psicologica, 0 psicologistica,  cioè quel complesso di leggi o regole o norme del  pensiero che risultano dall'analisi psicologica del pen    siero, ossia dalla considerazione dei processi del pen- |    siero, non in una pretesa forma di esso di  materia idel concetto, del giudizio, del raziocinio con:  siderati astraltamente nella loro forma verbale di  temine, proposizione € sillogismo considerai9 esso  pure, a sua volla, astrattamente), ma nel loro sor-  gere e syolgersi allraverso la fitta rete psichica di  Fferessi, di desideri, ecc. : la logica dello psicologi  smo e della forma speciale di esso offertaci dal prag-  matismo, insomma. Una logica & posteriori risut    1) F. C. S. SCHILLER. — Formul Logic. A sclentifle and s0-  cial Problem. ——> Un yol, in:8 pp. XII-123, Macmillan and 0.9,    ‘London 1912.    stinta dalla |    Îl Pragmatismo 93                               er selezione, non a priori, una logica, pare,  SOA sì, ma indotta in base a postulati, non  dedotta. Il pensiero puro, così come la forma pura  del pensiero non esistono; quindi ogni logica è neces-  sariamente empirica nella sua origine e nel suo va-  lore. E così con la logica sillogislica è condannata  anche la logica del concello col solo semplicismo che  abbiamo imparato a conoscere altre volte nello Schil-  ler. Ma, evidentemente, prima di condannare in bloc-  co, bisogna vedere se tra la logica formale e forma-  lislica c'è idenlità, o se non c’è invece una diiferen-  za radicale che impone una pertraltazione a parle e  radicalmente diversa di quelle due discipline. La lo-  gica formale vera è la dottrina della forma unica del  pensiero: il concelto, come sintesi di individuale c    come concelto universale contro, come scienza del  concetto puro. Per essa la forma verbale in cui si  suole incarnare generalmente il concetto non ha nes-  sun valore logico e si guavda bene dal cousiderane  le distinzioni verbali come distinzioni conceltuali 0  l’identità di forma verbale come identità concettuale.  La logica forinalislica invece, trasporta nei concetti  le qualità e le distinzioni dei termini, trasporta nei  giudizi le modalita e le specie delle proporzioni, lra-  sporta nei raziocinì le figure e ì modì dei sillogismi:  anzi la distinzione stessa delle forme logiche in con-  celti, giudizì e raziocini è nient’allro che una proie-  zione di forme verbali nell’altivita del pensiero. Per-  ciò la logica formalistica qua talis, non ha valore  speculativo (logico in senso vero), ima solo empirico  © UCSCLILLvo; ci dà, Massunti, con piu o meno pretese  (il copielezza, i modi piu consueti dei quali l'uomo  51 serve nel suo discorrere, nell'esposizione e ncila  "a discussione delle idee; è un'arte in senso di tecnica,  9 meglio, è una collezione (non connessione) delle  forme del discorso empirico umano, una specie di  leltorica 0 grammatica messa a servizio non del par-  lur bello ma del parlur giusto. Può essere ed è fino  a un certo punto praticamente utile come tutte le.   discipline descriltive assunte a discipline nurmative  d    universale, come storia o guidizio sintetico, a priori, .                                      PR TA          DA | Sèhiller e la Logica Kormale    e precettistiche, ma non ha valore speculativo, ron   ci dè, anzi ci nastonde la forma intima. del pensiero   necessario € unico, © SÌ contenta di offrire! le forme  esteriori, arbitrarie è quindi componibili € combina:   bili all'infinito. - .   I Jo Schiller na un buon gioco @ mostrare il caral-  tere arbitrario di questa logica, la astrallezza di essa,  la îmulilità e perfino il danno non leggero che essa può  anrecare allo sviluppo Serio delle scienze © della  mente individuale. Ha ragione lo Schiller: « IL îs nol .?   ossible t0 abstract {rom the aclual use of the logical |  material and lo consider — forms ol lought — @ 4  Ihemselves, voilout incurring thereby @ total loss,   1’    hi    nol only of Wrui, but also of meaning ” (IX). i  s 2. — Ma con ciò non si è déito che ba ragione @ |  ‘non riconoscere altre logica ché que:lu psicolugica, |  tutt'altro. Oltre la logica formalistica (0 tormale cu- |  mè la chiama erroneamente lo Schaller), c'è la logica i  formale vera secondo la quale la maleria è fusa nel  la forma, poichè per èssa la forma logica, concel-  ‘tuale, sintesi di materia e forma, di pensiero e lup-   ‘esentazione: è forma Non astratta me concrela ;          e tulto il pensiero reale storico perchè appunto sun: f  (esi univarsale individuale: è il razionale-reale, il fl  concetto.   È Dio ci salvi dalla logica psicologica 0 psicologi- |  stica! Poichè in essa, oltre che non trovare nulla di #  meno arbitrario che nella logica forinalistica non sì ì  trova neanche quella apparenzà di necessità e di as-  Solutezza che la logica tradizionale ci oifre, sia pure  solto una forma astratta e verbalistica. Finchè non  si accetta e non SÌ capisce la logitù del concetto puro  e semplice, ogni tentativo di riforme logiche sarà  nulla più che un saltare dall'arbiltàrio all’avbitrario,  dall'astratto ali’astratto e un aggiungere al mele 131  nuovo male o una forma nuova del male. L per yite-  nere questo scopo non mette certo conto di scrivere  un grosso libro come questo.   Sé lo Schiller avesse rinesso bene su quelli che lui    ritiene e sono i due caratteri fondamentali della 1o-       |    Ml Praqmalismo' (h)    gica formalistica e cioè: I° la credenza che sia pos-  sibile considerare la «validità formale» come una  cosa a parle e indipendente e astrarre dalla verità  «materiale »; 2° la credenza che sia possibile tratta-  re la iogica senza riguardo alla psicologia e di aslrar-  re dal contesto atluale in cui le asserzioni sorgono,  tempo, luogo, circostanze, Scopo, personalilà, ecc.  (P. 375) e se avesse poi esaminato con più spassio-  natezza la logica del concetto-sloria, non avrebbe for-  se futto giustizia sommaria di lutta la logica tradi-  zionale cd avrebbe trovato che parecchie delle sue  critiche sono state già fatte da altri, i quali non sen-  lirono però il bisogno di sostituire, come fa lui, le  elichelte psicologiche alle elichette della logica for-  malistica. In questo libro c'è molto del buono anche  perchè dai principio alla fine corre nelle pagine una  domanda sempre crescente di concretezza ce, anzi,  pare a volte che lo Schiller abbia colto il centro della  critica e della ricostruzione. Purtroppo i: pregiudizi  pragmalislici gli impediscono di assurgere ad un  punto di vista superiore; anche lui, pur nella lotta  contro gli schemi e !e elichetle, maneggia schemi ed  etichette; meno mole, anzi molto bene che, da buon  pragmatisla, ne è consapevole.             V.  VALUTAZIONE CRITICA.       SommMario:= & | La reazione contro l'intellettualismo. — |  $ 2. Verità e ‘utilità. |    gi, — Del pragmatismo non si parla più che com   di un indirizzo di ricerche e di asserzioni, che ha avi |  {fo il suo proverbiale quarto d'ora di celebrità pei  scomparire per sempre e senza visibili influssi sullu  svolgimento complessivo ulteriore del pensiero. Nata  da une reazione all'intellettualismo razionalislico ed  empiristico, che non sapevano valutare l'attività de:  soggetto nella creazione del mondo del pensiero €  della vita; allermalosi come volontarismo ceudemo:;  nistico o come filosofia dell'azione utilitaria, non ha  sapulo nè volulo evilare, con una doverosa distin:  zione dì logica e psicologia, lo scoglio terribile dellà  formula protagorica: l’uomo è la misura di tutte lt  cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici  sino, È inulile she ci ripetiamo. Iidotla la filoso;  fia a un prodolto dell'individuo, © ad espressioni del  la nostra soggellività volitiva e i giudizi scientifici  speculativi a semplici giudizi morali; negala la pos  sibilità di raggiungere l'assoluto, la ragione intima  immanente e ascendente dell'essere o del divenire  con l'affermazione della universale soggettività e Ie  ‘natività; posto l’utilitarismo a base di ogni costruzio:  ne concelluale e considerati, quindi, i concetti com‘  funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0  ciale, il pragmatismo si risolve logicamente in uni  rinunzia a fi osofare. Può essere metodo per sè, I                                        i UT  Il Pragmatismo    : i lla vita colta  non filosofia sc IRRMIgSORE E So  nella sua razionalità e nei s o ve omalismo profes-   E, infatti, come s'è veduto, 1 flo: «esso non ha  sa di essere semplicemente ua Coe etodo WNGNan:  dog int aa istcao mon è forse una dottrina?  Magli vamestto he riassume il me-  Non è una dottrina la formula c arsi tutte  todo pragmatistico: « Sono er 6 da acco utili  le neri SAS SIE n è forse implicito  alla svitaza in: ilitari ico e, insieme, il  n più Sconto no leorecot È esp ducslo ab:  Dima definito, credo, Felino due aspetti più es-   ziali la teoria pragmati nd AR   Sa CLES Della quale non è qui il luogo di TISIRLS  estesamente il valore storico. Possiamo dire il nos D  pensiero in due parole: il pragmatismo è andato al-  l'eccesso opposto nella sua reazione all intellettua-  lismo, perchè ha negato addirittura il concetto come  tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso, vano,  perchè senza fondamento, la Rane buona . dell'in-  dirizzo, quella che, purificata di tutto l’utilitarismo +  materialistico che troppo spesso la intorbida, si può  esprimere nelle parole evangeliche: «Dai frutti co-  noscerete l'albero ». L'utilità — nel senso spirituale  altissimo della parola — è un aspetto della verità:  la verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma,  non dimentichiamolo mai, una dottrina non è vera, a  propriamente parlare, perchè e in quanto è utile, ma  è utile perchè‘vera.   .La verità metafisica e logica di una idea e di un  Sistema d’idee è il fondamento di tutti gli altri at-  tributi dell'idea e del sistema e di tutte le loro cor-  rispondenze alle esigenze etiche dell'uomo.       Yogi Pragmatis                         NOTA BIBLIGGRAFICA    —_——_—-    “ Rimandiamo alle seguenti pibliografie: « The Pych  Zev. » vol XVIII, 1911, pp. 157-165; G. Parini, Sag-  gì pragmatisti, R. Carabba, Lanciano; Ugo SPIRITO,  JI pragmatismo nella Jilosofia contemporanea, Firen-  ze, Vallecchi 1921; Sinvio TISSI, Nota bibl. al vol. su  James, Milano,. Ed. Athena 1924.  | Segnaliamo poi, nella ricchissima bibliografia del-  argomento — oltre ui molti scritti segnalati occasio-  almente nelle note — le seguenti opere: G. VAILATI,  Scritti, Firenze, Secher 1911; G. Papini, Sul Pragma-  | lismo, Milano, Libr. Ed. Milanese 1913 (ripubblicato  ‘dal Vallecchi nel 1920); M. CALDERONI è G. VAILATI, IL  $ pragmatismo, Lanciano, R. Carabba, 1920; U. SPr-  “RITO, op. cit. ; M. CaLpeRONI, Scritti, a cura di O. CAM-  7 Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce», 1924.       IT.    I.    III. —    INDIVI    - LUO    INDICE    LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMA-    TISMO. — $ 1. Il Pragmatismo anglo-  americano. — $ 2. Pragmatismo e Umani-  smo. — $ 3, Pragmatismo e conoscenza.    LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA  REALTÀ. — $ 1. La condotta. — $ 2, La  dottrina dolla verità. — fg 3. La dottrina  della realtà. x : 5 0   LA RELIGIONE NEL PRAGMATISMO.  — $ 1. Lo preoccupazioni etiche e reli-  gioso. — $ 2. L’esistonza di Dio. — $ 3.  Il concetto di Dio. — $ 4. Religione e  Religioni , ò . . . 3    SCHILLER E LA LOGICA FORMALE.  — $ 1. Caratteri della logica formale nella  concozione dello Schiller. — $ 2. La vali-  dità formale Ù 5 5 9 -    VALUTAZIONE CRITICA. — $ 1. La rea-  zione contro l’intellottualismo. — $ 2. Ve-  rità e utilità . È - ‘ -    NOTA BIBLIOGRAFICA .    Da    è    pag:    5    28    57    92    96                I MAESTRI DEL PENSIERO.    VOLUMI CHE INIZIANO LA COLLEZIONE                          i)  ei n VALENTINO PICCOLI À {  Bi: INTRODUZIONE DELLA FILOSOFIA |  i PAOLO ROTTA PAOLO ROTTA |  ì | ARISTOTELE BERKELEY |  IALENTINO SETCOO LI ! GIUSEPPE TAROZZI |  PLATONE LOCKE |  S: PICURO. E. PAOLO LAMANNA  AAA ° "KANT 6000  V. ARANGIO-RUIZ na *  LOTINO GIUSEPPE MAGGIORE |»   FICHTE    HQ    P. E. CHIOCCHETTI                S. AGOSTINO PIETRO MIGNOSI  E. CHIOCCHETTI SCHELLING |  "S TOMA ASO GIUSEPPE MAGGIORE |  CHIOCCHETTI HEGEL i  S. PONAVENTURA Big ni x  TISSI  c ARTESI O SCHOPENHAUER i  Fa PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI  o SPINOZA STUART MILL  “50 »ALENTINO PICCOLI E. MORSELLI  Î Y MIENIINO PICCOL CUORSEI        È Pubblicati: P. ROTT _ SEINOZS  x ì. MiGGIONE HEGE  ZINI =. 2 SoioFENnAUER  P. LAMANNA — KA  MAGGIORE — FIGI TITE  . E. CHIOCCHETTI — S. TOMASO  VICO    "TISSI _ GATESIO  MORSELLI — COMTE   BOT} — ARISTOTELE  —_ SCHELUINO    IRINA  Kc}  fe3: Emilio Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher, and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica, Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716695872/in/photolist-2mN2zUd-2mKCVsF/

 

Grice e Chiodi – esistenti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice: “I like Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent ‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” -- Pietro Chiodi (Corteno Golgi) filosofo.  Figlio di Annibale e Maria Romelli, frequentò le scuole elementari al paese natio e le medie inferiori e superiori a Sondrio sotto la guida del prof. Credaro, che lo avviò allo studio della filosofia. Dopo aver conseguito nel 1934 l'abilitazione magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò il 27 giugno 1938 in pedagogia sotto la guida di Nicola Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di storia e filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò per 18 anni. Qui entrò in contatto col professore di lettere Leonardo Cocito, del quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi lo scrittore Beppe Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano Johnny, il personaggio di Monti.  Grazie ai suoi contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, Chiodi entrò, Il 2 luglio 1944, a far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di battaglia di “Piero”.  Il 18 agosto di quello stesso anno Chiodi venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck. Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio. Il 30 settembre alle ore 07:30 era alla stazione di Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse nell'albese. Qui riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il nome di battaglia di Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della CIII Brigate Garibaldi intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi a Carignano (località pilone Virle) il 7 settembre 1944, insieme ad altri patrioti.  Nel 1946 narrò la propria esperienza di lotta, di prigionia e di guerra civile nel libro scritto in forma diaristica e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei primi memoriali di deportati politici italiani.  Dopo la liberazione di Torino nel 1945, Chiodi era tornato all'insegnamento ad Alba. Nel 1957 si trasferì come insegnante al Liceo di Chieri e poi al Liceo Vittorio Alfieri del capoluogo piemontese. Nel 1955 ottenne la libera docenza e dal 1963 fu incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla Facoltà di Lettere e filosofia a Torino, insegnamento che ricoprì fino alla sua prematura morte nel 1970, affiancandolo all'incarico di Pedagogia. Nel 1961, l'Accademia Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della Pubblica Istruzione per la filosofia e nel 1964 gli fu conferito il Premio Bologna.  Alla ristampa del 1961 di Banditi Chiodi premise questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapportisiano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia».  Raccolse grande stima ed affetto tra suoi allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande Maestro, limpido esempio di tolleranza e serenità di giudizio.  Attività filosofica L'attività filosofica di Pietro Chiodi si concentrò specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva. La maggior parte delle sue opere è dedicata a Martin Heidegger.  Egli fu il primo traduttore in Italiano di Essere e tempo, nel 1953, e il terzo in assoluto a realizzarne una versione in un'altra lingua, dopo il giapponese e lo spagnolo. Proprio a Chiodi si deve la definizione della terminologia heideggeriana in Italiano, divenuta poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione del tedesco Dasein con l'italiano Esserci, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non ancora raggiuntain questo specifico casoin altre lingue. Al filosofo tedesco dedicò anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger (1947), L'ultimo Heidegger (1952), Esistenzialismo e fenomenologia (1963). Fu, inoltre, traduttore di L'essenza del fondamento (1952) e Sentieri interrotti (1968). A Immanuel Kant dedicò, invece, La deduzione nell'opera di Kant (1961) e ne tradusse nel 1967 la Critica della ragion pura e gli Scritti morali, usciti nella sua versione nel 1970. È infine da ricordare il suo interesse per Jean-Paul Sartre, del quale si occupò nel 1965 nell'opera Sartre e il marxismo.  L'esperienza partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita di Pietro Chiodi, per cui il valore della libertà occupò sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio faccia rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la libertà». La sua breve e unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non solo storico e morale ma anche letterario, è stata definita da Davide Lajolo «Il libro più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità, 10 ottobre 1946) e da Franco Fortini «quasi un capolavoro [...]. Ci sono dei tratti straordinari, nel tragico come nel comico».  Opere Chiodi Pietro, Banditi, con introduzione di Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi, 2002 [1961],  978-88-06-16322-8. Chiodi Pietro, Esistenzialismo e filosofia contemporanea, Giuseppe Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, 2007,  88-7642-194-7. Note   Deportati Politici Italiani, su restellistoria.altervista.org. Chiodi, Banditi, Torino, Einaudi, 1975V. , Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli, 1994132.  Resistenza italiana Deportati politici italiani Esistenzialismo Martin Heidegger Opere di Pietro Chiodi,.  Biografia di Chiodi nel sito dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi 'Beppe Fenoglio'CHIODI Pietro, su centrostudibeppefenoglio. V D M Antifascismo (1919-1943) Filosofia Filosofo del XX secoloPartigiani italiani 1915 1970 2 luglio 22 settembre Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality, maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51771911472/in/dateposted-public/

 

Grice e Chitti – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Citanova). Filosofo. Grice: “I like Chitti; not so much for what he philosophised about – law and law and law – but the way he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack of an adequate philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione.  Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla Gran Corte Criminale di Reggio e di Saveria Barbaro, nativa di Napoli.  Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli, alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti patrioti del tempo.   Ferdinando I delle Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, Maria Grimaldi-Serra, ultima principessa di Gerace, davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come avvocato, dopo la restaurazione ebbe la nomina di segretario generale al Ministero di Grazia e Giustizia del Regno.  A Napoli sposa la figlia di Emanuele Hipman, un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Fu coinvolto nella rivolta contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, fu quindi privato della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di ritornare a Napoli, ma ebbe l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale. Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si recò a Bruxelles.  In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si fece un nome. Il governo belga gli conferì la licenza di professare Economia Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue quattro letture furono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale», compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento. Pubblica altre opere ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli conferì la carica di Professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In Belgio pubblica la maggior parte dei suoi lavori e strinse amicizia con Gioberti, che lo definirà valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non torna a Napoli ma rimase in Belgio ancora per parecchi anni fino a quando partì per il nuovo mondo.  In America, tenta  varie imprese commerciali, ma difficoltà sopravvenute gli fecero abbandonare presto i suoi progetti e si stabilì a New York. Altre opere: “Trattato di economia politica o semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì. New York Daily Times pag. 4  Daily Free Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley Online Library  Vincenzo De Cristo, Prime notizie sulla vita e sulle opere di Chitti Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana, Dizionario biografico degli italiani,  25, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione  economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti  di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Ca¬  tania, Studio Editoriale Moderno, 1932.   Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e  descrittivi, nel campo dell’azione economica corpora¬  tiva. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi-  cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti  del gennaio 1932. Riportiamo qui la bibliografia essen¬  ziale dei contributi italiani allo studio dell’economia  corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, nume¬  rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di  consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della  stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’ « Ho¬  mo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Gior¬  nale degli economisti, gennaio 1929; Arias G. : L’Eco¬  nomia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Lit¬  torio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,  Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Ste¬  fani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;  Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica  economica, in « Giornale degli Economisti ». Febbraio  1934 (Classifica le varie politiche economiche. Carattere  di quella corporativa: autogoverni economici particola¬  ri, con il compito di emanare misure rispondenti, nei  rami particolari, alla politica economica generale ema¬  nante dal governo economico centrale. Le corporazioni  sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bru-  guier G. : A proposito di interventi statali, in «Ar¬  chivio di studi corporativi », Anno IV, Fase. III,  Pisa, 1933 ; Borgatta G. : Prefazione al nostro vo¬  lume av. cit. : Lineamenti di politica economica corpo¬  rativa; Carli F. : Teoria generale della economia poli-     r >   V I            136    LELLO GANGEMI    tica nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e dello stesso: Le  crisi economiche delV ordinamento corporativo della  produzione, in « Atti del II Convegno di studi sinda¬  cali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e  forme delT attività economica, in «Rivista di Politica  economica » del 31 gennaio 1931. (Secondo questo autore  J economia corporativa non è altro che un’ economia di  complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua  realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni  dell individuo con la società e di questa con lo Stato).  Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo eco¬  nomico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in  onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio V au¬  tore conclude che il corporativismo italiano pur traen¬  do alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Ge¬  novesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste  in quanto che inquadra le sue idee in una concezione  piu larga, che non tiene solo conto degli interessi  dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,  che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli  interessi della Nazione, viene organizzata gerarchica¬  mente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e  la sostanza della economia corporativa, Firenze Poli¬  grafica Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi  economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione  alla XIX riunione della «Società pel Progresso della  Scienza», riassunta in « Lo Stato » settembre-ottobre  1930; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativi¬  smo in « La Riforma Sociale », novembre-dicembre 1933;  e dello stesso: Corporazione aperta in «La Riforma So¬  ciale » Marzo-Aprile 1934. Fanno M. scritto cit.; Fasiani  M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in  « Studi sassaresi », fase. IV. voi. X. 15 gennaio 1933; Fer¬  ri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista  economico, Padova, CEDAM, 1933; Fovel M.: Economia  e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e dello stesso:  La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei « Pro¬  blemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed econo¬  mia corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro», 1929; Ca¬  mera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara  1930; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima econo-                                                                            BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE    137    mia e di una pplitica economica corporativa, in : « Rivi¬  sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene  questo A. che tanto la politica economica corporativa,  quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica de¬  gli individui dei gruppi animati di una coscienza corpo¬  rativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in  tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla co¬  scienza corporativa (all’autore parendo il più adatto  perchè conforme alle direttive del Regime quello che  ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo be¬  nessere individuale compatibile col benessere della Na¬  zione); ed il primo, quando le norme abbiano suffi¬  ciente chiarezza (univocità) e costanza da consentire  una costruzione logica di conseguenze possibili. Pur¬  ché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non  si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente  legittimo fare della economia corporativa una « eco¬  nomia » astratta, trovare il nocciolo razionale del con¬  creto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimen¬  tale della economia corporativa, « Giornale degli eco¬  nomisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa  politica, Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello  stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poli¬  grafico Universitario, 1934; Jannaccone P.: La scienza  economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto al¬  l’inaugurazione dell’anno accademico della R. Univer¬  sità di Torino, 5 novembre 1931), e dello stesso : Scienza,  critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »,  novembre-dicembre 1930; Lanzillo A.: Studi di eco¬  nomia applicata, Padova, Cedam, 1933 e dello stesso  A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivi¬  sta Bancaria », novembre 1928, ed Economia corpora¬  tiva e politica economica, in « Giornale degli Econo¬  misti », ottobre 1930; Lo Stato come fattore di produ¬  zione, in « Rivista Bancaria », maggio 1934 (Lo Stato  come inserzione di volontà nell’ attività economical.  Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la  scienza economica tradizionale e la notevole incompren¬  sione degli economisti ortodossi i quali riescono inte¬  ressanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li-  erali o di altre tendenze, ma come scienziati del-      l’economia, riconosce che per dare un carattere di  socialità, che concili l’interesse privato con quello  sociale o nazionale, alla economia privata, non è ne¬  cessario giungere alla totale abolizione dell’economia  privata ed alla identificazione dell’ economia pubblica,  come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente  al centro dell attività economica umana la produzione  e non lo scambio non ha visto che nello scambio si  ha la sintesi dell’ interesse individuale e dell’ interesse  sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è in¬  dividuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,  come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei  valori economici ed il movente egoistico dei fatti eco¬  nomici e identificare F iniziativa economica privata  coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisogne¬  rebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬  nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze  di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esiste¬  ranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono  la base dello scambio e la molla del progresso economico  e che nessun sistema di economia socialista è mai riu¬  scito a sopprimere.   Il porre a fondamento dell’economia corporativa la  produzione e quindi l’organizzazione e la gestione eco¬  nomica della produzione invece dello scambio, inteso  nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande  ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione  mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,  del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli  intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda-  mentali per la definizione dei fini e delle funzioni  della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe  giungere alla Corporazione organo di gestione econo¬  mica col passaggio di tutta l’iniziativa economica pri¬  vata alla Corporazione e con la conseguente trasfor¬  mazione di tutta l’economia privata in economia pub¬  blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬  sumerà la direzione della gestione economica della pro¬  duzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eli¬  minare il classismo o particolarismo economico, di im¬  pedire che uno o più fattori della produzione si fac-                                          BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE    139    ciano la parte del leone nei confronti con gli altri  fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al pro¬  duttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di  questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia  corporativa, in « Critica Fascista », 15 dicembre 1933 ;  Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodo¬  logia economica, Catania, 1934. (Sono raccolti con lievi  modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.:  A proposito di un tentativo di teoria pura del corpora¬  tivismo, in « Fiamma italica », gennaio-febbraio 1930 e  dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in  «Giornale degli economisti», settembre 1930 (in questi  scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica cor¬  porativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru-  guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri  scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:  L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-  rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre 1933;  Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fa¬  scista », giugno-luglio 1927 e, dello stesso : Economia cor¬  porativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di studi  sindacali e corporativi», Ferrara, 1932; Spirito U.: La  critica dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello  stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,  Treves 1932, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,  Sansoni, 1933.   L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo  A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente  polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo.  Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che  ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai  seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituziona-  listi americani contro la economia liberale. È confusa  la scienza economica con la praxis dei governi liberali  e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che  ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha  espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo  e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto  contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene  dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra  capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che      m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei  tentativi di costruzione teorica del corporativismo fasci¬  sta tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della  << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria tesi per  Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità  assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pen-  siero di Hegel e di Marx.   Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la  quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis-  sione della corporazione come proprietaria. Propugna,  inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espe¬  diente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi  passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere nel  sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per  cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corpo¬  rativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non  m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi  dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corpo¬  rative, come per es. su quelle in cui consiglia per il  nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la  emissione di prestiti esteri, una politica commerciale  che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc (Tutte  queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Cor¬  porativismo, Sansoni, Firenze, 1933).   Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone,  cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, ap¬  presso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’eco¬  nomia filosofata e attualizzata, in «Critica», 20 gen-  naio 1931 ; Galli R. : SulF identità delV individuo  con lo Stato in «La Vita Italiana», novembre 1933;  (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corpo -  ratina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬  cali e Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932; Bruccu-  leri A.: L economia corporativa, in «La Civiltà Cat¬  tolica», 16 dicembre 1933 e dello stesso: Crisi e capi-  talismo, nella stessa rivista del 6 gennaio 1934, etc.   Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e  Stato nelle Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora-   .V'iV-’i 193 - 3 ’ anno *V, f asc - IV) mostra come la formula  dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e  dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze                                                    BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE    141    non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato  del Corporativismo è la disciplina economica nazionale.  Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’og¬  gettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,  sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.  Il nuovo modello della realtà economica non potrà non  essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è  scienza senza determinismo. Caratteristica delle conce¬  zioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato  Corporativo non vi saranno più disoccupati!).   La nostra divergenza ideale con l’economia de¬  gl idealisti non va assolutamente confusa con le invet¬  tive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi  chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni  di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!   Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della  Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista  di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. ri¬  fiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando  ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera  l’economia corporativa come una economia non eu¬  clidea.   Papi U. : Un principio teorico deW economia corpo -  rativa, in « Giornale degli Economisti », maggio 1930 e  più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e  Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova, 1934. (Il P.  ritiene che il sistema corporativo si possa considerare  come lo strumento capace di assicurare le imprese con¬  tro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.).   Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il  concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teo¬  ria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento  corporativo traduce nel diritto positivo un complesso  di norme di diritto naturale, che presiedono al feno¬  meno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto cor¬  porativo, definizione giuridica della libertà economica  c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la  figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo eco¬  nomico libero. L’economia corporativa importa la pe¬  netrazione nell’organismo produttivo di un sistema or¬  ganico, razionale di politica economica. L’economia      Liz ---- LELLO GANGEMI   corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover  essere della vita economica. Dover essere: razionalità  (teoria economica pura), eticità (politica economica).  Le forze direttrici corporative devono fornire al dina¬  mismo economico il volano regolatore).   Vinci F. : Il corporativismo e la scienza economica  («Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio 1934.  Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fat¬  tori di produzione e fra le varie imprese e delle con¬  dizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che  la « disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse  fino ala determinazione delle produzioni e dei con¬  sumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni del¬  l’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti  reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Cor¬  porazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Cor¬  porazioni un continuo, pericoloso compito di revisione  e di conciliazione in base a valutazioni complicatis¬  sime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ».    APPENDICE III  Sulla Finanza Corporativa.   Si espressero anni addietro a favore del contingente :  Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in  «La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro il  contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Fi¬  nanze, Torino, 1932, pag. 257-262. Ed oggi, a favore del  contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco  cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in  « Echi e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso : Ordi¬  namento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬  rara, 1932, voi. II; Bonanno: L’extra-individualismo  nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e prat.  trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e la  sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357;                                                                                FINANZA CORPORATIVA    143    Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬  butario, « Relazione al I Convegno nazionale di Studi  Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso: Verso una  revisione corporativa della pubblica finanza, in « Diritto  del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato  corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬  nanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria ».  Roma, 1929, ed infine, sempre dello stesso: Ordina¬  mento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬  rara, 1932, voi. I. I ra questi autori la corrente radicale  trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.  Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e per¬  ciò la vorrebbe riformata in un senso meno individua¬  lista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che  trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente,  che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento cor¬  porativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei  fini che gli conferiscono caratteri fascisti.   Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬  sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4  del 1929), e Genco («Comunicazione al II Conve¬  gno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 1932,  voi. II) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per  lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali  ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,  contingentista moderato, riconosce che il potere impo-  sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quin¬  di può inscriversi fra i fautori di una finanza coordi¬  nata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle  Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza  oltre a presentare un contenuto politico, riveste un con¬  tenuto tecnico con il quale male si accorda la improv¬  visazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi-  stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per  cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non  avere incoraggiato i salti nel buio che in materia finan¬  ziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò  si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non  meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano  i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra tanto     144    LELLO GANGEMI     contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che  accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in  ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-  Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli  1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato Cor-  porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e dello   TTr- A r- ,ane r e   in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L-   rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-   Stato C marZ °. 192 . 9, e dell ° stesso: La finanza nello  Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e   S“,° Ì 93 £ r” cernii in   «Rivista di Politica Economica», 1931, fase. VII-Vili   (e una carica a fondo contro la funzione graduale,  ransitona e limitata del contingente come è propu¬  gnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo  ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio»  f , 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e  problemi della- economia finanziaria corporativa, Ales¬  sandria Colombani, 1932 (è questa una diligente ras-  segna dei problemi corporativi della finanza). Infine,  si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni   m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e   CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova,  CEDAM, 1934) non sembra opportuno affidare all’Asso-   ciazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari  a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmen¬  te « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi  tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado  di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inade-  guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,  anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di  potersi creare m tal modo animosità lesive di quella  compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce  uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini  propostisi dal nostro legislatore» (pag. 210-211).   Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La  ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per  quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e corag¬  giosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una                                                                 FINANZA CORPORATIVA    —" : 145   . ' ■ *   sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.   Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso  evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni  pongono in evidenza i tributi globali e personali come  il fondamento di un corretto sistema di imposizione di¬  retta in luogo delle imposte reali imperfette e causa di  sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema at¬  tuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da  una imposta personale, la complementare, che con i  procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung pre¬  senta una struttura che le consente di assolvere agli im¬  portanti suoi compiti.   Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini  muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’im¬  posizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,  lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,  sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,  sulla organizzazione tecnica della nuova amministra¬  zione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una  riforma così vasta e complessa che le condizioni del-  1 economia nazionale e della pubblica finanza entrino  in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte  cose queste di cui il Benini è consapevole.   Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le  due opposte opinioni che esiste una finanza corpora¬  tiva oppure il contrario che questa non esiste sostiene  una terza e differente che trova riscontro nei seguenti  scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello  Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »,  fase. II, 12, 1929); Idee generali sulla trasformazione  del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno  di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.  glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le  finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Eco¬  nomia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non erriamo,  desidera un sistema di imposte congegnate in modo da  rispettare le esigenze della produzione. Vuole un si¬  stema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della  giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico-   Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia.    nosce che l’opera del primo periodo della finanza fa¬  scista ha tenuto conto delle esigenze della produzione.  Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un  fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non  ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento del¬  le imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei so¬  praredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.   Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese  (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati  Moderni, Padova, GEDAM, 1932, pag. 54-55) « Nello  Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fonda¬  mentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè  alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista  viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un  elemento che è quello del controllo sociale che, sulla  iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo  Stato ».   . Nello Stato corporativo anche la politica fina 1 -   ziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non  coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista  (benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle  del sistema collettivista.   Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di  cui lo Stato — qualora rispetti il principio della pro¬  prietà privata — si può valere, per intervenire nel cam¬  po dell’economia, individuale, è logico che ad essa fac¬  cia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio  l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo ri¬  chieda.   E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,  mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:  mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si pro¬  pone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati  mediante la protezione di tutte quelle forze individuali  che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corpora¬  tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa  esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione de¬  gli scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le                                                          FINANZA CORPORATIVA - 147   forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore dei  provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’ob¬  biettivo prefisso.   Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare  il contributo che, anche in questo campo ha dato Maf¬  feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in  « Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova-  tori sistematici ed i creatori di schemi astratti fareb¬  bero bene a leggere ed a meditare se veramente sono,  come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale, economia politica, l’economia filosofica d’Aristotele, econnomia corporativa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689157376/in/photolist-2mKArEy

 

Grice e Cicerone – Marc’Antonio – filosofia romana – Luigi Speranza – (Italia). Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably the Scipioni!” --  Marcus Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important not so much for formulating individual philosophical arguments as for expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy, and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy. This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls humanitas  a coinage whose enduring influence is attested in later revivals of humanism  and it alone provides the foundation for constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not its particular details, established a lasting framework for anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and skeptically detached  much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius 143   143 ness in Tusculan Disputations 45. Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness and originality.  “Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di Cicerone. Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed courage.  Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di  9.2 CICERONE 209 competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera  210 9. RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv. ,  9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  212 9. RETORICA LATINA argumentatio �� necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio --- --- -  l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, edagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato st��so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127).  9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:     218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).     9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div., II, 62); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS – virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the ‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this ‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it was the job description of a job he never applied to. The other very useful institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary. Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please. Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire. When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based. His idea is that if x, y.  x is a sign of y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as part of the analytica – or demonstration which is not necessary. It is interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with what signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He said there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice: “Cicero was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence, and Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A topic of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some which are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Cicerone – Keywords: Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773595825/in/dateposted-public/

 

Grice e Ciliberto – il principe e il suo principato– filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di Bruno. Si laurea a Firenze sotto Garin con “Machiavelli”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Dal 1998 è presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa.  Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo & Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro della vita” (Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine, concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza); “Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) Michele Ciliberto, Lessico di Giordano Bruno.  Preludio al Machiavelli *   Mre a dh e im h ol Un TT “‘i 0 annunciato da Imola — dalle legioni   chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma ’  1 Cum parole non si mantengono li Stati”. Ciò troncò gli   ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo   ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 \l  Pnncipe di Machiavelli, al libro che io vorrei cHamare Vade   ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà  Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-  ftreTdJI VCdra “3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe   loe7olnf »Z P ? e dd 8rande S , e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -   po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel  Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi-  velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia-  dottrin, e’l^ non .8 uastare la di contatto diretta fra la sua   dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di   n0mmi , e f° Se ’ ^ 3 SU f C k mia pratica di governo. Quella che mi  )t0 ,\ le Z 8e ™ no « f q uind i una fredda dissertazione scolastica  irta di citaziom altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi  come io credo, m un certo senso drammatico il tentativo di gettare   NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^ cveuti   La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c’è an-  cora di vivo nel Prmcipe? I consigli del MachiaveUi potrebbero ave-   * Da “Gerarchia”, n. 4, aprile 1924, III.    I ,i . •>\fruzione del regime (1922-1932)    229    i. iniit t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II  tl.iic del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in   > 111 1 11 scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte   > I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente attuale?   I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina  • li Machiavelli è viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché se gli  nnpctti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si  h« i(io vcrificate profonde varia^ioni nello spirito degli individui e dei  itopoli.   >. ln politica è l’arte di governare gli uomini, cioè di orientare, uti-  li znre, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in  < nin di scopi d’ordine generale che trascendono quasi sempre la  i'iin individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la poli-  lioi, non v’è dubbio che l’elemento fondamentale di essa arte, è  l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel siste-  inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomi-  nl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo “uomini” dobbiamo  Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli  Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi contempora-  nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o  pcr dirla in gergo acquisito “sotto la specie della eternità”? Mi pare  ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di po-  lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe,  oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli de-  gli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,  t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del  Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della  nntura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di  continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno  Kpregiatore degli uomini e ama presentarceli, come verrò fra poco  documentando, nei loro aspetti piu negativi e mortificanti.   (,li uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, piu affezionati alle cose  chc al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni.  A1 capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime:   IVrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili  .imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene,  ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi,  .piando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel  l>rincipe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa-  rn/ioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia  mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo di  obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità  (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai.      Scritti politici di Benito Mussolini   Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie  quanto segue:   Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o  padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba  mai. La ragione ò pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato,  uno fratello non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere.    E al capitolo terzo dei Discorsi:   Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è prenia  di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi  in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a  usare la malignità dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione...  Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà  abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione  e di disordine.   Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani  riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-  gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Ma-  chiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e scon-  solata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna  tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi dei pensiero di  Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come  giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tem-  po, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e  il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tem-  P 0 * pi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei  simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il  giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non  si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e popolo,  fra Stato e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello  che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico  scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola Prin-  cipe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Prin-  cipe è lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro  egoismi, aH’atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizza-  zione e una limitazione. L’individuo tende a evadere continuamente.  Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare  la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il  proprio io sull altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di ri-  volta potenziale contro lo Stato. Le rivoluzioni dei secoli XVII e  XVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di  ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come    1 .1 nìstruzione del regirne (1922-1932)    231    hii.i enianazione della libera volontà del popolo. C’è una finzione  .• tma illusione di piu. Prima di tutto il popolo non fu mai definito.   I una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa  iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano  •ipplicato al popolo è una tragica burla. II popolo tutto al piu, de-  lcga, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappre-  M-ntativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche  nci paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e  necoli, giungono ore solenni in cui non si domanda piu nulla al  popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strap-  pnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi nor-  mali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una Rivoluzione o  una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. A1 popolo non  rcsta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che  la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei  momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo  quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria  ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per refe-  rrndum ? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere  il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quan-  do gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i Go-  vcrni ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del  popolo stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono  stati confezionati dalla Enciclopedia — che peccava, attraverso Rous-  seau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra  forza organizzata dello Stato e il frammentarismo dei singoli e dei  gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti,  non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio  oramai famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scriveva nel  Principe , pagina 32:   Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono.   Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una  cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.   E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa  far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto  fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati.  IL SINGOLARE LIBRO SU MACHIAVELLI  DI MUSSOLINI           DOPO LA MIA PREMESSA, SEGUE IL "PRELUDIO" DI MUSSOLINI POI "FORZA E CONSENSO" + NOTA DE SANCTIS  POI UN ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI DIEGO FUSARO  UN LINK CON UN ARTICOLO DEL Prof. Pellegrino/Prof.ssa M.Mangieri >>>>>>  ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE "IL PRINCIPE"     PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo (1789-1790) del granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M. Galanti, autore nel 1779 di un "Elogio di Niccolò Machiavelli". Galanti faceva propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata nell'articolo "machiavelisme" dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a Diderot) e nel "Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in "Dei sepolcri".  Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti.  Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco.  In Italia nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'"immoralità" di Machiavelli e la sua "esaltazione" come profeta della riscossa nazionale.  Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate di F. De Sanctis(saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè).  A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma come "fondatore dei tempi moderni", come interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che "ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi". Poi anche per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della politica come attività autonoma dello spirito.   Entrammo poi nel "Ventennio" fascista e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e del suo mito fu fatta da Benito Mussolini che prima un suo articolo - nel '23 - lo scrisse su "Gerarchia", poi nel '24 - curò la prefazione (che chiamò "PRELUDIO") di una nuova edizione del Principe (adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra - del De Sanctis).  In queste pagine su Machiavelli, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare Mussolini.  Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del popolo a un nuovo fascismo !! (prima fin dal 1883 ve n'erano stati molti di "Fasci", creati dai socialisti violenti, che incitavano a ribellarsi con i vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare libretto (che possediamo) lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche): sulla dubbia validità del potere esercitato dalla "sovranità popolare", e sulla stessa utopica "democrazia popolare".  Per Mussolini il Principe del suo tempo è lo Stato. E lo Stato è il Principe, cioè - nei tempi moderni - (che dopo aver preso il potere nel '22 - doveva essere Lui e solo Lui.  (Siamo lontani da quando (1905) - prima come anarchico poi come socialista - lui esaltava il proletariato come futura classe dominante, e faceva l'apologia della "rivoluzione violenta" indicata dalla dottrina di Hengel che presentava nella sua teoria la "morte dello Stato" - E nell'organizzare gli scioperi, lui era un vero e proprio "fascista socialista violento " (così chiamavano - abbiamo detto sopra - fin dai primi fasci del 1883 i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi (1883-1919) sono QUI in Togliatti >>>>>>>>  E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un "violento socialista", e andò più volte anche in galera come sovversivo. Poi improvvisamente nel '15 lui diventa "interventista" nei confronti dei suoi ex socialisti che come "anti-interventisti" si opponevano a quella guerra che dicevano voluta dalla più becera Borghesia con nessun vataggio per il popolo analfabeta chiamato solo a dare il suo sangue.   Seguì la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex socialisti, - uscendo dal giornale "Avanti" che dirigeva - e fu poi perfino cacciato dal Partito Socialista.  Poi durante e dopo la guerra - soprattutto per come finì il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i suoi "fasci", cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati, i lavoratori e anche una certa (nuova) borghesia, che ora guardavano a lui che mirava a un "Socialismo Sociale" e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra operai e industriali (soprattutto nelle sciagurate "Settimane Rosse" del '20 e '21. Dove o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare erano gli operai sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame.  "La sovranità, al popolo - affermava Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua (es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio). Mentre quando gli interessi supremi sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna". Mussolini inizia a guardare proprio alla "forza" (che prima era usata dagli inconcludenti socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti (sorti nel '21). Ci vediamo in questo suo Preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del Principe; e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio di De Sanctis.  Abbiamo detto utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che aveva intuito una nuova forma di filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività, nello Stato, il quale così diventa uno Stato "etico"; è evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello Stato, concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso (es. "usare la forza"), dando origine a quel mito del "machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità del singolo uomo. Insomma Mussolini fece del Principe il suo vademecum. Sbagliando però. La sua storia fu poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che lo circondava - finì molto male e sbagliò proprio sul popolo (che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità "fa quello che vuole"). E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli: "quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza".  Era questo sì l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi sarà perdente. Perchè la sua forza iniziò a farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli (oltre ...le pagliacciate di Starace). Lui - in questo Preludio - citava due frasi di Machiavelli, ma non ne seppe coglierne l'essenza. "Cum parole non si mantengono li Stati"  "Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo, rovina". (che profezia!!!) E Mussolini nudo si ritrovò prima in quel famoso 25 luglio. ( Lui si aspettava una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto amara.... "Ma come - disse preoccupato - mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi (di assoluta provata fede) ?" - "Si eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua disposizione". Lo aveva abbandonato perfino suo genero: Ciano. Ma poi - perso per strada anche gli altri "amici", andò ancora peggio il 27 aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare "quello che voleva" lo appese a un distributore a Piazzale Loreto.  "Non sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe guidare come belanti pecore". "I meccanismi politico-sociali ed economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli uomini.  "L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per organizzare lo "Stato" delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica". E ancora ("non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è controllabile"). Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener -      Mussolini usò tante parole. "Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche il grande Napoleone: "qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse accompagnata la civil prudenza machiavellica"  Paradossalmente proprio su Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: "lui fallì miseramente perchè aveva creduto troppo negli uomini".  Solo lui credeva di aver capito gli uomini, credendolo "suo il popolo": "devono solo Credere, Obbedire, Combattere". e "Quando mancasse il consenso, c'è la forza" ..."Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli". (Disc. Risposta al Ministero delle Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che un Mussolini più razionale aveva scritto un giorno "Io grande? Io forte? Io potente? basta un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere". A Piazzale Loreto andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso.  __________________ _______________________________  ______________________________________   * ecco qui sotto il "preludio" di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis (datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e il contesto storico di Machiavelli.    Mussolini: " Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum parole non si mantengono li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un "Commento dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo". Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.   Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi. Non dirò nulla di nuovo.  La domanda si pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.  Se la politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire.  Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «uomini » dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito "sotto la specie della eternità" ?  Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare.   Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro aspetti più negativi e mortificanti.  Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: "Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da una paura di pena che non abbandona mai". Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere".   E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine ». Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli.  E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli.   Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale.   La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra.   Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo.  C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna.   I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra.   Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione.   Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e dei gruppi.  Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai.   Ben prima del mio ormai famoso articolo "Forza e consenso" (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: "Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati".  Benito Mussolini _______________________________________  POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU "GERARCHIA" MUSSOLINI AVEVA SCRITTO NEL '23 L'ARTICOLO "FORZA E CONSENSO" E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI    Mussolini, da Gerarchia, marzo 1923 " Forza e consenso "  "Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere "scientificamente" una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo, dell'azione.   Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo.  Non é detto che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza piú della dottrina.  Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale.  Il comunismo e il fascismo sono al di fuori del liberalismo.  Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di tutti?  Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo?  E' questo il liberalismo?  Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere controllato e dominato.   Qui cade il discorso della "forza". I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a quadrare il circolo.   Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo.  Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali. Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di libertà.  Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina.   Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale.   Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali.  Si sappia dunque, una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà".  Benito Mussolini, da Gerarchia, marzo 1923  ANDIAMO ORA AL TESTO DI DESANCTIS  CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la nuova edizione de "IL PRINCIPE"    Testo integrale originale (che è comunque un ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato)  DE SANCTIS: "Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.   Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le torture, poiché tornarono i Medici.  In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e di miserie.  All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: "Tanto nomini nullum par elogium".  I suoi Decennali, arida cronaca delle « fatiche d'Italia di dieci anni », scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso core;  io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non par di fuore;  io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento;  ogni cosa mi dà nuovo dolore:  così sperando piango, rido e ardo,  e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento Galli, .....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici dello stile; ciò che si chiamava "eleganza". Ma nel Principe, nei Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.  E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede.   Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato "machiavellismo" questa dottrina.  Molte difese si sono fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.  Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -  L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa.   Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino.  Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai romani.  Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo « decadenza » egli disse « corruttela », e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita.  La licenza, accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.  Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva , non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.  Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua demolizione.  L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole.  Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.  Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.  Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento.  Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.  Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.   Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita.  Combatte l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere.  Quel «dover essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' « essere » o, com'egli dice, alla verità « effettuale ». Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due « Soli » stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo. E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.  C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La «patria» del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano "Stati" o "Nazioni".  Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l' « equilibrio » tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo.  Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»; nell'utopia del Machiavelli è la « patria », nazione autonoma e indipendente.  La « patria » del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute pubblica» erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la « patria », ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù.  Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo.   PATRIA era dove tutti concorrevano più o meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi "repubblica". E dicevasi "principato" dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.  Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.   Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e 'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi. Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno « disarmato il cielo ed effeminato il mondo » e che rendono l'uomo più atto a « sopportare le ingiurie che a vendicarle». « Agere et pati fortia romanum est ».  Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria.  La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa « forza », « energia », che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli dice, « i buoni ordini e le buone armi », che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria. «Patria», « virtù », « gloria », sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come dicevasi allora, nel « genere umano », come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la « forza delle cose », determinata dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.  La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto « filosofia della storia ». Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.  Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica « miracoli della provvidenza », come preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo: « I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese ». Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove « non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura ».   Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.  Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.  Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua, la storia, i confini.   Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro, dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia.   La religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita attiva.  E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O, per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e, quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso «cogito », nel quale s'inizia la scienza moderna.   E' l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti.  Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali, le « maggiori » del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la «serie », cioè a dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite, insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra nulla.  Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel « ritirare le cose ai loro princìpi », o quell'ironia de' « profeti disarmati », o « gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono », o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli ».  Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.   Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua «maggiore» e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi «dimostrazione », se la materia era intellettuale, o « descrizione », se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta.   Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il « Nosce te ipsum », la conoscenza del mondo nella sua realtà.  Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è: « Nil admirari ». Non si meraviglia e non si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae.   Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis », di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi.  La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.  La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi.   Anche l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi « forma letteraria », nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.   Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là dentro.   Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono ». Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono", che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi.  Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi «fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima del mondo machiavellico è il cervello.  Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.  Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica.  L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni.  Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.  Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile.  Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare superficiale.  Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini « non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi », e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò « stanno » volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie di mezzo», e «seguono le apparenze ». C è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi: degli « abbienti » e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha.   Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l' « equalità ». Perciò libertà non può essere dove sono « gentiluomini » o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il « carattere », cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive anche oggi.  Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza.  L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei.  La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale.  E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.   Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.   Quando Machiavelli scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti «puzzava il barbaro dominio»; ma erano solo velleità.  E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. «anima sciocca», che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.  Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere « uomo », iniziando l"età virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: « fu naturale ferità di core ». -  Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.  Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.  Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli diceva, «corruttela»: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno.  Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento: "La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello". Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza: "Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi".  Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della « setta saracina », e le virtù « de' popoli della Magna » al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale: "Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo". Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi: "Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi". Degli avventurieri De Sanctis scrive:  "Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia schiava e vituperata". Ne è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura " "Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà". Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: "Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati". Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: "La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo".  Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura: "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo". Di Cesare -scrive un giudizio originale rimasto celebre: "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare". Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo: "Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia". Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite » E' l'idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro.  Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero, barbaro, «oltramontano ». Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma.  L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. « Patria », « libertà », « Italia », « buoni ordini », « buone armi », erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione.  Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza.  E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie.  Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a « picca » e a « trie trac »: "E... nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano".  Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi: "Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse". Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un Dante, « libertineggiare » con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde dell'immaginazione: "Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro". Quel « trasferirsi in loro », quel « libertineggiare » sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della « divina commedia » e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca  "Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto". Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:  "Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne". In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive: "Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente". Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.  Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. "Fu pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai Menandro". Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le «moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche. "Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi".  L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una «moresca di Iasòn» o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione: "La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare, s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa. Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide";  .....dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna, generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia.  Come si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo de' Medici. E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette « d'intreccio », sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?  Scusatelo con questo: che s'ingegna  con questi van pensieri  fare il suo tristo tempo più soave,  perchè altrove non ave  dove voltare il viso;  chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue,  non sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena, « assassinato di amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico "... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira". Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra.  E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore.   Alle ragioni della figliuola risponde: - « Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene». - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - « Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi ». - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. - « ... E'... una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie ».    Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: "Io dissi il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati!" Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché "in chiesa vale più la sua mercanzia". E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne: " ...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore". Conosce bene i suoi polli: "Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le mosche". Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde: - « Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da poter cominciare a far qualche bene ».  - Parla spesso solo, e sì fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: " Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento". Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia "Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura". Questo è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra: "Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non credo mai esser viva domattina". E il frate risponde: "Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa sera". "Rimanete in pace, padre" - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira "Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male". Quel fatto il frate lo chiama un « misterio », e il mezzano è l'« angiol Raffaello » ! Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.  Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.  Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.  La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : «d'intrecci» e di caratter». «Commedia d'intrecci» fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. « Commedia di carattere » fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il « don Cuccù », e la « palla di aloè ». C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.  Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo».  Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama «patria di Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo.  E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo » quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato «machiavellismo » quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine.  C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.  La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama « virtù »: Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa «marciare allo scopo». Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe.  Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta « uomo », in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi.  Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti essenziali.  La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la virtù o il carattere: « altere et pati fortia ». Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si grida il «viva » all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è mia.  Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo « Stato » non è contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La « ragione di Stato » ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la «salute pubblica» le sue mannaie.   Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate chiamare «machiavellismo» quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni.  Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex ». Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è.  Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.  Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi Galileo Galilei, con la sua illustre coorte di naturalisti. Francesco Guicciardini, di pochi anni più giovane di Machiavelli e di Michelangelo, già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.  "Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti". Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive: « Conoscere non è mettere in atto ». Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola della vita è « l'interesse proprio », «il tuo particulare ». Il Guicciardini biasima « l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti » e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre « questa caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità » ; ma «per il suo particulare » è necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio temporale.  Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui, « non combatte con la religione nè con le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente delli sciocchi ». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse », ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità ». Ama la patria, e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè « così ha a essere », ma per sè, « nato in tempi di tanta infelicità ». E' zelante del ben pubblico, ma « non s'ingolfa tanto nello Stato » da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè « mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo », e, quando la vada male, ti tocca « la vita spregiata del fuoruscito ». Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che « governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli che altrimenti fanno sono uomini « leggeri ». Molti, è vero, gridano « libertà », ma « in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo ». Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini « savi ».  La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la terra.  Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo « particulare », come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè francamente tra questi più, che sono i «savi »; gli altri li chiama « pazzi », come furono i fiorentini, che « vollero contro ogni ragione opporsi », quando « i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta », e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: "Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo".  In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma « per debolezza di cervello », avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice il Guicciardini, « ingegno positivo». Perché l'ingegno sia positivo si richiede la « prudenza naturale », la « dottrina » che dà le regole, l' « esperienza » che dà gli esempli, e il « naturale buono », tale cioè che stia al reale e non abbia illusioni. E non basta.   Si richiede anche la « discrezione » o il discernimento, perché è « grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione ». Il vero libro della vita è dunque « il libro della discrezione », a leggere il quale si richiede da natura « buono e perspicace occhio ». La dottrina sola non basta, e non è bene « stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti».  L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che « ai volgari » pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono « e dicono mille pazzie » : perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo « speculare » o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè « gli uomini si riscontrano ». Stai con chi vince, perchè « te ne viene parte di lode e di premio ». «Abbi appetito della roba », perchè la ti dà reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, « quando sia il caso di simulare, più facilmente acquisti fede ». Sii stretto nello spendere, perchè « più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi ». Studia di « parer buono », perchè « il buon nome vale più che molte ricchezze ». Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni, « credi poco e fidati poco ».   Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.  Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.   Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti.  Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro.  Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma il Guicciardini, di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.  Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1534. Comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare la « tragedia italiana », perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.   Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti « atrocissimi accidenti », sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge.  La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così.  L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive.   Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.  Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare nelle sue opere.  Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis Una pagina di Diego Fusaro  LA VITA , LE OPERE E IL CONTESTO STORICO DI NICCOLO' MACHIAVELLI  Nel 1512 quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa col rogo l'avventura savonaroliana) , ottenendo l'incarico di segretario della seconda Cancelleria . Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e della nostra indipendenza e lo scontro , sul nostro territorio , delle due nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò numerose volte (nel 1500, nel 1504 , nel 10 e nell'11 ), tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme , le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia , l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI , che aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze.   Presso il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di questo signore "molto splendido e magnifico" che diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni , perchè, dopo l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III , fu inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua " ultima ruina " . In quella occasione , e in una successiva legazione nel 1506 , il Machiavelli potè anche rendersi conto del temperamento del nuovo papa , dell'energia e del " furore " che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni . Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che , dal 1506 in poi , negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di Machiavelli.  I problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo . E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ) , sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli , poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni , sino al 1520 , e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze ) , di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ) , di andare come ambasciatore presso la " repubblica degli Zoccoli " , cioè presso il capitolo dei Frati minori di Carpi .   Solo nel 1526 gli venne affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle mura , preposti alla difesa di Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte. Morì tra il 20 e 22 giugno 1527. Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritirò in una villa presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: "e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro". E' dalle meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro "vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto (fra il 1512 e il 1520) le grandi opere machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castruccio Castracani, La Mandragola.  Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del principe dedicato a coloro "che per scelleranza sono venuti al Principato" con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la "virtù" - sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di "energia" e "capacità" - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non manifesta più dubbi.   La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la "ruina" di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del "fine che giustifica i mezzi" che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la "realtà effettuale" italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del "principe nuovo" come la sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare . Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato , dei suoi ordinamenti migliori . Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe , fino all'affermazione che il popolo é " più prudente , più stabile e di migliore giudizio che un principe " e che " se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi , formare vite civili , ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate " . Così Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere costituito , quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i cittadini come individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente " nella prosa e nello stile stesso " del segretario fiorentino , in " questo tipo nuovo e liberale di prosa " in cui la sintassi " é già consapevole della sua libertà ed individualità " e il " ragionamento a piramide degli scolastici " cede il posto al " ragionamento a catena " della prosa scientifica moderna . Il lettore ha costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a un laborioso processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni .   La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge , di frequente , con un " tu " perentorio e aggressivo , a farsi compagno e sodale del suo autore , lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo . In tal senso la prosa di Machiavelli é eminentemente moderna . E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera , il lettore ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale , si sente partecipe della gioia della scoperta e , al tempo stesso , stupito della semplicità rivoluzionario della medesima . Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà mortificante , la " ruina d' Italia " , nelle sue istituzioni comunali o signorili , nei costumi dei suoi principi , nell' avvilimento del popolo . Di qui il pessimismo della sua intelligenza , quel contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco , impastato di bassi appetiti , di astuzie meschine , di stupidità e di ingordigia che sta al fondo della Mandragola , il capolavoro del teatro del '500 . Egli , però , ha compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in Europa , sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e corrotta .   IL PENSIERO POLITICO E FILOSOFICO Machiavelli non è un puro teorico , inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire " in laboratorio " : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica , in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà , modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica , in quanto l' Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura , anzichè su eserciti " cittadini " , che soli possono garantire la fedeltà , l' ubbidienza , la serietà di impegno ; ma anche crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque si sono molto affievoliti , tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile , e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall' antica Roma , l' amore per la patria , il senso civico , lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico , l' orgoglio e il senso dell' onore , e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario , che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna , senza reagire e senza lottare .  Perciò , come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi nel 1494 , gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola .   Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria " gravità de' tempi " é un principe dalla straordinaria "virtù" capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini . A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli , la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese . Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il senso .    Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente , poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione particolare , cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza , Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale , a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore , quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario , ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica .   Concordemente Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza , distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo , come l' etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche , e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe , valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di sconvolgente novità , veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale .  Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali " che non si sono mai visti essere in vero " . Proclama infatti di voler andar dietro alla " verità effettuale della cosa " anzichè all' " immaginazione di essa " , proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica , ma scrivere un' opera " utile a chi la intenda " , fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia . Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza , Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo . Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla " verità effettuale " : proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta , empiricamente verificabile , mai da assiomi universali e astratti . Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali . L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta , ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti , e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi .  Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente " esperienza delle cose moderne " e " lezione delle antique " . In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa , cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati , dell' informazione su cui lavorare , ma il contenuto é lo stesso . Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo , come non variano il corso del sole e delle stelle .   Per questo ha fiducia nel fatto che , studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta , si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale . Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di modello . Per lui gli uomini " camminano sempre per vie battute da altri " , perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative , nella medicina , nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella politica .  Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico , che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica . Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause , non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente commessa , ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà . Gli uomini sono " ingrati , volubili , simulatori e dissimulatori , fuggitori de' pericoli , cupidi di guadagno " e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini malvagi il principe non deve nè può " fare in tutte le parti la professione di buono " perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere " non buono " laddove lo richiedano le necessità dello Stato . Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia un essere metà uomo e metà animale , deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle situazioni .   Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e le sue istituzioni ; allo stesso modo i " buoni " moralmente sarebbero " cattivi " politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera " cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri , non il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E' interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno , invece , é chi li usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo , al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre .  Per quel che riguarda il rapporto con la religione , a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di verità , nè tanto meno nella sua dimensione spirituale , come garanzia di salvezza , ma solo ed esclusivamente come " instrumentum regni " , ossia come strumento di governo . La religione , in quanto fede in certi principi comuni , obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani , secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione , accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati , di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo . La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana , che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo . Il principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria , indispensabile solo in certi momenti , come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi , per costruire uno Stato sufficientemente saldo . La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo , ma ha istituzioni stabili e durature.    IL PRINCIPE Il 10 dicembre 1513 , dall' esilio dell' Albergaccio , Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un " opuscolo de principatibus " , in cui si trattava " che cosa é principato , di quale spetie sono , come e' si mantengono , perchè e' si perdono " . L' indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi compiuta , ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta , se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai " Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio " . Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione tra luglio e dicembre 1513 , in una stesura di getto , mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' Medici e probabilmente anche il capitolo finale che , nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l' Italia dai " barbari " , sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato . Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente nel corso del 1513 e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello , che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza , agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana .   Il Principe é un' operetta molto breve , scritta in forma concisa e incalzante , ma densissima di pensiero . Si articola in 26 capitoli , di lunghezza variabile , che recano dei titoli in latino come era usanza dell' epoca . La materia é divisa in diverse sezioni . I capitoli I - XI esaminano i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo , conferendogli forza e stabilità . Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti , aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe ( capitolo III ) o del tutto nuovi ( capitoli IV - V ) ; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ( capitoli IV - V ) , oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui si propone come esempio il duca Valentino ) . Il capitolo VIII tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà " bene e male usata " : la prima é quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno .   Nel capitolo IX si affronta il principato " civile " , in cui cioè il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici , in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa , come nel caso dello Stato della Chiesa . I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ) , abituale nell' Italia del tempo , perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza , per lui , la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie , su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa . I capitoli XV - XXIII trattano dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici . E' questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla " verità effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono malvagi , avidi , mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad essere " non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine , che é vincere e mantenere lo Stato : i mezzi se vincerà saranno sempre considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani , nella crisi successiva al 1494 ( il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati . La causa per lo scrittore é essenzialmente l' " ignavia " dei principi , che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari . Di qui scaturisce naturalmente l' argomento del capitolo XXV , il rapporto tra virtù e fortuna , cioè la capacità , che deve essere propria del politico , di porre argini alle variazioni della fortuna , paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati . L' ultimo capitolo , il XXVI , é , come accennato , un' appassionata esortazione ad un principe nuovo , accorto ed energico , che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari .  (il testo sopra è di Diego Fusaro - visitate il suo sito di filosofia ) http://www.filosofico.net/filos1.html     ANDIAMO ALL'ARTICOLO DEL   Prof. G.Pellegrino/Prof.ssa M.Mangieri  IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI >>>>>>     OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA  ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE   IL PRINCIPE > >   HOME PAGE STORIOLOGIAGrice: “When I created Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il principe!” --. Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772686966/in/dateposted-public/

 

Grice e Cimatti – pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet,  Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet);  Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes-  5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia emesso da un es­ sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s­ mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani­ mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na­ tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni­ tà più grandi dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­ no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri­ mo piano il carattere semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la loro causa. Il linguaggio degli animali. Del resto, l'opposizione convenzionale/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni (vox, Grice’s ‘sound’) emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali (vox, vocatum, ‘sound’ – the characterization of a product) e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a product’) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una "voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un es­sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un suono emesso da un ani­male, per quanto definito psophos (''rumore"), ha tutta­via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per na­tura" phusei (De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Poet., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi in uni­tà più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono (Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese lin­guaggio umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali, attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word – meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome. Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal verbo delofìsi (''rivela­re", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio comunicativo di un animale, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima.  The Bow-Wow Theory  According to this theory, language began when our ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and bang.   What's wrong with this theory?  Relatively few words are onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance, a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all are derived from natural sounds.   The Ding-Dong Theory  This theory, favored by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose in response to the essential qualities of objects in the environment. The original sounds people made were supposedly in harmony with the world around them.  What's wrong with this theory?  Apart from some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an innate connection between sound and meaning.  The La-La Theory  The Danish linguist Otto Jespersen suggested that language may have developed from sounds associated with love, play, and (especially) song.  What's wrong with this theory?  As David Crystal notes in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to account for "... the gap between the emotional and the rational aspects of speech expression... ."  The Pooh-Pooh Theory  This theory holds that speech began with interjections—spontaneous cries of pain ("Ouch!"), surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba do!").  What's wrong with this theory?  No language contains very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to the vowels and consonants found in phonology."  The Yo-He-Ho Theory  According to this theory, language evolved from the grunts, groans, and snorts evoked by heavy physical labor.  What's wrong with this theory?  Though this notion may account for some of the rhythmic features of the language, it doesn't go very far in explaining where words come from.  Wikipedia Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento che ha attratto una considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare le sue origini.   Secondo la Genesi, la grande varietà di lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni umane moderne usano lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue esistenti si differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere[1][2]. Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione biologica ad imparare una data lingua invece di un'altra[3].   Le lingue umane potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente sviluppata.  L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e Grimm                   Modifica Il problema dell’origine del linguaggio fu una tematica fondamentale del Romanticismo. F. W. J. Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono due autori che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel suo testo del 1850[4], parla di tre ipotesi fondamentali:  Ipotesi teologica, secondo la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato di generazione in generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo di Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il testo di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling: egli parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che la lingua appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio, migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7]. Grimm conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale dell’uomo strettamente connessa con il pensiero.  Parola e lingua                                                      Modifica I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene considerata una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari a sostenere la lingua stessa.  Comunicazione animale Modifica Sebbene tutti gli animali usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori generalmente non classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di comunicazione di alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per nome[8][9].  Linguaggi dei primati                  Modifica Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente centinaia di lessigrammi.  Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei primati sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua, della bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono noti per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico.  Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva. Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la madre per osservare quel che essa fa[10].  Antichi ominidi               Modifica C'è una speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi. Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di suoni delle lingue dell'Homo sapiens[3][11]. Un altro punto di vista considera invece irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola[12].  Una proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una forma di comunicazione primitiva, a cui manca:  una sintassi pienamente sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane moderne pienamente sviluppate.  Le caratteristiche anatomiche come il tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati[14].  Neanderthaliani  Modifica La scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli di uno scimpanzé che a quelli umani[15][16][17].  Comunque, anche se i neanderthaliani fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra. Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli attrezzi in pietra cambiò molto poco. Richard G. Klein, che ha lavorato intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben sviluppato[18][19]. La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa.  Homo sapiens                       Modifica I primi esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza l'aiuto della lingua[21].  Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero relativamente all'improvviso.  Le aree di Broca e di Wernicke apparvero anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi, la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a "tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo, il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri umani.  Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa" ("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"), circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe, che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua, attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente a che fare con le condizioni climatiche.  Monogenesi                   Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale) dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini, possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000 anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi[24][25].  Tutti gli esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità.  Alcuni sostenitori di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per varie ragioni[28][29].  Scenari dell'evoluzione della lingua Modifica Teoria dei gesti                                        Modifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice comunicazione.  Due tipi di prove sostengono questa teoria.  Il linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta", con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili. Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un linguaggio vocale o scritto.[32]  La questione più importante per la teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre possibili spiegazioni:  I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti usano lingue composte interamente da segni e gesti.  Pidgin e creoli  Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza ordine fisso e senza desinenze di declinazione.[9]  Se questi contatti tra i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle lingue da cui sono nate.  Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]  Grammatica universale         Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                          Lo stesso argomento in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in conflitto con la grammatica creola.[9]  Un'altra questione che viene spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo della lingua dei segni nicaraguense. A partire dal 1979, il neonato governo del Nicaragua dette inizio al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Nel 1983 il centro aveva 400 studenti. Questo centro non aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli studenti non riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole.  I primi bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro.  In seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri ricercatori cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più giovani avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano portate ad un alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre convenzione della grammatica.[34]  Approccio sinergico                                          Modifica La Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo evolutivo della scrittura.  Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti fasi:  Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema = parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario (scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso modo una lingua avrebbe passato stadi simili:  Fase I: Fonema = frase (linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV: fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la parte della parola[non chiaro][35],[36]  Storia                                      Modifica La ricerca delle origini della lingua ha una lunga storia, come testimonia anche la mitologia classica.  Storia della ricerca                           Modifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti fino al XIX secolo. La questione delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni sull'origine della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla linguistica storica divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la grammatica universale, la comparazione lessicale di massa e la glottocronologia. L'"origine della lingua" come materia a sé stante emerse dagli studi di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La bibliografia linguistica introdusse l'"origine della lingua" come un capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica, mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni novanta.  Esperimenti storici                                                   Modifica La storia ha un vario numero di aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della lingua per esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane. Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e morirono.[37][38][39]  Nella religione e nella mitologia       Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono pure state analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva.  Uno dei migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre, confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi 11:1–9).  Un gruppo di persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda alla rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua, così che parlassero differenti lingue"[senza fonte].  Note                                       Modifica ^ Primitive languages, su Language Miniatures. URL consultato il 27 febbraio 2007 (archiviato dall' url originale  l'8 febbraio 2007). ^ Steven Pinker, The Language Instinct: How the Mind Creates Language, New York, Harper Perennial Modern Classics, 2000, pp. 13–14, ISBN 0-06-095833-2. ^ a b (2001). The Handbook of Linguistics, eds. Mark Aronoff & Janie Rees-Miller. Oxford: Blackwell Publishers, pp. 1-18. 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Così l'anatomica vocale ed i circuiti neurali necessari per la produzione dei suoni delle lingue non possono essersi evoluti per qualcosa che ancora non esisteva» ^ Merritt Ruhlen, Origin of Language, 1994, ISBN 0-471-58426-6. «Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus, would likely have possessed less developed forms of language, forms intermediate between the rudimentary communicative systems of, say, chimpanzees and modern human languages» ^ Jungers, William L. et. al., Hypoglossal Canal Size in Living Hominoids and the Evolution of Human Speech ( PDF ), in Human Biology, vol. 75, n. 4, agosto 2003, pp. 473–484, DOI:10.1353/hub.2003.0057. URL consultato il 10 settembre 2007 (archiviato dall' url originale  il 12 giugno 2007). ^ DeGusta, David et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid Speech, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, vol. 96, n. 4, 1999, pp. 1800–1804, DOI:10.1073/pnas.96.4.1800, PMID 9990105. URL consultato il 10 settembre 2007. «Hypoglossal canal size has previously been used to date the origin of human-like speech capabilities to at least 400,000 years ago and to assign modern human vocal abilities to Neandertals. These conclusions are based on the hypothesis that the size of the hypoglossal canal is indicative of speech capabilities.» ^ Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language Evolved ( PDF ), in Evolution of Language: Sixth International Conference, Rome, aprile 2006, p. 152, DOI:10.1142/9789812774262_0020. 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Controllo di autorità                                                      LCCN ( EN ) sh85074529 · GND ( DE ) 4077740-6 Ultima modifica 1 mese fa di Paroll PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati per tutti gli esseri umani.  Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens Wikipedia Il

 

 

Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens, storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772632281/in/dateposted-public/

 

Grice e Cione – il corporazionismo -- Dedalo ed Icaro – la idea corporativa come interpretazione della storia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa, tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a dichiarare:  «Per ingannare i nostri avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di Cione. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso con una completa  della sua opere e degli scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica” (Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore); “Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi); “Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele); “Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce” (Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi, Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.  Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico ed economico dello stesso Fascismo.  Home  Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di Edmondo Cione By Redazione   4 anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di compromesso. Nel 1943-45, in particolare, vi furono diversi tentativi, tutti falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento partigiano e, infine, al Regno.  Si trattò di operazioni sotterranee molto complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel Nord Italia in nome di un socialismo  che avrebbe dovuto riunire tutti, da Mussolini a Nenni.  Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti Ugo Manunta e Ottavio Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte socialista, Corrado Bonfantini, Gabriele Vigorelli, Carlo Silvestri, Pulvio Zocchi e soprattutto Carlo Andreoni, autore di un confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non politica” (!!) tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista nel Cln.  Punto di raccordo di molti di questi fiumi sotterranei fu Edmondo Cione, filosofo, collaboratore di Benedetto Croce, antifascista liberale fino al 1940, confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decise di puntare sulla riconciliazione degli Italiani.  Un progetto ambizioso, non sempre sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, Cione riuscì a catalizzare attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che operò per il passaggio indolore dei poteri; in secondo luogo, riuscì ad avere la fiducia di Mussolini che gli finanziò un quotidiano, “L’Italia del Popolo”, infine riuscì a costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi.  Naturalmente ciò avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come  Carlo Borsani, Franco De Agazio e Concetto Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Alessandro Pavolini, Fernando Mezzasoma e Giorgio Almirante.  La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di questi tentativi è il filo conduttore del volume di Edmondo Cione, Storia della Repubblica Sociale Italiana, edito in prima edizione nel 1948 e quindi nel 1951, che, a sessantasei anni di distanza, viene ora ripubblicato da Altergraf. Si tratta di un libro che, tra i primi, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto questo.  Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che cercarono di costruire dei “ponti” tra fascismo e antifascismo è complesso ma, in genere, comprende, come si è detto, fascisti di sinistra (più moderati e aperti al pluralismo) e socialisti (insofferenti al peso del Pci). Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di novità che va tenuto presente per sottolineare l’importanza e l’opportunità di una riedizione.  Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano accettò di sostenere i 18 punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il costante richiamo alla concordia nazionale.  Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando Cione il fascismo un elemento essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto, non per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per Cione, fu quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e soprattutto di potere non considerare  con attenzione le soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, aveva individuato allo scopo di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In questo senso l’esperienza corporativa, che Cione intese sempre in senso produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, poteva essere interessante da recuperare in una chiave pluralistica.  Più complessa la risoluzione dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della categoria del “nemico assoluto” da abbattere. Essendo più filosofo che storico, Cione non si rendeva conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non era più quella precedente e il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostrava quello che acutamente aveva colto Giovanni Artieri, e che cioè Cione “pensava e scriveva come se vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio”.  Il saggio di Cione sulla RsiIl saggio di Cione sulla Rsi In questa sua incapacità di leggere fino in fondo la lezione del Novecento si trova la sua inattualità politica, ma anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti politici.  La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto: se è vero  che in Italia gli intellettuali tendono a correre verso il carro del vincitore, la storia di Cione è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale.  *Edmondo Cione, Storia della Repubblica Sociale Italiana, edito da Altergraf (pp. XXII + 398,  euro 30,00 – da richiedere a  Domenico Edmondo Cione nacque a Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano Cione, brillante avvocato di origine pugliese e da Emilia Faraone, proveniente da una agiata famiglia di commercianti. Compiuti i suoi studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo- ginnasio Vittorio Emanuele II, si iscrisse nel 1923 al Collegio militare della Nunziatella. Il Cione, sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa disciplina scolastica, manifestò idealmente i primi segni di ribellione rivolgendo precocemente il suo interesse verso gli studi storico-filosofici e allontanandosi dall'ambiente autoritario della Nunziatella nel 1926.    Grazie a Floriano del Secolo cominciò a frequentare la casa di Benedetto Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno le idee e gli insegnamenti.  La sua prima opera, pubblicata a Napoli nel 1929 e intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza", in cui aveva preso posizione contro Giovanni Gentile, gli procurò violente critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime.   Nel 1930 conseguì la laurea in giurisprudenza e nel 1932, assecondando le sue reali aspirazioni, conseguì quella in lettere e filosofia. Nel 1933 concorse a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne l'incarico presso la Biblioteca Nazionale di Venezia. Nel 1936 fu trasferito presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni esponenti dell'opposizione liberale come il conte Sforza, Mario Vinciguerra, Alessandro Casati ed altri personaggi di quel tempo.  Gli anni '40 segnarono una svolta nella vita personale, politica e intellettuale di Edmondo Cione. Proprio nel 1940, a causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male interpretato, Cione fu arrestato dalla polizia e internato nel campo di concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a Montemurro Lucano. In questi anni egli maturò la revisione delle idee antifasciste e decise di abbandonare le posizioni liberali; evento non meno significativo nella vita del Cione fu la definitiva rottura dei suoi rapporti con Benedetto Croce, a causa della revoca da parte del Croce della compilazione di un volume celebrativo, che Edmondo Cione aveva preparato sull'opera e sul pensiero del filosofo.  Il volume fu poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari nel 1942 con il titolo "L'opera filosofica, storica e letteraria di Benedetto Croce".  Dopo l'internamento e il confino del 1940, ritornato in libertà, Cione fu in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista diretta da Federico Chabod "Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica internazionale. Nel 1942 ottenne la libera docenza di storia della filosofia e nel 1949 quella di storia moderna. Tra le sue numerose opere, il volume edito a Milano nel 1944 e intitolato "Benedetto Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata anticipatamente sul Corriere della Sera, procurò a Edmondo Cione numerosi consensi anche da parte di Benito Mussolini, che Cione incontrò personalmente grazie alla mediazione dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Nel 1945 il Cione fondò, col consenso di Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala fascista più estrema, dopo soli 12 numeri fu sospeso a causa di una polemica con l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda guerra mondiale, Edmondo Cione nel 1946 fu reintegrato nel suo posto di professore di liceo e nel 1948 anche all'Università degli studi di Napoli dove tenne corsi di filosofia. Nel 1951 entrò nel Movimento Sociale Italiano e nello stesso anno fondò la rivista "Nazionalismo popolare". Nel 1952 fu eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della Giunta di Napoli, che aveva alla sua testa Achille Lauro. Nel 1953, dopo essersi candidato al Senato come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entrò nelle file della Democrazia Cristiana. Collaborò con numerose riviste culturali e filosofiche e con diverse testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il "Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" del 1956, nella quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere di Benedetto Croce e le opere su Benedetto Croce; l'opera "Francesco de Sanctis e i suoi tempi" vincitrice nel 1961 del Premio Napoli e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e "Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli nel 1958 e la seconda a Bologna nel 1962. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente attribuiva all'esistenza umana. Edmondo Cione morì a Napoli il 12 giugno 1965. Fra le sue ultime volontà vi fu quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli, pochi mesi prima di morire, il suo archivio personale, affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli studiosi.documentazione collegataEdmondo Cione fontiGennaro Incarnato, in Dizionario biografico degli italiani, pagg. 677-680. Lutz Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia (1943-1945), Torino, Bollati Boringhieri, 1993.  CIONE, Domenico Edmondo di Gennaro Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981) Condividi     Pubblicità CIONE, Domenico Edmondo. - Nato a Napoli il 7 giugno 1908 da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di recente e artefice della sua fortuna, ed Emilia Faraone, figlia di commercianti di, relativa agiatezza, cominciò a studiare presso il consolato germanico, poi al liceoginnasio "Vittorio Emanuele II", per iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella (1923). L'accurata istruzione integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli in permanente e gravissima crisi economica.  Alla Nunziatella si tendeva a sviluppare "l'attitudine al comando" ponendo l'accento sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni del C. ne furono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli studi storico-filosofici nella ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gli ostacoli frapposti dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle gerarchie che avevano provocato la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui uscirà nel 1926, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo.  Introdotto in casa Croce da Floriano Del Secolo, ne accettò pienamente le idee, attirandosi con la sua prima pubblicazione Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza, Napoli 1929 (di cui già nel 1923 aveva mandato un'saggio al Croce), in cui prese posizione contro il Gentile, gli attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difese sin dal '29 C. Di Marzio che gli aprì le porte del Meridiano di Roma nel '37 e gli evitò guai peggiori. Erano gli anni del "consenso" al regime; la pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa Croce non impedirono al C., come ad altri, la collaborazione a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la "fronda" liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratificava e sembrava soddisfarlo pienamente.  I numerosi studi sul De Sanctis, culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di Napoli nell'800 rivelano tutti l'impronta del Croce. Tuttavia si può cogliere una costante del pensiero del C., la tendenza alla mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo, che gli faceva preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla vita del primo Ottocento napoletano (Napoli romantica, Milano 1942) non poteva non approdare alla constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la pubblicazione (Milano 1943) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. (2 ed., ibid. 1944).Nel 1930, per venire incontro ad aspirazioni familiari, il C. si laureò in giurisprudenza e nel 1932, seguendo i suoi reali interessi, in lettere e filosofia. Le fortune familiari registrano nel 1933 un tracollo che lo spinse a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non veniva ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Nel 1936 fu trasferito alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con l'opposizione liberale al fascismo; corrispondeva con il conte Sforza ed aveva rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati, Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti intrinseci. Tra il 1930 ed il 1940 l'adesione al sistema crociano era del resto indiscussa. Malgrado una tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi sul Berdjaev (di cui lo colpirà durevolmente la critica al marxismo), sul Valdès e dal taglio stesso degli studi sul De Sanctis, l'emancipazione non era così consapevole come tenterà ad affermare in seguito.  Nel settembre 1940 l'intercettazione di una lettera da parte della polizia, che ne interpretò malamente il contenuto, provocò il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di Foligno, i cui rigori furono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui maturò la sua crisi politica e la rottura col Croce. La convivenza con oppositori socialisti, anarchici e comunisti aveva su di lui un effetto contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponevano al fascismo sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnavano nei loro programmi di far uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici, lo indusse alla revisione e all'abbandono, dell'antifascismo.  La compilazione di un volume celebrativo del Croce, una laboriosa ricerca degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rese possibile la pubblicazione L'opera filosofica, storica e letteraria di B. Croce, Bari 1942), dopo strascichi giudiziari.  Risolto il dissidio col fascismo, tornò nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano; collaborò nel 1941 alla rivista Popolidell'Istituto per gli studi di politica internazionale, diretta da F. Chabod. Nel 1942 conseguì la libera docenza in storia della filosofia; fu professore di ruolo di storia e filosofia nei licei, e nell'aprile 1943 ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia, nell'università di Napoli. Nel 1949 conseguì la libera docenza in storia moderna.  L'armistizio lo colse a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di P. Martini, antifascista di tendenze moderate e conciliatrici; il movimento venne poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finì trucidato alle Fosse Ardeatine. Il C. ritornò a Milano con un giudizio negativo sull'antifascismo del quale coglieva solo gli atteggiamenti scomposti di una fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A Milano stampò il suo B. Croce (Milano 1944). Il momento ed il luogo della pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione della polemica prefazione del C. sulle colonne del Corriere della sera, nella Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la soddisfazione di una momentanea popolarità.  Mussolini mostrò d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione del Biggini, ministro della Cultura, s'incontrò col C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera al Biggini del 21 ottobre 1944 il C. scriveva: "Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gli antifascisti hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri" (Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.  Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da Mussolini dopo il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Il 31 marzo 1945 Cesare Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli negò la pubblicità per il giornale, considerando il suo "un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo". Una polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.  Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato nel 1946 al posto di professore e nel 1948 riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro comico ed esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della Repubblica sociale italiana, Caserta 1948; 2 ed. 1951).  Nel 1946 ilC. aveva pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove lapolemica anticrociana si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle premesse storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo, Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964).  Collaborò alla rivista di C. Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con una posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia.  Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale dei partito.  Sull'onda dello spostamento a destra del 1952, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio.  Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli 1962).  Intanto portò a termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli 1960)per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna 1962).  Il C. morì a Napoli il 12 giugno 1965.  Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Carte Cione (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della Facoltà di lettere e filosofia dell'Istituto magistero di Napoli, anno acc. 1960-61, pp. 65-69; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi francescani, LX (1963), 3-4, pp. 1-57; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963, pp. 733, 762 ss., 777; R. Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino 1964, pp. 438, 495; E. Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il Ponte, XII (1965), pp. 1637 ss.; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma 1967, II, pp. 568, 570;G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-Maggio 1945, Bari 1966, pp. 527528; Id., La Repubblica di Mussolini, Bari 1977, pp. 130, 308, 310 ss., 329. APPENDICE I.   Sulla bibliografia Fascista    Molti sarebbero i lavori di carattere descrittivo me¬  ritevoli di essere ricordati i quali espongono e commentano l’azione del Fascismo in tutti i campi.   Ottima la «Bibliografia del Fascismo», pubblicata a  cura della Confederazione Nazionale Professionisti ed  Artisti, Poma, 1932. Qui ricordiamo le pubblicazioni  riassuntive e quelle in Occasione del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a cura  di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi  dei vari aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bi¬  bliografia fascista a cura di L. Màdaro); Il Libro (Vita-  ha; nel decennale della Vittoria, Milano, 1929 (complesso di 28 studi) ; Mussolini e il suo Fascismo, a cura  di C. S. Gutkind, con introduzione di B. Mussolini, ed.  tedesca, Heidelberg, 1928; ed. italiana, Firenze, 1927.  Studi vari : Opere e leggi del Regime Fascista, Roma,  1927; Mussolini e il Fascismo, Roma, 1929 (complesso  di 30 studi); Dottrina e Politica Fascista, Venezia, 1930  (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni  del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura della  « Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma, 1930  (complesso di 64 studi). Il Bilancio dello Stato dal 1913-  14 al 1929-30 e la Finanza Fascista a tutto Vanno Vili.  A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato, 1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio  1932-33 con la seguente pubblicazione annuale a cura  dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto Generale  del Patrimonio dello Stato per l’esercizio finanziario  19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga : De  Stefani A. La Restaurazione finanziaria (1922-25). Bolo¬  gna, Zanichelli, 1926; Volpi di Misurata: Finanza  Fascista, Roma, Libreria del Littorio, 1929; Gangemi  L. : La politica economica e finanziaria del Governo fa¬  scista nel periodo dei pieni poteri, Bologna, Zanichelli,  1924; Gangemi L. : La politica finanziaria del Governo  Fascista 1922-28, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.:  Le Società Anonime miste, Firenze, « La Nuova Italia »,  1932. Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del  Ministero dei Lavori Pubblici). Roma, 1934. La Nuo¬  va Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del Mi¬  nistero delle Colonie, con prefazione di Mussolini).  Mondadori, Milano, 1933. Nei riguardi della difficile  questione meridionale, si vegga l’esauriente volume di  Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno  d’Italia, 2 voli. Milano, Treves, 1933.   Fra le pubblicazioni straniere quelle tedesche sono  le più ricche e meglio informate.   Le opere e gli scritti dei seguenti autori sono più cono¬  sciuti in Italia come quelli che meglio compresero il  Fascismo e la sua organizzazione economica, e cioè:  Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eber-  lein G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.;  Heller H.; Leibholz G.; Leinert M.; Mannhardt J.  W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i parti¬  colari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo,  Voi. 1., a cura della C. N. P. A., Roma, X.). Si vegga  inoltre: Beckerath (von) E.: Wirtschaftsverfassung des  Faschismus; Singer (von) K. : Die geistesgeschichtliche  Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi pub¬  blicati in « Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegege-  ben von Arthur Spiethoff, Munchen, 1933; ed anche:  Die fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen,  herausgegeben von G. Dobbert, Berlin, Hobbing, 1934  (è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e  svizzeri).                                                 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE    135    ■    APPENDICE II   Bibliografia essenziale sulle interpretazioni  dell’azione economica corporativa   Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione  economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti  di politica economica corporativa. Voi. L, Cap. IV. Ca¬  tania, Studio Editoriale Moderno, 1932.   Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e  descrittivi, nel campo dell’azione economica corpora¬  tiva. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi-  cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti  del gennaio 1932. Riportiamo qui la bibliografia essen¬  ziale dei contributi italiani allo studio dell’economia  corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, nume¬  rosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di  consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della  stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’ « Ho¬  mo Ooecomoinicuis » e V Esperienza Fascista in Gior¬  nale degli economisti, gennaio 1929; Arias G. : L’Eco¬  nomia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Lit¬  torio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,  Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Ste¬  fani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;  Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica  economica, in « Giornale degli Economisti ». Febbraio  1934 (Classifica le varie politiche economiche. Carattere  di quella corporativa: autogoverni economici particola¬  ri, con il compito di emanare misure rispondenti, nei  rami particolari, alla politica economica generale ema¬  nante dal governo economico centrale. Le corporazioni  sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bru-  guier G. : A proposito di interventi statali, in «Ar¬  chivio di studi corporativi », Anno IV, Fase. III,  Pisa, 1933 ; Borgatta G. : Prefazione al nostro vo¬  lume av. cit. : Lineamenti di politica economica corpo¬  rativa; Carli F. : Teoria generale della economia poli-     r >   V I            136    LELLO GANGEMI    tica nazionale, Milano, Hoepli, 1931; e dello stesso: Le  crisi economiche delV ordinamento corporativo della  produzione, in « Atti del II Convegno di studi sinda¬  cali corporativi», Ferrara, 1932; Chessa: Caratteri e  forme delT attività economica, in «Rivista di Politica  economica » del 31 gennaio 1931. (Secondo questo autore  J economia corporativa non è altro che un’ economia di  complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua  realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni  dell individuo con la società e di questa con lo Stato).  Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo eco¬  nomico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in  onore di Prato», Torino, 1931 (In questo studio V au¬  tore conclude che il corporativismo italiano pur traen¬  do alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Ge¬  novesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste  in quanto che inquadra le sue idee in una concezione  piu larga, che non tiene solo conto degli interessi  dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,  che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli  interessi della Nazione, viene organizzata gerarchica¬  mente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e  la sostanza della economia corporativa, Firenze Poli¬  grafica Universitaria, 1932; Del Vecchio G.: Teoremi  economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione  alla XIX riunione della «Società pel Progresso della  Scienza», riassunta in « Lo Stato » settembre-ottobre  1930; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativi¬  smo in « La Riforma Sociale », novembre-dicembre 1933;  e dello stesso: Corporazione aperta in «La Riforma So¬  ciale » Marzo-Aprile 1934. Fanno M. scritto cit.; Fasiani  M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in  « Studi sassaresi », fase. IV. voi. X. 15 gennaio 1933; Fer¬  ri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista  economico, Padova, CEDAM, 1933; Fovel M.: Economia  e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E., 1929 e dello stesso:  La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei « Pro¬  blemi del Lavoro», 1930; Politica economica ed econo¬  mia corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro», 1929; Ca¬  mera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara  1930; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima econo-                                                                            BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE    137    mia e di una pplitica economica corporativa, in : « Rivi¬  sta di Politica Economica », fase. IX.X.1933. (Ritiene  questo A. che tanto la politica economica corporativa,  quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica de¬  gli individui dei gruppi animati di una coscienza corpo¬  rativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in  tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla co¬  scienza corporativa (all’autore parendo il più adatto  perchè conforme alle direttive del Regime quello che  ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo be¬  nessere individuale compatibile col benessere della Na¬  zione); ed il primo, quando le norme abbiano suffi¬  ciente chiarezza (univocità) e costanza da consentire  una costruzione logica di conseguenze possibili. Pur¬  ché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non  si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente  legittimo fare della economia corporativa una « eco¬  nomia » astratta, trovare il nocciolo razionale del con¬  creto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimen¬  tale della economia corporativa, « Giornale degli eco¬  nomisti», ottobre 1930; Galli R. : Corso di economìa  politica, Firenze, Poligrafico Universitario, 1932, e dello  stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poli¬  grafico Universitario, 1934; Jannaccone P.: La scienza  economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto al¬  l’inaugurazione dell’anno accademico della R. Univer¬  sità di Torino, 5 novembre 1931), e dello stesso : Scienza,  critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »,  novembre-dicembre 1930; Lanzillo A.: Studi di eco¬  nomia applicata, Padova, Cedam, 1933 e dello stesso  A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in ««Rivi¬  sta Bancaria », novembre 1928, ed Economia corpora¬  tiva e politica economica, in « Giornale degli Econo¬  misti », ottobre 1930; Lo Stato come fattore di produ¬  zione, in « Rivista Bancaria », maggio 1934 (Lo Stato  come inserzione di volontà nell’ attività economical.  Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la  scienza economica tradizionale e la notevole incompren¬  sione degli economisti ortodossi i quali riescono inte¬  ressanti a seguire non come simpatizzanti delle idee li-  erali o di altre tendenze, ma come scienziati del-      l’economia, riconosce che per dare un carattere di  socialità, che concili l’interesse privato con quello  sociale o nazionale, alla economia privata, non è ne¬  cessario giungere alla totale abolizione dell’economia  privata ed alla identificazione dell’ economia pubblica,  come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente  al centro dell attività economica umana la produzione  e non lo scambio non ha visto che nello scambio si  ha la sintesi dell’ interesse individuale e dell’ interesse  sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è in¬  dividuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,  come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei  valori economici ed il movente egoistico dei fatti eco¬  nomici e identificare F iniziativa economica privata  coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisogne¬  rebbe trasformare la psicologia umana, abolire la perso¬  nalità economica umana e con essa tutte le diff erenze  di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esiste¬  ranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono  la base dello scambio e la molla del progresso economico  e che nessun sistema di economia socialista è mai riu¬  scito a sopprimere.   Il porre a fondamento dell’economia corporativa la  produzione e quindi l’organizzazione e la gestione eco¬  nomica della produzione invece dello scambio, inteso  nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande  ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione  mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,  del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli  intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda-  mentali per la definizione dei fini e delle funzioni  della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe  giungere alla Corporazione organo di gestione econo¬  mica col passaggio di tutta l’iniziativa economica pri¬  vata alla Corporazione e con la conseguente trasfor¬  mazione di tutta l’economia privata in economia pub¬  blica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non as¬  sumerà la direzione della gestione economica della pro¬  duzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eli¬  minare il classismo o particolarismo economico, di im¬  pedire che uno o più fattori della produzione si fac-                                          BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE    139    ciano la parte del leone nei confronti con gli altri  fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al pro¬  duttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di  questo A. : Il problema fondamentale delTeconomia  corporativa, in « Critica Fascista », 15 dicembre 1933 ;  Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodo¬  logia economica, Catania, 1934. (Sono raccolti con lievi  modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.:  A proposito di un tentativo di teoria pura del corpora¬  tivismo, in « Fiamma italica », gennaio-febbraio 1930 e  dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in  «Giornale degli economisti», settembre 1930 (in questi  scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica cor¬  porativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru-  guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri  scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:  L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-  rativisti, in «Lo Stato», aprile, maggio ed ottobre 1933;  Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fa¬  scista », giugno-luglio 1927 e, dello stesso : Economia cor¬  porativa e agricoltura, in « Atti del II Convegno di studi  sindacali e corporativi», Ferrara, 1932; Spirito U.: La  critica dell’economia liberale, Milano, Treves, 1930, dello  stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,  Treves 1932, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,  Sansoni, 1933.   L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo  A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente  polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo.  Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che  ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai  seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituziona-  listi americani contro la economia liberale. È confusa  la scienza economica con la praxis dei governi liberali  e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che  ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha  espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo  e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto  contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene  dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra  capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che      m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei  tentativi di costruzione teorica del corporativismo fasci¬  sta tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della  << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria tesi per  Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità  assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pen-  siero di Hegel e di Marx.   Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la  quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis-  sione della corporazione come proprietaria. Propugna,  inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espe¬  diente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi  passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere nel  sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per  cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corpo¬  rativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non  m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi  dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corpo¬  rative, come per es. su quelle in cui consiglia per il  nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la  emissione di prestiti esteri, una politica commerciale  che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc (Tutte  queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Cor¬  porativismo, Sansoni, Firenze, 1933).   Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone,  cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, ap¬  presso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’eco¬  nomia filosofata e attualizzata, in «Critica», 20 gen-  naio 1931 ; Galli R. : SulF identità delV individuo  con lo Stato in «La Vita Italiana», novembre 1933;  (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corpo -  ratina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sinda¬  cali e Corporativi », Ferrara, 5-8 maggio 1932; Bruccu-  leri A.: L economia corporativa, in «La Civiltà Cat¬  tolica», 16 dicembre 1933 e dello stesso: Crisi e capi-  talismo, nella stessa rivista del 6 gennaio 1934, etc.   Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e  Stato nelle Corporazioni (« Archivio di Studi Corpora-   .V'iV-’i 193 - 3 ’ anno *V, f asc - IV) mostra come la formula  dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e  dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze                                                    BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE    141    non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato  del Corporativismo è la disciplina economica nazionale.  Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’og¬  gettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,  sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.  Il nuovo modello della realtà economica non potrà non  essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è  scienza senza determinismo. Caratteristica delle conce¬  zioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato  Corporativo non vi saranno più disoccupati!).   La nostra divergenza ideale con l’economia de¬  gl idealisti non va assolutamente confusa con le invet¬  tive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi  chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni  di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!   Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della  Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista  di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. ri¬  fiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando  ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera  l’economia corporativa come una economia non eu¬  clidea.   Papi U. : Un principio teorico deW economia corpo -  rativa, in « Giornale degli Economisti », maggio 1930 e  più diffusamente in « Lezioni di Economia Generale e  Corporativa», voi. Ili, Gedam, Padova, 1934. (Il P.  ritiene che il sistema corporativo si possa considerare  come lo strumento capace di assicurare le imprese con¬  tro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.).   Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il  concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teo¬  ria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento  corporativo traduce nel diritto positivo un complesso  di norme di diritto naturale, che presiedono al feno¬  meno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto cor¬  porativo, definizione giuridica della libertà economica  c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la  figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo eco¬  nomico libero. L’economia corporativa importa la pe¬  netrazione nell’organismo produttivo di un sistema or¬  ganico, razionale di politica economica. L’economia      Liz ---- LELLO GANGEMI   corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover  essere della vita economica. Dover essere: razionalità  (teoria economica pura), eticità (politica economica).  Le forze direttrici corporative devono fornire al dina¬  mismo economico il volano regolatore).   Vinci F. : Il corporativismo e la scienza economica  («Rivista Italiana di Statistica» etc., febbraio 1934.  Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fat¬  tori di produzione e fra le varie imprese e delle con¬  dizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che  la « disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse  fino ala determinazione delle produzioni e dei con¬  sumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni del¬  l’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti  reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Cor¬  porazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Cor¬  porazioni un continuo, pericoloso compito di revisione  e di conciliazione in base a valutazioni complicatis¬  sime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ».    APPENDICE III  Sulla Finanza Corporativa.   Si espressero anni addietro a favore del contingente :  Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in  «La Riforma Sociale», 1916, pag. 150-174. Contro il  contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Fi¬  nanze, Torino, 1932, pag. 257-262. Ed oggi, a favore del  contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco  cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in  « Echi e Commenti », 1929, n. 12, e dello stesso : Ordi¬  namento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬  rara, 1932, voi. II; Bonanno: L’extra-individualismo  nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e prat.  trib. », 129, 89, e dello stesso: Lo Stato corporativo e la  sua finanza, in «Diritto del Lavoro», 1929, I, 357;                                                                                FINANZA CORPORATIVA    143    Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tri¬  butario, « Relazione al I Convegno nazionale di Studi  Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso: Verso una  revisione corporativa della pubblica finanza, in « Diritto  del Lavoro », Roma, 1928; Riforme tributarie e Stato  corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, 1929; Fi¬  nanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria ».  Roma, 1929, ed infine, sempre dello stesso: Ordina¬  mento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Fer¬  rara, 1932, voi. I. I ra questi autori la corrente radicale  trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.  Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e per¬  ciò la vorrebbe riformata in un senso meno individua¬  lista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che  trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente,  che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento cor¬  porativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei  fini che gli conferiscono caratteri fascisti.   Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Eva¬  sione fiscale e riforma tributaria («Augustea», N. 4  del 1929), e Genco («Comunicazione al II Conve¬  gno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara, 1932,  voi. II) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per  lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali  ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,  contingentista moderato, riconosce che il potere impo-  sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quin¬  di può inscriversi fra i fautori di una finanza coordi¬  nata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle  Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza  oltre a presentare un contenuto politico, riveste un con¬  tenuto tecnico con il quale male si accorda la improv¬  visazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi-  stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per  cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non  avere incoraggiato i salti nel buio che in materia finan¬  ziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò  si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non  meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano  i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra tanto     144    LELLO GANGEMI     contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che  accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in  ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-  Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli  1930; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato Cor-  porativo in « Echi e Commenti », 1929, N. 10 e dello   TTr- A r- ,ane r e   in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L-   rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-   Stato C marZ °. 192 . 9, e dell ° stesso: La finanza nello  Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, gennaio e   S“,° Ì 93 £ r” cernii in   «Rivista di Politica Economica», 1931, fase. VII-Vili   (e una carica a fondo contro la funzione graduale,  ransitona e limitata del contingente come è propu¬  gnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo  ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio»  f , 7 iarzo \ a f, rlIe 1931 )i Toselli Colonna: Teoria e  problemi della- economia finanziaria corporativa, Ales¬  sandria Colombani, 1932 (è questa una diligente ras-  segna dei problemi corporativi della finanza). Infine,  si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni   m7rzoT932 ** WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e   CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova,  CEDAM, 1934) non sembra opportuno affidare all’Asso-   ciazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari  a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmen¬  te « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi  tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado  di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inade-  guatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,  anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di  potersi creare m tal modo animosità lesive di quella  compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce  uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini  propostisi dal nostro legislatore» (pag. 210-211).   Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La  ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per  quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e corag¬  giosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una                                                                 FINANZA CORPORATIVA    —" : 145   . ' ■ *   sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.   Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso  evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni  pongono in evidenza i tributi globali e personali come  il fondamento di un corretto sistema di imposizione di¬  retta in luogo delle imposte reali imperfette e causa di  sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema at¬  tuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da  una imposta personale, la complementare, che con i  procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung pre¬  senta una struttura che le consente di assolvere agli im¬  portanti suoi compiti.   Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini  muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’im¬  posizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,  lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,  sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,  sulla organizzazione tecnica della nuova amministra¬  zione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una  riforma così vasta e complessa che le condizioni del-  1 economia nazionale e della pubblica finanza entrino  in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte  cose queste di cui il Benini è consapevole.   Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le  due opposte opinioni che esiste una finanza corpora¬  tiva oppure il contrario che questa non esiste sostiene  una terza e differente che trova riscontro nei seguenti  scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello  Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »,  fase. II, 12, 1929); Idee generali sulla trasformazione  del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno  di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.  glio Prov. dell’Economia di Pavia», maggio 1930; Le  finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Eco¬  nomia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non erriamo,  desidera un sistema di imposte congegnate in modo da  rispettare le esigenze della produzione. Vuole un si¬  stema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della  giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico-   Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia.    nosce che l’opera del primo periodo della finanza fa¬  scista ha tenuto conto delle esigenze della produzione.  Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un  fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non  ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento del¬  le imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei so¬  praredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.   Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese  (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati  Moderni, Padova, GEDAM, 1932, pag. 54-55) « Nello  Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fonda¬  mentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè  alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista  viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un  elemento che è quello del controllo sociale che, sulla  iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo  Stato ».   . Nello Stato corporativo anche la politica fina 1 -   ziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non  coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista  (benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle  del sistema collettivista.   Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di  cui lo Stato — qualora rispetti il principio della pro¬  prietà privata — si può valere, per intervenire nel cam¬  po dell’economia, individuale, è logico che ad essa fac¬  cia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio  l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo ri¬  chieda.   E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,  mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:  mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si pro¬  pone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati  mediante la protezione di tutte quelle forze individuali  che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corpora¬  tivo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa  esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione de¬  gli scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le                                                          FINANZA CORPORATIVA - 147   forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore dei  provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’ob¬  biettivo prefisso.   Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare  il contributo che, anche in questo campo ha dato Maf¬  feo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in  « Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova-  tori sistematici ed i creatori di schemi astratti fareb¬  bero bene a leggere ed a meditare se veramente sono,  come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare” p. 25; “La preparazione del colpo di Stato ed el 25 Iuglio” p. 58, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”; p. 99; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, p. 159, “In lotta per la difesa dell’onore italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”; p. 211, “La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo, corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51772827898/in/dateposted-public/

 

Grice e Civitella – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” Civitella è giustamente ritenuto il Nestore della letteratura napoletano. Questo illustre autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possiede, ad un'età così avanzata, l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo e Margherita Civica, nacque nel castello feudale di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno al secolo XVI quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Luigi Savorini, il cognome originario era “de Civitella”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,  per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia.  Nella città partenopea si laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per motivi di salute.  Nella prima parte della vita si dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione di molti abusi.  Con il ritorno in patria si inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio Delfico, il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.  Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio.  Sotto Giuseppe Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.  Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di Melchiorre Delfico si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano, ando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di Civitella si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.  Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale corrente.  Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo tempo.  Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a Teramo  e alla frazione di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone.  Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume di Franco Eugeni, Carlo Forti, allievo di N. Fergola. I principali indizi si possono così riassumere:  I maestri ed amici di Civitella, come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;  In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio Delfico, futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.  Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre opere: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo, Angeletti).  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita  Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del commendatore Malchiorre de' Marchesi Delfico, in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,  Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come Delfico (Melchiorre), in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di Melchiorre Delfico, Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Raffaele Aurini, Delfico Melchiorre, in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,  ITeramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Vincenzo Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Gabriele Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,  Nico Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il dritto romano e sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità (incertezza e arbitrarieta) sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce la vantata giurisprudenza romana. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gli innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti gli i filosofi si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto Sesto Pomponio, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tuttocid che il nomato giureconsulto aveva raccolto su tal oggetto nel suo Manuale. E poichè Pomponio incomincia la storia del dritto dai re di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca abbastanza oscura non vi sarà pero materia di dispute, poichè Sesto Pomponio parlando conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte lege gi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia nella qual forma Roma ebbe il suo incominciamento. Quindi Pomponio si espresse nelle precise parole. Populus sine lege certa, sine jure cento primúm agere instituit. Ne altrimenti doveva avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società, doveva essere piuttosto regolata dalla forza del comando che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che Romolo per accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente di aprire un asilo da era retto ve s9 ) da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divennero i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formarono il senato come una Dopo questi primi tratti caratteristici relativi al le leggi Pomponio siegue a raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, Romulo divise il popolo in tante parti chiamate curie e col voto di esse prende. 9 va cura delle pubbliche cose, e fece in seguito la legge che si chiama legge curiata, come no, fecero ancora i re successivi, e tutte furono, raccolte da Sesto Papirio, il quale visse al tempo di Tarquinio il superbo, e dal nome dell'autore quella raccolta fu chiamato “dritto papiriano”. Non m'impegnerà nelle dispute istoriche e critiche delle quali si occuparono gl' interpreti di Pomponio, ma osservero che sebbene da principio parli dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come fu data una forma, non una costituzione alla città nascente, e come dai re fu promulgata la legge curiata. Per due secoli e mezzo in circirca; quanto duro la regia signori, Roma non ebbe dunque che questa o quella legge occasionale, e la società fu mantenuta più col governo che colle legge. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non sarà inutile il presentare in poche parole lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale fosse l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non ebbero autori contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un adu namento di persone appartenenti a vari popoli non solo italici, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione avendo Romulo per capo visse da principio di prede e di rapine, gusto che fece il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avol toi comparsi a Romolo nel prendere gli auguri furono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose non vi fu da principio bisogno di leggi, la legge, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma fu fondata come Livio si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute erano decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’ briganti è sempre ava venuto. Avviene similmente che nel formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia, e così avvenne di Roma. Il palagio di Romolo fu una succida capanna: il di lui trono quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il Senato fu la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto fu vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ furono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va. rj rapporti ne' quali erano considerati, o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata su le divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia non ebbe alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagli antichi autori, parlando dell’origine delle clientele si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. Patrocinia appellari capra sunt cum plebs distribuia est inter paires. Ne si devono contare per un ordine intermedio di citetadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da principio era stata abbozzata. Sotto il re Numa vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degli interpreti della divinità; ed in somma un principio di governo teocratico, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare su le cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo ebbero i primi principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gli atti umani e farli nascere ancora in un popolo quanto ignorante tanto superstizioso. Così par che facesse Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento; cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale. Su questo piano Roma crebbe successivament sotto i re. L’aristocrazia fu sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri seppe sostenersi. Massacrarono Romolo e ne fecero un dio. (Cristo). Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta, ed il primo per quanto io sappia a darne l’idea fu il nostro Gian Battista Vico, il quale riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degli antichi costumi seppe scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale deve nascere dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce di Vico furono poi seguite dal Duni e fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nacque aristocratica, che il re none che il capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi ebbero la quarta di cittadini che furono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia politica e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘popolo’ ne’ primi tempi ai soli patrizi appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza (cives polis), i quali poi furono gradatamente dalla plebe acquistati. Egli concilia luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto Pomponio e fa vedere che il re non ha che una parte del governo o dell’amministrazione, ma che la somma dell’autorità, la vera sovranità, il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedevano nel corpo de’ patrizi, come anche il dritto di eliggersi il loro re o principe. Furono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (Duni Orig. del Citted. Romano. 1) ministri ed interpreti: e siccome per un’eterna verità l’aristocrazia non si sostiene che sull’appoggio della superstizione. Cosi dal corpo aristocratico si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici fu specialmente destinato a dar i giudici alle divine cose ed umane. Quindi la conoscenza della legge e l’amministrazione delle medesima fu un dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente custodita nell’ordine de’ patrizi. Codesta emanazione della prima teocratica idea non solo si conserva per quanto ebbe di durata il governo del re ma per quanto visse la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crebbero le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi nacquero i sentimenti di libertà e di eguaglianza, così quelle idee si andiedero a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva in Auenza. E necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' am ministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma; e senza impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge fu minima, eventuale ed incerta, e che l’interpretazione delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza fu incerta, irregolare, arbitraria, e quale ad una nazione anco sa ignorante e superstiziosa poteva solo convenire: e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè Pomponio scrisse, che sotto i re sine lege Gerta, sine jure certo vissero i romani. Lascio agli ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando I pochi superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure consulti ne fecero poco conto e le lasciarono finalmente perire. Chi volesse però riconoscerle, troverebbe in esse la conferma di quelle idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche associazione. Espulso il re si crede comunemente che il governo di Roma cangiasse d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gli eroi della libertà. Ma chi - giudica senza prevenzione non vi troverà che gli eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà; della propria libera però non della liberta pubblica, e per servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio su gli altri. Quindi Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica e civile rimasero nella stessa condizione. L'incertezza fu seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio, ciocchè ci dà manifestamente ad intendere Pomponio dicendo: Exactis deinde regibus..ae. iterumque cæpic populus Romanus incerto magis jure & consuetudine ali quam per latam legem, idque prope sexaginta annis passus est. L’aristocrazia era stata alquanto abbassata dall;ultimo re, per cui ebbe fine il suo governo, ma dopo la sya espulsione ritorno presto nel pria miero vigore. Quindi gli effetti dovevano essere conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infatti si sa che dall’anno fatale ai Tarquini, fino al tempo della leggi decemvirale, il potere legislativo ed il potere giudiziario furono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo sarebbe ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale erano tenuti, tentarono de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi. Ottenuto il tribunato si avvidero ben presto che esso era troppo debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente era annidata dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo (sprit du corps), che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, furono più volte ripetute; ma le loro domande erano incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri si riducevano ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi poteva essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano ed arrogante sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano parrà sempre al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri costumi erano sufficienti e che di nuova legge non vi era bisogno; mores patrios observandos, le ges ferre non oportere. Furono intanto inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trovava detta suo questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare le civiche discordie rispose loro: fatevi la legge; i Romani plebei sentirono l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche furono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposava colla più buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali dovevano mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occulta rono in qualche luogo d'Italia, e la legge poi fu tirata dalle arche pontificali  e perchè nulla mancasse di condimento aristocratico, si fecero poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle dodeci tavole se fosse trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, sarebbe un articolo sommamente istruttivo; ma questa ricerca veramente politica è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dovesse servire e che non dovessero aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastavano la usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e di altri animali, del linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei volevano che la legge si facessero dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi sarebbero stata altra legge, che quelle ch'essi stesse avrebbero fatte: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo vuole una legge di uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente dopo tante vicende le dieci tavole furono pubblicate e successivamente le altre due come ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la esamino e la approvó solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno; che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e secondo Livio nihil juris in civitate reliquerant, che per quella legge ogni consuetudine aristocratica e conservata, che la vantata uguaglianza resiò in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconobbe d' essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta da molti autori e specialmente dal Vico, da Bonamy e da Duni: la favola d;essere state leggi di uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia •gli avanzi di quelle leggi. La scovri ancora il E 4 po. (Vico: Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris. Tom. XVIII; Duni: Dėl Cittad. Rom) popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato potè tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come cittadini, non trova che una legge civile, una legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessavano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognavano una legge costituzionale che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo; e la plebe resto delusa della sua troppo malfondata speranza. Vedremo in seguito come seppe rinnovare le giu ste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gli elogi de' quali sono state ciecamente onorate dagli antichi é da moderni; ed osservare in seguito, se ne pro venissero quegli effetti felici, ai quali produrre era no state destinate. Cicerone in più luoghi esaltan dole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi molto felice nel darne le pruove; così condanna Solone, per non aver imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed elèva la seviezza della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam ! esclama egli dopo aver lungamen: te ragionato con Logica forense. Tale fu la sa viezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si riguardano per la parte crimi nale esse furono Aristocratiche, ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andavano al la conservazione dell ' Aristocrazia: se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, dovevano esser ana loghe alle leggi ed all' usanze: se per la parte te stamentaria, è facile il vedere, ch' esse contene yano la massima ingiustizia politica, per conser vare in forza gli Aristocratici dritti: della stessa indole furono le indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al contratto, la legge furono pur sempli ci, come devono essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili; ma le usure d'ogni spe cie furono terribili. Chiunque vorrà esaminar quel te leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi devono avere colla natura e collo stato civile, troverà senza fallo ingiusti ed irragionevoli gli encomj alle medesime attribui. ti. Ma forse neppur in Roma si pensò tanto favo revolmente di esse, poichè col tempo par che fos - sero del tutte néglette e dimenticate. Cicerone stesso riferisce che al suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse ap prese a memoria, era poi passato di moda tal co stume: discebamus enim pueri XII. ut carmen ne cessarium, quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio erano cadute. in tale disprezzo ed obbllo, ch' erano derise come fossero le leggi dei Fauni e degli Aborigeni. Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gli antichi panegiristi delle leggi decemvirali; poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' anti chità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degli ultimi tempi della Repubblica, il paragone risultava in favore della prima. Ma che i Giure consulti moderni, e quelli specialmente della setta degli eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come il più interessante per MC 75 per la conoscenza del giusto, e rincariscano su gli elogj degli antichi, cið non può essere che l'effetto d'un Letterario fanatismo Se Livio chiamo le leggi delle XII tavole fonté ogni equità fu troppo credulo alle espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie fu infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costi tuzione non fu cangiata, e da quella vantata ugua glianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio Teocrático, di sopra accen nato, ciò che distingueva in tutti gli effetti civili tanto pubblici che privati, il patrizio dal plebeo, era il dritto degli Auspicj. Era questo dritto che dava la vera qualità di cittadino negli affari sacri e ne'civili; ed incominciando dal primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produceva il connubio o nozze solenni, dalle qua li derivava il carattere di padre di famiglia, la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze era de' soli patriz;; poichè gli al tri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gli auspi cj maggiori poi erano i soli mezzi per aver drito 1 (76 ) alle Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento fu fatto da quel le vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto era sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tran quillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asse rire, ch ' esse non avessero propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crederà intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser pubblico e generale, avesse resa ceria e stabia le la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno doveva trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj; ma su questa con seguenza ci fanno nascer gran dubbj gli antichi Autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal carac tere delle prische Aristocrazie fu la misteriosa cu stodia delle leggi o consuerudini, e della religione, ciocchè formava il privilegio esclusivo, o la pri yatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del (77. Det ZE =; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza Romana era fondata parte su l’ingiustizia, parte su l'errore: su questo, perchè la loro scienza saa cra ed arcana non consisteva nel celare al volgo i misteri della natura, l'origine della cose, l'enera gia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni: la loro scienza arcana si raggira va sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo degl uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose, alle quali non pud appartener mai il nobile titolo di scienza o sapien. ma quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo facevano servire all' ingiustizia, poichè con tali mezzi si mantenevano nell'assoluta disposizio ne delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla soy version ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque fossero erano pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere sarebbe andato a svanire, se non si fosse trovato un modo col quale si ae vesse potuto riparare una perdita si grave. Ques sto si effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non fossero state avvalorate dalla doro re condita sapienza. Essi dovevano spiegarne il sen so; essi conoscere qual dritto nasceva da una tal legge; qual era l'azione che ne proveniva, quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che poteva impedirla; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si poteva amministrar la giustizia senza offendere i Numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una Legislazione. Essa vanta un ori gine Aristocratica, un origine che si confonde coll' errore, colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza fosse nata su bito che vi furono leggi incerte ed arbitrarie; pu re non si confermd, estese e stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo prezioso compendio dei dritti degli uomini e degli Dei. Pomponio conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole, s'incominciò a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti, e le ne by cessarie dispute del foro. Tali dispute e tal drit » to non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con pocabolo comune è chiamato dritto civile. Quasi nel tempo medesimo da „ quelle stesse leggi si fecero nascere le azioni, colle quali si doveva discettare a litigare: ed sacciò non fosse in libertà di ciascuno il farne uso, si pensò a farle essere certe e solenni '; e que „ sta parte del dritto fu denominata azioni della legge, o sia azioni legittime E cosi quasi ad - un tempo nacquero queste ' tre specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole; dritta çivile deriva „ to da esse; ed azioni della legge, composte su i s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle » leggi quanta dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse era riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinavano persona che pre sedesse ai privati affari o litigi; e con questa, consuetudine visse il popolo per cento anni in » circa, „ Quale orribile contradizione ! Appena pubblieata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, fu trovata cosi insufficiente, ch'eb be immediato bisogno di sostegni e di interpreta zioni. E codesto fu il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di Pomponio contiene una contradizione alle idee di leggi e le gis 80 ) gislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto encomiato non fu altro dunque che il risultato delle interpretazioni de'Giu. risprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti erano mai quelli! Ciascuno sa che quella fu l’epoca della più crassa ignoranza; la spada, la zappa, i polli e le usure erano le sole idee che fiorivano in quelle teste leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi qualunque fosse stato quel dritto con suetudinario poteva pur ridursi in massime o in principj di giustizia, e cosi divenire di comune. intelligenza e di un uso generale; si pensò il mo. do onde questo non avvenisse, e si mantenessero sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið era sicuramente per una vanità dottorale, ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitra sia, qual era il grande scopo dell' ordine Aristo, cratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportu 80, fu quello d'inventare le azioni, cioè delle for mole colle quali non solo si doveva agire o ecce pire in giudizio, ma secondo le quali si doveva no regolare i contratti e gli altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non bastò loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colle leg gi certe difficilmente avrebbero potuto abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legis lazione da surrogare all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá cu stodia, colla quale prima delle XII. tavole teneva no le antiche consuetudini. E perchè non si man casse di venerazione a tale straordinario stabili. mento, i Pontefici ne furono fatti depositarj egual mente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diret ta non a dispensar giustizia, ma a conservare ľ Aristocratico dispotismo, darà segno, di non aver avuto mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si trattava già di fac leggi, si trattava solo di tener il popolo in schia vitù: perchè se avendo già esso acquistato i drit ti di privata cittadinanza avesse potuto godere anche quello d'Isonomia, cioè dell' eguaglianza delle leggi, qual'era stato il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, avrebhe fatto un gran passo verso quella libertà che tanto F ambiva, ma che più sentiva che conosceva. Escla. md esso sovente contro quella specie di occulta o privala legislazione, dicendo, che la sua condizio de ea in questo assai peggiore di quella dei po poli vinti; essendogli negato il poter sapere cioc che riguardava i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agli altri non era Ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana era inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo Vico con gran proprietà d' intelli genza penso che quel notissimo motto di Solone: conasciti, fu piuttosto un précetto politico che mo rale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della ve ra giustizia Solone ricorda va con quel motto all' oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo Romano non eb be un Solone, che gli desse così utili ricordi; ne forse ne aveva bisogno, poichè abbastanza si ri conosceva, ed agli insulti de'Patrizi rispondeva, che non erano fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe perd avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degli abusi del potere Ari „ stocratico, ma non giunse mai a formare una pere ferta Repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della Giustizia naturale e positiva: per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde an che presto nella voragine del disporismo. Ma ritornando a quella Giurisprudenza che suc cedè immediatamente alle XII tavole, e che diede nascita a quel nuovo dritto così stranamente am ministrato, dirò, che sebbene da quanto semplice mente espone Pomponio, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre Gravina, tuttochè pieno d' entusiasmo per la Romana Giurisprudenza, non seppe nascon dere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'qua. li abbiamo ragionato. Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiu dizj Filologici, avesse voluto mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. cap. 46. F 2 di giudicare giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe ricono sciute per arbitrarie e maligne le successive giuris prudenze dette media e nuova, ed avrebbe discon * fessato gl ' inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse tributare. Per quanto perd si è finora ragionato, non ho toccato che leggermente la nequizia della giuris prudenza e della giustizia sacerdotale; ma chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d' Ammi nistrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile ', è precipitar gli uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano la ragion civile, onde il celarle, il corromperle, val lo stesso che privare gl'individui del corpo po litico di quella ragione che loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurispru. denti non lasciarono mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll' inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili men (85 ) menti anche s'impossessavano per poterne disporre a loro talento. Livio n'è amplissimo testimone di cendo: institutum etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut Senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante ato. bitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non fu però sufficiente questa legge, come vedre mo in altro luogo, e i giurisperiti seguitarono ad essere veri Monopolisti delle leggi. Dobbiamo credere però che i più virtuosi Ro mani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa che Roma allora e per alui secoli non presentava al cuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scien ze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non amava l'intrigo, nè la vita oziosa soffriva, in vece di darsi alla cabalistica (Livio) e viziosa giurisprudenza, si riparava nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire, mostrandoci, che la famiglia la più in festa allo Stato, la perpetua persecutrice della li bertà popolare e della Giustizia pubblica fu una famiglia di giurisprudenti. Tale fu la Claudia; e sempre si è veduto che dove dottori e forensi 80 no, la discordia prende il luogo della pace e della naturale tranquillità. Ma ritorniamo a Pomponio. Egli ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero a gli altri autori dicono, ch' ebbe una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune diffe renze dalle quali non fu alterato il fondo del la cosa · Seguita dindi Pomponio a racconta re, come quelle formole ed azioni, essendo ri, dotte in forma da Appio Claudio, cotal mistico libro gli fu involato da Gneo Flavio figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un dono al popolo, » questo gli fu si grato, che lo fece pervenire ad » esser Tribuno della plebe, Senatore, ed Edile „ Questo libro contenente quelle azioni delle quali > si è già parlato, dal nome dell'editore fu deno (87 ) Si po, mitato drino civile Flaviano, benchè egli nulla » vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Romi la popolazione e nel multiplicarsi gli affari maticando alcune specie di formole, Sesto Elio non » guari dopo compose nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato Dritto Eliano,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le ' azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illua minato su i principj legali, sulla condotta degli affari, sul modo di amministrar la giustizia,. sulle ordine giudiziario, non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu ' al trimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana, che forma va la base principale del loro ingiusto potere, tro* varono il'modo, onde far rimaner il popolo de fuso. E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, pres stamente si cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell' ordine, e conservarono il grande arcano della Giurisprudenza. Le formole e le azioni furono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma ascoltiamone, Cicerone, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento; Erant in In igna potentia qui consulebantur: a quibus etiam dies, tamquam a Chaldæis petebantur. Inventus est scriba quidam Gn. Flavius qui cornicum oculos con Fixerit, & singulis diebus ediscendos fastos populo proposuerit  & ab ipsis cauris jurisconsultis coruin sapientiam compilarit. Itaque irati llli, quod sunt, veriti, ne, dierum ratione, pervulgata & cognita șine sua opera lege posset agi. notas quasdam com posuerunt, ut omnibus in rebus ipsi inieresseni Non fu di alcun utile dunque l'aver trafitti gli oc chj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosiegue, la Storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes (Cic. pro Mur.) cha stessa condotta". La Giurisprudenza fu latente, in çerta, arbitraria, ignota al popolo,, e privativa del solo ordine paurizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza » da quella sapienza che cerca il vero, per render lo di comune demanio; da quella Giustizia trova i principj nella ragione, e gli espansivi sens țimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uo mo civilizzato; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla Giusti, zia;, lungi dico da tutte queste qualità e gli Eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti so ciali, dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso di un illegiti mo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza ! Seguitando quindi Pompopio ad esporre i fonti del dritto Romano ci accenna l'origine de' plebi. -. sciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal Senato, e delle quali in appressa, vedremo gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che » nel tempo stesso anche dai Magistrati nacque » un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i Magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, & perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degli editri, da quali si costitui il » Dritto onorario, cost detto perchè proveniya dall'onor del Pretore, • E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nacque delle costituzioni de' Principi, cost riepiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano.,, Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legisla os zione è costituita del dritto" o sia legge; da » quello che propriamente si chiama Dritto civile, che non è scritto, è consiste nella sola interpre mtazione de' prudenti: dalle azioni della legge » le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti che furono fatti senza l'autorità del » Senato, dagli edini de'Magistrati,da' quali nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che Pomponio ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gli autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale fosse il dritto é la C 91 ) fa giurisprudenza Romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse ac quistando qualche dritto su l'Aristocrazia, puro questa sostenuta dal Sacerdozio, qnantunque per Necessità cedesse in qualche cosa de’dritti pubblici, fece perð ogni sforzo per tener recondite le leggi, e sotto le chiavi del mistero tutto quello che ri guardava l'anministrazione della giustizia. Conoba bero ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e della giu stizia, e che tanto più diventa tale autorità effica cé, quanto più le leggi sono oscure incerte ed ar bitrarie. Ma per vedere come questo continuassets e come la Giurisprudenza seguitasse ad esser sem pre della stessa indole, prima di venir a ragionia re de' plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto; cui si volle dare il titolo di onorario, ma che ves dremo' non essere stato degno di alcun onore. Se si volesse parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di buon senso e Cicerone stesso le. deridevano e tenevano in altissimo disprezzo, cre do che dopo due mille anni potremo far noi al-, trettanto, e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurispru-, denza. Rifletterà solamente, che quando di cose sem., plicissime si vogliono far misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le imma gini e le finzioni alla semplicità e realità delle co se e delle idee: specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle leggi e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per allontanarli, facevano tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi il foro Romano; ma accennerò so, lamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto onorario. La forza dell' opinione non aveva più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora erano stati privativi de patrizi, come fu quello della questura e de' tria buni militari, non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti, se non ottenevano la massima delle Magistrature, vale a dire il Consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della Religio ne i patrizj cercavano coprire le loro pretese, o tependone lungi il volgo profano, ailontanara lo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al Consolato, si rendeva necessario l ' ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar an che essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor rendo alla fine il quarto secolo di Roma, furo no queste cose combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de De. cemviri, e che di questi cinqué patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella nuova elezione de Consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro pae trizio. Invano Appio Claudio montà in tribuna per fare non arringa ma una predica Teologica contro le 94 et le nuove idee filosofiche sorte negli animi della plebe Romana: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minacciò d anate ma quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma (diceva egli ) fu fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano, in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare: che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo fu mai creato cogli auspicjse che in fine canto era il creare i Consoli dalla ple. be, quanto il rovesciare interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi rimostranze Lucio Sestio nel 387. ottenne finalmente il conso lato. Se questo colpo fosse doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo ef ficace, si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel privativo potere che dipendeva dal consolato. Pensarono dunque sta (12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova Magistratura, che potesse con servare nell'ordine patrizio l'amministrazione del da Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò che riguarda l'esecuzione delle leggi civili. Quindi col pretesto che i Consoli erano quasi sempre fuori di città alla testa degli eserciti, onde non poteva no adempire agli ufficj della giudicatura, proposent to di stabilire un nuovo magistrato che adempisse & questa parte dell'Amministrazione, e fu ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse Pretore. La pretura dunque fu stabilita per conservare nell'ordine de' padri eutto il sistema giudiziario o forense del quale avevano facto fin allora uno scempio cosi crudele. Le leggi e la Giurispruden za seguitarono ad essere malversate, ma per poia chi anni durd privativamente nelle mani de' patri zj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel quale si pud fissare veramente l' epoca di quella Giuris prudenza che passo di mano in mano fino agli ul. timi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il no. me Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato Pomponio, nacque da gli editti, che emanavano į Pretori nell'entrare in esercizio della loro Magistratura, ed essa façeva il maggior latifondio della Scienza forense. L'im para the S6 ) portanza dunque della medesima ci merte nel do vere di portarvi sopra uno sguardo particolare, seguendola brevemente nel corso della Storia', ve derne in qualche modo l' uso, il carattere; e gli effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della comu nicazione a tat officio delle plebe, e più dopo ese guito il censo di Fabio Massimo il governo di Roo ma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare fu molta, e qualche volta ecces siva a segno che degenerd' in licenza, poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suf fraggj ed il potere legislativo non ebbero mai quel la regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non fu mai tale il popolo Romano, poichè la for ma del suo governo non fu costituita su d'un pia no antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse ri montato alla necessaria divisione del pubblico po tere, e questo ripartito in modo che le varie par ti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente oco casione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germi nazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo final mente a vedere quale fosse stato il fato della Giu risprudenza in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accurata, mente trattarono degli editti pretorj sono da distin guere il celebre Giureconsulto Eineccio ed il Sig. Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO (1 ) Heinec. Hist. Edict. (12 ) Memor. de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impe, so ancora non solo quelli che propriamente Man gistrati erano detti, ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il dritto o il costume di fare degli edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddi visioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, pren dendo un tal dritto, ebbero l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai Pontefici e dai Tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vol. lero avere il dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa era compresa. Fra tanti Magistrati perd che eb bero o si arrogarono cotale autorità, gli editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza furono quelli de'Pretori. Abbiamo già detto di sopra che dai patrizj fu inventata e fatia stabilire questa nuova Magistraa tura a consolazione ed indennizzamento della per dita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi ottennero, che il Pretore dal loro ordine dovesse essere prescelto Non durd mol, (99 molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche para tecipare a tal carica, mentre ancora era unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo, cioè nel anno 510. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni erano addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da Livio e da altri, cioè che essa fu surro gata al potere giudiziario, che i Consoli esercita vano, si dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giu risprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica auto rità, e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si po trebbe facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giu. 3. G 2 (100 ) Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essen do essi semplici giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità Legislativa, che il dritto fu cangiato, e gli editti più che le leggi furono osservati, e maggior uso ed autorità ebbero nel Foro. Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro officio era solo di applicare.la legge al caso particolare, o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si di. sputava. Un Giudice non può creare un dritto col le sue sentenze, poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si verifica per la tale azio ne o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo, cioè esercitando l'attualità della Magistra tnra non può crear un dritto, molto meno dee cid poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della Magistratura. Gli editti pretorii dunque per i quali si alteravano, si cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci pre sentano degli atti di autorità arbitraria, tempora ria, ed incerta che non possono formar mai una parte del dritto, il quale può solo emanare dalla - potestà legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica contenga almeno in potenza (come dicevano i Scolastici) i principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta, ma come codesta carica fu surrogata al potere giudi zionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall ' or dine da cui erano tratti, non fu difficile il farvi passare di tali abusi. A considerar dunque giusta mente la cosa non nacque nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario, ma da quello di far gli editti. In fatti se si va all'origine di que sto dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri: espres sione tanto generale, che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la le gislativa; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti furono di uso promiscuo: Ma Papiniano è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che fu introdotto a pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il drilio civile. Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium: Ecco dunque la vera origine del drixco Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gli editti. Ajutare intanto indica debolezza, supplire, mancanza, cor reggere, errori. Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o noci va alla Repubblica (13). Ma che altro è mai il Dispotismo, l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti: Se le leggi mancano, bisogna far le, e non solo il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge, ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle erronee, nè ad interpretarle oscure · Lascio le tre prime condizio ni o circostanze delle leggi, sopra le quali non pud cadere alcun dubbio, che il restituirle in qualun que modo non possa spettare ad altri che al So vrano; ma in quanto all' interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabia lita la sua autorità, rifletterò che l'interpetra re o interpatrare da principio fu in Roma del so to ordine del patrizi, quando tutti i poteri e spe cialmente il legislativo erano ristretti nell' ordine "Aristocratico. Essi dunque che facevano le lega gi erano i soli che potessero interpretarle, uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato. Quando una leg ge è oscura, non vuol dir altro, che il non sa persi precisamente, ciocchè essa comandi o pre scriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stes sa autorità, che l'ha emanata, sola interprete le girima di se stessa. Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e Giustiniano stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto fu d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso paral lelo (14 ) Or l'autorità data ai Pretori cogli editti prova visibilmente due punti: il primo che le leggi era no così incomplete, come sono quelle dei popoli bara bari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le po testà, ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che con nobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gli onori che merita. Essa fu la prima inventrice degli editti, essa fu la sola Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale era il dritto Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, do vremmo anzi prenderli per riformatori o corret. tori delle leggi. Tali furono in fatti, ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà le gislativa: lo furono solo per abuso, vergogno so ai costituenti di sì strana Magistratura, e fer nicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'in congruenza nella quale dovevano essere per la dif ferenza de' tempi, e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i sta bilimenti di Atene, avrebbe trovato più oppor tuno mezzo ' a correggere e modificare la sua bar bara legislazione. Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propo neva annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste erano poi approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant' auto rità straordinaria, se rifletteremo che quella. Magi stratura fu da principio stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conservò in suo potere per trent'anni. Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi erano quattro specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ri stringerò ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali do vevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura, furono quelli appunto, da'quali deri varono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei quali il Pretore esponeva nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole era com preso, chi era autore delle formole, lo era in con seguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio mancava a quelle formole per qualun que causa, cadeva dall ' azione, o rimaneva con inutile eccezione cioè perdeva la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato div enuto legislatore, ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e che non aven do idee certe e generali de' principj del driito, fa cessero gli editti ciascuno secondo le proprie co gnizioni ed idee: poichè come le ultime deriva zioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annua li, ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. Nè ci faccia illusione il nome di perpetuæ jurisdictionis, poichè quella perpetuità era ristretta ad un sol anno. Il Pretore o Pretori che succede vano alla carica, avevano il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudi ziario, e cangiare a lor grado la formola ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sem. pre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conser vavano integralmente o parzialmente gli edirii an tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, era sempre però in liber tà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo co nio, che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj. si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare agli amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipendeva solo dal capriccio pretorio, e gli attori in giudizio do vevano essere ben intrigati in variar le loro fora mole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo portò col tempo, che fossero mol te le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè faceva un nuovo intrigo, ed accresceva l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pre tori furono varj, e vi era in Roma quasi una po polazione di Magistrati, poichè ciascuno a suo modo proponendo gli editri, quel ch'era giusto pres. so di uno, si trovava ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi particolara mente era dunque così incerta, che non aveva per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilatava o ristringeva, allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sem. pre dall' arbitrio e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Ammi nistrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non avrebbe potuto 1 dirs (109 ) diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio: ma gli ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano ragioni sufficien ti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari, per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistra ture e le Giurisdizioni. Esempio pur croppo fune stamente imitato nei vari stati di Europa '! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la po polazione o il numero degl' individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non crescendo i rapporui non devono multi plicarsi e variarsi le leggi, le quali ne sono I espressione; ne devono quindi" crescere e di versificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj crimi nali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e le gislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione, e multiplicare gli abusi dell'arbi crario potere: ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti deb cittadino. In questo caso, la legislazione sarà uni voca, generale, uniforme; i limiti del potere giu diziario resteranno distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno sta bilite e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guer. ra fra loro, e, per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inver sa della grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti della piccio lezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e con venevolmente diviso, senza gelosia e senza inte-, ressi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can. giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù. Sdegnò egli (co me rapporta Plutarco ) i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. Paulo Emilio fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. Cornelio Silla il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. Livio e Dion Cassio ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo. Infatti secon do Asconio Pediano la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di Cice. rone: Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se nuova Legislazione, nuova Giu risprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza. Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’Alteserra, il quale offerendo al Sig. de Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu l'Eineccio ancora il quale nel la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo Vico portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate. „ In con „, fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3 bara sia: 99 he: (Vico Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,, ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti, o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la RomanaRepub. blica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora, la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci com parirà molto giusto che Giustiniano le chiami favo le cioè azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs & libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni & c. non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergo gnosamen te li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurispru denza Romana, rispondero, che tali non sono poic (123. Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da Canulejo; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf (18) Dionys. Antiqu. Romanarum lib. z. (126 e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Cen turie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. (127 ) el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misus rata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due Gracchi, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di Cicerone. Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica, gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta Cicerone, assicurandoci, che per saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria, che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che Tacito caratterizzò con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori, prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges, etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava, per vim taie sunt. (20) Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della Storia, e sce vri (Tac. Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile prevenzione tutt'altro abbia - mo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere, che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso, credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche.  Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D. Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria. L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti (Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene (Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli..... pag. 138  Spallanzani a M. Delfico..... pag. 140  Luigi Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141  Toaldo a M. Delfico..... pag. 142  Spannocchi a M. Delfico..... pag. 143  V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]..... pag. 148  Michele Torcia a G. Berardino Delfico..... pag. 148  Gaspare Mollo a M. Delfico..... pag. 151  Alessandro Carli..... pag. 152  F. Mùnter a M. Delfico..... pag. 154  Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159  Mùnter a M. Delfico..... pag. 160  Filippo Mazzocchi a M. Delfico..... pag. 163  Gazola a M. Delfico..... pag. 163  Giuseppe Micali a M. Delfico..... pag. 170  L'abate Bertola a G. Bernardino Delfico..... pag. 178  Il medesimo a M. Delfico..... pag. 179  L. Brugnatelli a M. Delfico..... pag. 179  Antonino Anutos a M. Delfico..... pag. 180  Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M. Delfico..... pag. 183  Giuseppe Palmieri a M. Delfico..... pag. 180  Tommaso Gargallo a M. Delfico in Teramo..... pag. 190  Giuseppe M. Galante a M. Delfico..... pag. 194  Giovanni C. Amaduzzi a M. Delfico..... pag. 194  Mattia Ab. Zarillo a M. Delfico..... pag. 195  Giuseppe M. Giovene a M. Delfico..... pag. 197  C. Amoretti a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..... pag. 203  Giovanni Acton a M. Delfico (Teramo)..... pag. 205  Fortis a M. Delfico..... pag. 205  Pietro Zannoni a M. Delfico..... pag. 206  Bossi a M. Delfico..... pag. 206  Tommaso Frantoni a M. Delfico..... pag. 209  Daniele Felici a M. Delfico..... pag. 209  G. Napoleone a. M. Delfico..... pag. 212  G. Giacomo Trivulzio a M. Delfico..... pag. 212  G. Melzi a M. Delfico..... pag. 223  San Severino a M. Delfico..... pag. 23  Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231  Tracy a M. Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..... pag. 240  Angelo Maria Ricci a M. Delfico..... pag. 241  Donati Gioli a M. Delfico..... pag. 243  Luigi Dragonetti a M. Delfico..... pag. 243  Giuseppe Zurlo a M. Delfico..... pag. 246  Michele Arditi a M. Delfico..... pag. 249  Antonio Orsini a M. Delfico..... pag. 250  G. M. Burini a M. Delfico..... pag. 251  Taranto a M. Delfico..... pag. 252  Francesco Sorricchio a Delfico..... pag. 252  L. Cicognara a M. Delfico..... pag. 258  F. Santangelo a M. Delfico..... pag. 259  Sebastiano Ciampi a M. Delfico..... pag. 260  Donato Tommasi a M. Delfico..... pag. 261  Il Duca di Laurenzana a M. Delfico..... pag. 262  Giuseppe Grimaldi a M. Delfico..... pag. 264  N. Santangelo a M. Delfico..... pag. 271  Lodovico Bianchini a M. D...... pag. 272  Carlo Filangieri a Melchiorre Delfico..... pag. 272  G. B. Niccolini a M. Delfico..... pag. 274  Giuseppe Rangone a M. Delfico..... pag. 276  Leopoldo Pilla a M. Delfico..... pag. 278  Il Duca di Gualtieri a M. Delfico..... pag. 281  II Barone Poerio a M. Delfico..... pag. 283  Leopoldo Armaroli a M. Delfico..... pag. 283  G. Neroni a Leopoldo Armaroli..... pag. 286  Francesco Fuoco a M. Delfico..... pag. 287  Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis..... pag. 288  Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..... pag. 293  Al sig. Pasquale Borelli..... pag. 307  Al sig. Antonio Orsini..... pag. 313  Al sig. Conte Armaroli..... pag. 315  Alessandro Volta a Orazio Delfico..... pag. 317  Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326  Stati Romani..... pag. 327  Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo..... pag. 335  Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..... pag. 363  La famiglia e le opere di Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico (1744-1835) è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).  È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode» (10).  Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso Delfico, sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la «propria ragione gli faceva desiderare» (12), bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti» (13).  Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo nel 1774, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum il 19 gennaio 1776. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, Delfico considera il vincolo matrimoniale una fonte continua «di sensazioni e di sentimenti aggradevoli» (14) e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi.  Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Pietro Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali «svelano assai più a fondo e gl'ideali politici del Delfico e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confesserà molti anni dopo ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo» (16). Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gli uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degli oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. «È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare», scrive, che «le nazioni godono del colmo della virtù» e «nasce quella gara di Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie» e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico»(17) e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al potere.  L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a Delfico di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria» (19). Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri» (20).  Dopo il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'«Indice» del Saggio filosofico, Delfico incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Giacinto Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo (21). L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780.  Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di  rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.  Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20 giugno 1783), la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico Filangieri, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino (23), così che i due termini diventino sinonimi fra loro.  Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Sorto nel 1782, il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo (25). La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato.  Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto calabrese della primavera del 1783. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.  Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere giovanili (27), lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane  sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.  Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica.  A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione» (35). Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.  Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui Delfico rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino» (37). La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto (38), in cui denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.  Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta (39), in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.  In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato (40). Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42).  La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle riforme.  Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori (46), che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.  Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale Delfico non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso «scontentissimo».  Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.  L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da «tanti orrori».  Alla fine di ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati.  Nella seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53).  Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55). Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Il 12 gennaio 1799 è chiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.  Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.  Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.  Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (64). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.  Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come Cuoco (65), critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia» (67).  Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (69).  Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel 1804 si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale di Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.  È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano (74).  Nei Pensieri Delfico affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza» (75). Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire (76) risente la stesura dei Pensieri (77), nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce» (78). Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80).  Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.  Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti.  Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.  Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815 viene insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (86).  I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme (1802), l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria (88). Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello (89), pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.  Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi.  Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità» (92), senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.  Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94).  Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale.  Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale del 1823 (97), in cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche (98).  Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825 (99), con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie» (100), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo» (101) e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.  La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel Breve cenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro» (102), permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali (103).  A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà nel 1829 una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto (1756-1821), «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, datato Napoli 14 ottobre 1814 (104), sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia.   Nel 1829 Delfico pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo» (106). Nel 1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico muore il 21 giugno 1835.  Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte Delfico cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a Giovanni Gentile (107) dal ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa considerazione a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (108). Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura che ha privilegiato il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neoidealistica che del ventennio fascista (109). Di recente, nuove linee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di Melchiorre Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la sua evoluzione, agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della storia e della politica. (1) Era nato il 1° agosto 1744 in un paesino vicino Teramo, Leognano, dove i genitori, Berardo e Margherita Civico, si erano rifugiati durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a Teramo il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836, arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti del Nostro (alcuni dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», a.  col titolo Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico.  (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo  borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e 46-49; U. Russo,  Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, pp. 25-31 e 53-63.  (3) F. Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, p. 317.  (4) Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma 1990, pp. 103-155;  I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma 1986, pp. 373-467, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta.  (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli nel 1753.  (6) A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497.  (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, vol. II, pp. 744-780.  (8) Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze 1984, p. 158 sgg.; G. Galasso, La filosofia in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg.  (9) Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 2), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.  (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.  (11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11.  (13) M. Delfico, Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 3, n. 846.  (14) M. Delfico, Saggio filosofico sul matrimonio, in  Opere complete, cit., vol. III,  p. 126.  (15) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano  (16) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino 1988, pp. 501-508.  (19) M. Delfico, Indizi di morale, cit.,  (20) Ivi, p. 47.  (21) Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp. 71-85.  (22) L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio del 14 febbraio 1778, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.  (23) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, cit., p. 1168.  (25) Favorevole nel 1783 ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol. III, pp. 222-260.  (27) Delfico ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 235).  (28) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 245.  (29) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes (1754), in Oeuvres complètes,  vol. III, Gallimard,  Paris 1964, p. 193.  (30) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 253.  (31) Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 309-334.  (32) Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830, herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse, Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi, pp. 140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo.  (33) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 265-323.  (34) G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Giappichelli, Torino 1963, p. 201. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo nel 1783.  (35) M. Delfico, Memoria sul Tribunal della Grascia, cit., p. 279.  (36) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 359-396.  (37) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370.  (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.  (39) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.  (40) Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257), il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo 1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7.  (41) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-367.  (42) M. Delfico, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p. 354.  (43) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined., n. 402.  (44) In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 rientrò in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 25 sgg.  (45) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 403-431.  (46) L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815.  (47) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II,  p. 432.  (48) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, pp. 225 e 105.  (49) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-867.  (50) B. Croce, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24.  (51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.  (52) Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, p. 419.  (53) L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda G. Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796, in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso di pubblicazione.  (54) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.  (55) Lettera di Delfico a Fortis del 7 novembre 1793, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit.,  pp. 415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una nuova denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe conferito quello di barone.  (56) Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da Giamberardino Delfico «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p. 375 sgg.  (57) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre in 1500 arrivarono a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, Tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo 1777-1822 (in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, cit., vol. III, pp. 38-440); G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo dall'anno 1798 al 1814, con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana (1798-1814), in «Storia e Civiltà», a. IX (1993), n. 3-4, pp. 269-285; a. X (1994), n. 1-2, pp. 93-116 e n. 3-4, pp. 148-172; a. XI (1995), n. 1-2, pp. 94-118 e n. 3-4, pp. 175-196; a. XII (1996), n. 1-2, pp. 58-86 e n. 3-4, pp. 171- 195); C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo 1999.  (58) Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-12, ora in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 188-189. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.  Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 41-69.  (59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.  (60) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi, cit., p. 519  sgg.  (61) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-442). I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 51-55 e 57-58.  (62) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp. 695-696. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995.  (63) Per il testo cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico, cit., pp. 138-139.  (64) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.  (65) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg.  (66) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-250.  (67) Ivi, p. 472.  (68) Ibidem.  (69) Ivi, p. 250.  (70) Il libro, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che Delfico l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli nel 1809 e nel 1814.  (71) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.  (72) Ivi, p. 246.  (73) Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 94.  (74) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza, Bari 1921, pp. 158-165.    (75) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete, cit.,  vol. II, p. 11.  (76) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris an VIII.  (77) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C. Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Presses de l'Université, Angers 1988, pp. 345-356.   (78) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 43.  (79) Ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325.  (80) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 174.  (81) Porcelli, Napoli 1781, Epoca I, pp. 329-338. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.  (82) Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma 1995, pp. 79-138.  (83) Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium», a. IV (1986), n. 3, pp. 32-48.  (84) M. Delfico, Discorso sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40.  (85) Lettera di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti  grafiche Della Balda, San Marino 1934, p. 53.  (86) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 125-135.   (87) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497.  (88) Ora in Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e pp. 531-550.  (89) Ripubblicate nelle Opere complete, cit., vol. II, pp. 187-294, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara 1999.  (90) Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332, cfr. P. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, cit., pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di A. Lepre, Liguori, Napoli 1985.  (91) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, rispettivamente pp. 19-42 e 59-79.  (92) M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 20.  (93) Ivi, p. 67.  (94) Cfr. ivi, pp. 29 e 70.  (95) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. I, lib. II, cap. XII,  p. 79.  (96) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159.  (97) Ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588.  (98) L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 299-505.  (99) Pubblicati nelle Opere complete, vol. IV, pp. 293-305 e vol. III, pp. 631-644, i due testi sono stati riediti da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 23-36 e pp. 37-50.  (100) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 37.  (101) M. Delfico, Fiera franca in Pescara, cit., p. 32.  (102) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 38.  (103) Cfr. ivi, pp. 47-49.  (104) Ora, tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col titolo Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico.  (105) M. Delfico, Della preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora contessa Chiara Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827, pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 31-45.  (106) Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 156.  (107) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87.  (108) Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto - G. Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta.  (109) Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 5-40.  DELLE OPERE     M1B1D ©l®D$tID<D     Digitized by Google      Digitized by Google      1 1 3     CATALOGO     %t JStamflmk   i Saggio filosofico sul matrimonio. I. voi.  in 16. 1774* ( segnato nell'indice de' libri  proibiti ).   a Indizi di morale. I. voi. in 16. *775.  ( proibito prima di pubblicarsi ) .   3 Discorso sullo stabilimento della milizia  provinciale. I. voi. in 8. Teramo 1782.   4 Memoria sulla coltivazione del riso nella  provincia di Teramo . I. voi. in 8. Napoli  17 83 . presso Porcelli .   5 Elogio del marchese D. Francescantonio  Grimaldi . I. voi. in 4 * Napoli 1784* presso  Vincenzo Orsino .   6 Memoria sul tribunale della grascia e  sulle leggi economiche nelle provincie confinanti  del regno . I. voi. in 4 * Napoli 1785. presso  Porcelli .     8     Digitized by Google      DET.LE 01 ERE     I l4   7 Memoria sulla necessità di rendere uni-   formi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti  4 * Napoli 1787. presso Porcelli . ’ -   8 Memoria su’ regii stucchi , o sia su la  servitù de’ pascoli invernali nelle provincie ma-  rittime degli Àpruzzi. I. voi. in 8. Napoli 1787.   9 Discorso sul tavoliere di Puglia e su la  necessità di abolire il sistema doganale presente  e non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor-  ma. I. voi. in 8. Napoli 1788.   10 Memoria per la vendita de’ beni dello  Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli. 1788.  ( stampata una col reai dispaccio di appro-  vazione ) .   I I Riflessioni su la vendita de’ feudi umi-  liate a S. R. M. I. voi. in 8. Napoli 1790.  presso Porcelli .   1 2 Ricerche sul vero carattere della giu-  risprudenza romana e de’ suoi cultori . un voi.  in 8. Napoli 1791. presso Porcelli : ( ristam-  pato in Firenze , ed in Napoli un altra volta  nel 18 15 )   1 3 Lettera del signor duca di Cantalupo  ( su feudi ) . I. voi. in 4 * Napoli 1795.   •4 Memorie storiche della repubblica di  San Marino I. voi. in 4 * Milano 1804. dalla  tipografia di Francesco Sonzogno .   1 5 . Memorie sulla libertà del commercio :  ( stampate nella Collezione de classici italia-  ni di Economia politica : parte moderna : Mi-  lano i 8 o 5 . voi. XX XIX. )   1Q Pensieri su la storia e su la incertezza  ed inutilità della medesima . I. voi. in 8. Forlì     Digitized by Google      LIBRO SECONDO     1 15   1806. ( ristampato in Napoli nel i8og. e nel  18 14 - )   17 Pensieri sopra alcuni articoli relativi  all’ organizzazione de’ tribunali : ( stampati sen-  za il nome delF autore , nè V epoca , dalla  stamperia reale di Napoli nel 1808. )   18 Lettera al Climo sig. Abate D. Gasparo  Selvaggi ( sulla Tragedia. Pubblicata dal Gior-  nale enciclopedico di Napoli An. XII. num.  2. i 8 i 5 . e stampata anche separatamente.   19 Nuove ricerche sul Bello. I. voi. in  8. Napoli 18 j 8.   20 Ricerche sulla sensibilità imitativa con-  siderata come il principio tìsico della sociabilità  della specie , e del civilizzamento de’ popoli e  delle nazioni ( Memoria letta nella reale Ac-  cademia delle scienze di Napoli il 17. feb-  braro 181 3 : pubblicata tra gli Aiti della me-  desima voi. I. Napoli 181 3 ; e stampata  anche separatamente in un libro in 4 • sen ~  za data , insieme alle altre due seguenti Me-  morie ) .   21 Memoiia su la perfettibilità organica  considerata come il principio fisico dell’ educa-  zione , con alcune vedute sulla medesima :  ( letta nel 1814 ■> e pubblicata come sopra ).   22 Seconda memoria sulla perfettibilità  organica ec. ( letta nel 1816. , e pubblicala  come sopra ) .   23 Ragionamento su le carestie ( letto  nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli il 1.  dicembre 1818 , e pubblicato negli Atti della  medesima voi. II. Napoli 18 2 5 ) .     Digitized by Google     I»6 DELLE OPERE   24 Poche idee su V accusa de' ministri .  Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di  Napoli il z 3 . dicembre i 8 ao.   a 5 Dell* antica numismatica della città  d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare  su le Origini italiche ed un appendice su’ Pe-  lasgi ed i Tirreni. I. voi. in fol. Teramo 1824.  con tavole in rame .   26 La stessa Opera coir aggiunta di Ri-  schiarimenti ad alcune osservazioni fatte dal  Micali su la stessa , e di una Lettera al sig.  Conte Zuroli su le antiche ghiande missili di  piombo. I. voi. in fol. Napoli 1826. , dalla  tipografia di Angelo Trani : con più tavole in  rame .   27 Della preferenza de’ sessi. Lettera all’or-  natissima signora contessa Chiara Mucciarelli Si-  monelti . I. voi. in 8. Siena 1829. ( Ristam-  pata in Napoli insieme ad alcune poesie del  Conte di Longano nel l 834 ) •   28 Lettera all’ autore delle Memorie in-  torno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa-  ta in fine delle stesse Memorie , Ascoli i 83 o ).   29 Espressioni della parlicolar riconoscenza  della provincia e città di Teramo dovuta alla  memoria dell’ immortai Ferdinando I. ( Stam-  pate negli Annali civili del regno delle due  Sicilie : voi. II. i 833 ).     Digitìzed by Google      -LIBRO SECONDO * IV]   %t %ntViU ♦   3 0 Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul-  la città di Benevento. Memoria. 1768.   3 1 Intorno a’ diritti sovrani di Napoli sul-  la città di Ascoli . Memoria . 1 768.   3 a * Lettera a' fratelli sulla eruzione del  Vesuvio nel <779. di pagine 8 . **   33 Estratto ragionevole del trattato degli  animali . pag. 8.   34 Lettere sulla cavalleria ed i romanzi .   P a S- 7 -   35 Lettera al sig. Michele Torcia sul  tratto di paese che si estende dal Fortore al  Tronto . 1784 . pag. 1 5 .   36 Supplemento alla Memoria su la gra-  scia , per rapporto all' estrazione degli animali  vaccini . 1 ^ 85 . pag. 18.   37 Memoria per lo ristabilimento del tri-  bunale collegiato nella provincia di Teramo .  1786. pag. 11.   38 Memoria per lo stabilimento d’ una uni-  versità in Teramo . 1786. pag. 7.     • I titoli in carattere corsivo sono per ^quegli scritti che  1’ autore lasciò senza una denominazione .   ** S’ intende per lo più di pagine scritte , come si dice ,  alta spagnola , ossia nella sola metà . Pel resto si troverà sod-  disfacente spiegazione nel prosieguo del libro .     Digitized by Google      1 J 8 DELLE OPERE   3 g Su' danni de' terremoti in Calabria  nel iy 83 . - l'jSy. pag. 58 .   4 0 sii ministro Corradini sulle maioliche  de' Castelli. Lettera. 1788. pag. 24*   4 1 Appendice al discorso sul Tavoliere di  Puglia . 1788. pag. 84.   42 Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati  nel iygo. pag. 8.   43 Estratto ragionato del Saggio analiti-  co su le facoltà dell’ anima di Carlo Bonnet .  pag. 100.   44 Seconda Memoria sulla vendita de’ be-  ni allodiali. 1791. pag. 7.   45 Breve Saggio su l’ importanza di abo-  lire la giurisdizione feudale , e sul modo di ese-  guirlo . pag. 32.   46 Supplemento alla Memoria pe’ regii  stucchi . pag. xo.   47 Degli Appalti. Memoria, pag. g.   48 Per la città di Teramo intorno d  beni dell' abolito convento di S. Agostino .  pag. 11.   4 g Memoria per la decima impesta al re-  gno . 1797. pag. io.   5 0 Memoria intorno a’ danni sofferti nella  provincia di Teramo dalla cattiva monetazione  dello Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da  ripararli . 1797. pag. 20.   5 1 Osservazioni su la nuova monetazione   dello Stato papale per rapporto al commercio  delle provincie confinanti del regno . 1797.   pag. 17.   5 a Discorso sulle Scienze morali, pag. ira.     Digitized by Google      LIBRO SECONDO I 1 f)   53 . Novena di San Marino . pag. 8.   54 Intorno all’ imposizione per la cac-  cia , ( Questo ed i selle seguenti scritti si  suppongono composti in Napoli dal 1806.  al 18 15.   55 Rapporto alla reai società d’ incorag-  giamento sul progetto di stabilire nelle provin-  cie del regno altre società simigliatiti , pag. i 5 .   56 Considerazioni sul debito pubblico , e   su’ beni nazionali relativamente alla legge de’ a.  luglio 1806. pag. ia. «   57. Breve esame dell’ indole delle dogane  interne . pag. 20.   58 Rapporto per gli stabilimenti di uma-  nità e di pubblica beneficenza . pag. 26;   5 g Osservazioni su d’ un progetto d’ istru-  zione pubblica . pag. 23 .   60 Sulla tassa fondiaria . pag. 1 3 .   6j Osservazioni sulle procedure criminali  die si chiamano Nullità . pag. 14.   62 Parere intorno ad un’ opera del Sig.  Biie D. Davide JV'uispeare , intitolata : Storia  degli abusi feudali. 1811. pag. 4*   63 Delle cause perchè siano molto scar-  si i buoni scrittori . Opuscolo, pag. u .   64 Lettera sulla imputabilità de’ muti .   65 Pochi cenni su’ fondamenti delle Scien-  ze morali. Discorso ( letto nella reale Accade-  mia delle Scienze di Napoli nel iSlij , e de-  stinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti  della medesima , insieme al seguente Opti*  scolo ) .     Digitized by Google      I 20 DELLE OPERE   66 Sulla necessitò di cangiare i metodi  d’ istruzione usati in Europa .   67 Alla Giunta preparatoria del Parlamen-  to nazionale . Allocuzione . 1820. pag, 7.   68 Memoria in favore di alcuni impie-  gati destituiti nel 1821. pag. 18.   69 Osservazioni sopra alcune dottrine po-  litiche del Secretano fiorentino. 1821. pag. 5 o.   70 Proposta di alcuui mezzi economici per  supplire agli attuali bisogni dello Stato . 3 o.  t&arzo 18 23. pag. 19.   7 1 Deli’ importanza di far precedere le co-  gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia  intellettuale . Discorso ( mandato alla reale  Accademia delle Scienze di Napoli il 26. lu-  glio 1823. ) pag, 18.   72 Elogio in morte della Duchessa di  S. Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. 1823.   73 Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto-  ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi-  ma , per risposta alle obiezioni di Amaury D re-  vai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A  ( Questa lettera , e tutti gli altri scritti che  seguono nella presente classe furono compo-  sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruz-  zo ) .   74 Sulle origini ed i progressi delle So-  cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del  genere umano, pag. 216.   75 Proposta di alcune riflessioni sulla filo-  sofia medica ed intellettuale. Opuscolo, pag. 8. .   76 Giudizio sulla storia fi losofica di Da -  miron. Lettera, pag. 3 .     Digitized by Google      LIBRO SECONDO 13*   77 Lettera su cF un manoscritto comuni-  cato , riguardante politica, pag. 28.,   78 Due biografie di se stesso : una scrit-  ta nel i 8 z 5 , t altra nel 182J.   79 Delle cagioni per le quali il civilizza-  mento non ebbe molti progressi . Opuscolo.  pag. io.   80 Sulla perfettibilità. Lettera, pag. 8.   81 Sulla guerra. Lettera, pag, 8.   82 Sulla medicina omiopatica . Lettere  due. La prima di pag. 16. , V altra di a 6 .   83 Sulla dottrina medica di Samuele  Hanhemann. pag. 142.   84 Memoria sul riso secco cinese, pag. 17.   85 Sullo stesso argomento . Lettera al  Mse. Tommasi. pag. 18.   86 Sullo stesso argomento. Lettera pole-  mica. pag. 29.   87 De' confini del regno di Napoli nella  linea del Tronto ; ossia : Sugli antichi confi-  ni del regno, pag. 171.   88 Sugli stabilimenti di beneficenza. Let-  tere 3 .     Digitized by Google      132     DELLE OPERE     Élen^UtmlnìxU ♦   89 Catechismo di moral ; civile , ossia  trattato pratico de’ doveri del cittadino. 24. feb-  braio 1 774. pag. 5 a.   90 Del dritto naturale delle genti , ossia  della morale delle nazioni, pag. 34 *   91 Sistema di ragione e benevolenza uni-  versale. pag. i 5 .   92 Sull’origine de’ popoli, pag. io.   93 Sulle Capitali. Opuscolo, pag. io.   94 Degli affari fiscali. Memoria. pag. i 4 *   95 Sulle proprietà, pag. 123.   96 Sugli stabilimenti di umanità, pag. 96.   97 Deir unione della Ideologia colla Fi-  losofia. Dissertazione, pag. 12.   98 Dell’ eguaglianza de’ diritti delle don-  ne , considerati specialmente nelle successioni,  pag. n 3 .   99 Distinzione fral merito c la gloria.  Dritti politici e dritti civili, pag. 14.   100 Sul quesito : Quale sia il miglior  de governi per 1 ' Italia ? Opuscolo, pag. 26.   101 Ricerche su le teorie fisiche della ra-  gion degli Stati , o sia de’ veri principi della  Politica, pag. 5 a.   102 Delle leggi e del regimento de’ comu-  ni. pag. io.   10 3 Sulle leggi forestali. Discorso, pag. 7.   104 Sulla vociferata abolizione della pro-  vincia di Teramo . Memoria, pag. q 3 .     Digitized by Google      LIBRO SECONDO I 23   10 5 Ricerche su le leggi coniugali , con-  siderate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere ,  nelle cause produttrici , e negli efl’etti inorali  e civili, pag. 3 fi.   106 Sulla Vita e la Vitalità, pag. 74.   107 Della specificità in medicina. Pensie-  ri. pag. 5 fL   108 Osservazioni sull ’ opera intitolata :  De’ principi della scienza etimologica, pag. niL   109 Saggio filosofico su la guerra e su la  pace. pag. fili.   i_lq Igiene, pag.     % JFritmmitttt     iti Di ciò che si chiama quadro dello  stile , pag. sLm   112 Sul poeta Orazio. Critica, pag. a,  1 l3 Pensieri divèrsi filosofici e letterarj.  pag.’ 224.   1 1_4 Qualche osservazione sull' opera di  Neker Sur 1 ’ administration. pag.  t i fi Del Vesuvio, pag. £L  1 ifi Del tempo musico e filosofico, pag. l*  1 17 Idea d’ una legislazione, pag. ì.  v 118 Per le origini civili, pag. ili.   119 Alle nobili fanciulle mie concittadinc.   ( Prefazione per una raccolta di aneddoti ) .  pag. 2. m   120 Sulla Città di Reggio, pag.     Digitized by Google     DELLE OPERE     124   uxi Sul travaglio, pag. 2«   1 22 Progressi dello Spirito - Orgoglio na-  zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso di  tipografia, pag. 18.   128 Su’ pastori, pag. 2.   124 Saggio sull’ adulazione. ( Progetto di  un' opera ) . pag. 2.   iz 5 Ricerche storico - filosofico - polili-  clie su la nobiltà. ( Progetto di un' opera ) .  pag. a.   126 Istoria dell’ anima, pag. 5 L   1 27 Sugli ospedali. ( Molti pensieri non  legati) . pag. 96.   128 Progetto d’ un nuovo giornale delle  mode. pag. 1 Q.   129 Notizie su le opere impresse nel pri-  mo secolo della stampa , per ordine alfabeti-  ca fino alla lettera P. pag. io 4 <   180 Qualche pensiero di dritto pubblico,  pag. 7.   18 1 Delleraccomandazioni. Articolo mo-  rale. pag.   i 3 a Considerazioni su’ magistrati munici-  pali. pag. 4^   1 33 Della Solitudine, pag. 2 ^   1 34 Qualche osservazione sulle Lezioni  di Filosofia de Laromiguiere. pag. 8.   1 35 Qualche osservazione sull’ opere fi-  siologiche di Spurzheim.pag. 8.   1 36 Della civiltà, pag. 2.   107 Catechismo universale, pag. 2.   1 38 Della ragion di stato, pag. 4 i     Digitteed by Google     LIBRO SECONDO     I 25   1 3g Estratto della politica d’ Aristotile.   PS- 4-   140 Morale nelle leggi, pag. 36.   1 4 1 Piano di scienze morali, pag. 4-  14 ^ Dell’ origine e significato della parola   morale , e delle varie applicazioni della mede-  sima. pag. 4 *   i43 Frammenti diversi sulle Leggi, pag. 36.  z 44 Osservazioni sulla risposta del pro-  fessor Rosini ad una lettera del cav. Monti  sulla lingua italiana, pag. 5.   145 Esame de' classici italiani, pag. 2 .   146 Su' trecentisti, pag. 2 .   147 Romantici, pag. 2 .   148 Osservazioni sull ’ opera di Lemer-  cier riguardante i teatri, pag. 9 .   149 Osservazioni sul passato secolo ad uti-  lità del presente, pag. 3.   150 Viste politiche e morali sugli effetti  della rivoluzione, pag. 3.   151 Frammenti diversi sugli affari poli-  tici del l8ao. pag. 70 . \   152 L’ obolo della vedova . All’ Italia,  pag. 3.   153 Qualche ossen’azione sopra alcune  espressioni di Romagnosi. pag. 5.   154 Rapporto storico su’ progressi delle  Scienze naturali, pag. io.   155 Al sig. Ab. D. Cataldo Jannelli .  Dell’ uso vero della Storia, pag. 5.   156 Meditazioni d’ un solitario che vive  in mezzo alla società, pag. 2 .   157 Sull’ Inghilterra, pag. 8 .      I a6 DELLE OPERE   i 58 Sopra un libretto che riguarda la  divozione pel Sangue di Gesù - Cristo, pag. 4 ..   i 5 g Miscellanea di cose Jìsiologiche .  pag. 182.   160 Miscellanea di cose economiche .  pag. 60.   161 Miscellanea di cose filosòfiche .  pag. i 52 .   162 Miscellanea di cose politiche, pag. 58 .  Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, sensus, senso e consenso, il vero carattere della giurisprudenza romana, suoi cultore,  benevolenza conversazionale, giustizia conversazionale, il principio di sensibilita imitativa, imitazione, l’estetico, l’imitazione della natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689415138/in/photolist-2mRRHVK-2mKLP2r-2mKBLhJ

 

Grice e Cocconato – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).  Grice: “I like Coconato – I used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato, as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana.  Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca dei beni.  A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro eredi.  Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose.  Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente movimento e autoregolazione.  L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: «Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»  Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano  Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,  Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi,  Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in «Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in «Rivista Storica Italiana», J. I. Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity Oxford, Oxford University Press, passim Tomaso Cavallo, Introduzione a A. Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Tomaso Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in «I Quaderni di Muscandia», G. Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by S. Broomhall and Jacqueline Van Gent, Ashgate,,TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il « Manifesto» e le due « Lettere » indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino, dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P., Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and Westminster MDGCXXXII. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III0 colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti. Fu edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil „. Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del  tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II,  Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è: " A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons „ " en bon Anglois „ e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno (4) ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE, op. cit. loco cit. LILIENTHALS, op. cit. loco cit. FREYTAG, op. cit. loco cit. VOGT, op. cit. loco cit. BAUER: op. cit. loco cit., WAHIUS, op. cit. loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours „ siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel " Recueil „, e che quindi sino al 1736 i " Discours „ medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima del 1733 per le ragioni stesse che giustificano l'edizione de! 1734) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours „ dopo aver visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione inglese dei " Discours „, la quale messa in confronto con quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la " Dedica „ a Don Carlos (sedizione Rotterdam pag. Ili a pag. X) e il " Factum „ fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur „ contenente i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. TH E AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon, Voi. I, pag. 1098. MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK: Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig  SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur  citato dal QUERARD. Les supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien „ Di questa edizione, probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier „) non siamo però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis & ante omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive good Prelates (*) instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like; as (pag. X ) things, which ways affect their temporal Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age „. (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18,  LASTLY, ] declare that I have made use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice, will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond. pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è qualificato: 0  great and goodman „ attribut i c h e mancan o nell'Ediz. de l 1736. Pag. 11 - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag. 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz. Rot. pag. 27-37 ) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti: pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „. Pag. 24-25, nota, dop o le parol e " universally observed „ " généralement observées „ pag. 3 7 ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a hungry  Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap. 123 - 124 „. Il Discorso III (Ediz. lond. pag. 26-52; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond. pag. 53 72; Ediz. Rot. pag. 61-76) è quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le gouvernement de leur Eepublique „, pag. 69 dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles, we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save (*); but to him, saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to' understand that " good works will save us independent of Faith”This Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5. (**) James II, etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage, who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian, who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio' he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by building Religion upon various. and different foundations bave caused an infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s been,  and will ever be tome asunder most assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets, which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„, and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot. pag. 95-123) è riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg. 125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings, that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end according to the power which nature has given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could sin. Rom. 4. V. 15.  It is not then the business of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without exception, because nature has given all to every man, and may use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an implacable hatred reign between one species and another. And this would in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which  feeding upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels. Part 3) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man, appears such only because we know things but in part, and because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring, has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon  and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others, have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and formation of Aristocratical Government. Da pag. 200 in poi (pag. 186 Ecliz. 1736) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate. Pag. 207 - i puntin i di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e (pag. 102) " le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso XI (Ediz. lond. pag. 224-248; Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince „.  Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion. libr. 2, pag. 1071 - Edit. 1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the Prince, to Religion „ (pag. 235). Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso XII (pag. 249-271 Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 211-238) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.  Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione a pag. 369 del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. pure a pag. 369. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. op. cit. in: The Works of Jonathan Swift, London MDCCLX, V, IV, pag. 66-77. (2) Cfr. Dictionary of national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D op. cit. Col. 1231, T III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes etpseudonym.es - Paris, 1827 > T. III. N. 16186.  commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.; pag. 26: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0  Recueil „ stante la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del R. Cocconato.  [H] Desideri:  fenomenologia degenerativa e strategie di controllo     1. I/epithymia nella fenomenologia degenerativa   Il processo degenerativo che dal nobile desiderio per il sa-  pere del filosofo giunge infine alla liberazione e soddisfazione  dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da una  prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari moda-  lità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradig-  matiche di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'in-  dagine privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente al-  la disamina delle molteplici specie di desideri, alla caratterolo-  gia e alle derive psicopatologiche tracciate da Platone nel libro  Vili, nonché alla dinamica dei processi onirici e alla mania di-  segnate nel IX. Da ultimo ci soffermeremo sulla contrapposi-  zione strutturale tra repressione e canalizzazione, parimenti  inerente a epithymiai ed eros, che attraversa il grande dialogo.   A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico volto a  riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di ori-  gine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a  convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi-   1 Cfr. 585a-b, 437b sgg., 439d8, 571a7; sull'intera questione cfr. qui voi.  Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della sfera del desiderio cfr. M.  VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I, Noi e  i Greci, Torino 1996; pp. 431-67 (p. 441); sul rapporto complessivo psyche-so-  ma, cfr. T.M. ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto 1995 2 , pp. 50-54.     472 ' PLATONE, LA REPUBBLICA   ne "desiderio". 2 Tale estensione, uno dei cardini metapsicolo-  gici della fenomenologia degenerativa del libro Vili, fa tutt'u-  no con la diretta attribuzione ad ogni istanza di una sfera "pro-  pria" di desideri esplicitata nel libro IX: «siccome tre sono le  parti della psyche, triplici mi sembrano anche i piaceri, ognuno  proprio di ciascuna parte; e similmente i desideri e il loro ruolo  di comando» (580d6-7). Con ciò la statica tripartizione deli-  neata nel libro IV (436a7 sgg.) viene calata, retroattivamente,  all'interno della dinamica psico-politica e quindi delle forme  caratteriali disegnata nell'VIII.   Più da vicino, l'attribuzione rende conto del legame tra il  governo del logistikon e il desiderio di sapere del filosofo, il go-  verno dello thymoeide s e il desiderio di onori e gloria del carat-  tere timocratico, e le tre forme caratteriali dischiuse dal gover-  no del polimorfo epithymetikon, contenente tre specie di desi-  deri e piaceri: 1) i «necessari», dei quali «non ci si può libera-  re», quali fame, sete ed eros riproduttivo, il cui appagamento è  utile e salutare; 2) i «non necessari», che possono essere «al-  lontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene, talvolta  anzi un male (558d8-559c7); 3) i paranomoi, fuorilegge, per-  versi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi allonta-  nabili (571a7 sgg.). Partizione metapsicologica sulla quale pog-  gia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico, do-  minato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio  per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere de-  mocratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri  non necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure   2 La convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio Fici-  no, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio di bellezza";  soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le tensioni tra concupiscentia,  appetitus e desiderium derivate dalle letture scolastiche della metapsicologia  aristotelica: cfr., per es., TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae, 30, 1-4; sul-  la revisione dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A.  GRAESER, Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.  22-24.     COMMENTO AI LIBRI Vm E IX, [H] 473   deYL'erottkos e del tirannico, invasi e pervasi dai desideri para-  nomoi?   Questa diairesi delle specie del desiderio, tassonomica-  mente inerente d& epithymetikon, eccede euristicamente la ca-  talogazione tipologica su due fronti. Su un versante viene con-   3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle specie dei desideri e il poli-  morfo epithymetikon, cfr., per es., D. HELLWIG, Adikia in Platons 'Politela'.  Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX, Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha  sostenuto la forte «discrepanza» e «aperta contraddizione» tra la tripartizione  psichica e r«improwisata» diairesi dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dia-  logform und Argument. Studien zu Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprat-  tutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla possibilità che le forme costituzio-  nali e caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la partizione psichica  sia forzatamente modellata su quella politica. Sebbene sia vero che rimangano  delle tensioni nel testo - soprattutto rispetto al desiderio necessario del carat-  tere oligarchico: l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata  quale elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithy-  metikon stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente  i tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme "interme-  die". Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica e le cinque forme  politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A motifin Plato's 'Republic',  Goteborg 1971, pp. 155-92. G.R.F. Ferrari, City andSoulin Plato's 'Repu-  blic', Sankt Augustin 2003, ha ultimamente sostenuto, di contro a Andersson,  il carattere meramente «analogico», «non causale» dell'isomorfismo, cfr. so-  prattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però l'esclusione della kallipo-  lis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia (p.  69); vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni del testo  (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e temporale della di-  namica degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a eludere interi brani, come  544d, e nello specifico la dimensione sociale nella quale è calata la degenera-  zione caratteriale come a p. 67 ove non considera che il giovane timocratico  «esce di casa» etc. (550a), e che la figura paterna risulta infine «sconfitta» per-  ché è collocata in un contesto etico-politico che osteggia il suo modello psico-  caratteriale (549c, 550b); analoga la questione rispetto al carattere oligarchico  (pp. 71-71) ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico (p.  74) ove tace su 557b, 563d e 564a, nonché 559d sgg. In breve ritengo, di con-  tro a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in una relazione di  corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno un'autonomia  semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma che preserva nel     474 PLATONE, LA REPUBBLICA   templata la possibilità che i desideri possano essere allontanati  o meno, approccio che mostra come la materia epithymetica  sia analizzata ad iniziare dalle strategie di controllo adottabili  nei suoi confronti. E questa la prospettiva all'interno della qua-  le si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro fronte,  anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veico-  lati dalle singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro  soddisfazione gioca rispetto al benessere o al malessere psicofi-  sico complessivo del soggetto. Questi due fattori, modalità di  gestione tese al contenimento e allontanamento del materiale  epithymetico più pericoloso, insidie e derive psicopatologiche  ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali corre la dege-  nerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la loro  unità nel concetto di repressione, dal quale cominceremo, ri-  percorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenera-  zione.   2. Repressione ed esilio   Kolazomenai: i desideri possono essere e talvolta vengono  repressi:   Fra i piaceri e i desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere  contrari alle leggi. Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se ven-  gono repressi (kolazomenai) dalle leggi e dai desideri migliori con  l'aiuto della ragione, nel caso di alcuni uomini si allontanano del tutto  oppure restano pochi e deboli, in altri (restano) più forti e numerosi  (571b4-cl).   La repressione dei desideri non necessari, ed in particolare  di quelli paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita  rispetto alla modalità funzionale, tripartita quanto alle catego-  rie caratterologiche.     contempo la relazione causale circolare dal punto di vista dinamico-tempora-  le, dialettico.     COMMENTO AI LIBRI VITI E IX, [H] 475   a) L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi «si al-  lontanano del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito  viene ascritto, più in generale, alla repressione giovanile dei de-  sideri genericamente non necessari: «si potrebbero allontanare  (apallaxeien) , se ci si prendesse cura di farlo fin da giovani»  (559a3). Ancora: se il desiderio non necessario «è represso ed  educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può es-  sere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli  uomini» (559b9-10).   b) La permanenza: i desideri repressi permangono esplicita-  mente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato: 2) in un caso  permangono «pochi e deboli» desideri; condizione che non  viene però contrapposta al loro intero allontanamento: le due  forme riguardano la stessa categoria di persone. 3) Nel terzo  caso permangono desideri «più forti e numerosi»» sì che viene  delineata una seconda categoria di persone. 4   Per comprendere la dinamica, la forma, la topica e le con-  seguenze che comporta l'adozione delle suddette strategie re-  pressive fornisce un contributo essenziale il brano sulla transi-  zione dal carattere oligarchico a quello democratico.   Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera il  giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita  distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimen-  to del desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono di-  strutti {diephtharesan), altri banditi {exepeson) (560a4-7). Ab-  bandonati i desideri banditi al proprio destino, Platone si con-   4 Analoga la ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di  «abwenden» i desideri non necessari e il «fortdauern» dei paranomoi attestata  dall'analisi dei processi onirici, di H.P. VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute  bei Platon, Wurzburg I960, pp. 113-15.   5 Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un fronte la specie dei  desideri necessari, "alleati" alla figura paterna, rappresentanti della parte oli-  garchica, e la specie dei desideri non necessari, fomentati dalle cattive compa-  gnie, rappresentanti della parte democratica.     I     476 PLATONE, LA REPUBBLICA   centra quindi sull'analisi di «altri desideri affini a quelli che so-  no stati messi al bando», dei quali scrive, in un passaggio ne-  vralgico, che, in talune occasioni, «cresciuti di nascosto» (hypo-  trephomenai) , diventano infine «molti e vigorosi» (560a9-b2).   Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di nascosto, in-  sensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone: esse  «unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla»  (560b4-5). Essendo tale proliferazione «nascosta», «segreta»,  «furtiva» {lathra), 6 siamo di fronte ad una crescita effettiva-  mente «inconsapevole»: ciò alle spalle di cui crescono, ciò da  cui si nascondono non può essere se non ciò che noi usualmen-  te indichiamo con l'espressione «coscienza». In breve, sfuggo-  no alla presa di coscienza. La proliferazione dei desideri non  necessari è dunque in questo caso collocata in un luogo intra-  psichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di fuori della sfera co-  sciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei desideri para-  nomoi repressi nel caso in cui restano «forti e numerosi».   L'individuazione e concettualizzazione di processi psichici  pacificamente definibili come «inconsapevoli» è del resto atte-  stata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove  leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando perso-  ne viziose, ammassino «senza accorgersene {lanthanosin) un'u-  nica grande mole di vizio nelle loro psychai» e che, al contrario,  devono crescere tra «opere belle» così che la loro «aura», «fin  da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li conduca «al-  l'armonico accordo con la bella ragione» (401cl-d3). 7 Ed an-     6 Anche D. HELLWIG, op. cit. (n. 3), pp. 121-22, 130, sottolinea come le  «Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e pos-  sano poi rafforzarsi «in heimlichem».   7 W. Jaeger, Paideia (1944), trad. it. Firenze 1954, voi. II, pp. 601, 395  parla a questo proposito di «inconscio», così come J. Lear, La psicoanalisi e i  suoi nemici (1998), trad. it. Milano 1999, pp. 183, XVIII; il termine «incon-  scio» però, in questo caso specifico, non può essere inteso nel senso classico e  ristretto (dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla ri-  mozione.     1     COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]     477     cora ove leggiamo che in certi casi «un'opinione esce dalla  mente» «in modo involontario» (412el0-413al), come accade  in «coloro che vengono indotti a mutare le loro convinzioni e  che se le dimenticano, perché agli uni il tempo, agli altri il ra-  gionamento, le portano via di nascosto {exairoumenos lantha-  nei)» (413M-7).   Ora, i suddetti processi repressivi sono collocati da Plato-  ne all'interno di una ben precisa topica metapsicologica: i desi-  deri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di nascosto,  «hanno infine conquistato l'acropoli della psyche» (560b7-8).  L'acropoli raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luo-  go nel quale si controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre  istanze e le particolari sfere di desideri ad esse pertinenti pos-  sono governare l'individuo. I conflitti, lo scontro tra sfere di  desideri alternativi che segnano intimamente la psyche hanno  quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la «regale fortezza»,  penetrare attraverso i «portali» che conducono al cuore del  soggetto, al sé (553b7-d7).   La repressione che si limita ad allontanare, ma forse anche  a bandire, e comunque esclusivamente a dislocare topicamente  il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora intendere quale  espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa, resistenza  e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata nel  mettere «guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non so-  no che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso  alla pressione del materiale pulsionale (560b-e). Anche qui la  politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo  metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei pro-  cessi psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, di-  rettamente, in questa dimensione concettuale.   Un ultimo elemento chiave inerente alle strategie repressi-  ve, sempre di matrice psico-politica, è la schiavitù cui sono  soggetti i desideri repressi. Una prima chiara indicazione in tal  senso ci è data nella discussione del carattere oligarchico che  letteralmente «rende schiavi», «mette in schiavitù» i desideri     478     PLATONE, LA REPUBBLICA     non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che riemerge, in  generale, anche ove leggiamo che «bisogna reprimere e mette-  re in schiavitù» i «desideri malvagi» (561c2-3: kolazein te kai  doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei pro-  cessi onirici la «schiavitù» (574d7: douleia), cui sono soggette  le opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruo-  lo cruciale. Il punto che ora ci preme sottolineare è che la re-  pressione in taluni casi si configura come un processo seguito  da una forma di controllo radicale, di incatenamento.   In conclusione, la repressione dei desideri, paranomoi ma  più in generale non necessari, è un processo tale per cui essi  vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa comporta  la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della co-  scienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi  di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo mo-  mento, tentare un attacco alle sue porte.   3. Il ritomo onirico del represso   I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del  libro IX, «sono quelli che si risvegliano nel sonno» (571c3),  inaugurando così l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci  offre un contributo tanto stringato quanto sorprendente per la  sua modernità, essenziale nell'architettura metapsicologica  complessiva delle strategie di controllo deH'epithymia nonché  ai fini della definizione della specie dei desideri paranomoi e  della deriva psicopatologica complessiva della fenomenologia  degenerativa.   II «risveglio» avviene   quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adat-  to al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di ci-  bo o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di  aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi (571c3-7).   Vi è, dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon, sti-  molato fisiologicamente (cibo e vino), si sfrena e respinge via il     COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]     479     sonno; ciò comporta il sincronico «risveglio» dei suoi desideri;  ed una condizione negativa: il logistikon dorme, perciò non  può dominare la parte desiderante. E associato ad esso anche  ciò che è «socievole», 8 probabilmente lo thymoeides.   Il proseguo del brano fa luce su tale stato psicologico: «Sai  bene che in un simile stato essa osa fare di tutto, come sciolta e  liberata da ogni freno di vergogna e di ragionevolezza» (571c7-  9). H sonno del logistikon, l'istanza cui va ascritta la phronesis,  e verosimilmente dello thymoeides, al quale possiamo attribui-  re, quando è sotto l'egida della ragione, Yaischyne, viene quindi  a rappresentare la mancanza di quell'attività di resistenza che  impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il fattore  quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni so-  no perfettamente convergenti: al «risveglio» indotto dall'ecci-  tazione della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pres-  sione dei desideri, segue la loro emersione e soddisfazione per-  messa dall'inattività delle forze razionali, morali.   Date tali condizioni,   tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina) non la imbaraz-  za affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi, animali, e commette-  re qualsiasi assassinio, e non astenersi da alcun cibo (571c9-d3).   Quadro «edipico», 9 perversione, aggressività omicida.  Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli occhi  dell'impotente sognatore.   Posto che l'attività onirica rappresenta la «soddisfazione»  «immaginaria» o «visionaria» di desideri repressi (571dl;  572a9-bl), riprendendo la topica dell'acropoli la loro appari-   8 Su hemeron e thymoeides cfr. W. JAEGER, A New Greek Word in Plato's  'Republic' (1946), in Scripta Minora, 2 voli., Roma 1960, voi. II, pp. 314-16.   ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo freudiano, tra gli altri, K.R. POP-  PER, La società aperta e i suoi nemici (1966 5 ), 2 voli., trad. it. Milano 1996, voi.  I, p. 421; C.H. Kahn, Plato's Tbeory of Desire, «Review of Metaphysics»,  XLI/1 (1987) pp. 77-103 (p. 83); O. GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der  Staat, Munchen 1991, p. 506.     480     PLATONE, LA REPUBBLICA     zione e sincronico appagamento potrebbero essere interpretati  come se essi vi penetrassero nottetempo, superando la vigilan-  za di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione, an-  che se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela nell'uni-  co sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno l'a-  cropoli si verrebbe così a configurare come sfera della coscien-  za, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri impon-  gono la visione della loro drammatica rappresentazione, diven-  tando coscienti e trovando soddisfazione senza però attivare le  funzioni psico-motorie. La ricostruzione di quest'immagine,  priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in termini  spaziali il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo, il  sogno rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è  possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e tenuti  in schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11   Platone ha così dischiuso e percorso la «via regia per l'in-  conscio» tracciata nel Novecento da Sigmund Freud. A monte,  la repressione platonica si lascia intendere alla luce della rimo-  zione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché quest'ultima,  che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken), 12     10 Cfr. anche E. VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte (1982), trad. it. in  G. GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia, Roma-Bari 1988, pp. 103-20 (p.  109). La più articolata trattazione platonica di ciò che noi indichiamo con le  espressioni «coscienza» e «autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo  33b-42c. Ivi, utilizzando la metafora del pittore, Platone scrive che un indivi-  duo «vede in qualche modo in se stesso le immagini delle cose dette o opina-  te» (39b-c), poi che egli «scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della Re-  pubblica, limitato alla percezione di immagini prodotte psichicamente, pare  presupporre una concezione della «coscienza» simile.   u Parlano di desideri allo stato di «latenza» C.H. Kahn, op. cit. (n. 9), p.  82, e J. LEAR, op. cit. (n. 7), p. 142.   12 «Ci sono nella vita psichica desideri rimossi [...]. Ci sono non è inteso  storicamente, nel senso che simili desideri sono esistiti e poi sono stati distrut-  ti; per la teoria della rimozione [...] simili desideri rimossi esistono ancora,  ma contemporaneamente esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio     COMMENTO Al LIBRI Vm E LX, [H]     481     dal carattere «morale», 13 tesa a contrastare una sfera di deside-  ri «immorali, incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadi-  che», 14 anziché condurre ad «una completa distruzione» 15 dei  desideri, si limita al loro «allontanamento» (Entfernung) dalla  coscienza. 16 Questi perciò «permangono» (Fortbesteben) al  di là dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola parola, il  rimosso è vogelfrei, 18 ovvero "bandito", "proscritto", "fuori-  legge".   La rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio ta-  glio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente impedito di  «scaricarsi nell'azione reale», 19 gli viene metaforicamente nega-  to l'accesso alla Festung freudiana, la «fortezza» dalla quale si     colpisce nel giusto quando parla della "repressione" (Unterdrucken) di tali  impulsi. L'organizzazione psichica, che permette a codesti desideri repressi di  realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei sogni,  in Opere complete, 12 voli., trad. it. Torino 1967-80, voi. Ili, p. 220; originale:  Die Traumdeutung, in Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999,  voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste  edizioni).   13 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. LX, p. 498; cfr. anche Lo., Breve compendio di  psicoanalisi, voi. IX, p. 592.   14 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni', voi.  X, p. 158.   15 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  p. 201 [S. FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoa-  nalyse, voi. XV, p. 98: «eine vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo  è certamente a Id., Il tramonto del complesso edipico, voi. X, p. 3 1; cfr. anche  S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 290.   16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37: «la sua essenza  consiste semplicemente nelPespellere e nel tener lontano qualcosa dalla co-  scienza» [Die Verdràngung, voi. X, pp. 252 250]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es, voi.  IX, p. 480.   17 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, voi X, p.  251].   18 S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung,  Symptom undAngst, voi. XIV, p. 185].   19 S. FREUD, Al di là del principio di piacere, voi. IX, p. 205.     482 PLATONE, LA REPUBBLICA   «domina la motilità». 20 Sull'altro però esso «sopravvive al di  fuori» della coscienza godendo del «privilegio della Exterrito-  rialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente può  «sviluppare derivati e annodare connessioni», «prolifera per  così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rap-  presenta la possibilità del suo sempre possibile «ritorno». 23 Da  qui la necessità di una costante attività di «resistenza» alle so-  glie della coscienza. 24 In termini spaziali: espulso un ospite in-  desiderato si deve «poi far sorvegliare perennemente la porta  da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la for-  zerebbe». 25   Poste queste premesse, Freud, ricalcando ancora le orme  platoniche, 26 individua nel sogno la via regia per l'inconscio  perché in esso i desideri repressi, approfittando del cedimento  della sorveglianza deU'«Io dormiente», 27 e godendo del casuale     20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, voi. Ili, p. 517 [Die Traumdeu-  tung, voi. II/III, p. 573]. Riprende questa stessa immagine, accostandola ai  conflitti della psyche platonica, M. Stella: cfr. qui voi. III, [J], p. 317.   21 S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48 [Hem-  mung, Symptom und Angst, voi. XIV, p. 125]; cfr. anche Id., Il problema del-  l'analisi condotta da non medici, cit, voi. IX, p. 370.   22 S. Freud, Metapsicologia, voi. VIII, p. 39 [Die Verdrdngung, voi. X, p.  251].   23 Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia, voi.  VILT, p. 44.   24 Sul dispendio psichico della resistenza cfr. per es. S. Freud, Metapsico-  logia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 303. Sulla  distinzione tra derivati e rimosso originario, e tra rimozione originaria e post-  rimozione, cfr. Id., Metapsicologia, voi. Vili, pp. 38 sgg.   25 S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque  conferenze sulla psicoanalisi, voi. VI, pp. 143 sgg.; Id., Introduzione alla psicoa-  nalisi, voi. Vili, pp. 454 sgg.   26 Cfr. in questo senso anche A. KENNY, The Anatomy of the Soul,  Oxford 1973, p. 12.   27 S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  p. 134.     COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H] 483   rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono talvolta a  farsi breccia nelle «porte custodite da resistenze» della co-  scienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui «porta che condu-  ce alla motilità» durante il sonno viene «chiusa» dal «guardia-  no», 30 il sogno rappresenta infatti la «soddisfazione allucinato-  ria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là dei meccanismi  peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la censura  inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche per  Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino  sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno  subito alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui  allude Giocasta nell'Edipo re». 34   Infine, considerato che il concetto di inconscio in senso  stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente «ricavato»  dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è per     28 Cfr. S. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id., Intro-  duzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 134; Id., Metapsico-  logia, voi. Vili, pp. 40-42; in Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI,  p. 509, viene ribadito «l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei pro-  cessi di rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L 'interpreta-  zione dei sogni, voi. Ili, cap. I, § C.   29 S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io, voi. IX, pp. 317-18;  cfr. anche Id., Autobiografia, voi. X, p. 111.   30 S. Freud, Il interpretazione dei sogni, voi. HI, pp. 517-18; al limite ci si  può rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto», ivi, pp. 104-  05.   31 Ivi, p. 125. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi.  VTII, p. 265; Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  pp. 134, 142.   32 Cfr., per es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le-  zioni), voi. XI, pp. 135 sgg.   33 S. FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni' ,  voi. X, p. 158.   34 Ibidem. Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice:  «Tu non temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in so-  gno con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella).     484     PLATONE, LA REPUBBLICA     noi il modello dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato  dal fatto che i desideri confinati «non possono divenire co-  scienti perché una certa forza vi si oppone», 35 esattamente co-  me accade per i desideri repressi platonici tenuti in schiavitù,  possiamo concludere affermando che, di fronte alle analogie  tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono essere  considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci in  senso stretto (dinamico). 36   4. Difese pre-oniriche   La difesa approntata da Platone per prevenire l'emersione  onirica dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così deli-  neata: ci si deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben de-  sto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere assopito Ye-  pithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per  cui non resti né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infi-   55 S. Freud, L'Io e l'Es, voi. IX, pp. 477-78.   36 Cfr. nello stesso senso W. JAEGER, op. cit. (n. 7), voi. II, pp. 599, 602; T.  GOULD, Platonic Love, London 1963, pp. 175, 108; J. Lear, op. cit. (n. 7), pp.  XIX, 34, 140-42; A. HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the  Impersonai Good, Cambridge 2000, p. 57; O. GlGON, op. cit. (n. 9), p. 506; L.  MONTONERI, Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in Id. (a cura di), I filosofi  greci e il piacere, Roma-Bari 1994, p. 103; G. REALE, Corpo, anima e salute,  Milano 1999, pp. 281, 308-09. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr.  E.R. DODDS, Plato and the Irrational Soul, «The Journal of Hellenic Studies»,  LXV (1945) pp. 16-25 (p. 22); A. KENNY, op. cit. (n. 26), p. 11. Di diversa opi-  nione G.RF. FERRARI, 'Akrasia' as Neurosis in Plato's 'Protagoras' , in Procee-  dings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy, VI (1990), pp.  115-140, rispetto a Repubblica cfr. soprattutto pp. 116-18, 135; egli rimanda  però alla messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon (589c6-  590c6), che abbiamo visto essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfrut-  tamento" e non all'allontanamento (cfr. n. 42), dalla messa in schiavitù dei de-  sideri paranomoi etc. Ho cercato di affrontare l'intera questione in M. SOLI-  NAS, Unterdrùckung, Traum und Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei  Freud, «Philosophisches Jahrbuch», CXI/1 (2004) pp. 90-112.     COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]     485     ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le visioni  fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi»  (571d6-572bl). 37   Rispetto all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un  carattere asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'e-  mersione del materiale represso, il suo risveglio rappresenta  però un pericolo. Ciò è verosimilmente dovuto alla sua costitu-  tiva ambivalenza: privo della guida del logistikon mostra la sua  natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg., 590b); caratteristica  che potrebbe suggerire che esso possa contribuire alla manife-  stazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere marca-  tamente omicida, e che renderebbe conto del legame tra il logi-  stikon ed un vago «ciò che è socievole».   Quanto all' epithymetikon, il rimarcare la pericolosità del  lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un richiamo alla  concezione del desiderio quale soddisfazione di una mancanza  (cfr. 43 9a), sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalo-  rata dal fatto che l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta  comprendere oltre alle sue «gioie» anche i suoi «dolori»  (572al: %aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo all'incubo che trova  un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso si risveglia  dal sonno, come i bambini, in preda al terrore» (330e6-7).   Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni discorsi  e ricerche» (571d7), emerge un'asimmetria funzionale: il sonno  rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e resi-  stenza, il suo risveglio non comporta però la capacità di svolge-  re alcuna attività inibente, è limitata allo svolgimento di funzio-  ni intellettuali interne: «solo in se stesso nella sua purezza» po-  trà «venire in contatto con la verità» (572al-3). 38 Attività che   37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra tranquillità e  qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna e sogno.   38 Cfr. nello stesso senso anche E. VEGLERIS, op. cit. (n. 10), p. 108.  Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire una  conoscenza non razionale (cfr. 71d sgg.) che la ragione deve «interpretare con     486     PLATONE, LA REPUBBLICA     non ha, quindi, niente a che fare con l'emersione dei desideri  repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare alla netta di-  stinzione tra il lavoro intellettuale preconscio svolto nel sonno  dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39   Platone non afferma del resto mai la possibilità di un inter-  vento diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare  o compiere una qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali  intemperanze delle altre istanze. Il loro assopimento, come vie-  ne ribadito due volte nel proseguo del passo, deve essere per-  seguito e raggiunto prima di abbandonarsi al sonno; soltanto  dopo aver assolto questo compito ci si può finalmente conce-  dere il riposo (572a7). La non-emersione dei desideri è, dun-  que, garantita univocamente da un intervento consapevole,  pre-notturno. Le possibilità di interrelazioni nei processi oniri-  ci paiono perciò significativamente ridotte rispetto a quelle  della veglia, tanto da non contemplare casi di vero e proprio  conflitto. Tutt'al più la parte razionale può essere «turbata»  dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon (571e2), accenno  che sembra indicare che essa si limiti a percepire passivamente,  ad assistere impotente alle sue turbolente manifestazioni.   In conclusione, il quadro dei processi onirici è così artico-  lato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed allora  «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle   il ragionamento» (72a) dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di Repubbli-  ca sono i sogni quali appaiono in Fedone 60e, Critone 44b, Leg. 909e-910a,  Epinomide 985c, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al  riguardo E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale (1951), trad. it. Firenze 1997 2 , pp.  122-31.   39 Cfr., per es., S. FREUD, Lio e l'Es, voi. IX, p. 489: «un lavoro intellet-  tuale sottile e difficile, che normalmente richiede una rigorosa meditazione,  può essere effettuato in modo preconscio senza pervenire alla coscienza. Non  vi sono dubbi su casi del genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e  Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 136: la  funzione preconscia svolta dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma  «non ha nulla a che fare con il lavoro onirico».     COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]     487     leggi», ed esso può attivare le sue funzioni intellettuali; oppure  V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son desti e il  logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi. Es-  sendo l'esito univocamente determinato da un intervento indi-  retto e consapevole, tale concezione non ha niente a che fare  con la «difesa» di Freud, incentrata sulla censura onirica, di-  retta ed inconscia. 40   In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non compaiono  affatto o dilagano senza indossare maschera alcuna.   5. Strategie di controllo e caratteri universali   Ora, poiché leggiamo che proprio chi «si trovi in una con-  dizione di sanità e moderazione» deve ottemperare alle sud-  dette misure preventive prima di concedersi il riposo, sì da evi-  tare la manifestazione delle empie visioni, è necessario che sia  presente, anzi incombente il pericolo della loro comparsa. La  ragione metapsicologica fondamentale della precarietà di ogni  forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche ri-  spetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi dei  processi onirici:   Però parlando di queste cose siamo andati troppo lontano. Ma ciò  che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche in quei pochi di noi  che sembrano essere del tutto moderati - è senza dubbio presente  una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale, che si manifesta  chiaramente appunto nel sonno (572b2-8).   Il sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle ap-  parenze, il riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro  che più sembrano moderati, nonostante ciò possa parere inam-   40 Cfr. per es. S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di le-  zioni), voi. XI, p. 130; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e  sulla «resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoa-  nalisi, voi. XI, p. 594.     488     PLATONE, LA REPUBBLICA     missibile, ebbene anche in loro, anzi in «noi» - Platone qui  sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie di desi-  deri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno».   Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato la  migliore repressione, i desideri paranomoi in lui debbono esse-  re stati «interamente allontanati» (57 lb), non sono perciò né  pochi né deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione la-  scia aperta la via alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso peri-  colo affiorava del resto nel brano sull'acropoli, ove Platone  scriveva che gli uomini «cari agli dèi», in altri termini i mode-  rati, predispongono la «guardia» alle porte dell'acropoli  (560bl0).   Ta hautou ethe: nel sogno V epithymetikon soddisfa «i suoi  abituali costumi» o «i propri caratteri» (571c7). In questa defi-  nizione sta la chiave che spiega l'incombenza del pericolo: sia-  mo di fronte ad una «specie di desideri tremenda, selvaggia e  illegale» che costituisce un elemento strutturale dell' 'epithyme-  tikon (572b4-5). Trattandosi di un'istanza costitutiva e origina-  ria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata non  può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò  Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desi-  deri paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b5-  6). Del resto i desideri non necessari bussano alle porte dell'a-  cropoli fin dalla giovane età, come mostrano i molteplici ri-  chiami ad operare una loro repressione ed educazione «fin da  giovani» (559al sgg.).   Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontana-  ti «esistano» anche nei moderati non significa che il loro status  sia lo stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-mo-  derati. Con ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressio-  ne i cui fili è giunto il momento di provare a dipanare.   Bipartiamo dal carattere oligarchico. Egli «rende schiavi» i  desideri non necessari (554a7), in altri termini essi «vengono  tenuti sotto controllo con la forza» (554cl: katechomenas bia);  spiega ancor meglio Platone:     COMMENTO AI LIBRI Vili E EX, [H]     489     [il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su di  sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo abitano,  non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore, né li  ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della necessità  e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei [...] oì>  TteiOcov [...] ot>8' finepcòv A,óy(p).   La capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfe-  ra razionale è qui direttamente contrapposta alla forza o vio-  lenza (bia) di una repressione che, sebbene nei suoi intenti sia  apprezzabile, lodevole (epieikei), con le catene della schiavitù  non risolve il problema. Siamo di fronte a due modelli di ge-  stione del desiderio alternativi: l'uno repressivo, negativo, l'al-  tro persuasivo, positivo. 41   Di contro, è anche vero che Platone discutendo del carat-  tere democratico scrive:   se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desi-  deri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e ono-  rare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i secondi, in tutte queste  occasioni scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e di pari  rispetto (561b8-c4).   Poiché qui la messa in schiavitù assume un valore positivo,  sembra emergere una contraddizione. In verità però come il  processo di repressione svolto dall'oligarchico è «apprezzabi-  le» nelle intenzioni, è comunque meglio di niente per un indi-  viduo degenerato, così nel «discorso vero» che deve esser fatto  passare nella psyche del giovane carattere democratico, che è  ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non   41 Anche D. Hellwig, op. cit. (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste su  «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit Gewalt un-  terdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al carattere ed alla co-  stituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera fenomenologia degenerati-  va; la Hellwig inoltre riferisce tale alternativa, ai paradigmi naturalistici di fon-  do adottati da Platone.     490     PLATONE, LA REPUBBLICA     preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe già  sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrasta-  re perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'a-  dozione della strategia più drastica: la loro repressione e messa  in schiavitù. Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a  disposizione dei degenerati caratteri oligarchico e democratico  (e anche del timocratico), nei quali il logistikon, l'unico in gra-  do di gestire i conflitti in modo «armonico», è ormai «asservi-  to» 42 all' ' epithymetikon (o allo thymoeides: 553dl-7) 43   Stringente il parallelismo semantico e concettuale che si  pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la degenerazione poli-  tica e sociale permette la nascita e proliferazione di «ladri, ta-  gliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della polis  che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la for-  za» (552d3-e3: . . . ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou). Il  circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico, si  avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi con-  turbanti, laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e  polis, di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e  patogena, ancorché lodevole, della repressione violenta. 44     42 In questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, del-  lo sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare  le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei desideri  ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento, espulsione, allonta-  namento.   43 Sull'armonia psichica instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua  contrapposizione con la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R.  KRAUT, Plato's Comparison of Just and Unjust Lives, in O. Hòffe (Hrsg.), Pla-  ton. Politela, Berlin 1997, pp. 271-90 (pp. 277 sgg.).   44 Diversa la questione che si pone rispetto alla kallipolis in 590c2 sgg.,  ove Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difen-  de la necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le di-  rettive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate non pie-  namente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema ratio, nell'uno  si fa fronte a differenze antropologiche costitutive, tali per cui l'auspicata ar-  monia sociale trova agli occhi di Platone dei limiti invalicabili; nell'altro inve-     COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]     491     Riprendendo i fili delle diverse strategie di controllo dei  desideri non necessari emergono allora quattro modelli para-  digmatici (escludendo la loro soddisfazione): due repressivi,  uno misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono «di-  strutti»; 2) quello che li «reprime e mette in schiavitù»; 3) quel-  lo in cui il desiderio «represso ed educato» viene «allontana-  to»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser «controllato con  la forza», è «convinto» e «ammansito». 45   Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei deside-  ri paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla  loro esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è  esattamente una medesima operazione repressiva come l'ab-  biamo interpretata inizialmente, ma rimanda a due strategie af-  fini ma distinte. La prima rientra nel modello che «reprime e  mette in schiavitù» ed ha l'esito univoco di spostare e incatena-  re il desiderio. La seconda rientra nel modello per cui il deside-  rio «represso ed educato [...] viene allontanato». Qui la com-  presenza di repressione e educazione, sì che il desiderio «allon-  tanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente incate-  nato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione in  un'unica categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno  interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali per-  mangono ma sono «pochi e deboli». Modalità nella quale po-  tremmo forse inserire anche quei desideri «banditi» che Plato-  ne abbandonava al proprio destino: in tutti e tre i casi i deside-  ri vengono repressi, non distrutti, ma si tratta di una repressio-  ne per così dire morbida, tendente perlomeno in parte alla loro  «educazione», sì che essi non permangono, in massa, alle porte  dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente repressiva, di   ce viene criticata una modalità di controllo metapsicologica che adotta, a  priori ed unilateralmente, un approccio brutalmente repressivo, lacerante.   45 Cfr. rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan; 2) 561c2-3: kolazein te  hai doulousthai; anche 554a7: douloumenos; 3) 559b9-10 kolazomene kaipai-  deuomene [...] apallattesthai; anche 559a3: apallaxeien; 4) 554cl2-d3: bia ka-  techei [...] oupeitho [...] oud'henieron logo.     492     PLATONE, LA REPUBBLICA     messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico dei  desideri; è questa la via che conduce prima al democratico, poi'  alla mania del tiranno.   In conclusione, l'eventualità che anche nei moderati emer-  gano oniricamente i desideri paranomoi si lascia intendere co-  me se, piuttosto che singoli desideri incatenati che premono  ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe origina-  ri e costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad approfit-  tare di una certa eccitazione pre-notturna e del sonno del logi-  stikon per mostrare le strutture universali, esse stesse «incon-  sce», 46 che generano e sospingono in avanti i singoli desideri  paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo per i singoli desi-  deri rimossi, di Freud -, 47 Al di là di ogni modalità di controllo  adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno mo-  stra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie» dei  desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «be-  stia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa  sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in  quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». 48   46 W. Jaeger, op. cit. (n. 7), voi. II, p. 600, scrive che siamo di fronte alle  «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso A. Kenny,  op. cit. (n. 26), p. 11; E. Vegleris, op. cit. (n. 10), p. 108; W. Janke, AAH0E-  LTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie», XLVII/3  (1965) pp. 251-60 (pp. 257-59). Anche Freud opera del resto una distinzione  tra singolo desiderio rimosso e strutture «istintuali», «innate» ed «inconsce»  dell'Es, cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, cit., voi. XI, pp. 572 e 590;  Id., Luomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi, voi. XI, pp. 417-18; Id.,  Metapsicologia, voi. Vili, pp. 78-79; sulla differenza tra individuo e specie cfr.  Id., Dalla storia di una nevrosi infantile, voi. VII, p. 591.   47 Cfr., per es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, voi. VIII, p. 495:  «tutti gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Al-  cune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 159; Id., I  miei rapporti con Popper-Lynkeus, voi. XI, pp. 311-12; T. GoULD, op. cit. (n.  36), p. 175.   48 Sostengono apertamente l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli  altri, W.K.C. Guthrie, A History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge     COMMENTO AI LIBRI VITI E IX, [H]     493     6. Dal sogno alla realtà: derive psicopatologiche   Se ritorniamo alla degenerazione caratteriale, è facile ora  riconoscere come rispetto alle modalità intrapsichiche di con-  tenimento del desiderio l'approccio univocamente repressivo  alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva psico-  patologica.   La rottura dell'armonia intrapsichica, condizione necessa-  ria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale assicurata dal  governo del logistikon, ha inizio con il carattere timocratico,  che colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides (cfr. 550b4  sgg.; 553b7c2). 49 Se egli non rappresenta ancora una figura pa-  tologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento si  fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il  carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari  dell 1 ' epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e met-  tere in schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non ri-  solve ma acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un  simile uomo non potrà dunque esser libero da conflitti interio-  ri, e non sarà uno ma in un certo senso doppio» (554d9-10). In  negativo: «la vera virtù, quella della psyche concorde a armo-  niosa, fuggirà via lontano da lui» (554e4-5).   La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane figlio  democratico: «Anche lui, dunque, si impegnerà a governare  con la forza quei piaceri che vi insorgono [...] chiamati non   1975, p. 534; A. BlRAL, Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari 1997, p. 150;  C.H. KAHN, op. cit. (n. 9), p. 83; G. Klosko, The "Rule" ofReason in Plato s  Psychòlogy, «History of Philosophy Quarterly», V/4 (1988) pp. 341-56 (p.  347); H.D. VoiGTLÀNDER, op. cit. (n. 4), pp. 114-55; J. Lear, op. cit. (n. 7), p.  142, con linguaggio freudiano scrive che «anche nel migliore dei casi nella  psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da rendere inoffensivi o da ri-  muovere».   49 L'approccio duramente repressivo mostra in questo caso la sua nefasta  presenza nell'interazione psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la  persuasione ma con la forza» (548b7-8).     494     PLATONE, LA REPUBBLICA     necessari» (558d4-6: Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta»  èSovcòv), In questo modo però, se talvolta alcuni desideri ven-  gono distrutti, talaltra invece proliferano «inconsciamente»,  rafforzandosi fino alla conquista dell'acropoli. Saranno allora  «i discorsi cialtroni» di cui si fanno scudo a «chiudere le porte  della regale fortezza» a più miti consigli e ad «esiliare il pudo-  re» (560c2 sgg.). 30 Solitamente, tuttavia, superata la lacerante  fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra parzial-  mente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi in  passato sconsideratamente «esiliati» (561a6-b5).   Il passo che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario de-  terminismo degenerativo disegnato da Platone, è però ormai  cortissimo: l'Eros tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero  sciame dei desideri paranomoi, facendosene «capo» e «guida»  (573 a-b), e quelle opinioni che gli fanno da «scorta», si libera-  no definitivamente «dalla schiavitù», mentre prima, quando  egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le opinioni]  si liberavano solo in sogno, nel sonno» (574d5 sgg.). 51 Le cate-  ne della schiavitù sono state spezzate:   Ma sotto la tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vi-  ta da desto quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non  si asterrà da alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione  (574e2-4).   L'uomo tirannico è «colui che da sveglio è proprio come  l'avevamo descritto nei suoi sogni» (576b4-5). Dal punto di vi-  sta della fenomenologia degenerativa questa figura è dunque  dovuta, a livello psicodinamico, al «ritorno» di un represso che  scavalca le barriere oniriche: si transita dall'appagamento oni-   50 Cfr. anche J. Lear, op. cit. (n. 7), p. 193: «La comparsa dell'uomo de-  mocratico è, in linea di principio, il ritorno del represso nella generazione  successiva»; sull'oligarchico cfr. ivi p. 182.   51 Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù, è però l'Eros con i  suoi desideri a riempire di contenuti sia le manifestazioni oniriche sia le azioni  dissolute del tiranno.     COMMENTO AI LIBRI Vili E IX, [H]     495     rico a quello reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rap-  presentazione della loro soddisfazione nel teatro dell'immagi-  nazione alla conquista permanente dell'acropoli.   L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni  settore della psyche abitandovi come un tiranno» (577d; 329c-  d; 573 d; 575a). I rapporti di forza della psyche-polis vengono  nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e scacciare fuori  di sé i desideri e le opinioni oneste» (573a3-b7). Tirannia che  genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della «vo-  lontà» (577e). 52 Il soggetto è in balìa dei suoi desideri più sel-  vaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso ormai comple-  tamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro inappagabile  ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne cade  preda. 53 Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai  suoi desideri e amori». 54   Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il processo  di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico  ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia del-  l'Eros si configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale  risultato di un approccio brutalmente repressivo del materiale  epithymetico. La repressione permette difatti la permanenza e  il rafforzamento «inconscio», accertato grazie all'analisi dei  processi onirici, dei desideri repressi, i quali, una volta rinvigo-  ritisi, riescono a penetrare nell'acropoli, generando stati psico-  patologici di lacerazione, frammentazione, dispersione ed  espropriazione maniacale. Dalla nostra prospettiva psicodina-  mica è dunque a tale strategia di controllo che deve essere at-  tribuita la più grave responsabilità della fenomenologia dege-  nerativa.     52 Sul doppio livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia,  cfr. O. GlGON, Die Unseligkeit des Tyrannen in Platons Staat (577c-588a),  «Museum Helveticum», XLV/3 (1988) pp. 129-53 (pp. 135-42).   53 Cfr. 573d-574a, 579d-578a.   54 578all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV.     496   7. L 'altra via: la canalizzazione     PLATONE, LA REPUBBLICA     La strategia antitetica alla repressione è quella della per-  suasione e educazione del desiderio. L'architrave metapsicolo-  gico sotto il quale si dispiega tale modalità è rappresentato dal-  l'adozione di un modello pulsionale "idraulico" che assicura  all' epithy mia, e all'eroi-, una intrinseca malleabilità.   Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto di vista dinamico  si delineano quale forza fluida, canalizzabile, come emerge lim-  pidamente nei libri VI e V: «Sappiamo che quando le epithy-  miai di una persona si concentrano con forza in una sola dire-  zione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il resto,  come una corrente lì incanalata». 55 Così, prosegue Platone, «in  quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli studi  e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il piacere  della psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del corpo»,  come accade nel philosophos (VI 485dl0-12). Se, allora, si con-  sidera non Yepithymia nella sua fenomenica e contingente sin-  golarità, si tratti di specifici desideri necessari, non necessari  e/o paranomoi, ma le epithymiai nella loro plurale unitarietà,  esse risultano essere una forza energetico-pulsionale unitaria,  canalizzabile verso mete diverse, anche opposte, secondo un  modello economico. Anche da qui l'insistere di Platone, a  monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie di  gestione del materiale epithymetico.   Questa è la ragione, dalla nostra prospettiva psicodinami-  ca, con la quale si spiega perché l'estensione metapsicologica  della tripartizione del libro IX poteva coniugare esplicitamen-  te, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri e  governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca,  «ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere preservati,  rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia  intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché le     Resp. VI 485d6-8: lóonep pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov.     COMMENTO AI LIBRI VHI E IX, [H]     497     epithymiai sono una risorsa unitaria e limitata. 56 Modello  rafforzato, descrittivamente, da una sorta di estremizzazione  erotico-caratteriale operata da Platone: si tratti del filosofo o  meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta la sua  forma» (V 474d8-10), come chi «desidera qualcosa la desidera  in tutta la sua forma» (V 475b4-6). Estremismo che conforta la  tipologia caratteriale del libro Vili.   L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica e  caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura  comune à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della ve-  rità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione  strutturale tra repressione e canalizzazione risulta così radica-  lizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante scor-  re il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i ter-  ribili desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il mare  .aperto deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa ma  benefica corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola forza  psichica che in virtù della sua potenza può supportare la lunga  navigazione che permette infine di approdare nel porto sicuro  della dikaiosyne. 38   In conclusione, posta la permanenza di specie di desideri  stabili, indissolubilmente legate alle tre istanze di riferimento,  come quella dei desideri paranomoi, dalle quali non si può mai  svincolarsi del tutto, una parte cospicua del materiale epithy-  metico, decisivo rispetto agli equilibri o squilibri dei rapporti   56 Cfr. in questo senso anche J. ANNAS, An Introduction to Plato's 'Repu-  blic', Oxford 1981, pp. 137-46.   57 501d2; cfr. anche 485al0 sgg., 490bl sgg.   58 Sulla centralità psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità di  una sua «canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche nel  Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino  2003, soprattutto pp. 136-40. Rimarca la necessità di non confinare l'eros nel-  la dimensione subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Re-  public', Toronto 1994, p. 271: «a psychology that confines eros to the sub-ra-  tional parts of the soul most definitely falls short of the truth».     498     PLATONE, LA REPUBBLICA     di forza intrapsichici complessivi, è intrinsecamente trasforma-  bile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale, in gran parte  riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo possibile ma  doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete, anziché  tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di an-  nientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E  questo lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi  i due approcci fondamentali, le due strategie basilari di con-  trollo del desiderio adottate da Platone: repressione versus ca-  nalizzazione, violenza versus persuasione, schiavizzazione ver-  sus educazione. È questo il bivio dal quale si può imboccare la  via che conduce all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e alla  giustizia del filosofo, o invece il cammino psicopatologico che  sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo massima-  mente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una  massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dal-  le catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei confini  della coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e per-  mettendo così il rafforzamento fino al massimo grado, e quindi  l'esplosione finale del loro devastante potenziale.  Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692059125/in/photolist-2mKRjfH

 

Grice e Coco – mutuale prevalente – il contratto di carattere mutuale prevalente -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Umbriatico). Filosofo. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” --  Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen.  Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi & Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto pubblico. La giustizia amministrativa,  Roma, Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria.  La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Iniziò la sua carriera a 24 anni e nel 1906 fu nominato pretore di Lagonegro. Quattro anni dopo divenne pretore di Moliterno, per assumere in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Oltre vent’anni dopo, fu Presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo,  partecipa ai lavori per la stesura del nuovo Codice Civile e del  Codice di Procedura Civile. Cura vari aspetti dell’allora nuova normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti fu quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in Parlamento offertagli dai suoi conterranei della Calabria.  “Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno contraddistinto come uomo,  come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica, il tutto in un arco temporale di oltre quarant’anni. Sotto il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma fondamentale (grundnorm). Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero Coco ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale severità verso gli atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione. Proprio negli anni ‘30 scrisse “la responsabilità della pubblica amministrazione”.  -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal padre, persona di cultu­ra, ricevette  i primi  rudimenti  di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, succes­sivamente, in taluni suoi saggi filo­sofici su Aquino. Iniziò la carriera giudiziaria a soli venti­quattro anni e ottenne la nomina a  Pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino. Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti ol­tremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano  e Calabria  della Corte d’Appello  di Napoli,  dove  vi  permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne  la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale  “Il  Tribunale”, pubblicazione mensile  edita a Roma, lo sa­luta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di apparte­nere, nonostante  l’altissimo  grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lon­tani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale  della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla fun­zione giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sa­rebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaborato­re; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nel­la  Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per  noi particolarmente  caro, di Redattore Capo della    Rivista di Diritto Pubblico. La  recente nomina, se indubbiamente  costituisce un nuo­vo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma l’accoglierà  di  buon  grado, assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate  funzioni giudiziarie, alle quali porta il va­lido contributo della sua competen­za, ma soprattutto una grande se­renità ed equanimità. Riguardo ai meriti  illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da so­lidissima dottrina e da rigorosissi­mo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’e­voluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo po­litico e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successi­va normativa di attuazione gli die­dero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli e di Palermo (che assunsero anch’esse la denomina­zione di Corte di Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre quella di Roma fu trasfor­mata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento di Filosofia del Diritto presso la Scuola di Perfezionamento in Diritto Penale dell’Università di Roma “La Sapienza”. In questo ambito, svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annove­rare i più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente ri­ferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va  dal  primo  dopoguerra all’ av­vento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di efficace  e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sin­dacale, o “giuslavorismo”, costi­tuendo davvero una novità assolu­ta nelle scienze giuridiche del tem­po. Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0eco­nomiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la poli­tica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto  Statuto del Lavoratori, una ri-edizione ag­giornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali ap­punto Coco. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura  Civile, emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’immi­nenza della promulgazione, il Ministro Dino Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il Codice. L’ultima parte della sua vita coincide  con  l’immane  conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ebbene, nono­stante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni articoli che ave­va scritto su “Il Messaggero” di Pio Perrone, di commento a leggi e que­stioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiu­ta Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una plu­ridecennale collaborazione, ne sco­va qualcuno che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato in­tegerrimo, del quale va appena ri­cordato, ammesso ve ne fosse biso­gno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire solle­citazioni per una causa che la inte­ressava. Ebbene, Coco pro­cedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per me­riti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne mina rapida­mente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre ri­corso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortese­mente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e ri­conoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristiana­mente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita prevalente.  Del Lavoro.  Le Società di Mutuo Soccorso in Italia.    I. — Le origini.   Il prof. Gobbi, nel suo pregevole libro: « Le Società di Mutuo  Soccorso » (1) dice che « il nome di Società di Mutuo soccorso è co¬  munemente assunto da associazioni, le quali hanno per loro scopo  principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre even¬  tualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro atti¬  vità economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da con¬  tributi dei soci stessi ».   Considerato così il carattere economico-sociale dei sodalizi mu¬  ralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime traccie  di essi si riscontrino nelle antiche Corporazioni di arti e mestieri,  nelle maestranze, nei Collegi, nelle Università. Queste associazioni  si proponevano scopi di difesa professionale, di perfezionamento nelle  arti esercitate dagli associati ; qualche volta, in via secondaria, l’eser¬  cizio di pratiche religiose; e spesso assumevano importanza politica  di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come nelle arti della  repubblica Fiorentina.   Abbiamo però nel nostro paese esempi di società mutualiste sca¬  turite dal vecchio tronco della corporazione o del Collegio, o meglio  che'di questo possono reputarsi trasformazione. Così e non altrimenti  noi possiamo considerare la Società fra i falegnami e fabbri di  Faenza che fa rimontare la sua origine al 1410; l’altra pure di  Faenza fra calzolai ed arti affini che si dice sorta nel 1474; la So¬  cietà Veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale del 1454 ; la Società  Calafati del porto di Genova del 1456; la Società dei Cappellai di  Padova del 1530; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi d’arte  di Roma del 1509. Nè diverso giudizio possiamo recare sui sodalizi  che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del deci-  mottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena (1610); le  due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra falegnami  ed arti affini di Torino (1636); la Società fra carrozzai, sellai, fabbri¬  canti di Torino (1653); la Società fra calzolai padroni di Asti (1681);  la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed affini e fra fabbri  ferrai e serraglieri (proprietari di officina) (1700); la Confraternita  Sovvegno fra israeliti di Padova (1713); le Società Riunite Sovvegni  spagnuoli e tedeschi di Venezia (1736); il Pio Istituto lavoranti cap¬    ii) Milano, Società editrice libraria, 1901.         — 2 —    pellai di Torino (1736); la Società Cocchieri e palafrenieri di Torino  (1748).   Quantunque sorta nel 1738, la Unione Pio-Tipografica Italiana di  Torino può dirsi la prima che abbia assunto dalle sue origini e poi  meglio perfezionati con successivi adattamenti, i caratteri del mutuo  soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti 19 agosto 1751 e poi  nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770. E  ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo decimottavo  e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica di To¬  rino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano par-  ticolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino del  i/54 e la Società dei Servitori di Faenza del 1790.    T . 1 -^ a s ? c °nda metà del secolo decimottavo sorsero quindi in  rippnr, • P rim ? Società di mutuo soccorso, secondo il concetto mo-  Daese affe[>m are che di buon'ora si manifestò nel nostro  Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza sociale. Ed è cosa singo-  concettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la evoluzione logica del  Sassari dalIe , f orme più semplici di essa dovrebbe   videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della pre¬   previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi della  Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio  auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,   litaria, la quale si esu M , Jl ns P arm io, che è virtù so-   adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova l’organo  domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti   quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico  che l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare   contributo che versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il   fini della mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai   “lata, sottratta alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni rispar-  occorre per i bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto   me„fo 0 U“liX a .S a m m uta 4 ,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoro-  primo dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al 1851   società di mutuo soccorso (1).    di dii Gl0va rammentarle  dl Bergamo : nel 1810. Pr«    ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr    ano. la Pia Unione tessitori in seta areento l a Società di M. S. fra cap-  ’ aigento e oro di Tonno; nel 1884, la Società                 - 3 —    Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e 'sociale che la  unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche il rapido  incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo della  prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro la  luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35 anni  soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896 So¬  dalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722, con  un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza siano  quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica, pub¬  blicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della Previdenza.    IL — I caratteri.   Le Società di mutuo soccorso italiane, nella loro generalità, sono  associazioni che esercitano in modo prevalente funzioni di carattere  assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo spesso a queste  altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze economiche  e intellettuali e morali dei soci.   Fra le funzioni di carattere assicurativo ha prevalenza in tutte  l’assicurazione di un sussidio in caso di malattia. Spesso vi si ag¬  giungono le spese funerarie in caso di morte ed un sussidio una  volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono commisurati ai  contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta alla stregua  di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le Societàc he con¬  cedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto al sussidio fissano  un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente chiamasi  periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il sussidio  subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1); tutte le  altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi, e  ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24 mesi.  Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a  12 mesi: il 76 per 100 del totale.   Non tutte le Società concedono il sussidio dal primo giorno  della malattia, sono anzi pocchissime quelle che lo concedono; le al¬  tre fissano un periodo, che chiamono periodo di carenza, nel quale i  soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di carenza è di ordi¬  nario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche So¬  cietà va oltre i dieci giorni.    orefici ed arti aifiai di Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel'  1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel 1836, la Società  •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M. S. fra brentatori di Vercelli, la Società  di M. S. fra lavoranti guantai, tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società  operaia di M. S. fra conciatori di Torino; nel 1812, la Società di M. S. fra parrucchieri di  "Torino;, nel 1843 , la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e profumieri di Bologna; nei  1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e chirurgi della città e provincia di Bologna, la So¬  cietà fra medici e chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti, medici  e veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo, la Società di M. S. fra ma¬  rinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei medici-chirurgi della città e  provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua pro¬  vincia, la Società mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra  calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova; nel 18 - 1 S, l’Unione operaia pa¬  triottica fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la So¬  cietà Generale fra gli operai di Pinerolo, l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione  italiana fra lavoranti del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i  pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli patentati di Roma  (I) Questi dati e i seguenti concernono le Società riconosciute soltanto, per la quale la  statistica ha potuto registrare notizie più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che con¬  cernono 1548 Società soltanto.      — 4 —    Nè il sussidio è concesso per tutta la durata della malattia. J37  Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo termine; ma nelle  altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno, e il  numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120 giorni  La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2 per  1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in molte  altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti giorni  sia diminuendo.    L’assicurazione obbligatoria contro gl infortuni del lavoro tutela  oggi in Italia una larga massa di operai, ma non H tutela tutti :  l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie ohe non appli¬  cano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell assicurazione  obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione dei nostri  sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto inte¬  gratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la invalidità  temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965) conside¬  rano questa agli effetti-del sussidio come una malattia ordinaria; le  altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il numero  delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita permanente  (542), e il sussidio per alcune è determinato sia in un assegno una  volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre, e sono il numero  maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè, secondo la  entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor numero  sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di in¬  fortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in misura  determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi o  di pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata.   Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno  valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussi¬  diati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli  oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor-   Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno,  per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una  spesa media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia,  sussidiati e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussi¬  diate giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate  5.52. Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci  delia Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore  ordinamento tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corri¬  spondenza fra i mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono  con la promessa statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia,  annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio esistente.   Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i sussidi per  spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono diretta-  mente alle spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia alle  spese stesse. Non sono infrequenti poi i casi di Società che danno  sussidi alle famiglie dei soci morti sia una volta tanto sia in forma  continuativa. Sono relativamente poche le Società che concedono  sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100). Nè sono molte le  Società che provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5 per                       — 5 —    100). Questi dati si riferiscono a tutte Società delle quali si occupa  la statistica recente.    Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società mu-  iualiste è di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar  vita ad istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa  geniale filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mu-  tualista fu rilevata ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno  studio che, per conto del Musee Sociale di Parigi venne a fare in Italia  delle nostre Istituzione di previdenza assieme al Conte di Rocquigny  ed al Rayneri (1). La statistica recente ne dà una conferma luminosa.   Nel quadro seguente è indicato il numero delle Società di Mutuo  Soccorso che esercitano funzioni cooperative.    COMPARTIMENTI   Prestiti  ai soci   Magazzini  di consumo   Cooperative  di lavoro   Cooperative  di credito   Piemonte.   174   281    2   Liguria. ..   19   15   —    Lombardia.   233   ■ 46   1    Veneto . .... .... .   161   32     Emilia . . , . . . . .   182   23   1    Toscana.   92   58   1    Marche.......   ■ 128   24   1.   —   Umbria. . . . . . .   72   18   —   —   Lazio..   63   .2 . ■   —   —   Abruzzi.   82   5   —   —   Campania. . . . . .   150   10   —   —   Puglie . . . . . . .   1 • 57   7   1   ; “   Basilicata.   27    —   —   Calabria . . . . . .   47   14   —   —   Sicilia.   95   17   —   —   Sardegna . .   15    —    Regno . . .   1597   | . 552   ■ 5   2    Nella maggior parte dei casi non si tratta di istituzioni autonome  fondate secondo le norme del codice di commercio, ma di i-ami di  attività della stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi di  questa. Le Casse di prestiti sono principalmente dirette al fine di  produrre un maggiore rendimento coi fondi sociali, e quindi si com¬  prende come esse siano in numero maggiore (il 24.9 per 100). I ma¬  gazzini di consumo, che sul totale rappresentano 8 6 per 100 delle  Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il 21.3 per 100  delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e merita par¬  ticolare mensione quello della Società Generale operaia di .Torino,  reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di consumo  dei ferrovieri.    (I) La Prévoyance Sociale en Italie - Paris, Armand Colin et C.« Editeurs —                               Fra gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste meritano  poi particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei soci; le  Società vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o festive,  scuole di disegno o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione di  premi, la provvista dei libri e così via.   Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^  ed alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di collocamento;  il conferimento di doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni  operaie; la concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati  sotto le armi.   Nei riguardi della costruzione delle case operaie la legge del  1903 sulle case popolari contempla in modo particolare le Società di  mutuo soccorso, dando ad esse facoltà di impiegare una parte dei  loro fondi in costruzione di case pei propri soci. La legge vuole  soltanto che le Società, le quali questa impresa intendono assumere,  costituiscano una sezione speciale. E già sotto l’impegno di quella  legge parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’ autorizzazione  di intraprendere la costruzione di case Operaie.    Un nuovissimo ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soc¬  corso è quello di promuovere la iscrizione, collettiva o individuale,  dei soci alla Cassa Nazionale di providenza per la invalidità e la  vecchiaia degli operai.   Contiamo nel nostro paese Società le quali assicurano pensioni  di vecchiaia tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le due  Società, maschile e femminile, di Cremona. E sonovi Società le quali  non pensioni ma sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai  loro soci in misura e qualità corrispondenti ai fondi disponibili.   E siccome le Società che corrispondono pensioni o sussidi' di  vecchiaia ai soci hanno per tale servizio costituito un fondo speciale  alimentato da speciali contributi o da avanzi di bilancio, la legge  institutrice della Cassa Nazionale di previdenza consente’ a queste  Società di versare alla Cassa i fondi così raccolti e le future contri¬  buzioni, inscrivendo ad essa collettivamente i soci aventi diritto a  pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i più anziani, qualche  maggior favore. ^    Quel precetto della legge è provvido, contiene un germe che  dovrebbe essere sviluppato, fecondato da nuove e più larghe con¬  cessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire organi inter¬  medi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio di  quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio.   Alcuni credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza  per aumentare gli elementi che fanno fiorire e cementano la soli¬  darietà mutualista, sia opportuno conservare alle Società di mutuo-  soccorso il servizio di pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed  altri persuasi che quei sodalizi non possono coi soli contributi dei  b^ C n t rni°HAi I ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari  vorrebbero che una parte delle risorse assicurate  - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse affluissero a  quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene ordinato  servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato                   Io non posso, senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate  già in pubbliche conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non  occorrono lunghe considerazioni per dimostrare condannevole la  prima. In un paese in cui è sorto un Istituto, il quale, con mezzi  forniti dallo Stato, può assicurare pensioni di vecchiaia in misura  superiore a quella cui possono provvedere istituzioni o sodalizi pri¬  vati, si renderebbe un cattivo servizio ai lavoratori consigliandoli a  preferire la cassa pensioni della Società mutualista cui appartengono.  Nè si può ammettere che le inscrizioni dei soci di un gruppo operaio  alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della fratellanza e della soli¬  darietà. La Società, organo intermedio fra il socio e la Cassa Nazio¬  nale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li afforza,  procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i feno¬  meni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che colmano  le lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un momento  turbato.   La seconda tesi è pericolosa per le conseguenze cui condurrebbe:  il fatale spezzamento delle forze le quali per dare il maggiore effetto  utile devono convergere in un unico grande e solido organismo, nel  quale soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la legge così  proficua dei grandi numeri.   In un sistema d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella  obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre elementi: lo  Stato, il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto al¬  l’Istituto nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente  di attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano,  vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procu¬  rando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sot¬  tratti all’Istituto Nazionale,   L’esperimento dell’assicurazione libera non può farsi che all’ombra  di un grande Istituto verso il quale convergano le cure assidue dello  Stato, la simpatia delle classi dirigenti, la fiducia dei lavoratori.   La legge operò quindi saviamente quando volle associare alla  grande opera dell’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia degli  operai le forze, le iniziative dei sodalizi mutualisti ; ed il legislatore  farà ancora meglio se aumenterà gli stimoli, con un ben congegnato  sistema di premi, per la iscrizione dei soci della Società di mutuo  soccorso.   Intanto sono salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del  grande Istituto adopera presso le nostre Società mutualiste, fu prov¬  vido il pensiero del Ministero di agricoltura, industria e commercio,  il quale, con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a premi  in danaro ed in medaglie d’oro e di argento da conferire a quelle  Società di mutuo soccorso che al 30 giugno del corrente anno di¬  mostreranno di avere contribuito efficacemente alla iscrizione dei  propri soci alla Cassa Nazionale di previdenza.   Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i primi frutti.  Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o procu¬  rato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie precise  di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73 Società  hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano particolare  mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto Fiorentino  che ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m. s. per  le operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia di       — 8 —    m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la Società di m. s. di Mol-  fetta. (Bari) che ne ha inscritto 512.    3.° La legislazione e la giurisprudenza.   Le Società di mutuo soccorso sono regolate in Italia dalla legge  15 aprile 1886. Questa contempla però soltanto le Società Operaie. Il  legislatore temè che con le forme assai semplici per il riconosci¬  mento giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della pote¬  stà politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione mu¬  tualistica. le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le  Società composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere  il riconoscimento giuridico con il procedimento escogitato. La for¬  mula rigida della legge è stata però largamente temperata dalla giu¬  risprudenza; la quale ha ammesso che possa considerarsi operaia una  Società costituita in gran parte da operai. E così si è potuto am¬  mettere anche nelle Società operaie l’intervento di soci benemeriti,  di soci fondatori, che con largo concorso pecuniario esercitano il  benefico ufficio del patronato.   Le Società di mutuo soccorso non composte di operai possono  ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice  civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono  tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rile¬  vare che la giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di mu¬  tuo soccorso i caratteri dell’ ente morale. E quindi non ammette che  in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa essere distribuito  fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a scopi afllni o in opere  di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo soccorso nello  acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di legati siano au¬  torizzate con decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che con¬  templa appunto enti morali.     -------- a uà, ^aucenena aei j   naie Civile, depositando copia autentica dell’atto costitutivo e  statuto.    statuto.                        Le condizioni che la legge vuole adempiute sono soltanto le se->  guenti :   1. Le Società devono proporsi tutti o alcuni dei fini seguenti:   assicurar ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impo¬  tenza al lavorò o di vecchiaia ;   venir in aiuto alle famiglie dei soci defunti.   Possono inoltre;   cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie ;   dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro me¬  stiere ;   esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza  economica.   2. Gli statuti delle Società devono determinare espressamente;   la sede dèlia Società;   i Ani pei quali è costituita ;   le condizioni, la modalità d’ammissione e di eliminazione  dei soci ;   i doveri che i soci contraggono e i diritti che ne acqui¬  stano ;   le norme e le cautele per l’impiego e la conservazione del  patrimonio sociale ;   la disciplina alla cui osservanza è condizionata la vali¬  dità delle assemblee generali, delle elezioni e delle deliberazioni;   la costituzione della rappresentanza della Società in giudizio   e fuori ;   le particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo  scioglimento, la proroga della Società e le modificazioni degli sta-,  tuti, sempre che le medesime non. siano contrarie alle disposizioni  della legge.   La concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo  soccorso è quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto  all’ esame estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate.  Non si chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni,  di legge presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la  dimostrazione tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi,  non si impone l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di  investimenti. Deve però avvertirsi che la legge parla di sussidi  e dalla discussione parlamentare risulta che si volle escludere pen¬  satamente la parola pensioni, implicando un regolare servizio di  pensioni necessariamente la dimostrazione di un ordinamento tec¬  nico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di cor¬  rispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula della  legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza  economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale importanza  che non può essere esercitata senza un ordinamento tecnico preciso,  che implica impegni a lunga scadenza e non si può in modo asso¬  luto ammettere, tenuto conto anche della discussione parlamentare,  che il legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una .  così importante funzione.   B la giurisprudenza ha confermato il pensiero del legislatore  ammettendo che occorra una speciale concessione governativa per'  esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di invalidità; concessione       — 10 —    subordinata alla dimostrazione di un ordinamento tecnico che dia  sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti (1).   Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per a  concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a “®  Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di  più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può  sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne  meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 cono¬  scimento giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma  ove si consideri che si tratta di Società fra persone che hanno  qualche maggiore coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse  una più razionale discriminazione negli scopi, qualche maggiore det¬  taglio negli Statuti. E nello stabilire quelle nome il Consiglio della  Previdenza si è anche proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio  alle Società operaie. La legge chiede il minimo, e non può quinci  escludere che si faccia di più e meglio.    I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di mutuo  soccorso riconosciute sono i seguenti:   esenzione dalle tasse di bollo e registro, conferita alla So¬  cietà cooperative dell’articolo 228 del codice di commercio;   esenzione dalla tassa sulle assicurazioni e dall' imposta di  ricchezza mobile, come all’ articolo 8 della legge 24 agosto 1877, nu¬  mero 4021;   parificazione alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per  la esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla misura dell’im¬  posta di successione o di trasmissione per atti ira soci ;   esenzione da sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti  dalle Società ai soci.   Gli obblighi delle Società registrate, come anche di quelle ri¬  conosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio  Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e nelle  comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i quali  sono compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti gratuitamente.  Il Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà buoni consigli  per la migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in guardia  il sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto  impiego dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero  esercita nelle Società registrate, nè esercita ufficio di vigilanza so¬  vra di esse, non potendo sottoporle ad ispezioni, scioglierne le am¬  ministrazioni, nominare Commissari Regi.   Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di ordine  fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti o in¬    ni Il Consiglio di Previdenza non espresse divei  del 1897, cosi concepita « Le Società di mutuo so<   lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile --   -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi    i una nota al modello di statuto  spirano ad ottenere la persona-  s possono proporsi di assi-                            11 —    diretti dello Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusiva-  mente, o quasi, eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefat¬  tori, attingendo le proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a  mio giudizio, costituisce il loro miglior vanto.   Occorre però tener conto degli aiuti di carattere non continua¬  tivo e straordinario che vengono ad esse nei concorsi a premio e  da sussidi speciali conferiti dal Ministero di agricoltura, industria e  commercio.   Nel campo dei concorsi a premio meritano particolare mensione  quelli che una volta con alquanta frequenza indiceva la Cassa di  Risparmio di Milano fra le Società di mutuo soccorso meglio ordi¬  nate.   Nel 1882 fu bandito un concorso a premio, di lire 3000 (1500 of¬  ferte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero) per il miglior or¬  dinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu indetto  un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di cinque¬  cento e con medaglie di argento o di bronzo a quelle Società ope¬  raie di M. S. che avessero meglio provveduto ad organizzare e ga¬  rantire un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei casi di inabilità  al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente con apposito fondo sociale,  sia mediante l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale di previdenza.   Ho rammentato più sopra il concorso a premi del 1905.   Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società di  mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza.  Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del 1882, il  Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di prima  Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi a  quelle Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordina¬  mento e di più lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche  con le scuole e con le biblioteche alla istruzione degli operai. E  frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza ai  sodalizi operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di  buon ordinamento e di costante devozione ai principii della mutua¬  lità. Nè sono infrequenti i sussidi in denaro, non molto larghi data  la parità dal fondo all’uopo stanziato, che il Ministero dà alle So¬  cietà operaie che più si addimostrano bisognose di aiuti.    A. Lo stato attuale.   La recente statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate  dell’ Ispettorato generale del credito della previdenza, registra la  esistenza in Italia al 31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali   riconosciute 1548   non riconosciute 4987   Abbiamo veduto più innanzi che la statistica del 1892 denunziava  al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza di 6722 Società di mutuo  soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di riscontrare un incre¬  mento, come erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894, si constata  uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2 - 8 per  cento. La diminuzione più notevole si osserva nell’Italia meridionale  e nell’insulare ed in parte della centrale; si giunge sino al 48. 1       — Ì2 —    per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’ Italia  settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che riuscì  notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col .15.0  per cento.   Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle Società di mu¬  tuo soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo decimonono,  andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e riportammo, a  dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del 1894. La dimo¬  strazione riesce più evidente classificando il numero delle Società  per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le medie  seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904:    Società fondate prima del 18*0 — % . 1.0   » ,, dal 1850 al 1859 — » . 2.7   » » dal 1860 al 1869 — » . 10 . 3   » » dal 1870 al 1879 — » . 19 . 2   » » dal 1880 al 1884 — » . 18 . 9   » » dal 1885 al 1889 — » . 14 . 5   » » dal 1890 al 1894 — » . 12 . 6   » » dal 1896 al 1899 — » . 8.7   » » dal 1900 al 1904 — ». 12 . 1    Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889, con una  inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo il  decennio 1870-79 con 19 2. .   Ma l'incremento più rapido si determina appunto dal 1860 in poi.   Esaminando le cifre afferenti ai vari compartimenti è da notare  che, mentre nell’Italia settentrionale e centrale è piccolo il numero  delle Società instituite negli ultimi anni, questo numero è notevole  nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome in queste regioni si  riscontra pure la maggior diminuzione delle Società nel periodo 1895-  1904, si deve concludere che in esse le Società hanno vita più breve.  Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti:   Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle  sciolte nel decennio:    Piemonte   Liguria   Lombardia   Veneto.   Emilia.   Toscana   Marche   Umbria    Abruzzi   Campania   Puglie.   Basilicata   Calabria   Sicilia .   Sardegna    Regno    25 . 2    L’indice più alto di diminuzioni lo danno le Puglie; seguono la  Basilicata, la Calabria, la Campania, la Sardegna. °    Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904    sono composte di soli uomini .   » » di sole donne   » » di uomini e donne   se ne ignora la composizione .    5,078   252   1,017   189                    — 13 —    Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto, sono  1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale e  1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15 aprile  1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi fu  quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per %•  L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società esi¬  stenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri che  la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli e  formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello  esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non  le asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento  incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero ri¬  spetto alla massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto in  pregiudizi non ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori, nella  imperfetta conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica reca,  indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla legge.  Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che esulano  dal campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze  trovano più conveniente esplicazione in altre forme di organizza¬  zioni, che in ben ordinato reggimento politico hanno diritto di cit¬  tadinanza per la legittima difesa di interessi professionali e per la  protezione del lavoro.   Il,numero dei soci aggregati alle Società di mutuo soccorso, se¬  condo le statistiche alle tre date, risulta nelle cifre seguenti:  nel 1885 — 730,475  nel 1894 - 933,685  nel 1904 — 926,026   Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre indagini le  indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la integrazione, il  criterio della media dei soci per ciascuna Società, si avrebbero le  cifre seguenti :   nel 1885 — 760,085  nel 1894 — 956,328  nel 1904 — 953,455   La media dei soci per ogni Società nel 1885 risulta di 153.2, nel  1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 . 9.   Il numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti dell’Ita¬  lia settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emi¬  lia, nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti  gli altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio dei  soci è aumentato in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e Sardegna,  si è mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli altri com¬  partimenti.   Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904, la diversa com¬  posizione numerica di esse è indicata dalle cifre seguenti:   Sino a 99 soci . — 53 . 6  Con soci da   » » da   » » da   » » da   » » da   » » da   b b da 1000 a 1500 — 0 . 5   b b oltre . 1500 — 0.3    100 a 199 — 27 . 6  200 a 299 — 27 . 3  300 a 399 — 4.5  400 a 499 — 2.3  500 a 699 — 1.2  700 a 899 — 0.8       — 14 —    In complesso, in tutti i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se  ne ha il 43 . 2 per 100 e la Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per  100, più della metà delle Società conta meno di 100 soci; ed in ge¬  nerale un quarto circa delle Società conta un numero di soci da 100  a 200.   La statistica del 1904 discrimina anche i soci secondo i sessi.  Dei 926,026, soci, 849,418 sono uomini, 76,608 sono donne.    Sul movimento economico dqlle Società di mutuo soccorso si pos¬  sono fare raffronti con la statistica del 1885; quella del 1895 non con¬  tiene alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati riferentisi  alle due date:    Entrata.  Spese .  Patrimonio    L. 7.    L. 14,632.425  .404.205 » 11.790.028  1.200.840 » 72.395.544    Il patrimonio medio per ciascuna Società, che nel 1885 era di  L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L. 12.-017,85.   Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due tempi non  diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come cri-  terio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti:    Con lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle  entrate ed alle spese.   Secondo tali risultati,!che non si possono discostare molto dalla  ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L. 4.919.727  nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218 sul pa¬  trimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100.  t 9 o^? trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di  L. 2,342,43, con un mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi  e con un massimo di L. 3833,27 per le Società della provincia di  Roma. La media delle entrate per ciascun socio è di L. 16 con un  Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la Calabria e un massimo di L. 18,92 per la   „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ - nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre:  “SJ on ? dl ® oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, do¬  nazioni ed altro (patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di  entrate nel 1904 ,1 tre elementi davano le cifre seguenti:   Contribuzioni di soci effettivi .... 68 80   Contributi di soci non effettivi, donazioni, ecc 7 28  Altre entrate . . y . . . 29 * 47   Il cfflpite inabor 6 di entrata è dovuto, come abbiamo già no¬  tato, alle contribuzioni dei soci effettivi. E la proporzione diventa  maggiore quando si consideri che le altre entrate slno in malsima  dei fondi impiegati, i quali alla loro  volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate  1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo  Liguria 58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in                       — 15 —    Si hanno notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società  riconosciute ; ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono  al 1903. Le percentuali di queste entrate sono le seguenti:    Redditi patrimoniali  Contribuzioni di soci  Introiti lordi . . .   Redditi straordinari    | Rendita di beni immobili ... 1. 69   ( Interessi attivi.17. 13   (effettivi.38.60   ^ non effettivi.0. 99   l di Magazzini di consumo ... 27. 58   1 di aziende sociali.6.85   .7.16    Anche per queste Società, nella media generale del Regno, il  maggiore delle entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi,  esclusi però il Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene da¬  gli introiti dei magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior  parte delle entrate sono dovute alla assunzione da parte di due So¬  cietà di Palermo, quella fra la gente di mare e T altra dei capitani  marittimi, di appalti di carico e scarico di merci. In Lombardia le  contribuzioni dei soci effettivi eguagliano quasi i redditi patrimo¬  niali; ivi infatti sono le Società più antiche e con patrimonio più  rilevante.   Le contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109  nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle So¬  cietà di questa regione è minimo il numero dei soci non effettivi.   La spesa media per ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84  e per socio di lire 13. Nelle medie per Società della spesa si va da  un minimo di lire 679,30 per le Soc età degli Abruzzi ad un massimo  di lire 2925.51 per quelle della provincia di Roma; il minimo ed il  massimo delle spese si riscontrano quindi nelle stesse regioni nelle  quali si hanno il minimo ed il massimo delle entrate. La spesa per  ciascun socio oscilla fra un minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un  massimo di lire 16,51 in Liguria.   Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una minuta  discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due grandi  divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad  ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre seguenti:    spese per sussidi.51.4   altre spese.29.7   Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto in Liguria:  nelle altre regioni le spese furono inferiori alle entrate. Nelle So¬  cietà della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la proporzione delle  altre spese alle entrate è superiore a quella delle spese per sussidi  ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso or¬  dinamento amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore  delle spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie.   Come per le entrate così per le spese si hanno più minuti rag¬  guagli nelle spese delle Società riconosciute, erogate durante l’anno  1903. Nelle cifre seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa    Spese di malattia j f^^se '. ! :  Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro  Sussidi di vecchiaia.    Soci defunti  Altri sussidi    l Onoranze funebri. .   ^ Sussidi alle famiglie    19,45  3.01  4,40  10 87  0.75  2.62  1.34                   03 ( Magazzini di consumo .   “■§ < Altre aziende sociali . .   ’S g ( Altre spese.   Spese di amministrazione  Spese straordinarie. . .   Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per cento del totale  delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in Sicilia ad  un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le regioni,  esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese per  sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento nel¬  l’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi di vecchiaia.  Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti nel Piemonte (56.02  per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in Calabria (39.97 per  cento). Le spese di amministrazione variano dall’ 8.02 per cento in  Piemonte, al 33.47 in Basilicata.    . 28.78  . 7.05  . 2.6S   . 13.14  . 5.91    La sostanza patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che  come abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata per Società  e per soci e distinta fra Società registrate e Società non registrate,  dà le cifre seguenti:    patrimonio medio.   per ciascuna Società   Società riconosciuta 24.267,00   Società non riconosciuta 7.887,67   Riconosciute e non riconosciute 12.017,85    per ciascun Sòcio   123.32   60,16   82,50    È più alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimo¬  stra che il riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi ele¬  mento di singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio do¬  tati e quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della  personalità giuridica.   Dalla media generale del patrimonio per Società si discostano,  nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel minimo la Calabria  con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano nella media del pa¬  trimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in Calabria.   Si hanno i dati della composizione del patrimonio soltanto per  le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre 1903.   A quella data il patrimonio delle Società riconosciute ammon¬  tava a lire 35.976.981 ed era cosi composto.   Beni stabili ...... L. 3.580.079 10,0   Titoli pubblici e privati .... » 15.239,047 42,6   Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374 40.7   Altre attività.» 2.50S.461 6,9    La misura massima di impieghi in immobili è nelle Società delle  Calabrie ove si ha il 33.5 per cento, il minimo si riscontra in quelle  della Campania col 2.5 per cento. Negli investimenti in titoli pub¬  blici e privati il massimo è nella provincia romana col 70.3 per                    cento. Nelle Marche invece si ha il massimo in mutui e depositi a  risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria presenta invece in que¬  sti impieghi il minimo col 13.8 per cento.   Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società  di mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posse¬  duto. Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero  delle Società per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904.   Numero delle Società che hanno un patrimonio:    Da L. 0 a   999   Cifre assolute  1.517   Su 100 Società  23.6   11 1000 a   4999   2.117   35,3   » 5000 a   9999   9S9   16.5   n 10.000 a   49.999   1.239   20.6   n 50.000 a   99.999   156   2.6   n 100.000 a   249.999   60   1.0   ii 250.000 a   49.1,999   12   0.2   n 500.000 a   1.000.000   5   0.1   Oltre un milione   4   tu   Senza indicazione del patrimonio 535   —    Di 5999 Società che hanno comunicato 1’ ammontare del loro pa¬  trimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute, hanno un patrimonio  superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per cento. 11 23.6 per  cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire 1000; il 35 3  per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per cento un  patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un patrimonio  da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio da lire  50.000 a 100.000.    5. Le federazioni.   Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il rico¬  noscimento giuridico delle Società composte di non operai è am¬  messa la costituzione di consorzi fra Società riconosciute per for¬  mare un fondo di riserva consorziale, per assumere impiegati co¬  muni, per stipulare contratti con medici e farmacie, per mettere in  comune alcuni servizi, o anche alcune assicurazioni. Si può strin¬  gere anche un accordo fra Società non tutte legalmente riconosciute  per esercitare un controllo sui soci sussidiati o per regolare il pas¬  saggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che cambiano resi-   ^Ta legge francese del 1898 sulle Società mutualiste consente la  costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna la propria  autonomia, aventi per oggetto principalmente : l’organizzazione a  favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi indicati nella  legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle condizioni  stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione dei membri  effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle pen¬  sioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei rischi  diversi a cui le Società debbano provvedere, specialmente la fonda¬  zione di Casse di pensioni e di assicurazioni comuni a più Società  per le operazioni a lunga scadenza e le malattie di lunga durata;  il servizio del collocamento gratuito.   La statistica ufficiale non registra la esistenza in Italia di Consorzi  o d Unioni costituiti per gli scopi predetti, che hanno alquanta       - 18 —    analogia eon quelli indicati nelle norme. In recenti Congressi regio¬  nali di Società di mutuo soccorso fu deliberata la costituzione di  unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se furono costituite  e per quali scopi.   Nel primo Congresso nazionale delle Società di mutuo soccorso  tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu deliberato «d'organizzare fra  m loro tutte le Società operaie di mutuo soccorso in federazione  nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle razionalmente, con  a nomma di una Commissione esecutiva provvisoria », fissando intanto  a Hi n^ ta 1 o annUa dl , pre ,. 5 per le Societ à aventi non più di 100 soci  t pe f <3 £ e i e dl - un numero superiore; e «di indire un  mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società operaie, quelle delle Ca-  La fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per un’intesa comune ».  con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno 1900,   Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole morale.  Società federate ed? ,?^ ed - ere . alla tutela de ^ interessi delle  nomico delle classi i a JÌ ,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale ed eco-  raS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza ». Per  aggiungere p ento la Federazione si propone in modo speciale:   previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^ istituti di mutualità, di  Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris S°"-   fare opera di solidarietà con tutte le li“■ ,QM . de ! lavoratori; e   ,SC ° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r   slazione che valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si ,f tema completo di legi-  a tutelare le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione,  sulle classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano   nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate, intervenendo   mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e 6 di P revid enza,   meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1   mutuo soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di  siano inspirate ai5? f a „ 08 ,? ute 0 di fatto - P^chè-   videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della pre-   di iirc 5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata:  se hanno da 100 a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10  ài lire 20 se hanno più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’   6 «5dfott federa a e hano diritt0:   consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva in ogni circostanza   teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl che la Federazione stabilirà nell’in-   àana, monitore della 6 P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione Ita-  Congresso; ^aerazione, ed una copia degli atti di ogni                       — 19 —    « d) di ottenere gratuitamente consulti legali e pareri di in¬  dole amministrativa;   « e) di valersi del giornale La Cooperazione Italiana per trattare  quelle questioni che si riferiscono agli interessi della mutualità e  della previdenza ».   Gli organi della Federazione sono: il Congresso delle Società  federate; il Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti dal  Congresso fra i soci delle Società federate; la Commissione esecutiva  composta di nove membri scelti fra i soci delle Società federate e  residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le circoscrizioni  stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei Sindaci com¬  posto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal Congresso  fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le Commissioni  di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne fosse re¬  clamata la costituzione.   La Federazione ha organizzato tre Congressi nazionali: quello  di Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia nel 1901; quello di Fi¬  renze nel 1904. Le Società federate sono andate crescendo nei cinque  anni 1901-1905 nella proporzione seguente:   1901 — 548   1902 — 573   1903 — 720   1904 — 733   1905 — 745    In un Congresso internazionale e nel chiudere questa rela¬  zione la quale dimostra quale sia la condizione delle organizzazioni  mutualiste in Italia, io non credo che si possano presentare, come  epilogo dei fatti osservati, voti e proposte che abbiano riferimento  alle particolari condizioni delle nostre Mutue ed al loro avvenire.   Credo soltanto possibile esprimere un voto il quale ha necessario  legame con la proposta costituzione di una Federazione internazio¬  nale della mutualità, che sarà vanto di questo III Congresso, poiché,  a mio giudizio, una Federazione internazionale deve trovare il suo  principale fondamento nelle organizzazioni federative nazionali. Ed  il voto è il seguente:   Che si promuova in Italia la costituzione di Federazioni od  Unioni regionali di mutuo soccorso, le quali si propongano i fini  additati dalle Norme e meglio specificati dalla legge francese, in  quanto siano applicabili alle particolari condizioni e funzioni delle  nostre Società ;   Che le Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione  Nazionale, la quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è  nel programma dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici  propri delle federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire  i soci dei sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di  lavoro o per altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale  la Federazione regionale esplica la sua azione.  Uo spirito cooperativo.   Se il tracollare di tante impresa o società sorrette  da grossi capitali aggiunge nuove pa^ne ai volume delle  nostre afflizioni , è bello invece vedere per virtù popo-  lana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso anche in  Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso.  Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà ,  e non mossi da studio di soverchio guadagno , finiscono  col raccogliere anche la ricchezza , come premio della loro  virtù e col dare un'alta pro\a di quella verità che gli  affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei conti i  più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di pic-  coli indaslriali , svincolale dai vecchi rancori , amiche  deirordiiie e della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando  ed aiiargaiido i contorni dell' azione, c creando una buona     Digitized     24 ' PARTE PRIMA.   Speranza per l'avvenire della nostra patria. Fatta Tlta-  lìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e ca-  scanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero ,  sì sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associa-  zione.   Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai  quali nulla di onesto e di utile pare impossibile, e che  nel meditare al proprio, tornaconto non dimenticano quello  degli altri. Occorre che in tutte le citlà^ d'Italia sorgano  e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali sappiano inlen-  dere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le opere  buono a quello stesso modo , e sto per dire , con quella  spensieratezza , colla quale i più le stemperano nella ca-  scafigine e nelT ozio.   E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi nei  gruppi de' nostri cooperatori , le quali , mef^lio di tanti  discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie  0 di certi volumi di economia politica , senza lettori, val-  gono a provare colla evidenza dei fatti , che la maggiore  delle industrie è l'onestà dei costumi, e che il lavoro e  r associazione non accrescono soltanto la nostra fortuna  materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri affetti  e delle virtù nostre.   Di fronte al movimento d'associazione che si estende  da tutte le parti, è. necessario stabilire i cardini su cui  s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell' associa-  zione.   Fino ad oggi te società di commercio e dMndostrla  avevano per unica mira il guadagno di coloro che le di-  rigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo , aveva per   motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli , la speculazione  e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno  fatto colossali e scandalose fortune con desolazione c ro-  vina di una falange di creduloni e di delusi.   Le società cooperative hanno invece per ragione la fra-  ternità, per principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore,  la probità e il lavoro dei cooperatori associati ; e per  ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione dà ai-     Dìgi}ized by     spiaiTo d' associazione.     25     r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè stesso  ciò che gli appartiene , ed a ciascun cooperatore accorda  la facoltà di aver parte air amministrazione delle cose co-  muni. Còsi la cooperazione sorretta dall' intelligenza , vi*  vificata dair amor fraterno , rivela air uomo T arcano della  sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga agli  sperati e (Te ili senza deviare dai principii che sono fon-  damenlo di ogni rigenerazione sociale , si addomanda ai  cooperatori vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiega-  zione e virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui rup-  pero tanti , cessino di tenersi in guardia contro i funesti  allctlamenli , i desiderii ambiziosi , le passioni egoistiche  e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi con-  tengono i germi di discordia e di dissoluzione che bi-  sogna sradicare dalla loro prima comj)arsa.   Quanto allo socielà cooperative formate lìnora in Italia,  mentre dobbiamo conoscere la devozione , il disinteresse  dei loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza fe-  lici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da supe-  rare, converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno  sbandite tutte quelle mezze misure che conducono facil-  mente air aborto.   Si ha bisogno di uscire al più presto dalie vecchie  abitudini, dai sistemi restrittiyi, e rendersi p^puasi che  un progresso non è realmente buono se non m quanto  possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima  della cooperazionc , come d'ogni giustizia; che il genio  cooperativo nel suo oggetto , nel suo scopo e nelle sue  conseguenze sociali , ha una missione immensa da com-  piere, e che deve penetrare come il sole, tanlo nelle cam-  pagne quanto nelle grandi città.   Ma perchè le società di credito e di produzione pos-  sano agire senza ostacoli deesi sgombrare il terreno del-  l' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate alle  campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa con-  correnza cogli operai. Per togliere dallo stato precario e  dalla miseria, ove si trovano, lutti questi campagnoli che  disertano la gleba per cercarsi lavoro nelle manifatture »     Digitized by Google     26     PARTE PBIMA.     bisognenibbe procurare la loro emancipazione col mclterli  anch'essi in grado di partecipare alla propriclà territo-  riale per mozzo delle associazioni cooperative. Al che  condurrebbero quando si formassero de' sodalizii agricoli  c industriali, abbastanza potenti per oHrirc un asilo a  coloro che non hanno una via aperta alla loro aUivilà.  Con questo mezzo il commercio e T industria si trove-  rebbero al riparo dalia concorrensa industriaJi superflui,  poiché ove le società cooperative non propagassero ia loro  azione nelle campagne, e restassero nelle sole pitià, su-  birebbero i maggiori disinganni.   Ed oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge  quella che i lavoratori si fanno fra essi e che forma  reggette dMndebite lagnanze. E infatti coltivatori, affit-  jtaìuoli , proprielarii si lamentano troppo spesso dr questa  concorrenza che , a detto loro , impedisce di vendere i  frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pen-  sano intanto che la concorrenza de'' produttori coi prezzi  moderali suscita un'altra concorrenza, quella de' consu-  matori; non pensano che se essi hanno quelle vanghe,  quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio, e  appunto per la concorrenza delle fucine che procura a  minor prezzo il ferro di che hanno bisogno per gli isiru-  menti de' tgro mestieri ; che è la concorrenza dei tes-  sitori e de" granaiuoli che fa comperare ad essi con mo-  dici valori il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra  nei bisogni della vita.   Ma quando T equilibrio si rompe anche la concorrenza  diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrec-  ciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia  che è il supremo beneficio d^ogni sociale interesse > ed  è appunto un gran prezzo delP opera il far in modo che  ì campagnoli restino nelle campagne , nò depongano la  marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio.   La concorrenza è ìm gran motore delle attività umane,  e trova la sua perpetua alimentazione nelP interesse indi-  viduale. Essa non e che il risultato dello sforzo che fa  ciascuno pel proprio interesse , e porta poi come ultima     Oigitized by     SPIBITO D'ASSOCIAZIOMB     37     conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio  deir esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli  uni e degli altri promana il vantaggio di lutti; nè per-  meile ad' alcuno di predominare a scapito degli altri, è  una compensazione che ci facciamo a vicenda.   Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pa-  gherebbero tutto ad una esorbitanza di prezzi , e senza  la concorrenza clie i consomatori si fanno tutto cadrebbe  a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più sollecitato  alla produzione.   E chi sconoscerà il vantaggio che ne trae T emulazione «  che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per Fat-  tività deir uomo , e ne sorregge ne^ suoi lavori la medi-  tazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi;  per studiare a tale intento , e trovare nuovi processi di  produzione più economica e più abbondante per accorciare  il tempo e conseguire Y esito migliore , e per soggiogare  le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la forza  deir uomo?   Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa far  meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti;  egli sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che  lavora meglio, e al venditore che spaccia a minor prezzo;  e chi invoca misure restrittive, chi domanda ai governi  la proibizione d' introdurre merci forestiere , attenta alla  liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a suo pro-  fitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stra-  nieri.   Ha quando V equilibrio delle classi si rompe allora la  concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo ve-  diamo i giovani campagnoli non rare volte dalla mal tol-  lerata loro condizione sospìnti a quella delP artigiano delle  città, perchè a questo la giornata si paga più cara che  ad essi , ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario  alla mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate  agli ordigni degli opificii tolgono le larghe emanazioni di  quella occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò l'uomo  «uila terra. Eppure l uomo della campagna quando pensa     Digitized by Google     28     PARTE PRIMA.     all'artiere della città, dice: in (jual minor conto siamo  ' noi tenuti! S'inganna esso a partito; nessuno tiene in  minor conto chi guida il solco e T aratro, ed è neces-  sario che i contadini il sappiano, che abbiano ànch'essi  le loro istituzioni da cui sieno allettati, e che le provvide  virtù camminino fra i popoli agricoli » sotto i tetti di  paglia , tra i novali e i vigneti , e che la vanga e il  sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio ed  al telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa, impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione, sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico, unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente, contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo, considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773172804/in/dateposted-public/

 

Grice e Codronchi -- Su i contratti e giochi d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto comunitario -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party should, for the time being, identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing something else.  SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO DEL CAVALIERE NICCOLA CODRONCHI. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. & c. 1 NICCOLA CODRONCHI. Questa operetta che sottopone il contratti d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di denaro (a) ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in (a). Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente* l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri. In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111 (a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente, qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo. Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie, conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del 1 4 13 contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione, e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto, e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori, e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente, non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero, che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo. Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo, che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde può dirlig. 19 Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi, e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri, altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario. Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'az 23 zardo ſomma maggiore. Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III. 26 che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo. Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta fem 1 28 plice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte, e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon; 1 1 1 1 30 Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo, che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco, non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione, che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento pro * 32 verebbe troppo in genere di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto. / 33 Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo; cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali, o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente, accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1 36 fi attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico, di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte, ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte, perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata regolata l'economia di 38 1 1 queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Queſto è un contratto della natura di quello che dai 39 Latini chiamavaſi olla fortunae. In fimil guiſa Auguſto dilettavaſi al riferir di Svetonio di compartir doni ai ſuoi cortigiani, chiaman do così la forte ad eſſer miniſtra della ſua beneficenza. Talora un ſolo è il premio che ſi diſputa fra quelli che giocano alla lotteria, e allora ſe il premio non è denaro ma un altra coſa qualunque che abbia prezzo, ſi giuſtifica più facilmente, giuſta l'opinione del Barbeirac, la notata diſuguaglianza: e l'economo del gioco può vendere non ſolo tanti viglietti quanti corriſpondono al valore del premio, ma ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera ſua, e il diſpendio, quando ve n'abbia. Queſti lotti fi riducono, dice il citato au tore ad una ſpecie di compra, che ſi fa in comune, a condizione che la ſorte decida a chi debba appartenere la coſa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione nella propor zione, ſi potrà conſiderare come ſe fi foſſe comprata la coſa ad un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che ciaſcuno tra 40 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor quantità di viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione, giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di compra della ſperanza, ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare. Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E' incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche, e Virgi 41 liane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio, s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di quello degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e ſi 45 è detto, che uno depoſitando maggior por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del Mondo. La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni Filoſofi, alla teſta dei quali è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi penetrali l'ordine della natura, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e 49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione, d 50 Ma non è forſe neppur vero eſſere più van taggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione, e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni. Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo? Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare al 53 grado di confonderſi con la certezza. Tra= laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva, che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına pro. 55 babilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità, ecco ciò che 60 ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito, circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito, e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo. In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un 63. altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio, o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio 64 queſte due nazioni, la prima delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie, ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti. Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera deter 66 minazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali. 67 i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi, per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o temperata colle altre. e 2 68 Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni, e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave, nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati. La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole, non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72 più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede, qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità, poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro. Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto. Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci, ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile ac cidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente, e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto. Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne, ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo inte 77 ! reſſe di un capitale collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente, accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti. Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capita 6 79 le. Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio, conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima, eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B, ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola. (C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2 84 rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto; il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la vita dell'uomo dipendendo da 85 cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti. Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri fleſſione. 86 Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra. Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche, ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte 87 í per un lungo corſo d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente. Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi, che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa. Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita. Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo. Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva 35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre. Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee, il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente la medeſima anche per le contine. 92 1 1 E' oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione, allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I 93 generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages, Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, & j'aurai penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. 1 1 1 1. 1 Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato, e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle. Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112 95 Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m; 112 Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ra 97 giona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza, ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato 99 e ſicuro l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere, imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d' uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza, e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un 102 giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva, ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli, queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fiſſare il numero delle volte per il quale duri la poſſibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità, durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per certa: che non è in natura, che un 1 1 1 IOS 1 effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili, quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura. Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? 1 106 1 Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte. Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere offervato che una tale con 107 tinuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade, ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia, a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno, che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle, ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto. Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato 109 l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia. 110 1 La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo ſteſſo a proporzione dicaſi delle diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto, che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33, niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente و II2 parlando ugualmente poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo, che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro, alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo? perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre, ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente impoſſibili al ſolo caſo; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non col nome di Coſtantinopli b 114 ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420 anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra. Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo b 2 116 tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con tenute nei due eſempi addotti dal chiarilli 117 mo d'Alemberţ ſono molto difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file 1 b 3 118 ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſi mo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta; con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo. Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi ve 1 1 119 1 drà, che laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza, altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1 pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che pre ſenti ſempre l ' ifteffa faccia della moneta; verità che ſi accorda perfettamente con gli eſpoſti principj; poichè le oſſervazioni me deſime ce lo fanno conoſcere,ed io ſuppon go nell' applicargli, il caſo probabile, e con la ſcorta dei medeſimi ne cerco il grado di probabilità; dal che ne viene che la teo rìa non è applicabile ai caſi ove o neſſuna o quaſi neſſuna probabilità del buon eſito appariſca, per poterne formare la propor zione.. Quando poi cominci il numero in cui non ſia ſperabile un continuodiſcoprimento di una fola faccia della moneta, le oſſervazioni, e non altro, poſſono moſtrarlo; quelle oſſer vazioni io dico, che io medeſimo ho prefe per ſcorta in moltiſſimi caſi appartenenti alla materia dei contratti di azzardo. 122 } E' poi tanto evidente che la propoſizione del Sig. d'Alembert non atterra l'uſo del calcolo delle probabilità, che anzi in qual che caſo ſe ne poſſono tirare delle conſeguen ze, che lo conferinano. Chi gettando un dado intraprende di ſcuo prire per eſempio il 6 non vorrà gettarlo una ſol volta, quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6, arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. Codronchi. (NrcoLA), na cque in Imola il 2o aprile 1751 ed alla patria e al casato accrebbe lu stro e decoro: perchè già rapida-, mente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de' Gesuiti, e con pub blico saggio nelle materie di filo sofia sperimentatosi non ancora compiuti gli anni 16, potè dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali era egli peritissimo, essere ammaestrato. E col magi stero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da pre cetti delibati dalla scuola non fal libile degli antichi esemplari, com formò la scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo: nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovan nardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolse di col tivare la poetica, alla quale senti vasi per tal guisa inclinato, che poco oltre il terzo lustro di età bastò a dettare alcuni componi menti i quali resi pubblici con le stampe trovarono grazia e lode somma ne cultissimi di quel tem pi, e sì pure in Arcadia alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove nel Codronchi con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che lo Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della cro ce di Santo Stefano, e nella Imole se accademia degli Industriosi di cui fu socio si mostrò erudito ed elegante oratore e poeta: d'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ebbe colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spi rito del Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ebbe sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli conferì la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intor no a che compose un trattato qua si corso di lezioni, degno per fer mo di essere fatto di pubblica ra gione: ed a quel principe intitolò il Codronchi una eloquente e dot ta Orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che fu pubblicata il 1779, pel Cam biagi in Firenze, dai torchi del quale uscì nel seguente anno 1785 altro grave e prezioso libro col titolo di Saggio sui contratti e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di filosofo; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del cal colo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelli genza comune, Corse intanto tal fama del sa pere di lui alla corte di Ferdinan. do di Napoli, che con reale decre to del 25 novembre 1787, il no minò membro del supremo consi glio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di Gaetano Filan gieri, cui il Codronchi fu poi sempre stretto con vincoli di re ciproca stima e di amicizia tene rissima. E ben di questo è prova il pa rere dal Filangieri proposto al re intorno all'enfiteusi del così no mato Tavoliere di Puglia che leg gesi negli opuscoli di lui pubbli cati pel Silvestri in Milano il 1818. ove egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega consigliere Codronchi proposto, quando a questo fine per sovrano volere eb be a recarsi in queHa provincia. Del quale importantissimo servi gio ebbe onore da maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del be nemerito consigliere in latina e pigrafe eternarono; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di sopraintendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adoperò a maniera, che sommo vantaggio m'ebbe lo stato per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Seguì il Codronchi la real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi nel 1798: e con essa lei tornò al suo impiego in Napoli nel seguente anno 1799. Salito al trono il re Giuseppe, volse tosto gli sguardi ad esso lui come a spec chio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e gli confe rì la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istitui to: ma la mal ferma salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolse a quel regno ove lasciò fama durabile del suo merito, procacciò alla patria il conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali era de siderio e delizia: e ben l'ebbero eglino zelantissimo della pubblica 283 morale, e civile istruzione dei giovani a quali col più potente dei precetti, l'esempio, era di bel la guida e di stimolo; e per l'im portante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro poteva interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancavano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esqui sita erudizione della quale era for nito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora e strema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì nel giorno 15 novembre 1818, in età di an mi 67: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chia rissimo nel quale si ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lette re, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù.  Whoever has glanced through the pages of  any text-book on Mercantile Law will hardly deny  that Contract is the handmaid if not actually the  child of Trade. Merchants and bankers must have  what soldiers and farmers seldom need, the means  of making and enforcing various agreements with  ease and certainty. Thus, turning to the special  case before us, we should expect to find that when  Rome was in her infancy and when her free  inhabitants busied themselves chiefly with tillage  and with petty warfare, their rules of sale, loan,  suretyship, were few and clumsy. Villages do not  contain lawyers, and even in tdwns hucksters do  not employ them. Poverty of Contract was in fact  a striking feature of the early Roman Law, and can  be readily understood in the light of the rule just  stated. The explanation given by Sir Henry Maine  is doubtless true, but does not seem altogether  adequate. He points out 1 that the Roman house-  hold consisted of many families under the rule of a   1 Ancient Law, p. 312.  B. E. 1     2 INTRODUCTION.   paternal autocrat, so that few freemen had what we  should call legal capacity, and consequently there  arose few occasions for Contract. This may indeed  account for the non-existence of Agency, but not  for that of all other contractual forms. For if the  households had been trading instead of farming  corporations, they must necessarily have been more  richly provided in this respect. The fact that their  commerce was trivial, if it existed at all, alone  accounts completely for the insignificance of Con-  tract in their early Law.   The origin of Contract as a feature of social life  was therefore simultaneous with the birth of Trade  and requires no further explanation. It is with the  origin and history of its individual forms that the  following pages have to deal. As Roman civilization  progresses we find Commerce extending and Contract  growing steadily to be more complex and more  flexible. Before the end of the Roman Republic  the rudimentary modes of agreement which sufficed  for the requirements of a semi-barbarous people  have been almost wholly transformed into the  elaborate system f of Contract preserved for us in  the fragments of the Antonine jurists.     CHAPTER I.   THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   At the most remote period concerning which  statements of reasonable accuracy can be made,  and which for convenience we may call the Regal  Period, we can distinguish three ways of securing  the fulfilment of a promise. The promise could  be enforced either (1) by the person interested,  or (2) by the gods, or (3) by the community. When  however we speak of enforcement, we must not think  of what is now called specific performance, a con-  ception unknown to primitive Law. The only kind  of enforcement then possible was to make punish-  ment the alternative of performance.   I. Self-help, the most obvious method of re-  dress in a society just emerging from barbarism, was  doubtless the most ancient protection to promises,  since we find it to have been not only the mode by  which the anger of the individual was expressed, but  also one of the authorised means employed by the  gods or the community to signify their displeasure.  This rough form of justice fell within the domain of  Law in the sense that the law allowed it, and even   1—2     4 THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   encouraged men to punish the delinquent, whenever  religion or custom had been violated. But as people  grew more civilized and the nation larger, self-help  must have proved a difficult and therefore inade-  quate remedy. Accordingly its scope was by degrees  narrowed, and at last with the introduction of surer  methods it became wholly obsolete.   II. Religious Law, as administered by the  priests, the representatives of the gods, was another  powerful agency for the support of promises. A  violation of Fides, the sacred bond formed between  the parties to an agreement, was an act of impiety  which laid a burden on the conscience of the delin-  quent and may even have entailed religious disabili-  ties. Fides was of the essence of every compact,  but there were certain cases in which its violation  was punished with exceptional severity. If an  agreement had been solemnly made in the presence  of the gods, its breach was punishable as an act  of gross sacrilege.   III. The third agency for the protection of  promises was legal in our sense of the word. It  consisted of penalties imposed upon bad faith by  the laws of the nation, the rules of the gens, or the  by-laws of the guild to which the delinquent  belonged. What the sanction was in each case we  are left to conjecture. It may have been public  disgrace, or exclusion from the guild, or the paying  of a fine. And as some promises might be strength-  ened by an appeal to the gods, so might others by  an invocation of the people as witnesses.   Agreements then might be of three kinds corre-     EARLY PACTA. 5   sponding to the three kinds of sanction. They  might consist of (1) an entirely formless compact,  (2) a solemn appeal to the gods, or (3) a solemn  appeal to the people.   I. A formless compact is called pactum in the  language of the twelve Tables. It was merely a  distinct understanding between parties who trusted  to each other's word, and in the infancy of Law  it must have been the kind of agreement most  generally used in the ordinary business of life.  Such agreements are doubtless the oldest of all,  since it is almost impossible to conceive of a time  when men did not barter acts and promises as freely  as they bartered goods and without the accompani-  ment of any ceremony. Compacts of this sort were  protected by the universal respect for Fides, and  their violation may perhaps have been visited with  penalties by the guild or by the gens. But intensely  religious as the early Romans were, there must have  been cases in which conscience was too weak a  barrier against fraud, and slight penalties were  ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced  by the fear of man, and self-help was the remedy  which naturally suggested itself. In the twelve  Tables pactum appears in a negative shape,  as a compact by performing which retaliation or  a law-suit could be avoided 1 . If this compact was  broken the offended party pursued his remedy.  Similarly where a positive pactum was violated, the  injured person must have had the option of chastising   1 Gell. zx. 1. 14. Auct. ad Her. n. 13. 20.     6 THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   the delinquent. His revenge might take the form  of personal violence, seizure of the other's goods,  or the retention of a pawn already in his possession.  He could choose his own mode of punishment, but if  his adversary proved too strong for him, he doubtless  had to go unavenged ; whereas if the broken agree-  ment belonged to either of the other classes, the  injured party had the whole support of the  priesthood or the community at his back, and  thus was certain of obtaining satisfaction. It is  therefore plain that though formless agreements  contained the germ of Contract, they could not  have produced a true law of Contract, because by  their very nature they lacked binding force. Their  sanction depended on the caprice of individuals,  whereas the essence of Contract is that the breach  of an agreement is punishable in a particular way.  A further element was needed, and this was supplied  by the invocation of higher powers.   II. At what period the feshion was introduced  of confirming promises by an appeal to the gods  it would be idle to guess. Originally, it seems,  the plain meaning of such appeals was alone con-  sidered, and their form was of no importance.  But under the influence of custom or of the priest-  hood, they assumed by degrees a formal character,  and it is thus that we find them in our earliest  authorities.   Since Religion and Law were both at first the  monopoly of the priestly order, and since the religious  forms of promise have their counterpart in the  customs of Greece and other primitive peoples,     PUBLIC AGREEMENTS. 7   whereas the secular forms are peculiarly Roman 1 ,  the religious forms are evidently the older, and  formal contract has therefore had a religious origin.  Fides being a divine thing, the most natural means  of confirming a promise was to place it under divine  protection. This could be accomplished in two  ways, by iusiurandum or by sponsio, each of which  was a solemn declaration placing the promise or  agreement under the guardianship of the gods.  Each of these forms has a curious history, and as  they are the earliest specimens of true Contract,  we may discuss them in the next chapter.   III. Another method, and one peculiar to the  Romans, which naturally suggested itself for the  protection of agreements, was to perform the whole  transaction in view of the people. Publicity ensured  the fairness of the agreement, and placed its ex-  istence beyond dispute. If the transaction was  essentially a public matter, such as the official sale of  public lands, or the giving out of public contracts,  no formality seems ever to have been required, so  that even a formless agreement was in that case  binding. The same validity could be secured for  private contracts by having them publicly witnessed,  and the nexum was but one application of this  principle. In testamentary Law it seems probable  that the public will in comitiis calatis was also  formless, whereas in private the testator could only  give effect to his will by formally saying to his  fellow-citizens " testimonium mihi perhibetote"   Thus the two elements which turned a bare   1 See p. 22.     8 THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   \ agreement into a contract were religion and publicity.  The naked agreements (pacta) need not concern us,  since their validity as contracts never received  complete recognition. But it will be the object of  the following pages to show how agreements grew  into contracts by being invested with a religious or  public dignity, and to trace the subsequent process  by which this outward clothing was slowly cast off.  Formalism was the only means by which Contract  could have risen to an established position, but  when that position was folly attained we shall find  Contract discarding forms and returning to the state  of bare agreement from which it had sprung.     CHAPTER II.   CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Art 1. Ivsivrandvm is derived by some  from Iouisiurandum 1 , which merely indicates that  Jupiter was the god by whom men generally swore.  To make an oath was to call upon some god to  witness the integrity of the swearer, and to punish  him if he swerved from it. This appears from the  wording of the oath in Livy 2 , where Scipio says: "Si  sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime, domum  familiam remque rneam pessimo leto afficias" and  from the oath upon the Iuppiter lapis given by  Polybius and Paulus Diaconus, where a man throws  down a flint and says : " Si sciens /alio, turn me  Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc  lapidem" A promise accompanied by an oath was  simply a unilateral contract under religious sanction.  And it would seem that the oath was in fact used for  purposes of contract. Cicero remarks 8 that the oath  was proved by the language of the XII Tables to  have been in former times the most binding form of  promise ; and since an oath was still morally binding   1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii. 53.   » Off. ni. 31. 111.     10 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.,   in the time of Cicero, though it had then no legal  force, the point of his remark must be that in  earlier times the oath was legally binding also.  From Dionysius we know that the altar of Hercules  (called Ara Maxima) was a place at which solemn  compacts (ovvdfjtcai) were often made 1 , while Plautus  and Cicero inform us that such compacts were  solemnized by grasping the altar and taking an  oath 2 . It would seem probable that the gods were  consulted by the taking of auspices before an  oath was made. Cicero says that even in private  affairs the ancients used to take no step without  asking the advice of the gods 8 ; and we may safely  conjecture that whenever a god was called upon to  witness a solemn promise, he was first enquired of,  so that he might have the option of refusing his  assent by giving unfavourable auspices. The terms  of the oath were known as concepta uerba, at least  in the later Republic, and like the other forms of the  period they were strictly construed 4 . Periuriv/m did  not mean then, as now, false swearing. It meant  the breach of an oath 5 , the commission of any act at  variance with the uerha concepta 9 .   There is some dispute as to what were the exact  consequences of such a breach. Voigt 7 thinks that  it merely entailed excommunication from religious  rites, but Danz 8 is clearly right in maintaining that  its consequences in early times were far more serious ;   1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36. 90.   8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13.   6 i.e. 8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4.  6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. in. 229. 8 Ram. RG. n. § 149.     EFFECTS OF IVSIVRANDVM. 11   they amounted in fact to complete outlawry.  Cicero says that the sacratae leges of the ancients  confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex  was one which declared the transgressor to be  sacer (i.e. a victim devoted) to some particular god 1 ,  and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius 2  and in the XII Tables 8 was the epithet of condem-  nation applied to the undutiful child and the  unrighteous patron. So likewise it seems highly  probable that the breaker of an oath became sacer,  and that his punishment, as Cicero hints 4 , was  usually death. The formula of an oath given by  Polybius 6 is more comprehensive than that given  by Paulus Diaconus 8 , for in it the swearer prays  that, if he should transgress, he may forfeit not  onry the religious but also the civil rights of his  countrymen. This shows that the oath-breaker was  an utter outcast; in fact, as the gods could not  always execute vengeance in person, what they did  was to withdraw their protection from the offender  and leave him tolhe punishment of his fellow-men 7 .  The drawbacks to this method of contract were the  same as those of the old English Law, which made  hanging the penalty for a slight theft ; the penalty  was likely to be out of all proportion to the injury  inflicted by a breach of the promise. So awful  indeed was it, that no promise of an ordinary kind  could well be given in such a dangerous form, and  consequently the oath was not available for the   1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230, s.u. plorare.   8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9. 22. B in. 25.   6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16.     12 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   common affairs of daily life. The use of the oath  therefore disappeared with the rise of other forms of  binding agreement, the severity of whose remedies  was proportionate to the rights which had been  violated; while at the same time the breaking  of an oath came to be considered as a moral, instead  of a legal, offence, and by the end of the Republic  entailed nothing more serious than disgrace (dedecus).  In one instance only did the legal force of the oath  survive. As late as the days of Justinian^ the  services due to patrons by their freedmen were still  promised under oath 1 . But the penalty for the  neglect of those services had changed with the  development of the law. At and before the time of  the XII Tables, the freedman who neglected his  patron, like the patron who injured his freedman 2 ,  no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing  for his life, as we are told by Dionysius 3 . But in  classical times the heavy religious penalty had  disappeared, and the iurisiurandi obligatio was en-  forced by a special praetorian action, the actio  operarum*. By the time of Ulpian the effects of  the iurata operarum promissio seem indeed to have  been identical with those of the operarum stipu-  latio*, though the forms of the two were still quite  distinct.   We may then summarise as follows our knowledge  as to this primitive mode of contract :   The form was a verbal declaration on the part of  the promisor, couched in a solemn and carefully   1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n. 10.   4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10.     1     THE EARLY 8P0N8I0. 13   worded 1 formula (concepta tierba), wherein he called  upon the gods {testari deos)*, to behold his good faith  and to punish him for a breach of it.   The sanction was the withdrawal of divine  protection, so that the delinquent was exposed to  death at the hand of any man who chose to slay  him.   The mode of release, if any, does not appear. In  classical times it was the acceptilatio*, but this Was  clearly anomalous and resulted from the similar  juristic treatment of operae promissae and operae  iuratae.   Art. 2. Sponsio. Though the point is contested  by high authority, yet it scarcely admits of a doubt  that there existed from very early times another  form, known as sponsio, by which agreements could  be made under religious sanction. This method,  as Danz has pointed out, was originally connected  with the preceding one. It was derived from the  stern and solemn compact made under an oath to  the gods. But Danz goes too far when he identifies  the two, and states that sponsio was but another  name for the sworn promise 4 . The stages through  which the sponsio seems to have passed tell a  different story. The word is closely connected with  airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a  pouring out of wine 8 , quite distinct from the con-  vivial \ocfirf or libatio 6 , so that " libation " is not its  proper equivalent. The other derivation given by   1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. 2 Plant. Rud. 5. 2. 52.   * 46 Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz, p. 106.   8 Festus p. 329 s.u. spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. p. 464, note o.     14 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Varro 1 and Verrius 2 from sports, the will, whence  according to Girtanner 8 sponsio must have meant a  declaration of the will, savours somewhat too strongly  of classical etymology.   I. This pouring out of wine, as Leist 4 has  shown, was in the Homeric age a constant accom-  paniment to the conclusion of a sworn compact of  alliance (optcia iriara) between friendly nations.  The sacrificial wine seems originally to have added  force to the oath by symbolising the blood which  would be spilt if the gods were insulted by a breach  of that oath. In this then its original form sponsio  was nothing more than an accessory piece of cere-  monial.   II. The second stage was brought about by the  omission of the oath and by the use of wine-pouring  alone as the principal ceremony in making less  important agreements of a private nature. In the  Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is  customary at betrothals 5 , and comparison shows that  the marriage ceremonies of the Romans, in connec-  tion with which we find sponsio and sponsalia applied  to the betrothal and sponsa to the bride 6 , were very  like those of other Aryan communities 7 . We may  therefore clearly infer that at Rome also there was a  time when the pouring out of wine was a part of the  marriage-contract; and thus our derivation of the  word receives independent confirmation.   III. In the third and last stage sponsio meant   1 L. L. vi. 7. 69. 2 Festus, «. u. spondere. 8 Stip. p. 84.  4 Greco-It. B. G. § 60. 8 Leist, AlUAr. I. Civ. p. 448.   8 Gell. iv. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. 7 Leist, loc. ciu     PECULIAEITIES OF SPONSIO. 15   nothing more than a particular form of promise, and  it is easy to see how this came about. At first the  verbal promise took its name from the ceremony of  wine-pouring which gave to it binding force ; but in  course of time this ceremony was left out as taken  for granted, and then the promise alone, provided  words of style were correctly used, still retained its  old uses and its old name. Sponsio from being a  ceremonial act became a form of words. Such was  the final stage of its development.   The importance attached to the use of the words  spondesne ?, spondeo in preference to all others 1 thus  becomes clear. Spondesne ? spondeo originally meant  " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do so  promise," just as we say, "I give you my oath,"  when we do not dream of actually taking one.   Another peculiarity of sponsio, noticed though  not explained by Gaius 2 , was the fact that it could  be used in one exceptional case to make a binding  agreement between Romans and aliens, namely, at  the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise  at this exception. But if, as above stated, a sacrifice  of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early  formalities of an international compact (op/cia mard),  it was natural that the word spondeo should survive  on such occasions, even after the oath and the wine-  pouring had long since vanished.   Sponsio being then a religious act and subse-  quently a religious formula, its sanctity was doubtless  protected by the pontiffs with suitable penalties.  What these penalties were we cannot hope to know,   1 Gai. in. 93. 2 in. 94.     16 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   though clearly they were the forerunners of the  penal sponsio tertiae partis of the later procedure.  Varro 1 informs us that, besides being used at be-  trothals the sponsio was employed in money (pecu/nia)  transactions. If pecunia includes more than money  we may well suppose that cattle and other forms of  property, which could be designated by number and  not by weight, were capable of being promised in  this manner. Indeed it is by no means unlikely 2  that nexum was at one time the proper form for  a loan of money by weight, while sponsio was the  proper form for a loan of coined money (pecunia  nwmerata). The making of a sponsio for a sum  of money was at all events the distinguishing feature  of the afibio per sponsionem, and though we cannot  now enter upon the disputed history of that action,  its antiquity will hardly be denied.   The account here given of the origin and early  history of the sponsio is so different from the views  taken by many excellent authorities that we must  examine their theories in order to see why they  appear untenable. One great class of commentators  have held that the sponsio is not a primitive institu-  tion, but was introduced at a date subsequent to the  XII Tables. The adherents of this theory are  afraid of admitting the existence, at so early a period,  of a form of contract so convenient and flexible  as the sponsio, and they also attach great weight to  the fact that no mention of sponsio occurs in our  fragments of the XII Tables. While it would  doubtless be an anachronism to ascribe to the early   1 L. L. vi. 7. 70. a Karsten, Stip. p. 42.     J     THEORIES AS TO ORIGIN OF SPONSIO. 17   sponsio the actionability and breadth of scope which  it had in later times, still it may very well have  been sanctioned by religious law, in ways of which  nothing can be known unless the pontifical Com-  mentaries of Papirius 1 should some day be discovered.  As to the silence of the XII Tables on this  subject, we are told by Pomponius that they were  intended to define and reform the law rather than  to serve as a comprehensive code 2 . Therefore they  may well have passed over a subject like sponsio  which was already regulated by the priesthood. Or,  if they did mention it, their provisions on the  subject may have been lost, like the provisions as to  iusiurandum, which' we know of only through a  casual remark of Cicero's 8 .   The early date here attributed to the sponsio  cannot therefore be disproved by any such negative  evidence. Let us see how the case stands with  regard to the question of origin.   (a) The theory best known in England, owing  to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a  simplified form of neocum, in which the ceremonial  had fallen away and the nuncupatio had alone been  left 4 . This explanation is now so utterly obsolete  that it is not worth refuting, especially since Mr  Hunter's exhaustive criticism 5 . One fact which in  itself is utterly fatal to such a theory is that the  nuncupatio was an assertion requiring no reply 6 ,   i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4.   8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p. 326.   5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n. 24.   B. E. 2     18 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   whereas the essential thing about the sponsio was a  question coupled with an answer.   (6) Voigt follows Girtanner in maintaining that  spondere signified originally " to declare one's will,"  and he vaguely ascribes the use of sponsiones in  the making of agreements to an ancient custom  existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees  with the view here expressed that the sponsio was  known prior to the XII Tables, but thinks that  before the XII Tables it was neither a contract  (which is strictly true if by contract we mean an  agreement enforceable by action), nor an act in the  law, and that its use as a contract began in the  fourth century as a result of Latin influence 2 . In  another place 8 he expresses the opinion that its  introduction as a contract was due to legislation, and  most probably to the Lex Silia. The objections to  this view are (1) that the etymology is probably  wrong, and (2) that the inference drawn as to the  original meaning of spondere iuvolves us in serious  difficulties. An expression of the will can be made  by a formless declaration as well as by a formal one.  And if a formless agreement be a sponsio, as it must  be if sponsio means any declaration of the will,  how are we to explain the formal importance  attaching to the use of the particular words " spon-  desne ? spondeo." (3) This view ignores the religious  nature of the sponsio, which I have endeavoured to  establish, and (4) it forgets that sponsio, being part  of the marriage ceremonial, one of the first subjects   1 Rom. RG. i. p. 42. 2 16. p. 43.   8 Ius Nat. §§ 33-4.     THEORIES AS TO ORIGIN OF SPONSIO* 19   to be regulated by the laws of Romulus 1 , is most  probably one of the oldest Roman institutions.  Again (5), as Esmarch has observed 2 , the legislative  origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We  only know that the Lex Silia introduced an improved  procedure for matters which were already actionable,  and had a new formal contract been created by such  a definite act we should almost certainly have been  informed of this by the classical writers.   (c) Danz also derives sponsio from sports, the  will; but he takes spondere to mean sua sponte  iurare, and thinks that the original sponsio was  exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more  than an oath of a particular kind 3 . . His chief argu-  ment for this view is to be found in Paulus Diaconus,  who gives consponsor = coniurator. But why need  we suppose that Paulus meant more than to give a  synonym ? in which case it by no means follows that  spondere = iurare. For such a statement as that we  have absolutely no authority. Moreover, as we saw  above, iusiurandum was a one-sided declaration on  the part of the promisor only. How then could the  sponsio, consisting as it did of question and answer,  have sprung from such a source ? especially since  the iusiurandum, though no longer armed with  a legal sanction, was still used as late as the days of  Plautus alongside of the sponsio and in complete  contrast to it ?   (d) Girtanner, in his reply to the "Sacrale  Schutz" of Danz 4 , maintains that sponsio had nothing   1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. n. 516.   3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif.   2—2     9   20 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   to do with an oath, but was a simple declaration of  the individual will, and that stipulatio had its origin  in the respect paid to Fides. This view however  is even less supported by evidence than that of  Danz 1 . Arguing again from analogy Girtanner  thinks that, as the Roman people regulated its  affairs by expressing its will publicly in the Comitia,  so we may conjecture that individuals could validly  express their will in private affairs, in other words  could make a binding sponsio. But this, as well  as being a wrong analogy, is a misapprehension of a  leading principle of early Law. For, as we have  seen, no agreement resting simply upon the will of  the parties (i.e. pactum) was valid without some  outward stamp being affixed to it, in the shape  of approval expressed by the gods or by the people.  In the language of the more modern law, we may  say that such approval, tacit or explicit, religious or  secular, was the original causa ciuilis which dis-  tinguished contractus from pactiones. Now a popular  vote in the Comitia bore the stamp of public  approval as plainly as did the nexum. But the  sponsio, requiring no witnesses, was clearly not  endorsed by the people ; therefore the endorsement  which it needed in order to become a contractus  iuris cvuilis must have been of a religious nature,  and that such was the case appears plainly if we  admit that sponsio originated in a religious cere-  monial such as I have described.   To recapitulate the view here given, we may  conclude that sponsio was a primordial institution   1 See Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291.     GROWTH OF SPONSIO. 21   of the Roman and Latin peoples, which grew into its  later form through three stages, (a) It was originally  a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of  alliance or of peace made under an oath to the gods.  (b) Next it became a sacrifice used as an appeal to  the gods in compacts not made under oath such as  betrothals. Just as iusiurandum for many purposes  was sufficient without the pouring out of wine, so for  other purposes sponsio came to be sufficient without  the oath, (c) Lastly it became a verbal formula,  expressed in language implying the accompaniment  of a wine-sacrifice, but at the making of which no  sacrifice was ever actually performed. In this final  stage, which continued as late as the days of Justi-  nian,   Its form was a question put by the promisee,  and an answer given by the promisor, each using  the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "  " Spondeo? " Centum dari spondes ? " " Spondeo?  Throughout its history this was a form which Roman  citizens alone could use, in which fact we clearly see  religious exclusiveness and a further proof of religious  origin. Why they used question and answer rather  than plain statement is a minor point the origin  of which no theory has yet accounted for. The  most plausible conjecture seems to be that the  recapitulation by the promisee was intended to  secure the complete understanding by the promisor  of the exact nature of his promise.   Its sanction in the early period of which we  are treating was doubtless* imposed by the priests,  but owing to our almost complete ignorance of the     22 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   pontifical law we cannot tell what that sanction  was.   Having now examined the ways in which an  agreement could be made binding under religious  sanction, let us see how binding agreements could  be made with the approval of the community.  There is reason to believe that this secular class  of contracts is less ancient than the religious class,  because nexum and mancipium were peculiar to the  Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio  are found, as Leist has shown, in other Aryan  civilizations 1 .   Art. 3. nexvm. There is no more disputed sub-  ject in the whole history of Roman Law than the  origin and development of this one contract. Yet the  facts are simple, and though we cannot be sure that  every detail is accurate, we have enough information  to see clearly what the transaction was like as  a whole. We know that it was a negotium per aes  et libram, a weighing of raw copper or other  commodity measured by weight in the presence of  witnesses 2 ; that the commodity so weighed was  a loan 8 ; and that default in the repayment of a loan  thus made exposed the borrower to bondage 4 and  savage punishment at the hands of the lender. We  know also that it existed as a loan before the XII  Tables, for it is mentioned in them as something  quite different from mancipium 6 . To assert, as Bech-  mann does, that since nexum included conveyance as   1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt. pp. 435-443.   2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L. 7. 105.  4 Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, E. R. L. § 22.     THEORIES AS TO ORIGIN OF NEXVM. 23   well as loan " mancipiumque " must therefore be an  interpolation into the text of the XII Tables 1 , is an  arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology  of nexwm, and of mancipium shows that they were  distinct conceptions. Mancipium implies the transfer  of mami8, ownership ; nexum implies the making of  a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent  of obligatio in the later law. It is true that both  nexwm and mancipium required the use of copper  and scales, to measure in one case the price, in the  other the amount of the loan. But this coincidence  by no means proves that the two transactions were  identical. A modern deed is used both for leases and  for conveyances of real property, yet that would be  a strange argument to prove that a lease and a  conveyance were originally the same thing. Here  however we are met by a difficulty. If, as some  hold 8 and as I have tried to prove, we must regard  mancipium as an institution of prehistoric times  distinct from the purely contractual nexwm, how  are we to explain the fact that nexwm is used  by Cicero 8 and by other classical writers 4 as equi-  valent to mancipium, or as a general term signifying  omne quod per aes et libram geritur, whether a loan,  a will, or a conveyance ? Now first we must notice  the fact that neamm had at any rate not always been  synonymous with mancipium, for if it had been so,  there could have been no doubt in the minds of   1 Kauf f p. 130. * Mommsen, Hist. 1. 11. p. 162 n.   * ad Fam. 7. 30 ; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Parad. 5. 1. 35. ; pro  Mwr. 2.   4 Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u.  nexwm ; Manilim in Varro, L. L. 7. 105.     24 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Scaeuola and Varro that a res nexa was the same  thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro  both deny, and we must remember that Mucius  Scaeuola was the Papinian of his day. Manilius 1 on  the other hand, struck perhaps by the likeness in  form of the obsolete nexum to other still existing  negotia per aes et libram, seems to have made nexum  into a generic term for this whole class of trans-  actions. In this he was followed by Gallus Aelius 2 .  The new and wider meaning, given by them to that  which was a technical term at the period of the  XII Tables, apparently became general in literature,  partly for the very reason that nexum no longer had  an actual existence, partly because need liberatio,  the old release of nexum, had been adopted by  custom as the proper form of release in matters  which had nothing to do with the original nexum,  namely in the release of judgment-debts and of  legacies per damnationem*. One peculiarity men-  tioned by Gaius in the release of such legacies  seems altogether fatal to the theory that mandpium  was but a species of the genus nexum. Gaius says  that nexi liberatio could be used only for legacies of  things measured by weight. Such things were the  sole objects of the true nexum, whereas res maricipi  included land and cattle. Therefore if mancipiwm  were only a species of nexum we should certainly  find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,  but this, as Gaius shows, was not the case.   The view that nexum was the parent gestum per   1 Varro, L. L. vu. 105. a Festus, p. 165, s. u. nexum.   3 Gai. iii. 173-5.     NEXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM. 25   aes et libram, and that mancipium was the name  given later to one particular form of nexum, is worth  examining at some length, because it is widely  accepted 1 , and because it fundamentally affects our  opinion concerning the early history of an important  contract. Bechmarm 2 thinks it more reasonable to  suppose that nexum narrowed from a general to a  specific conception. But it is scarcely conceivable  that nexum should have had the vague generic  meaning of quodcumque per aes et libram geritur*  when it was still a living mode of contract, and the  technical meaning of obligatio per aes et libram  when such a contractual form no longer existed.  What seems far more likely is that nexum had a  technical meaning until it ceased to be practised  subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose  meaning was introduced in the later Bepublic, partly  to denote the binding force of any contract 4 , partly  as a convenient expression for any transaction per  aes et libram\ Even in Cicero we find the word  nexum used chiefly with a view to elegance of style 8  in places where mandpatio would have been a  clumsy word and where 7 there could be no doubt as  to the real meaning. But when Cicero is writing  history, he uses nexum in its old technical sense and  actually tells us that it had become obsolete 8 .   1 See Bechmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22.   2 .16. p. 181. • Varro, I. c. — Festus, *. u. nexum.   4 Cf. "nexu uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7.   5 Cic. de Or. in. 40. 159.   6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.   7 As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35.   8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. mi. 28. 1.     26 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Rejecting then as untenable the notion that  nexum denoted a variety of transactions, let us  see how it originated. The most obvious way of  lending corn or copper or any other ponderable  commodity, was to weigh it out to the borrower,  who would naturally at the same time specify by  word of mouth the terms on which he accepted  the loan. In order to make the transaction binding,  an obvious precaution would be to call in witnesses,  or if the transaction took place, as it most likely  would, in the market-place, the mere publicity of the  loan would be enough. Thus it was, we may  believe, that a nexurn was originally made. It was  a formless agreement necessarily accompanied by  the act of weighing and made under public super-  vision. It dealt only with commodities which could  be measured with the scales and weights, and did  not recognize the distinction between res mancipi  and res nee mancipi, — a strong argument that  nescum and mandpium were, as above said, totally  distinct affairs. Its sanction lay in the acts of  violence which the creditor might see fit to commit  against the debtor, if payment was not performed  according to the terms of his agreement. Personal  violence was regulated by the XII Tables, in the  rules of manus iniectio, but before that time it is safe  to conjecture that any form of retaliation against the  person or property of the debtor was freely allowed.   The fixing of the number of witnesses at five 1 ,  which we find also in rnancipium, . is the only  modification of nexum that we know of prior to   1 Gai. hi. 174.     . FUNCTION OF NEXAL WITNESSES. 27   the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change  was one of the reforms of Seruius Tullius, and that  the five witnesses, by representing the five classes of  the Servian ceruma, personified the whole people.  This is a mere conjecture, but a very plausible one.  For we are told by Dionysius 8 that Seruius made  fifty enactments on the subject of Contract and  Crime, and in another passage of the same author 8 ,  we find an analogous case of a law which forbade the  exposure of a child except with the approval of five  witnesses. But here a question has been raised as to  what the witnesses did. The correct answer, I  believe, is that given by Bechmann 4 , who maintains  that the witnesses approved the transaction as a  whole, and vouched for its being properly and fairly  performed. Huschke, on the other hand, claims that  the function of the witnesses was to superintend the  weighing of the copper, and that before the intro-  duction of coined money some such public supervision  was necessary in order to convert the raw copper  into a lawful medium of exchange 5 . This view  is part of Huschke's theory, that neacum had two  marked peculiarities: (1) it was a legal act per-  formed under public authority, and (2) it was the  recognised mode of measuring out copper money by  weight.   The first part of Huschke's theory may be  accepted without reserve, but the second part seems  quite untenable. We have no evidence to show  that nexum was confined to loans of money or of   1 Akt, i. 22 ff. a iv. 13. » ii. 15.   4 Kauf, i. p. 90. 8 Nexum, p. 16 ff.     28 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   copper. Indeed we gather from a passage of Cicero  that far, corn, may have been the earliest object of  nexum 1 , while Gaius states that anything measurable  by weight could be dealt with by neari solvtio*. No  inference in favour of Huschke's theory can be  drawn from the name negotium per cms et libram,  for this phrase obviously dates from the more recent  times when the ceremony had only a formal signifi-  cance, and when the aes (ravduscvlum) was merely  struck against the scales. If then we reject the  second part of Huschke's theory, and admit, as  we certainly should, that nexum could deal with any  ponderable commodity, it is evident that his whole  view as to the function of the witnesses must  collapse also. The very notion of turning copper  from merchandise into legal tender is far too subtle  to have ever occurred to the minds of the early  Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the  original object of the State in making coin was  not to create an authorised medium of exchange,  but simply to warrant the weight and fineness of  the medium most generally used. The view of  Buschke seems therefore a complete anachronism.  There is also another interpretation of neawm  radically different from the one here advocated, and  formerly given by some authorities 4 , but which  has few if any supporters among modern jurists.  This , view was founded upon a loosely expressed  remark of Varro's in which nexus is defined as   1 Cic. de Leg. Agr. n. 30. 83. 2 in. 175. 8 Kauf, i. p. 87.  4 See Sell, Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in  Danz, Rom. RG. n. 25.     NEXVM A LOAN BY WEIGHT. 29   a freeman who gives himself into slavery for a debt  which he owes 1 . The inference drawn from this  remark was that the debtor's body, not the creditor's  money, was the object of nexwm, and that a debtor  who sold himself by mancipium as a pledge for the  repayment of a loan was said to make a nexum' 2 .  Such a theory does not however harmonize with the  facts. The evidence is entirely opposed to it, for  Varro's statement, as will be seen later on, admits of  quite another meaning. Neither nexum nor man-  cipium is ever found practised by a man upon  his own person. Nor could nexum have applied to a  debtors person, for the idea of treating a debtor like  a res mancipi or like a thing quod pondere numero  constat, is absurd. Again, if nexum = mancipium, the  conveyance of the debtors body as a pledge must  have taken effect as soon as the money was lent,  therefore (1) by thus becoming nexus he must have  been in mancipio long before a default could occur,  which is too strange to be believed, and (2) being in  mancipio he must have been capite deminutus*, which  Quintilian expressly states that no nexal debtor ever  was 4 . Clearly then mancipium was under no cir-  cumstances a factor in nexum.   Thus it would seem that the theory which  regards nexum as a loan of raw copper or other goods  measurable by weight, is the one beset with fewest  difficulties. Such goods correspond pretty nearly  to what in the later law were called res fungibiles.   1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52.   8 nexum inire, Liu. vn. 19. 6.   3 Paul. Diao. p. 70, *. u. deminutus. 4 Decl. 311.     30 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   The borrower was not required to return the very  same thing, but an equal quantity of the same kind  of thing. And this explains why neanim, the first  genuine contract of the Roman Law, should have  received such ample protection. A tool or a beast of  burden could be lent with but little risk, for either  could be easily identified ; but the loan of corn or of  metal would have been attended with very great  risk, had not the law been careful to ensure the  publicity of every such transaction. lusiurandum  or sponsio might no doubt have been used for  making loans, but they both lacked . the great  advantage of accurate measurement, which neanim  owed to its public character. It was the presence of  witnesses which raised neanim from a formless loan  into a contract of loan.   This general sketch of the original neanim is  all that can be given with certainty. The details  of the picture cannot be filled in, unless we draw  upon our imagination. We do not know what verbal  agreement passed between the borrower and the  lender, though it is fairly certain that payment  of interest on the loan might be made a part of the  contract. We cannot even be quite sure whether the  scale-holder (libripens) was an official, as some have  suggested, or a mere assistant 1 .   Our description of the contract may then be  briefly recapitulated as follows:   The form consisted of the weighing out and  delivery to the borrower of goods measurable by  weight, in the presence of witnesses, (five in number,   1 See page 52.     EARLY FORM OF NEXVM. 31   probably since the time of Seruius Tullius), whose  attendance ensured the proper performance of the  ceremony. The ownership of the particular goods  passed to the borrower, who was merely bound to  return an equal quantity of the same kind of goods,  but the terms of each contract were approximately  fixed by a verbal agreement uttered at the time.   The sanction consisted of the violent measures  which the creditor might choose to take against a  defaulting debtor. Before the XII Tables there  seems to have been no limit to the creditor's power  of punishment. Any violence against the debtor  was approved by custom and justified by the noto-  riety of the transaction, so that self-help was more  easily exercised and probably more severe in the case  of nexum than in that of any other agreement.   The release (nexi solutio) was a ceremony pre-  cisely similar to that of the nexum itself, the amount  of the loan being weighed and delivered to the lender,  in presence of witnesses 1 .   Art. 4. We have now examined three methods  by which a binding promise could be made in the  earliest period of the Roman Law. The next  question which confronts us is whether there existed  at that time any other method. The other forms of  contract, besides those already described, which are  found existing at the period of the XII Tables, were  fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio.  Did any of these have their origin before this time ?  Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we shall  see, owed its existence to an important provision   1 Gai. in. 174.     \.t     32 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   of that code. As to the origin of uadirnonium,  we cannot be certain, but judging from a passage  in Gellius 1 we are almost forced to the conclusion  that uadimonium also was a creation of the XII  Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V  asses et taliones...omnisque ilia XII Tabhlarum  antiquitas." We know that twenty-five asses was the  fine imposed by the XII Tables for cutting down  another man's tree, therefore it would seem from the  context that uades had also been introduced by that  code. The point cannot be settled, but since the  XII Tables were at any rate the first enactments  on the subject of which anything is known, we may  discuss uadimonium in treating of the next period.  The only contract of which the remote antiquity is  beyond dispute is the dotis dictio.   Art. 5. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us  that in the earliest times a dowry was given with  daughters on their marriage, and that if the father  could not afford this expense his clients were bound  to contribute. Hence it is clear not only that dos  existed from very early times, but that custom even  in remote antiquity had fenced it about with strict  rules. From Ulpian 8 we know that dos could be  bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or  dotis datio. The promissio was a promise by stipu-  lation, and the datio was the transfer by mancipation  or tradition of the property constituting the dowry ;  so that these two are easy to understand. But dotis  dictio is an obscure subject. It is difficult to know  whence it acquired its binding force as a contract,   1 xvi. 10. 8. 2 ii. 10. 8 Reg. vi. 1.     THEORIES A8 TO D0TI8 DICTIO. 33   since in form it was unlike all other contracts  with which we are acquainted. Its antiquity is  evidenced not only by this peculiarity of form, but  9,lso by a passage in the Theodosian Code which  speaks of dotis dictio as conforming with the ancient  law 1 . An illustration occurs in Terence 2 , where the  father says, "Dos, Pamphile, est decern talenta"  and Pamphilus, the future son-in-law, replies,  "Accipio"; but we need not conclude that the  transaction was always formal, for the above Code 8 ,  in permitting the use of any form, seems rather  to be restating the old law than making a new  enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4  and by Gaius 5 , was that dotis dictio could be validly  used only by the bride, by her father or cognates on  the fathers side, or by a debtor of the bride acting  with her authority. Dictio is a significant word, for  Ulpian 6 distinguishes between dictum and promis-  sum, the former, he says, being a mere statement,  the latter a binding promise. This distinction should  doubtless be applied in the present case, since dotis  dictio and dotis promissio were clearly different.  The following theories seem to be erroneous :  (a) Von Meykow 7 holds that dictio was adopted  as a form of promise instead of sponsio for this family  affair of dos, in order not to hurt the feelings of the  bride and of her kinsmen by appearing to question  their bona fides. That theory would be a plausible  explanation, if dictio could ever have meant a   1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. 3 3. 13. 4.   4 Reg. vi. 2. 5 Epit. n. 9. 3. 6 21 Dig. 1. 19.   7 Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.   B. E. 3     34 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   promise, but from what Ulpian says, this can hardly  be admitted.   (6) Bechmann 1 , again, connects dotis dictio with  the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter.  The dos, he thinks, was promised by a sponsio made  at the betrothal, so that the peculiar form known as  dotis dictio was originally nothing more than the  specification of a dowry already promised. The dotis  dictio would therefore have been at first a mere  pactum adiectum, which was made actionable in  later times, while still preserving its ancient form.  The objection to this theory is tKat it lacks evidence :  indeed the only passage (that of Terence) in which  dotis dictio is presented to us with a context goes to  show that this contract was in no way connected  with the act of betrothal.   (c) Another explanation is given by Czylharz 2 ,  ie. that dotis dictio was a formal contract. His  view is based on the scholia attached to the  passage of Terence, which say of the bridegroom's  answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non esset."  Czylharz therefore looks upon the contract as an  inverted stipulation. The offer of a promise was  made by the promisor, and when accepted by the  promisee became a contract. Though such a process  is quite in harmony with modern notions of Contract,  it would have been a complete anomaly at Rome.  And we cannot believe that, if acceptance by the  promisee had been a necessary part of the dotis  dictio, we should not have been so informed by  Gaius, when he has been so careful to impress   1 Rom. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. a Z.f. R. G. vn. 243.     THEORY OF DANZ. 35   upon us that the dotis dictio could be made nulla  interrogatione praecedente. Thus the view of  Czylharz besides being in itself improbable is  almost entirely unsupported by evidence. Even the  scholiast on Terence need not necessarily mean that  " accipio " was an indispensable part of the trans-  action. He may merely have meant that the bride-  groom at this juncture could decline the proffered  dos if he chose, and this interpretation is borne out  by Iulianus 1 and Marcellus 8 , who give formulae  of dotis dictio without any words of acceptance.   A satisfactory solution of the problem seems  to have been found by Danz 8 . He looks upon  dos as having been due from the father or male  ascendants of the bride as an officium pietatis 4 ,  and quotes passages from the classical writers in  which they speak of refusing to dower a sister  or a daughter as a most shameful thing 5 . The  source of the obligation lay in this relationship  to the bride, not in any binding effect of the dotis  dictio itself. But in order that the obligation might  be actionable its amount had to be fixed, and this  was just what the dictio accomplished. It was an  acknowledgment of the debt which custom had  decreed that the bride's family must pay to the  bridegroom. In this respect the dos was precisely  analogous to the debt of service which a freedman  owed as an offidum to his patron, and which he  acknowledged by the iurata operarumpromissio. The  dos and the operae were both officio, pietatis, but   1 23 Dig. 3. 44. 2 23 Dig. 3. 59. 3 Rom. RO. I. 163.   4 See 23 Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin. 3. 2. 63 ; Oic. Quint. 31. 98.   3—2     36 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   it became customary to specify their nature and  their quantity. In the one case this was done by an  oath, in the other by a simple declaration, and in  both cases the law gave an action to protect these  anomalous forms of agreement. What kind of  action could be brought on a dotis dictio is not  known. Voigt 1 states it to have been an actio  dictae dotis, for which he even gives the formula,  but formula and action are alike purely conjectural.  We can only infer that the dotis dictio was action-  able since it constituted a valid contract. How or  when this came to pass we cannot tell.   A further advantage of Danz' theory, and one not  mentioned by him, is that it explains the capacity  of the three classes of persons by whom alone dotis  dictio could be performed. (1) The father and male  ascendants of the bride were bound to provide a dos  under penalty of ignominia 2 ; (2) the bride, if sui  iuris, was bound to contribute to the support of her  husband's household for exactly the same reason 3 ;  and (3) a debtor of the bride was bound to carry  out her orders with respect to her assets in his posses-  sion, and supposing her whole fortune to have con-  sisted of a debt due to her, it is evident that  a dotis dictio by the debtor was the only way in  which this fortune could be settled as a dos at all.  Thus the hypothesis that the dos was a debt  morally due from the father of the bride, or from  the bride herself, whenever a marriage took place,  completely explains the curious limitation with   1 XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 8 Cic. Top. 4. 23.     FORM OF D0TI8 DICTIO. 37   regard to the parties who could perform dotis  dictio. The nature of the transaction may then be  summarized as follows :   Its form was an oral declaration on the part  of (1) the bride's father or male cognates, (2) of the  bride herself, or (3) of a debtor of the bride, setting  forth the nature and amount of the property which  he or she meant to bestow as dowry, and spoken  in the presence of the bridegroom. Land as well as  moveables could be settled in this manner 1 . No  particular formula was necessary. The bridegroom  might, if he liked, express himself satisfied with the  dos so specified ; but his acceptance does not seem  to have been an essential feature of the proceeding.  Most probably he did not have to speak at all.   Its sanction does not appear, though we may be  sure that there was some action to compel perform-  ance of the promise. This action, whatever it may  have been, could of course be brought by the bride's  husband against the maker of the dotis dictio.  Perhaps in the earliest times the sanction was a  purely religious one.   Art. 6. Now that we have seen the various  ways in which a binding contract could be made in  the earliest period of Roman history, we may con-  sider briefly the general characteristics of that primi-  tive contractual system. The first striking point  is that all the contracts hitherto mentioned are  unilateral: the promisor alone was bound, and he  was not entitled, in virtue of the contract, to  any counterperformance on the part of the promisee.   1 Gai. Ep. 3. 9.     38 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   The second point is that the consent of the parties  was not sufficient to bind them. Over and above  that consent the agreement between them was  required to bear the stamp of popular or divine  approval. Even in dotis dictio, as we have just seen,  a simple declaration uttered by the promisor was  invested with the force of a contract merely because  the substance of that declaration was a transfer of  property approved and required by public opinion.  Thirdly we notice that the intention of the con-  tracting parties was verbally expressed, but that the  language employed was not originally of any impor-  tance (except in the one case of sponsio), provided the  intention was clearly conveyed. We must therefore  modify the statement so commonly made that the  earliest known contracts were couched in a particular  form of words. For how did each of these particular  forms originate and acquire the shape in which  we afterwards find it ? By having long been used  to express agreements which were binding though  their language was informal, and by having thus  gradually obtained a technical significance. Conse-  quently the formal stage was not the earliest stage  of Contract. The most primitive contract of all was  not an agreement clothed with a form, but an agree-  ment clothed with the approval of Church or  State.Nicola Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto, concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688585512/in/photolist-2mKxvEQ-2mKF3Qt

 

Grie e Colazza – dell’iniziazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia Colazza apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente».  Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur.  A strong anthroposophical influence came from Giovanni Colazza and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group, which adopted the name UR, were Guiliano Kremmerz (1861-1939 ), founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico Giovanni Colazza, e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida.  L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi.   Si dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la gerarchia.  Tale stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.  Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico. ESERCIZIO DELLA PIANTA CHE APPASSISCE. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. PREPARAZIONE E ILLUMINAZIONE. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle Forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in Silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico).  È un primo passo verso il riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice,  fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa.  In un certo senso, è come se dalla pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGLI ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo.  In un lontano passato, i fiori di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento;  ogni gesto e atto deve essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la giustezza delle proprie aspirazioni;  imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita;  la giornaliera meditazione per interrogarsi sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo interiore.  A volte non è molto altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza. Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’ E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità: anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione.  Bisogna suscitare un rispettoso silenzio riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni.  Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle “forme”.  Come gli altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera condotta di Vita.  Occorre considerare la totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa.  E’ relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego.  Si ha la percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo astrale.  Il praticare esercizi in modo non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale). L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2 petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali.  Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva, passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire.  Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui.  Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura.  Il coraggio di affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai” a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura.  L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur.  “ Giardino di Maturità , chiamano certi  antichi saggi il luogo, in cui pone piede  l'uomo allorchè gli divengon palesi gli ar-  ‘ cani del mondo. Secondo quei saggi in quel  giardino non ci sarebbe fiore, che non re-  casse il suo frutto, non uovo, che non por-  tasse .a maturità la vita in esso germinante.  Ma come oscure e- pericolose vengono al  tempo stesso descritte le vie che menano  alla «= Porta Stretta », la quale appunto chiu-  de quel giardino. Si assicura, però, che quel-  l'oscurità diviene più chiara del sole e che  quei pericoli non hanno potere contro le  forze di cui ferve l'anima di colui, al quale  queste vie sono mostrate con provvida mano  da un “ mistico ,, da un “ /niziato ,.   Tutto ciò come puerile concezione di un' e-  poca, in cui nulla si sapeva delle scienze  dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/lu-  minato, che crede di saper distinguere fra  i vaneggiamenti di una fantasia  brancolante  e le ponderate vedute d'un intelletto “ scier-    “i    So ca | oggi    tificamente disciplinato ,. E chi, ciò nono-  stante, parla oggi di coteste concezioni, può  Al star certo di vedere sul volto di molti dei  È , suoi contemporanei un sorriso, se. non di  di : ll sprezzo, per lo meno di compassione.   Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono  I alcuni che, come quegli antichi saggi, par-  MAS lano del « rondo dell'anima , e della “ pa-  “N Cuina 7a dello spirito ». Costoro vengono riputati  | fe AMA ì È 3  | persone che parlano di un mondo immagi-  fa nario, figurato loro soltanto dalla propria  | » Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che essi,  LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto  i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e  i, now austera logica, vadano brancolando come eb-  branco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno la  li sicurezza, perchè non si attengono a ciò  È che esiste “ positivamente ,,.   Ora, che cosa dicono questi edbri stessi  i a codesti contradittori ? Quando si sentono  f arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito  il diritto di parlare di sè, allora dalle loro   È labbra si odono uscire le parole seguenti :   È “ Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che  dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo  che molti di voi sono persone da bene, che  senza riserva si pongono al servizio del  Vero e del Buono; ma sappiamo altresì che          Bee a), jr er =>    voi non ci potete capire, fin tanto che pen-  sate come appunto pensate. Sulle cose, delle  quali noi abbiamo da ragionare, potremo di-  iscorrere con voî, soltanto quando vi sarete  presi voi stessi la pena di apprendere il lin-  guaggio nostro. Dopo questa nostra dichia-  razione molti di voi, certo, non vorranno  più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno  di aver riconosciuto che al farneticamento  della nostra fantasia si accoppia in noi an-  che un immedicabile orgoglio. Noi però  comprendiamo voi anche in siffatta affer-  mazione e sappiamo al tempo stesso che  dobbiamo essere non già superbi, ma mo-  desti. Per incitarvi a tentare di entrare nel  nostro ordine di idee non ci resta che una  cosa da dire: Credeteci, noi non ricono-  sciamo un vero diritto di parlare delle no-  stre conoscenze se non a colui, il quale sia  capace di sentire con voi ciò che vi co-  stringe alle vostre asserzioni, e che cono-  sca a fondo la forza, la potenza convincente  e la portata della vostra scienza. Colui che  non reca in sè la sicura consapevolezza di  poter pensare ponderatamente, scientifica  mente, come l’ astronomo o il botanico 0  lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di    vita spirituale, di conoscenze mistiche do-  9    e          — = e    Re    vrebbe contentarsi di apprendere, e non  già volere insegnare. Ma non ci si frain-    ‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti,    non di studiosi, Studioso di misticismo può    : divenire chiunque, giacchè nell’ anima di    ogni persona si trovano le facoltà, i poteri  presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mi-  stico dovrebbe parlare in modo compren-  sibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai  quali, secondo il grado del loro intendimento,  egli non potrebbe dire un centesimo della  verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro  oggi riconoscono questa millesima parte ;  domani riconosceranno la centesima. Tutti  possono essere “ sfudiosi ,, ma “ insegnante ,,  non dovrebbe voler diventare nessuno, che  sia incapace di assoggettarsi alla disciplina  del più austero intelletto e della scienza' più  severa. Sono veri insegnanti di misticismo  soltanto coloro che sono stati precedente-  mente rigidi cultori della scienza, e che sanno  perciò che cosa viga nella scienza. Anche  il vero mistico ritiene visionario, inebriato,  chiunque non sia capace di deporre in qua-  lunque momento il solenne paludamento del  mistico per indossare la modesta tunica del  fisico, del chimico, del botanico “e dello  zoologo »,       sitori ;' con la massima modestia li assicura  ‘che intende il loro linguaggio e che non si  arrogherebbe il diritto di essere un mistico,  se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Al-  lora, però, egli può anche aggiungere di sa-  f |pere, e di saperlo come si sanno i fatti della  Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi-  ® \tori imparassero il suo linguaggio, cessereb-  bero di essere suoi oppositori. Egli sa que-   sto come chiunque, il quale abbia studiato  chimica, sa che, date certe condizioni, dal-  l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l' acqua.  Che Platone non volesse ammettere ai   gradi superiori della sapienza nessuno che   > mon conoscesse la geometria, non significa  «già che egli facesse suoi alunni soltanto i    li    Y    T Così parla il vero mistico ai suoi oppo-  A    9  U  L    _ dotti in geometria, ma significa che quei    suoi alunni dovevano essersi educati alla se-  vera, rigida, ed esatta investigazione, prima  che venissero loro schiusi gli arcani della  vita spirituale. Una tale esigenza ci appari  sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo che    nelle regioni trascendentali viene meno l'ele- |    mento di fatto, a cui si saggia e corregge  ad ogni piè sospinto l' investigazione ordi-  naria del mondo. Se il botanico si forma  “concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu-    n    conci    Da  (UR IZA    — 20 —    minano circa il suo errore. Tra lui e il mi-  stico corre il rapporto stesso che intercede  fra chi cammina su strada piana e chi ascende  una montagna: il primo può cadere a terra,  ma solo in casi eccezionali potrà causarsi  la morte ; all’ altro, invece, questo pericolo  sta sempre dinanzi, E certamente nessuno  che non abbia imparato a camminare può  ascendere una montagna. Poichè ; fatti spi-  rituali non correggono i concetti allo stesso  modo che li correggono i fatti del mondo  esteriore, un pensare rigorosissimo e degno  della massima attendibilità è un ovvio pre-  supposto per l'investigatore mistico.  Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti,  si riconosce che cosa intendevano dire que-  gli antichi saggi, allorchè parlavano dei pe-  ricoli che minacciano chi voglia penetrare  negli arcani del mondo. Se alcuno si ap-  pressa a questi arcani con mente indiscipli-  nata, essi determinano nella sua anima de-  plorevoli disordini. Divengono pericolosi come  una bomba di dinamite nelle mani di un  fanciullo. Perciò da ogni investigatore mi-  stico si esige rigorosamente che la norma-  lità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua  vita psichica, abbia saggiato le proprie forze          SE E    attorno a problemi gravi e spinosi, prima  che egli si appressi ai compiti più elevati.  Valga ciò come accenno a quel che il mi-  stico intenda dire, quando parla dei primi  gradi della Iniziazione nelle verità superiori.    Pn _*  * *    Moltissimi, i quali reputano di starsi SUI Mrfica    | più alti gradi della cultura moderna, stimano  che sano pensare e misticismo siano due  termini incolta   sano che una illuminata educazione scienti-  fica debba estirpare dall'individuo qualunque |  tendenza mistica. E costoro trovano in par-                b    cora di tali tendenze chi conosca gli impor»  tantissimi risultati della moderna scienza na-  | turale. Se avesse ragione chi la pensa così,  | si dovrebbe allora, certo, concedere che la  Mistica non abbia nel nostro tempo se non  | piccola probabilità di trovare accesso alle  anime dei nostri contemporanei; giacchè nes-  «suno, il quale abbia intendimento dei biso-  gni spirituali di questa nostra età, può du-  bitare che siano pienamente giustificati i  trionfi della scienza naturale già conseguiti.  e ancora da conseguire in avvenire. Biso-    vi MER  Na    bilmefite antitetici. Essi pen- K pate    ticolar modo incomprensibile che abbia an)  "fi         LI    Peli              so  Naturalistici  itreprimibili do  u + Con una certa tr  ‘ zione cotesti insoddisfatti  <j O  Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui le”  oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino  Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore ha bj.  Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale! Si  In contatto con e Sa costoro sentono |  Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo |  eve incessanternente ce  vino! D’    rcare: l’ali  Ta parte, Però, essi sj   Petere ;l ito   diate a    monito: « Bj   ‘formarvi, mediante Ja cie  rale, un pen |  non vj    chiappanuvole vai   monito, l’anima loro sj inaridisce,  econdita , . tò, in fondo all’ an   ogni individuo Verità, e   i che grande maestra dell’uomo è la   ]    mande                    AIR    Chi potrebbe non dare, per intimo consenso,  ragione al Goethe, allorchè dice che dagli  errori e dalle disarmonie degli uomini egli  si ritira sempre con rinnovato contento, ri-  volgendosi alle eterne necessità della natu-  ra? E chi potrebbe leggere senza incondi-  zionato consenso quelle parole, con le quali    il grande poeta descrive i sentimenti che lo    assalirono in una solitaria meditazione sulle  ferree leggi, secondo le quali la natura forma    le montagne ?    “ Seduto su di un’ alta e nuda vetta, e  spaziando con l'occhio su di una vasta sot-  tostante regione, io posso dirmi: “ qui tu  poggi immediatamente su di un suolo, che    ‘arriva fin giù ai più profondi strati della    terra. In_questo istante, in cui le eterne forze  di attrazione e di movimento della terra    quasi direttamente agiscono su di me, in    | cui più presso a me aliano e mi avvolgono    gli influssi del cielo, vengo come sospinto  a drizzare l'animo mio a studi più alti sulla  natura.... Così, dico fra me e me, mentre  da questa cima nuda volgo lo sguardo in  giù, così sentesi solitario chi voglia schiu-  dere l'anima propria unicamente ai più pri-  mordiali, più antichi e più profondi senti-    — menti del vero. Sì, egli può dire a se stesso:       SONG). pe    Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, im-  mediatamente eretto sul punto più basso  della creazione, offro sacrifizio all'Essere di  tutti gli esseri. »   E' pur naturale che questa disposizione  d'animo, per cui si resta reverenti dinanzi  alla grande istruttrice Natura, si trasferisca  sulla scienza ‘che ne discorre.   Non deve esistere antinomia fra i senti-  menti che pervadono l'anima, quando essa  si approssima alle “ austere e profondissime  verità primordiali , circa la vita spirituale,  e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si  posa sull'attività costruttrice della natura.   Manca forse intelletto al mistico per co-  testa armonia della natura coi sentimenti più  sacri all'anima umana? Tutt'altro; giacchè  al di sopra dell’altare, sul quale il vero mi-  stico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca,  in cui può spingersi l'indagine umana, stette  scritto a lettere di fuoco fiammante, come  legge. suprema: “ Natura è la grande guida  al divino, e la conscia ricerca umana delle  fonti del Vero deve seguire le orme della  sua recondita, volontà |.   Se i Mistici seguono questa loro norma  suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussi-  stere fra le vie loro e quelle su cui cammi-       — 9 I       nano gli investigatori della Natura. E tanto   meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in   un'epoca, che tanto deve alla scienza na-  turale.   Per intendere bene quest’ ordine di de  occorre domandarci: “ In che, dune ue  consistere l’ accordo fra la Scienza*fi Lie  e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,   | aversi un'antitesi? ,,   Ebbene, l'accordo non può venir cercato |  se non nel fatto che le rappresentazioni che   ci facciamo intorno alla entità dell’ uomo  ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in-  | torno agli altri esseri della natura; nel rav-  | visare, quindi, nel ’opera della natura e nella  — vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di  “ ordine retto da leggi ,. L  Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si vo-  lesse vedere nell’uomo un essere di specie  "completamente diversa dalle creature natu-  rali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal  senso si sbigottirono fortemente quando, più  di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley,  informandosi allo spirito stesso della scienza  — naturale moderna, sulla base della somi-  pigliante struttura anatomica, concluse la stretta  parentela fra l’uomo e gli animali supe-  ori con queste parole: “ Possiamo pren-               sli          10h =S    dere in esame un sistema di organi qual-  siasi; l'esame comparativo di essi nella serie  delle scimie ci conduce sempre a questo me- È  desimo risultato: che le diversità anatomi-  che, per le quali l’uomo è distinto dal go-  rilla e dallo scimpanzè, non sono tanto grandi  quanto quelle che separano il gorilla dalle  altre scimie inferiori ,,.   Una. tale asserzione può, però, sbigottire  solamente quando la si riferisca in modo  errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne può.  facilmente rampollare il pensiero: “ Ma come  è vicino, dunque, l’uomo alle bestie | , Que-  sta stretta affinità non suscita però nel mi-  stico nessuna preoccupazione , giacchè per  lui ne balza subito anche l' altro pensiero: |  “A quali fini superiori, però, possono ser-  \vire gli organi che ritrovansi nelle bestie, —  allorchè sono trasformati in organi umani! »  Il mistico sa che l'occulta volontà della na-  tura muta la percezione animale in perce-  zione umana cofì lo sviluppare in altra forma  gli-organi animali. Egli segue le sicure orme  della natura e ne continua l'operato. Per lui  i l'opera della natura non è punto terminata  con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene  un fido discepolo della natura per il fatto  appunto di portarne l’opera a maggiore al-    1       toi    tezza. La natura lo ha portato fino al pen-  sare e al sentire umano; egli, però, non  prende questo pensare e questo sentire come  qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende  capaci di attività superiori. Avviene per opera  della sua volontà ciò, che nell'ambiente na-  turale esteriore avviene indipendentemente  da essa. Gli occhi, come sono ora in lui,  attestano che gli organi visivi sono capaci  di ben altro ufficio di quello che compiono «® ©»  nelle scimie. Così l’ occhio può venir tra-  stormato. Le facoltà psichiche del mistico  evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo  non evoluto, nello stesso rapporto in cui  sono gli occhi umani rispetto a quelli delle  scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende  tende l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel  misura, in cui l’animale può intendere il, mote  pensare dell’uomo. E come alla creatura non  pensante si schiuderebbe tutto un nuovo  mondo, se potesse svolgere in sè la facoltà   del pensare, così il mistico, dopo lo svi-  luppo delle sue facoltà superiori acquista la  visione di un altro mondo. In questo “ altro  mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re  »Yiene Mistico rinnega la natura. Ègli non È   a progredire ciò che essa ha prodotto senza   di lui con la propria volontà occulta. Per-    di mati Vella lastare       Mor pTa ene dPR ULOPY CELL.       PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest NL  Los ; mid : ni gd ed deli è y  villa mM ni collo i fiat 1a CA  di (ANI it pece  iò egli si pone in contrasto con la natura,    «giacchè questa trasmuta continuamente le   proprie forme: dal vecchio essa crea eterna-   mente il nuovo. Ora, chi, conformemente   %@. alla moderna scienza naturale, crede a que-   sta trasmutazione, crede a questa evoluzione   n) e, ciò nonostante, non vuole trasmutare se   esso , costui riconosce, sì, la natura, ma   A; nella sua propria vita si pone in contradi-   &l-zione con essa. Non si deve soltanto rice-   > noscere l'evoluzione, si seno ivato Non si   limitino, dunque, le facoltà della nostra vita   ;, col tener conto esclusivamente della nostra   ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu-   cazione mistica diviene un fido alunno della   natura, si schiude il senso per la superiore  evoluzione.   A proposito di questi cenni sulla Mistica   e sulla /riziazione molti diranno: « Ma che   ci giova questo discorrere di facoltà a noi   sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre-   deremo ! ,. Nessuno, però, può dare a un   altro cosa che questi rifiuti. E il più delle   volte ciò che incontrano i nostri mistici è   . un brusco rifiuto. Al presente essi non pos-   sono fare. molto .di più che raccontare le   loro cognizioni mistiche a quelli che vo-   gliono prestare ascolto. Ciò , naturalmente       n nt x  IE RAIPAT cn    potima tl — 29    C j Pa ENTI OT  le ero Art 1 er? che,  I, , a . = ì” \ wr    / a) i e. e 7  pederntdt    hern ci tCAns4- 1 È   à a tutta prima un volersela cavare col  RE ce raccontare che cosa c'è in America  a chi ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci! ,,.  Ma pare, non è realmente una scappatoja,  perchè i processi dello spirito sono diversi  da. quelli fisici Molto tempo prima che  l'uomo sia in grado di fissare la verità im  piena luce, egli ha la possibilità di intrave-  derla, e di accoglierla nel suo sentimento.  E questo sentimento stesso è una forza, che  lo può condurre più avanti. E' questa una  fase per cui è necessario passare Chi segue  con ricettivo abbandono la narrazione del  Mistico, già calca il sentiero che mena alle    verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende  completamente l’Iniziato: ma angie per  vero rende anche il non iniZiato ricettivo  alle parole del Mistico. E questa sua ricet-  tività è strumento con. cui egli lavora a schiu-  dere i propri organi mistici. Ciò che prima-,  mente occorre è che si abbia questo senso |  della possibilità di conoscenze superiori: al- |  lorà not si passa più incurantemente ac-  canto alle persone che di queste conoscenze  superiori tengono parola.   E' stato già detto che anche al presente  ci sono persone che si adoperano a rinno-  vare la vita mistica.    Up irene Kona    diteou@    crt    u  pe ud)    fasi cl    fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale    tri rautwews    i E    Qui vi voglio intrattenere di due esempi  di tal genere, cioè del libro “ // Cristiane-  simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,, di  Annie Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati »   el geniale pensatore e poeta francese Edoardo  Schuré (2). Ambedue queste opere gettano  luce sulla natura della così detta Iniziazione.  Annie Besant, mostra come il Cristianesimo  debba venire compreso quale risultato di  codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg-  gia le figure dei massimi duci spirituali della  umanità, fondandosi sulla convinzione che  le grandi confessioni religiose e le grandi  filosofie cosmologiche da quei duci dispen-    sate all'umanità, celano verità eferne, che si  possono cercare e re soltanto in  quelle dottrine filosofiche e religiose.    Ambedue queste opere trovano la propria  giustificazione unicamente nel campo del Mi-  sticismo. Esse traggono la loro origine da  quella corrente spirituale dei tempi nostri,  che è destinata ad elevare l'umanità da un  incivilimento puramente esteriore all'altezza       (1) Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma,  1904,   (2) Traduzione Italiana edita da G. Laterza, Bari,  1907.       suh Tor ella Vea dii Conti |  RA    fOdeth4, nu pori? IU)    di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il  “ pensiero scientifico ,, non potrà più con-  trapporsi _ostilmente a questa corrente. La  scienza naturale riconoscerà allora che non _  si comprendé lo spirito col.negarlo , e che  | non si contr lle leogi naturali col_cer-  re Treo © x iii dpi  uelle spirituali. Non si designeranno  iù i Mistici come oscurantisti , giacchè si  saprà che soltanto pei loro avversari il campo  di cui essi ragionano è oscuro.  E non s'irriderà più l' Iniziazione, come i  non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla 2    gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94    imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta  L'indagine implica la necessità di adem- ' 3    piere a certe condizioni preliminari. Queste  P** ic;  condizioni per l'aspirante mistico non con-  sistono , naturalmente, in pratiche di tecni- |  cismo esteriore, bensì na osservanza di  un determinato orientamento della..vita si- È  ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide  il senso per certe verità, le quali non con-  templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A  cui, secondo le parole de Goethe “ ib.tran-\  itori v Bi n_simbolo ». In_s sid | oe  alla esistenza umana giacciono capacità,su- |  CRA i GIONO CA  \periori, come il frutto giace.in grembo al  fiore. E perciò nessuna creatura dovrebbe  TI YOMOMono wu € 0kL Lia  UT E E I ipa  ln Leno el muyert Sace    caprata farvi vtuel' fa P even           ord           LISI    (NE presumere di dire che “ nel suo mondo vi  i è qualche cosa di esauriente, di compiuto ».  Il Se un uonio ha tanta presunzione, assomi-  i glia al verme che ritiene_come orizzonte  i | della esistenza il mondo dei suoi sensi.   li —_ * Giardino di maturità » Chiamasi quel  IR luogo, dove divengono palesi gli arcani del  mondo. Per accedere a tal luogo bisogna  tI che l’individuo stesso. tenda la sua volontà  AU x al raggiungimento della propria maturità.  Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da te  È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli  |       see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi en-  n trare per la “ Porta stretta » Nel “ Giardino  È di maturità ,.  TAR Come molti uomini insigni, anche il  p Goethe espresse numerose verità dalla pro-  fonda vena del suo intuito , enunciandole  non già in diffusi e circostanziati discorsi,  bensì in brevi e spesso enigmatici accenni.  sr Uno di tali accenni è in questo periodo:  dg “ Nelle opere dell’ uomo, come in quelle  n e della Natura, sono le intenzioni, che meri-   / tano specialmente la nostra attenzione ,,.   E' questo un aforisma che verrà com-  preso in tutta Ia sua profondità quando lo  Î si applichi ai più importanti fenomeni della  vita spirituale umana. Giacchè, come pos=  Π         sigg    siamo acquistarci senso e comprensione per  le azioni di un singolo individuo soltanto  quando ne veniamo a conoscere le_inten-  zioni, così ci accade anche per la storia del-  l'intiero genere umano. Ma che abisso in-  tercede fra l' osservazione degli atti che si  svolgono palesemente alla luce del giorno,  e il riconoscimento delle intenzioni che giac-  ciono nelle regioni occulte dell'anima! Si  può essere addirittura rudimentali quanto a  intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro  uomo, ed essere tuttavia capaci di osser-   varne le azioni; ma bisognerà avere almeno  un po' delle sue qualità di spirito e della sua  levatura psichica, se si vuole penetrarne le    intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo !    agire rimane un arcano, un enigma, alla cui  soluzione ci manca la chiave, Non accade  diversamente con i grandi fatti della storia  spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son  lì aperti davanti agli occhi dello storico; ma  le intenzioni giacciono in profondità molto  recondite. In queste profondità deve pene-  frare colui, che vuol procurarsi la chiave per  la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’a-  zione giacerà tanto più profondamente re-  condita, quanto più questa azione avrà im-  portanza e quanto più ampia sarà la sua  8    n    ce RR    portata. L'intenzione di un atto della vita  quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma  non può essere così, naturalmente, di azioni,  la cui portata abbraccia una serie di secoli.  Chi a ciò pon mente giunge a presentire  che cosa siano i Misteri: giacchè in cotesti  Misteri sono riposte le irzfezzioni dei grandi  fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il  mondo intero nella loro portata. E coloro  che conoscono queste intenzioni e posseno  con ciò conferire alle proprie azioni stesse  \ quel peso che le rende realmente efficaci per  lunga serie di secoli, sono gli /niziati.  Solo chi nella storia del mondo scorge  unicamente una mèra successione di casi  fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e  degli Iniziati. In tal caso non c'è che da  attendere che un uomo siffatto si ponga un  bel giorno a studiare con occhio amorevole  i fatti della storia. Allora un po’ per volta  albeggerà al suo sguardo un significato, un  nesso, ed egli finirà per non più conside-  rare Tortuiti quei fatti storici, come non con-  sidera automa un individuo che veda muo-  versi ed agire. Giungerà così nella sua in-  vestigazione là, donde gli Iniziati dirigono  il progresso umano, secondo le conoscenze  the sono avvolte nell'ombra dei Misteri.          AA vila AATZzat fer, i 40 dad    x x £ > it  hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7        Di cotesti Misteri parlano i testi religiosi  di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti  coloro, che non si fermano alla vita estrin-  seca dei fondatori delle varie religioni , nè  alle vicende storiche del propagamento delle  loro dottrine; ma che, invece, cercano di  elevarsi_alle intenzioni di quei fondatori di |  religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il  fatto che queste intenzioni rimangano av-  volte in arcana oscurità e vengano comu-  nicate soltanto a degli eletti entro le scuole  di sapienza, che sono appunto i Misteri;  giacchè si fa opera saggia solo quando a  un individuo si comunica ciò che egli può  capire, o, con altre parole, quando gli si  comunica qualcosa, soltanto quando egli si  sia messo in condizione di capirla. Per com-  piere azioni che abbiano peso e valore oc-  |_——corre possedere un’alta sapienza, e per ap-  propriarsi un'alta sapienza bisogna passare  per un periodo lungo e arduo di prepara-  zione. Così avviene nei Misteri.   L’ evoluzione spirituale dell'umanità pro-  cede innanzi per opera delle varie religioni  e cosmologie. Chi coopera a questa evolu-  zione mette in movimento le forze spirituali  degli uomini. Bisogna che egli conosca le  leggi da cui dipende questo movimento,          DE: pri    come deve conoscere le leggi della chimica   chi vuol mescolare le sostanze con effettuale  risultato. Néi Misteri vengono insegnate le .  leggi supreme della vita spirituale; viene in- _   segnata la chimica dell'anima. E bisogna   cercare di penetrare nella natura di queste   leggi, se si vogliono sorprendere , o anche  solo presentire, i moventi che stanno alla i  A base delle azioni dei grandi Istruttori della   umanità.   All'unisono con tutti coloro che cercano   di schiudersi per tale visione gli occhi spi-   rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/   Cristianesimo esoterico, (0 I Misteri mino-   ré) », di un “ lato occulto delle religioni , (1).   A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane-   1% simo, del così detto suo contenuto esoterico,   ne. essa luminosamente si addentra e trascina.   d il lettore nell'intimo della questione relativa  sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro- |  Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven-   gono date al mondo da uomini più saggi    delle masse etniche , alle quali le religioni  Stesse sono dispensate e hanno appunto lo       (1) Vedi pure «Il Cristianesimo come fattore mi-, —  stico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7  porad, Firenze).    Lolo scrullo du fevomeri    sia Pe i  Dul th h Ha DI ire  _ eSleeml J  > Uibftsore » Sé          Lap de  scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.    Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di  bono giungere fino agli individui e avere in-  fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î  tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i  l'evoluzione potrebbe venire rappresentata  come una scala ascendente di gradi, su ognuno       asLelo api    dei quali si trovano uomini. I massimamente  evoluti stanno di un gran tratto più su dei  meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A  rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4  .. comprendere egualmente che quella di agire. }  E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE  _ segnamento religioso; quel che gioverebbe  all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil  all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e  in estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì  ferente il delinquente................ 2 LE  La religione deve essere graduata con l’e- =  voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI  UGANB: Es. Chr. pag. 3-4): ;  Il modo, dunque, in cui il maestro di re- :  ligione parla a uomini di grado evolutivo i -  . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1  . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N  | gere. Per riuscirvi bisogna che egli stesso  | porti nell'anima propria il nocciolo della sa- "i  | pienza, per mezzo della quale egli ha da       START.    agire; e il modo come egli porta in sè que-  sto nocciolo deve essere tale da renderlo  capace di parlare ad ognuno secondo la sua  comprensione. Perciò chi studia i discorsi  degli Istruttori religiosi dal loro lato este-  riore, conosce soltanto un lato e precisa-  mente quello più estrinseco della loro sa-  pienza. Acutamente accenna a questi fatti  Edoardo Schuré nel suo libro sui “ Grandi  Iniziati ,. Ivi egli descrive i grandi Maestri  di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè,  Orfeo , Pitagora, Platone, Gesù, da quello  investigatore intuitivo, da quel nobile artista  dei pensiero, da quell'anima satura di pro-  fondo sentimento religioso ch’ egli è. Così  nell'introduzione al libro egli espone il suo.  modo di vedere :   “ Tutte le grandi religioni hanno una sto-  ria esteriore ed una interiore; l'una visibile,  l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da  intendersi i dogmi & i miti pubblicamente  © insegnati nei fémpli e nelle” scuole, ricono-  sciuti nei culti e nelle superstizioni popolari.  Per istoria interiore è da intendersi la scienza  profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire  dei grandi Iniziati, profeti o riformatori che  hanno istituite, sorrette e propagate le reli-  gioni predette. La prima la storia ufficiale, |                      -           quella che si legge dovunque, si svolge alla  vista di tutti, ma non per questo è meno  oscura, complicata, contradittoria. — La se-  ‘conda, che io chiamo la tradizione esote- |,  rica, o dottrina dei misteri, è difficilissima €  Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa  infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle  segrete confraternite, e i suoi drammi più  appassionanti hanno intieramente per iscena  l’anima dei grandi profeti, che non hanno  mai nè fissato in pergamena, nè confidato  ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute,  o le proprie estasi più paradisiache. Questa  seconda storia vuole essere indovinata, ma  non appena si è scorta, apparisce luminosa,  organica, sempre in armonia con se stessa.  Potrebbe essere anche chiamata la storia  della religione eterna e universale. In essa  le cose mostrano il loro rovescio e la co-  scienza umana il suo diritto, mentre la sto-  ria non ne offre che il faticoso rovescio. In SD  questa seconda storia cogliamo il punto ge-__ N  netico della religione e della filosofia , che _ 3)  si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8,  per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T}  unto è costituito dalle verità trascendenti. N  vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene  prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della          RES 1; RARO    provvidenza mediante i suoi agenti terre-  stri. ,,   Questi “ messaggeri terreni , lavorano  nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spi-  ritualistico della umanità. Ciò che li abilita  a questo lavoro sono le leggi imperiture della  chimica spirituale ed i processi chimici spi-  rituali che esse operano: vale a dire i grandi  prodotti intellettuali e morali della storia del  mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra  è soltanto simbolo, immagine della sapienza  superiore dimorante nella profondità delle  loro anime, immagini e simboli proporzio-  nati all'intendimento di coloro, che ad essi  porgono orecchio. Soltanto a coloro che  adempiono alle condizioni, che garantiscono  la comprensione e il “ reffo uso » della sa-  pienza superiore, questa può venire dischiusa.  E allora. nella Iniziazione mistica sentono  l'immediato contatto coi primordiali motivi  spirituali, con le potenze genitrici della esi-  stenza.   Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto com-  penetrato di siffatti sentimenti: Clemente  Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e  3° secolo della nostra èra , il quale prima  del suo battesimo fu un “ Misto ,, ossia       A EE       un alunno dei Misteri, esalta questi con le  seguenti parole :   “O veramente santi Misteri! O puris-  sima luce! Una face viene portata dinnanzi  a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io  sono santificato, allorchè ricevo la consacra-  zione. Gli arcani però .me li rivela lo spi-  rito primordiale e suggella in me l’Iniziato  con l'illuminazione; iniziato nella Fede mi  presenta al Tutt'Uno, affinchè io vega ser=  bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce-  rimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu  vuoi, fatti iniziare tu pure, e con le forze  spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa  carola attorno all’ increato, all'imperituro, al  tutt'uno spirito dei mondi, e la favella che  a te dal Cosmo viene inspirata intonerà  gl'inni di lode a questo Tutt'Uno ,..   . Si comprende la descrizione che fa Annie  Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini-  ziati devono parlare di sè come lo fa Cle-  mente Alessandrino con le parole suriferite:  “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano  il vanto di quella vetusta contrada e i più  nobili figli della Grecia, come ad esempio  | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi  | iniziare nei Misteri dai maestri della sapienza  | iniziatica egizia. I Misteri Mithriaci dei Per.          IDO. JIA    siani, i Misteri Orfici e quelli Bacchici, e  i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Gre-  cia, i Misteri di Samotracia, della Scizia,  della Caldea, sono universalmente noti, al-  meno di nome, come le parole d'uso fami-  liare. Persino nella forma estremamente at-  tenuata dei Misteri eleusini il loro valore  viene altamente magnificato dai più eminenti  uomini della Grecia, come Pindaro, Sofocle,  Isocrate, Platone e Plutarco ,,. (1). E nei  Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento  del sapere, alla sola spiegazione di cose  ignorate, ma alla elevazione di tutta la na-  tura umana, di modo ch’ essa si compene-  tri di quella “sacra disposizione iniziatica,  che pone in grado di comprendere le fonti  e principi del Cosmo. Il mistico non solo  conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la  sua propria natura si fonde con esse. Egli  deve quindi essere preparato al fine di po-  tere accogliere come si deve le fonti di ogni  vita che in lui affluiscono. Appunto nel no-  stro tempo, in cui si vuol riconoscere come  attendibile soltanto ciò che è scientifico in  senso materiale, diviene difficile il credere  che, circa le cose supreme, quello, che im-       (1) V. Esot. Chr. pag. 21,          a    porta veramente è una disposizione d° a-  nimo. Per tal modo si fa della cognizione  un fatto intimo dell'anima umana: e tale  essa è per il Mistico. Si dica a qualcuno  la soluzione di tutti gli enigmi del mondo:  Il Mistico troverà sempre che una siffatta  esposizione è vuota risonanza, che sfiora l'o-  recchio e svanisce, se |’ anima non. è stata  prima preparata _ed innalzata ad un livello  superiore ; egli troverà che il sentimento non  ne resta affatto toccato, se non è staîc di-  sposto a sentire l'accoglimenio della sapienza  come un “ Sacramento ,. Solo chi intende  ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’ alto  della quale discendono certe espressioni del  Mistico, come quelle di Filone: « Sovente,  allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4%  reità_e rientro in me, distogliendomi dal  mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, .  scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono  certo di essermi internato nella parte mi-  gliore di me; metto in attività la vita vera,  sono unito col divino e in lui fondato, e  conseguo la forza di trasferirmi nel mondo  trascendentale. Quando, poi, da codesta con-  templazione dell’ Altissimo, e dopo questo  riposo nell’ elemento spirituale del mondo,  discendo nuovamente alla consueta forma-          3011. VEDE    zione di pensieri, allora mi domando come  potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse  nel vivere quotidiano, posto che la sua pa-  tria è pur quella dove testè mi sono sof-  fermato ! “ — Chi sa quale grado di puri-  ficazione del sentimento e della funzione  intellettiva sia necessario per arrivare a sen-  tire così conosce anche le ragioni per cui  la sapienza mistica, la sapienza consacrata  non può essere oggetto della vita consueta  quotidiana, nè dell’ insegnamento ordinario,  nè dei documenti della storia esteriore; e  perchè essa stia chiusa nell'anima dei di-  vini messaggeri e debba costituire, come  dice E. Schurè, il riservato oggetto della  iniziazione in fratellanze appartate. Ma, quan-  tunque questa immediata comprensione della  verità rimanga un fatto d’ insegnamento del  tutto intimo, pure tutti gli uomini parteci-  pano dei benefici della sapienza. Come i  benefici delle ferrovie elettriche ricadono su  tutta la popolazione, pur restando monopolio    degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi  Pe così avviene, quanto ai frutti,  ella efficacia e della sapienza dei Misteri,  E come il beneficio delle cognizioni tecni-    che si traduce nelle istituzioni esteriori della  civiltà. così quello della sapienza dei Mi-          ‘ stici si esprime e distribuisce nel contenuto  spirituale della vita dell'umanità: cioè nei  suoi miti, nei concetti informatori delle sue  credenze e delle sue religioni, nel suo mondo  di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì  nelle sue idee di morale e di diritto, e da  ultimo anche nella sua attività artistica, nelle  sue scienze e nelle sue filosofie. Il Mistico  mostra «che la sapienza più profonda della  umanità è la radice di tutti questi vari con-  tenuti della vita, rendendosi ben conto che  essi tutti possono trovare la loro vera spie-  gazione soltanto in quella sapienza.   Clemente Alessandrino parla del fatto che  “ un uomo può avere la fede seriza posse-  dere eru Izione ,, ma al tempo stesso pro-  clama essere impossibile che un uomo senza  sapienza comprenda gli oggetti che vengono  spiegati nella fede , (v. Besant, Esot. christ.  pag. 84).   Ogni Mistico conosce questo vero rap-  porto fra Fede re e sa che tra i  due non può esistere contraddizione j ma  anche alla Mistica egli può fare riconoscere  valore unicamente sulla base della vera scien-  za. Anche di ciò parla Clemente:   ... Alcuni che si ritengono favoriti da na-  tura, non desiderano di occuparsi nè di fi-       GE E Je ep       46  losofia, nè di logica; anzi essi non deside-  rano di studiare e imparare la scienza na-  turale; essi_ richiedono nuda fede soltanto...  Io, pertanto, chiamo dotto veramente colui  che tutto mette a contributo per la verità,  così che traendo dalla geometria e dalla mu-  sica, dalla grammatica o dalla filosofia stessa,  ciò che è utile, difende la fede da ogni as-  salto.....   Quanto è necessario per chi desidera par-  tecipare dei poteri di Dio il trattare filoso-  ficamente soggetti intellettuali !....    ... Lo gnostico (Mistico) si vale del rami  dello scibile vene di esercizi ausiliari vre-    parativi. (A. B. Es. Chr. Pag. 84).    Chi ha colto questo profondo accordo della  Fede col Sapere si trova costretto a rile-  vare sempre di nuovo una caratteristica pe-  culiarità della nostra civiltà moderna, la quale  ha invece scavato un abisso tra Fede e  Scienza.   E. Schurè accenna a questo abisso fin dai  periodi introduttivi del suo libro :   “Il peggior male del nostro tempo è il  mostrarsi la Scienza e la Religione come  due forze nemiche e irreducibili. Infermità  intellettuale questa tanto più perniciosa in  quanto che deriva dall'alto e furtivamente          LT       s' infiltra, ma sicuramente, in tutte le mem-  bra, come un veleno sottile che si respiri  nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritel-  ligenza diviene a lungo andare infermità  dell'anima e in conseguenza un male so-  ciale.   “« Fintanto che il Cristianesimo non fece  che affermare ingenuamente la fede cristiana in  seno a una Europa ancor semibarbara, come  era nel medio evo, esso fu la più grande  delle forze morali, e ha plasmato l’anima  dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza  sperimentale , apertamente ricostituitasi nel  secolo 16°, non fece che rivendicare i legit-  timi diritti della ragione e l’ illimitata sua  libertà, essa fu la più grande tra le forze  intellettuali; essa ha cambiato faccia al mon-  do, liberato l’uomo da secolari catene, e  fornito la mente umana di fondamenta in-  crollabili ,,.   Non meno energicamente Annie Besant  accenna a questa peculiarità della civiltà  spirituale moderna :   “ ... Per ognuno che studi l’ultimo imme-  diato quarantennio del secolo passato è chiaro  che persone meditative e morali sono in gran  numero esulate dalle chiesé perchè gl’ inse-  gnamenti che vi ricevevano urtavano, offen-          RIN. PSE    devano la loro intelligenza e il loro senso  morale.   E' vano pretendere che l’agnosticismo così  ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra-  : dice solo nella mancanza di moralità o in  È; una deliberata involuzione della mente. Chiun-  A que attentamente studi gli esposti fenomeni,  ammetterà che uomini di forte intelletto sono  stati allontanati dal seno del Cristianesimo  per via della rude goffaggine delle idee re-  ligiose loro presentate, delle contradizioni  negli insegnamenti delle varie autorità, nelle  vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee  n che nessun intelletto colto e metodicamente  ; disciplinato potrebbe di leggeri accettare ».  a (A. B. Cris, esot. pag. 32-38).   Alla domanda: “ Che cosa è da farsi in  questa direzione ? , Annie Besant risponde  inspirandosi alla veduta che anche la radice  del Cristianesimo giace in una sapienza oc-  culta e che la Fede deve, quindi, per sus-  I sistere risospingersi a questa radice:   “ Se il Cristianesimo vuol continuare a vi-    i co vere, deve ricuperare il sapere che ha e ria-  d | vere la propria Mise € l propri insegna-  sd cculti; deve di nuovo erigersi come.  ‘un istruttore autorevole di verità spirituali,  ma rivestito della sola autorità meritevole ..        x *  '  Me,    ù          Mes    di essere alquanto apprezzata, l' autorità,  cicè, della conoscenza. Se questi insegna-  menti ‘verranno recuperati, la loro influenza  sarà subito constatabile nelle più ampie  e più profonde vedute che si avranno circa  la verità, dogmi che ora sembrano meri gu-  sci ed impacci, saranno riconosciuti subito  quali parziali presentimenti di realtà fonda-  mentali. In primo luogo il Cristianesimo  esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel Tem-  pio, così che tutti i capaci di riceverlo pos-  sano seguirne le linee di pensiero palese, e  secondariamente il Cristianesimo occulto ri-  discenderà nell'adito celato dietro la Cortina  che custodisce il « Sancta Sanctorum , in  cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A. B.  Es. Chris. Pag. 40-41).   Mediante il senso della vista l'uomo per-  cepisce la natura con cento e cento sfuma-  ture di luce è di colore. Sono i raggi della  luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne  determinano gli aspetti cromatici variamente  sfumati. Sebbene per tal fatto la percezione  della luce solare sia una funzione abituale  dell'occhio, tuttavia questo non può impu-  _nemente fissare la fonte stessa de a luce:  Sole; esso viene accecato dal contatto im-  mediato , diretto, dei raggi solari. Ciò che   ‘          0°    néi suoi effetti è adeguato al compito quo-  tidiano dell'occhio, dà occasione a una sof-  ferenza, quando, come causa in sè, colpisce  l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giu-  sto modo questa immagine alla vita spiri-  tuale dell'uomo, comprende perchè “ coloro  che sanno » parlano di “ pericoli » della  Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esi-  stono innegabilmente; se non che, chi ne  parla non va preso alla lettera, interpretando  la parola « pericoli ,, nel senso usuale. La  intelligenza e la ragione umana sono tanto  poco assuefatte a riconoscere le fonti del  vero nel complesso totale del mondo, quanto  poco è capace l'occhio di fissare direttamente  il Sole. Come l'occhio sente a sè rispon-  denti gli effetti delia luce, così intelletto. e  ragione sentono a sè rispondenti gli effetti  della sapienza eterna nei fenomeni della na-  tura e nel decorso della storia degli uomini.  Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla    sorgente stessa della luce, così l'intelligenza |    umana” vigne meno dinanzi alle fonti pri-  mordiali della sapienza. Questo umano inten-  dimento nel subito arretra, rinuncia. Or bi-  sogna assimilare nel debito modo ciò che  allora succede nell’ uomo , al fatto dell’ ab-  bacinamento chel’ occhio.subisce dal sole.       veg 3 fer:    Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella  Natura e nell'attività dello spirito soltanto  il riflesso della Verità, e non questa imme-  diatamente , egli viene meno di fronte alla  verità stessa, quando questa gli si presenta.  Avvezzo a cogliere soltanto la realtà gros-  solana, che quotidianamente I prnia, l'uomo  sente le manifestazioni della sapienza supe-  riore come illusioni, come costruzioni di una  fantasiosità irreale: esse non gli possono dire  nulla, sono per lui come forme aeree che  svaniscono quando egli le vuole afferrare,  così come è solito afferrare gli oggetti della  realtà consueta. Questa lo avvince a sè con  mille lacci; ciò che essa gli può promettere  egli lo conosce, lo ha imparato ad apprez-  zare in mille modi. Chi qui vede giusta-  mente, comprende che cosa intendano dire  le leggende religiose quando parlano del  Tentatore, che promette tutte le magnifi-  cenze di guesto mondo a coloro, i quali vo-  gliono intraprendere il sentiero della illumi-  nazione superiore. Se noh è risvegliata in.  loro la forza di resistere a cotesto Tenta-  tore, essi cadono inesorabilmente in sua ba-  lia. Con ciò si accenna a quel che s'intende  per “ pericoli della soglia ,, che occorre  varcare, se si vuole calcare il “ sentiero ,       della sapienza. Niuno può giungere a que-  sto sentiero se non intende valersi dell’ oc-  chio spirituale, dell'intelletto e della ragione,  diversamente da come vengono adoperati)  nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il  piede sulla soglia come un trasmutato, come  "°° uno, il cni°occhio spirituale è stato raffor-  zato; ed è singolarmente difficile nell’ età  nostra attuale rinvigorire così.quest'occhio,    x    giacchè appunto dalla nostra scienza esso  viene rivolto o a.ciò che è concreto  li tangibile. Per compiere le sue conquiste  nel campo delle forze naturali esteriori que-  , sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco  alle potenze spirituali dell’esistenza. Non si  fraintenda tutto ciò, prendendolo per un  rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l  canismo di un orologio non ha certo biso» i}  gno di risalire con l'indagine fino ai pen-/!   ). sieri dell’ inventore dell’ orologio ; egli può   mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla   [RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo   stesso meccanismo. a nessuno può com-   preridere come le forze e le cose che coo-   perano nell’ orologio siano state originaria-   mente combinate, se non va in traccia dello   | spirito che le ha combinate e non indaga   le ragioni per cui esse sono state così com-       f          frze   Tmnon © SEXI ma ) fe   | fa meda; meo N el Mm NK ke  -- bt re e —————€ o’    uc gi Riti fet rextore9 Lo fel #0    A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a  È Logan Foe. SP RTTO el ppartnzs    ti dae  binate. Il naturalista può comprendere giu-  stamente la Natura solo se in lei stessa ri- le  cerca anzitutto le forze con cui essa opera. "°  Se afferma che queste si sono combinate | ® cudl  da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat  di pensare che un orologio si sia conge-  gnato da sè. S izione-è non il A |    lo spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo  alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è,  non colui che cerca l'inventore dell’ orolo-    gio, ma colui che nell’orologio stesso im-  magina ‘uno spirito , il quale manda avanti Π le lancette. Soltanto quando in questo modo ||  sî fraintendono coloro che vanno in traccia  dello spirito dell'esistenza cosmica, si può  metterli in un fascio con quelli che a buon  diritto sono accusati di superstizione e che  cen altrettanto buon diritto vengono oggi  riguardati come turbapace, perchè compro-  mettono i “ benefizi , che la nostra coltura  scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio _  velato da. preconcetti saprà a chi si vuol  alludere nelle due categorie citate).  Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d  accesso alla visione superiore, se vuole riu i "  scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN  forza che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn  l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x    i  T] x  > l'intolegione I            Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A in    — 54 —    x gono soltanto fantasticaggine ed illusione.   . Giacchè il perenne e l'eterno sono appunto,  là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi*  torio e temporaneo altro non appare che  fantasticaggine ed illusione. Nessun utile,  dunque, risentirà un uomo che venga con-  dotto dinnanzi alla sorgente della eterna sa-  pienza colgalo corredo.della.sua intelligenza  rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado  d Iniziazione non consiste nell'impartire un  nuovo sapere intellettuale, ma nella com-  pleta trasmutazione delle forze conoscitive  dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo  Scuré descrive nei suoi “ Grandi Iniziati ,  il cammino di chi tende al “ Sapere , me-  diante i Misteri :    ALE « L’ iniziazione era a leaneno  r, le di futfo l'essere umano _ad ascen-  lere le vette vertiginose dello spirito , dal-  l'alto delle quali si può dominare la vita..... ,   E più innanzi egli dice:   “«“ Per giungere a questa padronanza l’uomo  ha bisogno di una totale rifusione del pro-  prio essere fisico, morale e intellettuale. Or-  bene, questa rifusione non è possibile se  non mediante |’ esercizio simultaneo della  volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè  il loro completo accordo l’ uomo può svi-    }  ;)  I    Fapiecinia TX. iNalonta       Ponso ;  I       he    sli    luppare le proprie facoltà fino a limiti in-  definibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' ini-  ziazione li risveglia. Mercè uno studio pro-  fondo e un'applicazione costante l’uomo può _  mettersi in rapporto cosciente con le forze  occulte dell'universo. Con uno sforzo por-  entoso egli puo raggiungere la percezione  spirituale diretta, schiudersi i sentieri che  portano. all’olt a, al superfisico, e di-  venire capace di regolarvisi. oltanto allora  può dire di aver vinto il destino e di es-  Sersi conquistato fin da quaggiù la propria  tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato può  vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a  dire veggente e formatore di anime. Infatti  soltanto colui, che comanda a se stesso  può comandare agli altri, e soltanto chi è  libero può liberare ».   (Opera cit.).   La missione dei Misteri va intesa in tal  senso, per quel che si riferisce al loro primo  grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA  scienza, ma della produzione di nuove forze   | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,    ivenire un altro, prima di venir condotto    al Sole spirituale, alla sorgente della sa-  pienza.  Colui, le cui forze non sono temprate al-    /       dl16g —       lorchè pone il piede sulla “ Soglia ,,, non  sente la realtà dell’eterne. potenze spirituali, (}.  che quivi gli si fanno incontro. In luogo di —  entrare in rapporto con_un mondo supe-  riore egli ricade nel mondo inferiore. À que-  sto pericolo trovasi esposto chi va in cerca  delle sorgenti della sapienza. Se egli soc-  combe, allora ha temporaneamente ucciso  in sè l'eterno germe. Questo era per l'in-  nanzi dormente in lui, ma, pur così dor-  mente, era tuttavia ciò che nobilitava la  passeggera, inferiore natura e la trasfigura-  va. Ingenuo ed inconsapevole , l' individuo  viveva con questo rudimento di spiritualità  superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.ini-  ziazione quel latente rudimento JÉne. di-  strutto. All'individuo non resta che l'istinto    di vivere nel transitorio, di yivere «Soltanto  pel regno di guesto mondo. Per il fatto di.  avere sentito come_illusorio il “ divino spi-  rituale , , egli divinizza il « sensibile_mate-  riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia ,, può  andare perduto per l'individuo il suo più  prezioso tesoro, la sua parte immortale. Que-  sto è il pericolo analogo all’ accecamento  dell'occhio nella similitudine su riferita.   E' ovvio che coloro, cui nei misteri in-  combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .       Wei  |    Rito  fonda consapevolezza della propria respon-  sabilità, estremamente esigenti verso i disce-  poli, giacchè tali esigenze dovevano servire  a temprare nel senso indicato le loro forze  spirituali. E. Schuré descrive la scala gra-    duale della Iniziazion ‘a_praticata I  riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.)    e-la sua descrizione è tutta improntata di  geniale senso d’arte e di mistica profondità.  Mi appoggerò appunto ad essa per parlare  di quei gradi iniziatici.   Erano ammessi all’Iniziazione soltanto co-  loro che offrivano sicurezza di riuscita per  la costituzione appropriata della loro natura  intellettuale, morale e spirituale. Per costoro  cominciava allora il periodo della « Prepa-  razione ,. Per molti anni essi diventavano   itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno  sf crede autorizzato a giudicare e criticare  mon appena abbia appreso qualche cosa, 0,  torse anche più sovente, quando non ha an-  cora imparato nulla, non è punto facile ren-  dere simpatica l’idea" quel lungo udito-  rato. All'uditore era imposto il più assoluto  silenzio, inteso non nel senso esteriore di   ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di  | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva  Accogliere del tutto spregiudicatamente l’istru-    due crilica       PESTO, gp    zione, senza turbare questa spregiudicatezza  con una prematura analisi critica. Il saggio  sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un  certo tempo non_.era loro Jlecito..criticare,  giacchè il sapere che ricevevano era appunto  ciò che occorreva per renderli maturi all  critica. Come è possibile che impari vera-  [mente chi vuole immediatamente criticare \{  quel che apprende? Con questo metodo di  ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno reso  maggio a una massima, che sola può fare  ascendere i gradini della conoscenza. Chi  ha percorso la via della conoscenza lo sa.  Egli non può che sentire pietà per coloro,  che si creano intoppi su tale strada coi loro  giudizi prematuri e con le loro critiche. Il  nostro tempo è tutto pieno di questo_im-  maturo spirito di critica: basta osservare in-  torno a noi ciò che i nostri oratori dicono  e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi  fosse ai tempi nostri solo un pò di spirito  pitagorico , resterebbero. inespressi più dei  nove decimi di quanto vien detto e altret-  tanto rimarrebbe non stampato di quanto  vien pubblicato. Oggidì , chi ha messo in-  sieme un paio di osservazioni, o si è ap-  piccicato in testa un paio d'idee, si crede  autorizzato a sputar sentenze e giudizi sui       sel       RARI TESE,    soggetti più essenziali. Invece un tale di-  ritto spetta soltanto a chi abbia imparato a  contenere per anni il suo giudizio e a por-  gere ascolto spregiudicat ea quanto i  savi dell'umanità hanno detto. “ Esaminate  tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace  norma dell'anima di chi non è maturo per  esaminare. Il nostro giudizio non vale pro-  prio nulla, nulla affatto di fronte alla Ve-  rità, fin tanto che non lo abbiamo fatto esa-  minare dalla verità stessa. Invece di dire:  “ Io esamino tutto e voglio tenermi il me-  glio » , molti dovrebbero dire : “ Io voglio  fare esaminare me stesso dalla Verità, e  quando io sia sufficientemente buono per  essa, allora ch' essa mi prenda! , Chi non  si è esercitato per anni ad adattare, a inal-  veare la propria vita in questo illimitato ab-  bandono al giudizio delle sagge guide della  umanità, non arriverà mai a formulare giu-  dizi che siano più che fumo e vacua riso-  nanza. Pa   Una norma siffatta è certamente invisa in  questo nostro tempo “ illuminato ,, in cui  dominano la pubblica criticaglia, e lo spi-  rito gazzettaio ; invece gli uditori pitagorici  si attenevano appunto a cotesta norma. Rag-  giunta la voluta maturità, l' uditore vedeva       | 4 iena: acli    Neg    giunto per lui il “ giorno d'oro ,,, col quale  cominciavano le rivelazioni sull'essenza della  natura e dello spirito umano. A poco a poco  i gli si faceva comprendere la “ zomìa », le  4 B:, ” leggi della esistenza corporea e psichica.  Be" 1 Voglia afferrare questa romia col non  raffinato intelletto ordinario non ne com-  prende nulla. Il Goethe una volta accennò  a questo. Allorchè nel suo viaggio per l'I-  talia e per la Sicilia si era dato con tutta  lena allo studio delle piante, e si era for-  mato quelle sue vedute tanto citate ma tanto  poco comprese sulla_“ pianta archetipa ,  scriveva in. Germania che avrebbe voluto  fare un viaggio in India, non per scoprire  qualche cosa di nuovo, bensi per guardare  a_Suo..modo_.il già scoperto» Quel che im-  porta, appunto, non è il conoscere le leggi  messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi  bensi il penetrare coll’aiuto di queste leggi  nell’ intima essenza della vita vegetale. Si  fica essere un erudito professore di bota-       nica e non capir nulla di questa vita vege-  tale. | nostri scienziati hauno veramente delle  strane idee a questo proposito. Essi o cre-  dono che, in genere, non si possa penetrare  nell'intimo della natura, o affermano che la  nosira indagine non è ancora fanto avan-          Db    zata. Essi non sospettano che con questa  indagine mediante i sensi e l'intelletto pos-  sono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico  le nostre cognizioni, ma che per investigare  (| « interno ,, è, invece, necessaria una ma-  niera di pensare tutta diversa da quella che  essi mettono in pratica. Non vogliono sa-  perne dell’ “ inventore dell'orologio ,,, men- |  tre studiano l'orologio alla stregua dei prin-  cipi della fisica. Poichè non possono tro-  vare nell'orologio nessuno “ spiritello ,, che  spinge avanti le lancette, o negano lo spi-  rito, che ha congegnato le ruote, o asseri-  scono che esso è inaccessibile all’umana co-  noscenza, 0 del tutto o “ fino ad oggi ,.  Chi parla dello spirito della Natura viene  accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma  non è colpa sua se gli accusatori non sen-  tono in ciò altro che parole! I discepoli pi-  tagorici, al secondo grado della loro istru-  zione, venivano introdotti nelloSpirito della  Natura.   Soltanto: dopo RARO al questo grado,  potevano venir condotti alla “« grande Ini-  ziazione ». A questo punto erano maturi per  accogliere in sè i “ Segreti della esistenza »;  il loro occhio spirituale era ormai sufficien-   | temente vigoroso; oramai non apprendevano       19 6a —    i   | più a conoscere soltanto lo spirito delia na-  i tura, ma anche le intenzioni di questo spi-  i rito. Da questo punto in poi non sì può più  i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma  soltanto per via d'immagini, giacchè il no-  (a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto  | e non ha parola adatta alla conoscenza su-  È periore, di cui qui ci occupiamo. In questo  È senso va inteso pure quanto segue.   Prima di ogni altra cosa l'individuo ap-  prendeva a spingere lo sguardo oltre la pro-  pria esistenza personale. Da ciò traeva l' e-  sperienza che quella sua vita era la ripeti-  iS . zione di vite anteriori a un nuovo gradino  dell'esistenza. Si poteva convincere che quel  i che è lecito chiamare “ anima , nel giusto  senso della parola, si rincarna ripetutamente,  e che le capacità, le vicende e le azioni della  Me sua vita presente erano da interpretarsi come  effetti di cause reperibili in quelle sue vite  antecedenti. Egli si rendeva anche conto che  i fatti e gli eventi di quella sua vita presente  dovevano produrre i loro effetti in esistenze  1 avvenire. i  ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni,  da perchè ho intenzione di parlare in altro luogo   esaurientemente delle grandi leggi della  “ Rincorporazione , e della “ Legge cos-    —    ve       = Bb: —    mica », ovvero, in altre parole, della “ Rin-  carnazione , e del “ Karma ,, (1).   Queste verità potevano divenir convin-  zioni per il discepolo dei Misteri, come è  verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; per-  chè al terzo grado il discepolo era a ciò  maturo. Ma anche a questo grado si può  avere un giudizio completamente sicuro su  queste conoscenze, unicamente perchè si è  ormai acquistata la capacità di compren-  derne giustamente il significato.   Anche oggi, come in ogni tempo, molto  si criticano tali concetti ;, ma ciò che viene  criticato in realtà sono soltanto le arbitrarie ,  concezioni dei critici stessi, che non hanno  alcuna importanza. Del resto, però, si deve  anche pienamente convenire che pure molti  seguaci della idea della rincarnazione non  hanno di essa concetti migliori di quelli dei  suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi  difendono queste dottrine, le comprendono  veramente. Anche tra questi difensori ce ne  sono molti che sono troppo scansafatiche 0  troppo.... « consci di sè » per apprendere in  silenzio prima di far da insegnanti. 0°   (1) Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teo-    sofia — Scienza occulta — e i minori Azione del Kar-  ma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali.             LL NEI    Ora, se non forse presso i Pitagorici,  c'era, però, in altri Misteri, dopo la grande  « Iniziazione rivelatoria ,, il grado della vera  “ Iniziazione mistica ,,. In essa non soltanto  l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere  conscio veniva esteso oltre l'immediata per-  sonalità dello individuo. Per essa il discepolo  non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un  veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza  delle cose, ma la viveva con esse. Molto  arduo è dare una idea di ciò, di cui qui si  tratta. Il veggente non ha soltanto la sen-  sazione degli oggetti, bensì sente regoli og-  getti stessi, trasferendosi nel loro interno;  egli non pensa circa la natura, bensì esce  di se medesimo e s'interna, pensando, re//a  natura. (E' questo un procedimento noto al  Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi  dei sensi astrali ») (1). L'uomo intellettuale  non bada ai veggenti: essi debbono esser per  lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece,  ha senso per le loro doti, li ascolta con pio  rispetto, giacchè sente parlare in loro non più  una persona umana, bensì la stessa Saggezza  vivente. Essi hanno fatto olocausto delle    (1) Cfr. dello stesso autore: « Come si acquista co-  noscenza dei mondi trascendentali v.           EA    proprie inclinazioni, simpatie, opinioni per-  sonali per poter prestare la propria bocca  all’eterno Verbo, “« mediante il quale fu-  rono fatte tutte le cose ,. Giacchè dove  parla ancora l'opinione umana, dove cam- _  peggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi  tace la sapienza eterna. E quando questa  giunge all'orecchio di coloro che non  ‘hanno ancora sentimento per essa, appare  loro soltanto come personale parola umana,  per quanto in essa possa chiudersi una forza  divina. Ma dai veggenti stessi, gli uomini  ‘potrebbero imparare ad “ ascoltare », giac-  chè il veggente fa tacere la sua umana per-  sonalità quando a lui parla la voce della Ve-  rità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le  sue inclinazioni gli stanno dinanzi altret-  tanto insignificanti quanto il tavolino che  ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel-  | l'ascoltazione interiore.  . Solo il veggente ascenderà al grado suc-  cessivo, che gli antichi chiamavano del  " Teurgo » e che nella nostra lingua può  venire designato come quel grado, in cui  si opera una “ completa riversione , delle  facoltà umane. Forze che, di solito, afflui-  scono nell'individuo da/ di fuori, ora si ef-  fondono da /uîi. In certi campi, nei quali  5                                   RS a        l’uomo è soltanto un servitore, diviene un  dominatore colui, le cui facoltà sono “ tra-  smutate ,. E poichè solo il veggente è in  grado di giudicare la portata e la maniera  “a d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà  Ti in possesso senza aver raggiunta la purità   _ del veggente, ne farà mal uso. E questa  do « sapienza senza purità ,, è possibile a causa  w di un cencatenamento di circostanze, di cui  <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla Ini-  ziazione superiore, a proposito dei Pitago-  rici, E. Schuré ha il seguente magnifico    passo : 1  i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toc-  +. cato la cima della iniziazione antica. Da  dr questa vetta la terra apparisce come im-    cf ersa nell'ombra, come un astro morente.  \\*® Di lì si schiudono le prospettive sideree e    eri dispiega nel suo meraviglioso complesso |  Le * Scegatao ii a n 1  la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma    \\®s4* scopo dell'insegnamento non era l’assorbire  VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.   È le regioni incommensurabili del Cosmo, li  UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri    pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti  e meglio temprati pei cimenti della vita.       I,    Il Maestro aveva condotto i discepoli per    iniziati dovevano ritornare sulla terra da quei    î       =Sf ia         Alla iniziazione della intelligenza doveva   seguire quella della volontà, ed era di tutte   - la più ardua, giacchè ora per il discepolo si  trattava di far discendere la verità nelle pro-  fonde latebre dell’ esser suo , e di porla in  azione nella pratica della vita.   Per raggiungere questo scopo ideale oc-  correva secondo Pitagora riunire tre perfe-  zioni: avere realmente la verità nell’intelletto,  la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.  Un'igiene sapiente, una regolata continenza  dovevano serbare al corpo là purezza che si  richiedeva non come scopo, ma come mezzo,   | Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e  quasi un imbratto nel corpo astrale, vivente  | organismo dell’ anima, e per conseguenza  anche nello spirito... A questa altezza l'in-  dividuo diviene un adepto, e, se possiede  bastante energia, entra in possesso di facoltà  e di poteri novelli. Si schiudono i sensi in-  terni animici, e la volontà si riversa radiosa  negli altri sensi.... (vedi E. Schuré op. cit.  Cap. 8).   Di tutto ciò che l'uomo compie prima di  raggiungere questo grado, le cause sono da  ricercare in regioni a lui completamente sco-  nosciute. Lo sguardo del teurgo , invece,  | spazia in coteste regioni, e “ in perfetta       &       =. 8-2    consapevolezza , egli irradia da sè quanto  nell'uomo dorme di solito “ inconsciamen-  te , nelle più profonde latebre dell'anima,  Egli trovasi a faccia a faccia con la sua  Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto in-  visibilmente da “ tergo ».  Col sussidio di siffatti pensieri si dovreb-  bero leggere periodi come il seguente, tratto.  dall'antico testo di sapienza chiamato il Mun-  dakopanishad: “ Quando il veggente vede  l'aureo Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui  grembo è Brahman, allora il savio, dopo che  ha gettato via merito e demerito, raggiunge  immacolato l'unione suprema ».  Alle vette, dunque, che vengono così con-.  quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la  mistica fede nella fulgida forza di codeste  vette gli conferisce la capacità di trapassare.  alcuni dei nebulosi veli che nascondono la.  vera natura delle grandi Guide dell'Umani  tà. Ciò lo rende capace di descriverli, que-.  sti “ Grandi Iniziati ,: Rama, Krishna, Er-  mete, Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone e  Gesù. A grado a grado da coteste Guide  sono state irraggiate nell'umanità le forze a_  seconda della maturità raggiunta dal genere  umano nelle diverse epoche. Rama condusse  alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.       ai    mete ne misero le chiavi nelle mani di al-  «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora additarono  l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il “Sancta  Sanctorum ,, l'intimo sacro. penetrale.  Sarebbe sciupare tutto il singolare in-  canto del libro dello Schuré il volerne rac-  contare il contenuto, nel quale, così com'è  ognuno dovrebbe profondarsi da sè.  Ed, Schurè accenna al fatto che pel tra-  mite del Fondatore del Cristianesimo le  forze della sapienza dei Misteri sono state  riversate nelle vene spirituali dell’ umanità  in forma tale, che le orecchie dell’ umanità  hanno potuto udirla. E anche in questo ter-  reno la verità deve essere cercata pei sen-   tieri che E. Schurè ci presenta. La forza .  che s' irradia dalla personalità di Gesù, è  forza vivente nei cuori di tutti coloro, che  la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere  la vivente Parola che in questa forza agi-  | sce, può solo colui che se ne procaccia la  chiave, mercè la comprensione della sa-  pienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per  — quanto è possibile, il fondamento A. Besant  | col suo “ Cristianesimo esoterico ,. E' que-  | sto un libro, per mezzo del quale l'occulto  | significato delle parole bibliche si svela al  lettore che tutto vi si abbandona,       Sg VI                             Siffatti libri-chiave sono necessari ai no.  stri giorni. L'umanità era in condizione del  F tutto diversa dall’odierna, quando ricevè lE  E vangelo, “ l'annunzio gioioso ,. Oggidì l’in-  telletto ha ben altro allenamento che non  ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’ uomo ‘può  trasmutare in vita propria la forza vivente  della “ Parola palese » soltanto se riesce ad  afferrare cotesta forza mediante la propria  facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta  $ vero eternamente, anche se il modo come  i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso  i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il razio-  7555 }cinio facciano valere i propri diritti è una  necessità ; chi conosce l’ evoluzione umana  sa che deve essere così. E perciò egli dà  oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è  stato dato ad altre forze dell'anima. Da que  sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe  scaturire l'attività del vero teosofo , e così  vuole essere interpretato il “« Cristianesimo  esoterico , di Annie Besant. Il teosofo sa  che nel Cristianesimo c'è la Verità, e sa al-  tresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cri-  ‘sto, non è un “ Duce di morti , bensi un  “ Duce di vivi ,. Il teosofo intende la grande  parola del Maestro: “ Io sono con voi tutti  i giorni, sino alla fine ,,. Alla Guida viven-          Bla: £ @ÈS    te, non a quella dei ragguagli storici, si ri-  volge anzitutto chi, come A. Besant, vuole  spiegare il Cristianesimo. Ciò che la “ Pa-  rola vivente , ancora * oggi ,, annunzia al-  l'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò  che poi proietta la sua luce sul racconto  evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della  Parola è rimasto qui fino ad oggi e può  dirci come dobbiamo intendere la lettera dei  ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi di-  scorsi.   “Le buone novelle » debbono essere  intese “ esotericamente ,, cioè, bisogna, pri-  ma, che sia svegliata dentro di noi la forza  vivente, che imprime su di esse il sigillo di  . Gò che è “ Santo ,,. E poichè l'intelletto e  il razigcinio sono i grandi strumenti della  civiltà d’oggi, bisogna ch’essi vengano libe-  rati dai lacci dell’ intendimento puramente  sensistico , della comprensione meramente  “ positiva , della realtà. L'intelletto stesso  dell'umanità presente deve tuffarsi nel mare  che lo riempie di vera religiosità , giacchè  non è esatto che l’assennato intelletto non  valga che a distruggere le “ i/lusioni , di  cui il sentimento religioso avvolge le cose.  Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato e  inceppato dai successi riportati nella nozione       \    ALI: 000    e nel dominio delle forze puramente mate-  riali della natura. Gli uomini del presente  e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e  i nostri storici, si credono Ziberi nel loro  mondo intellettuale unicamente edificato sul  fatto positivo. In Verità essi vivono sotto  l’azione di una Suggestione dominante su  tutto. Liberi, fino a un certo punto, potre-  ste diventare voi fisici, biologi e storici di  oggi, se voleste riconoscere che i vostri con-  cetti di rea/tà anzi di materie e di forze del  mondo, di sforia umana e di evoluzione  della civiltà, non sono altro che « sugge-  \stioni collettive ,. Un giorno vi cadrà la  benda dagli.occhi, e allora soltanto speri-  meénterete fino a qual punto è verità e non .  errore quel che voi pensate dell'elettricità e  della luce, della evoluzione animale ed umana;  giacchè, notate bene, anche i teosofi riguar-  dano le vostre asserzioni non come errori,  ma come verità. Infatti anche la vostra in-  terpretazione della natura è per loro una  “ professione di fede », e quando essi di-  cono “ di volere cercare il nucleò della ve-  rità in tutte le religioni ,, fanno ciò non  solo riguardo a Buddha, Mosè e Cristo,  ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed  Hickel,       ay ( (A   E opere come queile citate di E. Schuré e   di Annie Besant sono destinate a togliervi  la benda dagli occhi, debbono insegnarvi a  veder chiaro nelle “ vostre suggestioni ».  Conseguentemente, in libri siffatti quel che  importa non è tanto il loro contenuto let-  terale, quanto le occulte forze che mossero  la penna dei loro autori e che si trasfon-  dono nelle vene dei lettori, così che questi  vengono tutti pervasi da un nuovo “ senso  della verità ». 1 lettori che subiscono il giu-  sto effetto di tali libri ricevono sotto un  certo rispetto una /riziazione di tipo , di-  remo così, intellettuale. Chi a questa frase  mon arriccia il naso, come alla asserzione  di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,  invece, qualche cosa di più che una va-  cua frase, potrà anche comprendere, come  — libri siffatti gli vengano presentati non già  per allettarlo a fare una delle solite letture,  ma con l’altra ben diversa mira ch' essi, per    virtù delle forze con le quali sono stati  scritti, debbono suscitare in lui forze dor-  menti, anche se a tutta prima coteste forze  possano essere soltanto quelle dell'arimia in-  tellettiva.  Al nostro tempo, peraltro, non c'è vera  Iniziazione, che non passi per l' intelletto.       DAR; 7 GIS       i Chi vuole in oggi condurre agli .« arcani  superiori , evitando di passare per l' intel-  letto, mon capisce nulla dei “ segni dei |  tempi , e non può far altro che porre sug-  sa gestioni nuove al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were into initiation!”  Giovanni Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711432444/in/photolist-2mMyBgs-2mMv9UH-2mJqjKS

 

Grice e Colecchi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo). Filosofo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia.  Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  Firenze;  Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di Ottavio Colecchi (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, Ottavio Colecchi, in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, Colecchi filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo ad Ottavio Colecchi, in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, Ottavio Colecchi, un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; E. Garin, Storia della filosofia italiana,  III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di Ottavio Colecchi, Centro di studi vichiani; Io e Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle ori gioi dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori il Vico que ste divine idee; aveva lello forse Bruno ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella “Scienza Nuova”, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola  opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di Vico rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato Enea. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispose Vico a crear il “diritto universale” della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolse in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel Blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere,e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di Vico, pieghi sempre al modello di Roma, no di Koesingberga, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.Vico, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,Vico è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità ha parlato pur anche dell'origine e del progresso della civiltà de'popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. Vico, seguace di Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di Vico sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di Vico, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel Vico spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La massima di Vico pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da Vico stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per Vico la virtù del vero. E'chiama virtù del vero l’umana ragione (la vernunft di Kant), la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli del Vico, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli Romolo e Remo o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --  ed ba luogo in ogni società eguale. Nè o s t a p u n t o (come crede Grozio, il quale dital  L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua.   Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal Vico da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista Carmignani, il quale fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo secondario, e dagli Stoici conseguenti della natura. Rimontiamo col Vico all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita: diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto domina la prima: di guise che quando Pompeo, impedito dalla tempesta a partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi, non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo. Ma bisogna un Vico per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità, seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi.ParealVicoche tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale!  per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne' Governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col Diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama Vico il romano diritto un serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani con una paglia, dellaper. Ciòda Gellio festucaria.Pernon diral la fine di tanteal tre, l’azione personale chiamata condictio non più e l’andar unito il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero. Ella è questa, secondo Vico, l'origine ed il progresso dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di Vico stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer anche meglio l’accordo della filosofia di Vico con la legge morale, basta osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo Vico,una sola virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde Vico, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. S o l l o queste forme di governo l u l l a si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.  Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo Vico, nei quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò Vico seguendo Gaio chiama diritto civile comu. d e il diritto comune di ogni popolo; perchè Gaio, ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero, secondo Vico, tre pure forme dello stato. Quella degli ottimati, la regia, e la libera. Fondamento dello stato degli ottimati è la tutela dell’ordine, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gli auspicii, il campo, la gente, I connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, Romolo, e pel sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come vuole Tacito: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe Romolo si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo Diritto, così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere  Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da Gaio diritto comune a tull ipopoli, altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che Vico distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti, come vuole il Vico, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era ancora.  La  libertà del diritto, dice Vico, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di Vico si accorda perfettamente con la morale. All natios bostna  viSing  to  derive  merit  from  the  spiendonr  of  their  original ;  and  irhere  history  ii  uleot,  they  fueiuenJiy  anpply  the  defect  with  fable,  llie  Romans  were  particnlaHy  dcH^OB  of  being' thought  descended  finm  the  goda,  m  if  to  hide  the  meaaDess  of  their  real  anoeatry.  Mueas,  the  Bon  of  Veona  and  AocUaei.  haring  escaped  ftvm  the  deitniotioii  of  Ttey,  after' 11MU17  adventures  and  dangers,  atrived  octet  a   in  Italy,  where  he  was  kindly  received  by  latinus,  '  ^^'*-  king  of  the  latins,  who  gave  him  his  daughter  Lavinia  in  nuiriage.  Italy  was  dien,  as  it  is  now,  divided  into  a  num-  ber of  small  states,  independent  of  enoh  other,  and  conse-  qneatly  subject  to  frequent  contentions  among  themselves.  •  Tumnf,  king  of  the  Rutnti,  was  the  first  who  opposed  .^^eas,  he  having  long  made  pret^uions  to  Lavinia  himself.  A  war  ensued,  in  which  the  Trojan  hero  was  victorious,  and  Tomus  sfadn.  In  consequence  of  this,  jSneas  built  a  city,  which  was  eded  lAvimnm,  in  honour  of  hia  wife,  and  some  time  after,  -  engaging  in  another  war  againat  Hezentius,  one  of  the  petty  Ungs  of  the  country,  he  was  vanquished  in  turn,  and  died  in  battie,  after  a  reign  of  four  years.  AMonios,  his  sod,  suc-  oeeded  to  the  kingdom,  and  to  him  Silvius,  a  second  son,  ^lom  be  had  by  lAvioia.  It  would  be  tedious  and  nnin-  terealing  to  recite  a  dry  catalogue  of  the  kings  that  followed,  nd  of  whom  ve  know  little  mtae  than  the  namea;  it  w91  be    ...Bnfficient  to  say,  that  the  sacoesnoD  coatiDiied  for  near  foor  hundred  years  in  the  family,  and  that  Nninitor,  the  fifteenth  from  ^neas,  was  the  last  king  of  Alba.   Numitor,  vho  took  posseBsitHi  of  the  kingdom  in  conse-  quence of  his  father's  vill,  had  ft  brpther  named  Amnlius,  to  whom  were  left  the  treasures  which  had  been  brought  from  Troy.  As  riches  but  too  generally  prev^  against  right,  Amo-  lins  made  use  of  his  wealth  to  supplant  his  brother,  and  aooo  foDod  means  to  possess  himself  of  the  kingdom,  ^ot  content  with  the  crime  of  usurpation,  he  added  that  of  murder  also.  Nnmitor's  sons  first  fell  a  sacrifice  to  his  suspicions,  and  to  remove  all  apprehensions  of  being  one  day  distorbed  in  his  ill-gotten  power,  he  caused  Rhea  Silvia,  lus  brother's  only  daughter,  to  become  a  vestal  vii^in,  w^ch  office  obliging  her  to  perpetual  celibacy,  made  him  less  uneasy  as  to  the  claims  of  posterity.   His  precautions,  however,  were  all  frustrated  in  the  event;  for  Rhea  Silvia,  going  to  fetch  wator  frqip  a  Qeighbopring  grove,  was  met  and  ravished  by  a  man,  whom,  pei^tqw  to  palliate  her  offence,  she  averred  to  be  Mars,  the  god  of  war.  Whoever  this  lover  of  hers  mi^t  have  been,  whether  some  person  had  deceived  her  by  assoming  so  great  a  name,  or  Amnlins  himself,  as  some  writers  are  pleased  to  a£Srm,  it  matters  not;  certain  it  is,  that  in  due  time  she  was  broug:lit  to  bed  of  two  boys,  vbo  were  no  sooper  bom  than  devoted  by  the  usurper  to  destmction.  The  mother  was  condemned  to  be  boried  alive,  the  usual  punishment  for  vestals  who  had  violated  their  chasti^,  and  tbe  twins  were  ordered  to  be  flung  into  tbe  river  liber.  It  happened,  however,  at  the  time  this  rigoroos  sentence  was  put  into  eieculion,  that  the  river  had  more  than  usually  overflowed  its  banks,  so  that  tbe  place  where  the  children  were  thrown,  being  at  a  distance  from  thei  main  cnirent,  the  water  was'  too  shallow  to  drown  them.  In  this  ntoation,  therefore,  they  continued  withoat  harm;  and  that  no  part  of  their  preservatioD  might  want  its  wonders,  we  are  told,  that  they  were  for  some  time  suckled  there  by  a  wolf,  until  Fanstulos,  the  king's  herdsman,  finding  ihem  ex-  posed, brought  them  home  to  Acca  Laurentia,  bis  wife,  who  broi^ht  them  qp  as  her  own.  Some,  however,  will  have  it;  tiiat  tbe  nurse's  name  was  Lnpa,  which  gaya  rise  to  the  stoijr  vt  their  being  nouriihed  by  a  wolf;  but  it  is  needless  to  vfad    Do,l,,-cdtyS   oirt  a  iwglH  MBpg«b«ba%  fian  'venevntB  vbtfe  die  vkote «  omgrowB  with  ftUe.   Boraoloa  and  Bemna,  Ae  twins  thtu  strangely  prcwcved.  Memed  eariy  to  diacover  afai)iti«i  uid  desiret  above  the  me«i-  noH  of  thor  aapposed  origiiuL  The  ahepkenl's  life  be^an  to  di^leaae  them,  aod  fnaa  tending  the  flocks,  or  hantiag  wild  beasts,  they  soon  tnmed  their  strength  agsinst  the  robben  lonnd  the  eonntry,  whom  they  efien  atfipt  of  their  [daader  to  share  it  among  their  feUew-shepherds.   In  one  of  these  ezcmnons  it  was  that  Remns  ww  taken  priaoner  by  Nvmttor's  berdsmen,  who  brought  lum  before  the  king,  and  aoensed  him  of  the  very  crime  which  he  bad  ao  t^tea  attempted  to  sappresa.  Bomnlaa,  bowerer,  beii^  informed  1^  FaiiBtaliu  of  his  real  birth,  was  not  remisa  in  assembling  ft  munber  of  hia  fbllow^epherds,  in  order  to  resooe  bis  brother  from  posoD,  and  foroe  the  kingdtmi  from  tbe  bands  of  tbe  nsnrper.  Yet,  being  too  feeble  to  act  openly,  he  directed  bis  followers  to  assemUe  near  the  place  by  diffisrent  ways,  while  Beniiis  with  eqnal  vigilaooe  gm&ed  npon  tbe  dtiuua  within.  AmalioB,  tfans  beaet  on  all  sides,  and  not  knowing  iriiat  ex-^  pedient  to  think  of  for  bit  seoiuity,  was,  daring  hia  amasenent  and  distraotion,  taken  and  daio,  while  Nnmito^  who  had  beei»  deposed  forty-two  years,  recognised  bis  grandscns,  and  was  once  more  restored  to  the  throne.   Nnmitor  being  tints  in  qvet  posiewion  of  the  kingdom,  hot  grandaou  resolred  to  bnild  a  eify  npoo  those  hills  whoe  they  had  formerly  lived  as  aheiriierda.  The  king  had  too  many  oUigations  to  them  not  to  approve  their  des^;  he  appointed  tbem  lands,  and  gave  pennisnoB  to  .snoh  of  hia  subjects  a»  thoo^  proper  to  settie  in  their  new  colony.  Many  of  the  neil^draariiig  shejdierda  also,  and  sncb  as  were  fond  of  change,  lepabed  to  the  intended  dty,  and  prepared  to  raise  it.  For  the  more  speedy  oarrybg  on  this  work,  the  people  were  di-  vided into  two  parts,  each  of  whioh,  it  was  sapposed,  woidd  indoatriondy  emnlate  the  otfaer.  Bat  what  was  designed  fi»  an  advantage  proved  nearly  fatal  to  this  infimt  oolony :  it  gave  birth  to  two  factions,  one  preferring  Romnlna,  the  other  Re-  mns, who  themselves  were  not  agreed  npon  the  spot  where  die  city  shonld  stand.  To  terminate  this  difierenee,  they  were  recommended  by  the  king  to  take  an  omen  from  the  ffight  of  Inrds;  and  that  be,  whose  omen  should  be  most  favoorable^   afaonld  in  all  reepeots  direct  die  odier.  In  ooatflSaaoe  wiOl  this  advice,  thej  both  took  their  stations  npon  diffra«nt  hilk;  tp  Remns  appeared  six  Tnlturea,  to  Roniulus,  twice  that  num-  bar,  to  ttwt  each  party  thongfat  itielf  viotoriovi,  the  one  tiaviog  the  first  omen,  the  other  the  most  nnmeroiu.  Tbifl  prodnoed  a  contest,  whitdi  ended  ui  a  batde,  wherein  Bemoa  was  slain,  and  it  is  even  said,  that  he  was  kiUed  by  his  brother,  who,  fac-  ing provoked  at  his  leaping  contemptnoasly  over  the  city  wbU,  itrack  him  dead  upon  tbe  qrat,  at  the  same  time  proKssio^,  that  nooe  shonld  ever  inanlt  his  walla  with  impunity.   Romoltu,  being  now  sole  coHunuider,  and  eighteen  yean  of  age,  b^an  the  fonndation  of  a-city,  that  was  one  day  to  give  laws  to  the  woild.  It  was  called  Borne  after  the  uaaie  of  the  foonder,  and  bnilt  npon  the  Paladne  hiO,  on  which  he  had  taken  lus  ancceflsfol  omen.  The  city  was  at  first  almost  square,  oontaining  «bont  a  tlwiisand  houses.  It  was  near  a  mile  in  compass,  and  commanded  a  small  territory  ranod  it  of  about  eight  miles  over.  However,  small  as  it  appears,  it  was,  ootwithstandiiy,  vone  inhabited;  and  the  first  method  made  uae  of  to  increase  its  numbers  vaa  the  opemng  a  sanctosry  for  all  male&otors,  slaves,  aod  snch  as  wm«  desirons  of  novelty.  These  came  in  great  multitudes,  and  cootribated  to  increase  the  number  of  our  legtslatoi'B  new  subjects.  To  have  a  just  idea  ther^re  of  Rome  in  its  infant  stale,  we  have  only  to  iwsgine  a  coUec-  tion  o(  cottages,  sairotinded  by  a  feeble  wall,  rather  built  to  serve  as  a  military  retreat,  than  for  the  purposes  of  civil  >o-  cie^,  rather  filled  with  a  tnmoltuoas  and  vicious  rabble,  thaD  with  subjects  bred  to  obedience  and  control;  we  have  only  to  conceive  men  bred  to  rapine,  Iwing  in  a  place  that  merelj  seemed  calculated  for  the  security  of  plonder;  and  yet,  to  our  astonishment,  we  shall  soon  find  this  tumulbioas  coocouise  unit>  ingin  the  strictest  bonds  of  sode^;  this  lawless  rabble  putting  OB  the  most  sincere  regard  for  religion ;  end,  thouf^  composed  of  the  dr^s  of  mankind,  setting  exai^ples,  to  all  the  worid,  of  valour  and  riitne.    Doiii,,ih,.   WWLOU   SoARGB  mm  tbe  city  rnsed  abore  iti  &niid«tioB.  vhen  Hs  rade  mhalulsBtB  hegaa  to  tfauik  of  gmag  some  fonn  to  their  .  MoslitBtioii.  Their  first  object  was  to  unite  lifoer^  and  em-  pire;  to  fonn  a  kiod  of  mixed  monncby,  by  irfaicfa  all  power  vw  to  be  dividad  between  the  prince  and  the  peopte.  Bo-  ■nlna,  by  an  act  of  great  geoeromtf,  left  them  at  liberty  to  dwose  whom  they  wonld  for  dieir  king,  and  tliey  in  gnrtitiide  eoBcmred  to  elect  their  founder ;  be  was  accordingly  acknow-  ledged as  chief  of  dieir  religion,  sovereign  magistrate  of  Borne,  md  geoeral  of  Ae  army.  Beside  a  guard  to  attend  his  person,  it  was  agreed  that  he  should  be  preceded  wherever  be  went  by  tweW e  mCT,  armed  with  axes  tied  op  in  a  bnadle  of  rods,  who  were  to  serve  as  execntioners  of  the  law,  and  to  impress  hii  new  subjeots  with  an  idea  of  his  authority.  Yet  stUl  tUa  aKiboriQr  was  ondw  very  great  restriotii»ig,  as  his  whole  power  CMisisted  in  caQing  the  senate  togedier,  in  assembling  the  peo<  pie,  io  condoctmg  the  army,  when  it  was  decreed  by  the  other  part  of  the  constitation  that  they  ahonld  go  to  war,  and  in  k^  pointing  the  qnestors,  w  neainrers  of  the  pnblk:  money,  <^ficers  which  we  may  soppose  at  that  time  had  but  very  Ktfle  eni^oyment,  as  neither  the  soldiers  nor  magistrates  recrived  any  pay.   The  senate,  wluch  was  to  act  as  cosnsellors  to  the  king,  was  composedof  an  imndred  of  the  printnpal  cttisens  of  Bune,  oODStsting  of  men  whose  age,  wisdom,  or  valoor,  gave  them natoral  an^toiitf  over  titeir  feUow-«ab|ect8.  The  king  named  the  fint  senatw,  and  appointed  him  to  the  government  of  &e  atj,  whenever  war  reqoired  the  geoeial's  absence.  In  dds  neqiect^e  assembly  was  transacted  all  the  important  boainesa  of  the  slate,  the  king  himself  presiding,  ^thongh  every  ques-  tion w'as  tO'be  determined  by  a  minority  of  voices.  Ai^  they  were  supposed  to  liave  a  parental  affection  for  die  people,  they  were  called  latbMS,  and  their  descendants  patricians.  To  the  pafericiaits  belonged  all  ttte  dignified  oiBees  of  tlie  state,  as  well    r,o,i,,-cMh,. as  of  tiie  imesfbood.  To  these  the;  were  appofaited  by  the  senate  and  the  people,  vhile  the  lower  ranks  of  citizens,  wlio  were  thns  excluded  from  all  views  of  promotion  for  then-  seUes,  woe  to  expect  advantages  ou^  from  their  ntloiir  in  war,  or  their  assidiiity  in  agriculture.   The  plebwms,  who  composed  the  third  part  of  the  legi»-  la^oce,  assumed  to  tbemselTcs  the  power  of  aathorising'  those  laws  iHiicb  were  passed  b;  the  kia^  or  the  setwle.  All  tUi^  x^ative  to  peace  or  war,  to  the  electi<Hi  of  magistiatei,  and  even  to  the  choosing  a  king,  were  confirmed  by  their  sufiragea.  la  their  namMmu  aaaomblies.  all  mterptises  against  the  enemy  were  proposed,  while  the  senate  had  onij  a  power  of  rejeotiog  «r  approving  their  Aemfpit.  Thus  was  the  ststa  composed  of  three  orders,  each  a  check  np<»i  the  other :  the  people  resolved  whedier  the  proposals  of  the  king  were  plea-  sing to  them,  the  senate  deliberated  upon  the  expediency  of  the  measure,  and  the  king  gave  vigour  and  spirit  by  directing  the  execBtion.  Bat  thov^  the  pei^le  by  these  regulations  seemed  in  possession  of  great  pow«,  yet  th«re  was  one  cdr-  onmstaace  which  c<nitiibuted  greatly  to  its  dimmntion,  nara^,  the  rights  of  patronage  which  wece  lodged  in  the  smate.  I^  king,  sensible  that  in  every  state  there  must  be  a  'dependaoee  of  the  poor  upon  the  powerful,  -gave  permission  to  every  |:4e-  beian  to  choose  one  among  the  senators  for  a  patron.  Tke  bond  between  them  was  of  the  strongest  kind ;  the  patron  was  to  give  [woteotion  to  his  client,  to  assist  him  with  lus  advice  and  fortune,  to  plead  for  him  before  the  judge,  and  to  rescue  him  from  every  oppression.  On  the  other  hand,  the  climt  attached  himself  to  the  interests  of  his  patron,  assisted  han,  if  poor,  to  portion  his  daughters,  to  pay  his  debts,,  or  his  rmuom  -  in  case  of  being,  taken  prisoner.  He  was  to  follow  him  on  every  service  of  danger;  whenever  he  stood  candidate  for  an  office,  he  was  obliged  to  give  him  his  sufi&age,  and  was  pro-  Ubited  from  giving  testimony  in  a  court  of  justioe  whenever  his  evidence  affected  the  int^ests  of  his  patron.  These  reci-  procal dotias  were  held  so  sacred,  that  any  who  violated  them  were  ever  after  held  infamous,  and  excluded  6x»n  all  the  pro-  tection of  the  taws :  so  that  from  hence  we  see  the  senate  in  effect  possessed  of  the  snffirages  of  &ea  clients,  nnce  all  that  was  left  the  people  was  <Hily  the  poww  of  choonng  what  pa-    Doiii--,-,ih,.Googlc    IN8T1T6T10NS   OP   XOIIirLUS.  f   tron  Ibery  should  obey.  Amoaf  a  nRtion  m>  tMibstont  and  fierce  as  the  first  Romans,  it  was  wise  to  enforce  obedience  ■t  &6  most  reqnidte  dnty.   lie  first  care  of  the  new-created  king  was  to  attend  to  the  interests  of  religion,  and  to  endeavour  to  hnmantse  his  sub-  jects, by  the  notion  of  other  rewards  and  pnnishnients  than  diose  of  hnman  law.  The  precise  form  of  their  worship  is  nn-  known ;  bat  die  greatest  part  of  the  religion  of  that  age  con-  siMed  in  a  firm  relianoe  upon  Ae  credit  of  their  soothsi^ers,  irito  fvetended,  from  observations  on  the  flight  of  birds  and  the  entrails  of  beasts,  to  direct  the  present,  and  to  dive  into  fntmrity.  This  pioos  fhrad,  wbich  first  uvse  from  igno-  rance, soon  became  a  most  usefnl  machine  in  the  hands  of  government.  Romnlns,  by  an  express  law,  commanded,  that  no  election  should  be  made,  no  enterprise  undertaken,  witfa-  flat  first  conaolting  die  soothsayers.  With  equal  wisdom  he  •rdained,  that  no  new  divinities  should  be  introdoced  into  pnhlic  worship,  that  the  priesthood  should  continue  for  fife,  and  that  Aone  shonM  be  elected  into  it  before  the  age  of  fifty.  '  He  fort>ade  them  to  mix  fable  witb  the  masteries  of  their  reUgion ;  And,  timt  they  mi^t  be  quaKfied  to  teach  others,  he  ordered  Aat  tiiey  should  be  tiie  iHstoriographns  of  tiie  times;  so  tiia^  while  instructed  by  priests  Bk^  these,  the  people  cordd  never  degenerate  into  total  barbarity.   Of  his  other  laws  we  have  but  few  fragments  remmnii^.  In  these,  however,  we  learn,  that  wives  were  forbid,  upon  any  pretext  whatsoever,  to  separate  from  tbeir  husbands;  wUle,  on  the  contrary,  the  husbaod  was  empowered  to  repu-  diate the  wife,  and  even  to  put  her  to  death  with  the  consent  of  hef  retatioQB,  in  case  she  was  detected  in  adultery,  in  at-  tempting to  poison,  in  making  false  keys,. or  even  of  having  drank  too  much  vine.  His  laws  between  children  and  their  parents  w«'e  yet  sdll  more  severe ;  the  father  had  entire  power  over  his  offspring,  both  of  fortune  and  fife;  he  conid  ■ell  them  or  imprison  them  at  any  time  of  their  lives,  or  in  any  ttations  to  which  they  were  arrived.  The  father  might  expose  his  clnldren,  if  bom  witii  any  deformities,  having  previoasly  eommunicated  bis  intentions  to  his  five  next  of  kindred.  Our  lawgiver  seemed  moze  kind  even  to  his  enemies, for his subjectswere prt^hited  from  killing  them  after  they  bad  surren-  dM«d,  m  even  from  sdling  them:  his  ambition  only  aiaied  at    .,Coo<^lc    r  of  luB  ateaaeB  i^  mak   After  M>  many  endeaToiiTs  to  inoraase  bia  BnbjeotBi  aad  m  mmy  Inra  to  r^nlate  them,  he  next  gave  ordeis  to  ascertna  tbeir  numbers.  Tbb  whole  amoanled  bat  to  three  tbooMnd  foot,  and  about  as  many  bnndred  horsemen,  capable  of  beari^  arms.      These,    therdbre   were   divided   equally   into   three   '  tribes,  and  to  each  he  asiigaed  a  different  part  of  the  taty.   .  Each  of  these  tribes  were  sabdivided  into  ten  cmin  or  com-  pames,  consiBting  of  an  hundred  men  each,  with  a  oentnrioB  to  command  it,  a  priest  c^ed  curio  to  perform  the  sacrifioes,  and  two  of  the  principal  inhatntants,  called  duumviri,  to  dis-  tribute jnstioe.  Aocordijigly  to  the  number  of  ooriv  he  di-  videdthe  lands  into  thirty  parts,  reserving  one  portion  for  public  uses,  and  another  for  religiaus  ceremonies.  Tbo  «m-  ■phaty  and  fingality  of  tha  times  will  be  best  iindeistood  by  observing,  that  dach  citizen  had  not  id>ove  two  ictea  of  ground  for  his  owB  subsistence.  Of  the  horsemen  mentioned  above,  dtere  were  chosen  ten  from  eei^  curia;  tfaey  were  particularly  appointed  to  fi^t  round  the  person  of  the  king;  of  them  hU  gaud  was  composed,  and  from  tbeir  alacrity  in  battle,  or  fhuB  the  >ame  of  their  first  commander,  ^ey  were  called  ceUrat,  a  word  equivalent  to  our  light  horsemen.   A  goremmcot  thus  wisely  instituted,  it  may  be  suppoaed,  nduced  numbers  to  come  and  live  under  it:  each  day  added  to  its  strength,  maltitudes  flocked  in  from  all  the  adjacent  towns,  and  it  only  seemed  to  waqt  women  to  ascertain  its  du-  ration. In  this  exiaeiatx,  Romulus,  by  the  advice  of  the  se-  nate, sent  deputies  among  the  Sabines,  his  neighbours,  en-  treatingtheir  alliance,  and  upon  these  terms-  ofiering  to  cement  the  most  strict  confederacy  with  them.     The  Sabines,   .  who  were  then  considered  as  the  moat  warlike  people  of  Italy,  r^ected  the  proposition  with  disdain,  and  some  even  added  raillery  to  the  refusal,  demanding,  that  as  he  had  opened  a  sanctuary  for  fugitive slaves,  why  he  had  not  also opened  another  for  prostitute  women.  Tbis  answer  quickly  raised  the  indignation  of  the  Rpmans;  and  the  king,  in  order  to  gratify  their  resentaient,  while  he  at  the  same  time  should  people  hb  ci^,  resolved  to  obtain  by  force  what  was  denied  to  intrea^.  For  this  purpose  he  proclaimed  a  feast,  in  honour  of  N^tane,  diron^ut  all  the  nMghboitring  villagea,  and  made  the  meet    KAPB  OF  THK  BABINBS.  t   mmgaiAMat  pnftamtkmi  for  it  Tbets  feuta  wen  guan^  preceded  by  sacrifices,  and  ended  in'  shows  of  wreeden,  ^ft-  diaton,  and  chariot-^onrses.  The  Salnnes,  as  he  had  ex-  pected, were  among  the  foremost  who  came  to  be  spectalon^  fannging  their  wives  and  daughters  with  them  to  share  t^  pkasore  of  the  sight.  The  inhabitants  also  of  maaj  of  tht  ueig^hoariDg  to^os  came,  who  were  received  by  the  RomaM  with  marks  of  the  most  cordial  hospitality.  lo  the  mean  time  '  the  games  began,  and  while  the  strangers  were  most  intent  upon  the  spectacle,  a  number  of  the  Roman  yonth  rushed  la  mnoag  them  wiUi  drawn  swords  seized  the  yotingedt  and  meet  beaatilid  women,  and  earned  them  off  by  violence.  ,  In  vain  the  parents  protested  against  this  bre&cfa  of  hospitali^;  in  vain  the  virgins  themselves  at  first  opposed  the  attempts  of  th^  raviBfaers;  perseverance  and  caresses  obtained  those  &•  TOWS  which  timidi^  at  first  denied:  so  that  the  betrayera,  frma  being  objects  of  aversion,  soon  became  partners  of  their  dearest  affections.   But  however  the  afiront  might  have  been  botne  by  them,  it  was not  BO  easily  pnt  up  by  their  parents;  a  bloody  war  ei^  sued.  The  cities  of  Cenioa,  Antemna,  and  Cnutuminm,  wen  the  &at  who  resolved  to  revenge  the  common  cause,  which  the  Salnses  seemed  too  dilatory  in  pursuing.  These,  by  making  aeparate  inroads,  became  a  more  easy  conquest  to  Romulus,  who  first  ovothrew  the  Ceoinenses,  slew  dieir  king  Acron  in  sio^  combat,  -and  made  an  offering  of  the  royal  spoils  to  Ju-  piter Feretrius,  on  the  spot  where  the  capitol  was  afterwards  built  The  Antemnates  and  Crustuminians  shared  the  same.  fate;  their  armies  were  overthrowu,  and  their  cities  takes.  The  conqueror,  however,  made  the  most  merciful  use  of  las  victny;  for  instead  (rf  destroying  their  towns,  or  lessemi^l  tbent  nnmbeis,  he  only  placed  colonies  of  Romana  in  them,  to.  serve  as  a  frontier  to  repress  more  distant  invasions.   Tattos,  king  of  Cures,  a  Sabine  city,  was  the  last,  althou^  the  most  formidable^  who  undertook  to  cevuige  the  disgrace  his  country  had  suffered.  He  entered  the  Roman  territoriea  at  the  head  of  twenty-five  thousand  men|  and  not  content  with  a  superiority  of  forces,  he  added  stratagem  also. Tarpeia,  who  was  daughter  to  the  commander  of.  the  Cajutolme  hill,  hap-  pened to  &11  into  his  hands,  as  she  went  without  4>e  walls  of  the  city  to  fetch  water. Upon  her  he  prevailed,  by  meant  of    hrga  pttuSaet,  to  bebrajr  aae  of  the  ^^ates  to  his  army.  Tlie  i«<irwd  she  eagdgei  for  was  vfaat  the  soldiers  wore  on  their  atteB,  by  vfaich  the  meaot  their  bracelets.  They,  however,  cotber  miataking^  her  meaning,  or  wiUing  to  panish  her  peifidy,  ttvew  tlieir  bncklera  upon  her  as  they  entered,  and  crushed  ber  to  death  beneath  them.  The  Sabines,  being  thus  possessed of  the  Capitoline,  had  the  advantage  of  continning  the  War  at  tbeir  pleasure;  and  for  some  time  only  slight  enconnters  passed  between  them.  At  length,  however,  the  tedionsness  of  this  contest  began  to  weary  out  both  parties,  so  that  each  wished,  but  neither  would  stoop  to  sue  for  peace.  The  desire  of  peace  ofteii  gives  vigour  to  measures  in  war ;  wherefore  boUt  sides  resolving  to  terminate  their  doubts  by  a  detMsive  ac-  tion, a  general  engagement  ensued,  which  was  renewed  for  several  days,  with  almost  equal  success.  They  both  fon^t  for  all  that  was  vEduable  in  life,  and  neither  could  think  of  sub-  mitting: it  was  in  the  valley  between  the  Capitoline  and  Qui-  rinal  hills,  that  the  last  engagement  was  fought  between  the  Romans  and  the  Sabines.  The  engem«it  became  general,  and  the  slaughter  prod^ioua,  when  the  attention  of  both  sides  was  suddenly  turned  from  the  scene  of  horror  before  them,  to  (mother  infinitely  more  striking. The Sabine women, who  h^  been carried off  by  the  Romans,  were  seen  with their  hair  loose  and  iheir  ornaments  neglected,  fiying  in  between  tbe  comba-  tants, regardless  of  their  own  danger,  and  with  loud  outcries  only  solicitous  for  that  of  their  parents,  their  husbands,  and  their  cUIdren.  "  If,"  cped  ihey,  "  you  are  resolved  upon  daughter,  turn  your  atma  upon  us,  since  we  only  are  the  cause  <tf  your  animosity.  If  any  must  die,  let  it  be  us;  since  if  oar  parents  orour  husbands  faU,  we  must  be  equally  miserable  in  being  the  surviving  cause."  A  spectacle  so  moving  could  not  be  resisted  by  the  combatants;  both  sides  for  a  wtiile,  as  if  by  mutual  impulse,  let  fall  their  weapons,  and  beheld  the  distress  -  in  silent  wnazement  The  tears  and  entreaties  of  thdr  wives  and  daughters  at  length  prevaUed;  an  accommodation  ensued,  by  which  it  was'  agreed,  that  Romulus  and  Tatius  should  t«ign  jointly  in  Rome,  with  equal  power  and  prerogative;  diat  an  bailed  Sabines  should  be  admitted  into  the  senate;  that  the  city  should  still  retain  its  farmer  name,  but  that  As  citizens  should  bctdled  Qnirites,  after  Cures,  the  principal  town  of  the  Sabines;  and  that  both  nations  being  thus  united.   11   •aoh  of  the  Sabtees  u  i^ose  it  shoiM  be  sdnAted  to  Bniad   eDJoy  all  the  privilegea  of  citizens  oi  Rome.  llaH  erery  •torm,  vhich  seemed  to  threateo  this  growing  empire,  only  served  to  increase  itvigour.  That  army,  wfaich  in  die  mondug  had  resolved  upon  its  destruction,  came  in  the  evetlin^  with  j(^  to  be  enrolled  uiDoag  the  number  of  its  ctttzens.  RomfoloB  saw  his  dominions  and  his  sul^ects  increased  by  more  then  half  in  the  space  of  a  few  hours;  and,  as  if  fortune  meant  every  way  to  assist  hisgieatness,  Tatins,  his  partner  in  the  govem-  ment,  was  killed  about  five  years  after  by  the  Lavinians,  for  having  protected  some  servants  of  his,  who  had  plundered  them  and  slain  their  ambassadors;  so  that  by  this  accident  Romulus  once  more  saw  himself  sole  monarch  of  Borne.   Rome  being  greatly  strengthened  by  this  new  acquisition  of  power,  began  to  grow  formidable  to  her  neighbours ;  and  it  -aiay  be  supposed,  that  pretexts  for  war  were  not  wanting,  when  prompted  by  jealousy  on  their  ride,  and  by  ambition  on  that  of  the  Romans.  Fidena  and  Cameria,  two  oe^hbonring  cities,  were  stibdoed  and  tAken.  Veii  also,  one  of  the  most  powerAil  states  of  Etruria,  shared  neariy  the  same  fate;  after  two  fierce engagements  tiiey  sued  ftM*  a  peace  and  a  league,  which was  granted  upon  giving  np  the  seventh  part  of  tbev  dominions,  their  salt-pits  near  the  river,  and  hostages  for  greater  security.   Snccesges  like  these  produced  an  equal  share  of  pride  in  the  oonqneror.  From  being  contented  with  those  limits  which  had  been  wisely  fixed  to  his  power*  he  began  to  affect  absolute  sway,  and  to  govern  those  laws,  to  which  he  had  himself  for-  merly professed  implicit  obedience.  The  senate  was  partioH-  larly  displeased  at  his  conduct,  finding  themselves  only  used  as  instrom^its  to  ratify  the  rigour  of  his  commands.  We  are  not  told  the  precise  manner  which  they  made  use  of  to  get  rid  of  the  tyrant:  some  say  that  be  was  torn  in  pieces  in  the  senate  botise;  otiters  that  he  disappeared  while  reviewing  his  army:  eertain  it  is,  that  from  the  secrecy  of  the  fact,  and  the  conceal-  ment of  the  body,  tbey  took  occasion  to  persuade  the  mnlti'  tade,  that  he  was  taken  np  into  heaven;  thus  him  whom  they  oonld  not  bear  as  a  king,  tbey  were  contented  t« worship  as  a  god:   Romnlns  reigned  tlnrty-seven  yean,  and  after  his  death  bad  a  temple  built  to  turn  under  the  name  of  Quirinus,  one  of  the   Hwrton  wilwMly  vffiiniaff,  that  be  had  appeared  to  hm,  and  desired  to  be  isTtAed  by  that  tide.  We  see  little  more  in  the  obaraeter  of  this  prince,  than  vhat  mi^t  be  expected  in  andk  an  a^,  great  temperance  and  great  valour,  wbich  generally  make  np  the  catalt^e  of  sar^^e  virtues.  Howeva,  the  gnndenr  of  an  empire,  admired  by  the  whole  irorid,  creates  in  u  an  adnuration  of  tiie  founder,  viftoat  mnch  raamimng'  hia Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690057259/in/photolist-2mPrdWj-2mKF4aM-2mKGaqS-2mKw3hq-2mKEJsY

 

Grice e Colizzi – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo. Grice: “By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” --  Grice: “If I had to chose one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. Colizzi si è appreso attraverso i riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato, di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore, in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare.  Cf. G. Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” G. Bruno, “Praxis descensus seu applicatio entis,” D.Cantimori, “Storia ereticale” (G. Laterza). F. Bolgiani, “Ortodossia ed eresia: il problema storiografico nella storia e la situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID).  A  compimento  di  questo  settimo  Libro  ed  in  osservanza  alla  regola  fin  qui  seguita,  rimanci  di  far  menzione  di  que'  nostri  Concittadini  ,  che  in  questo  secolo  XVII  per  meriti  di  santità,  o  per  dottrina,  ovvero  per  singolare  valore  nelle  scien-  ze, se  ne  resero  meritevoli.   E  primo  ci  si  presenta  il  Ven.  Fr.  Agostino  da  Norcia  della  famiglia  Colizzi,  emulo  delle  virtù  del  suo  zio  Fr.  Giustino  da  noi  ricordato  al  Capi-  tolo XXIII. De gl’eroici furori di Giordano Bruno  Letteratura italiana Einaudi   Edizione di riferimento: Giordano Bruno Nolano, De gli eroici furori. Parigi, appresso Antonio Baio l’anno 1585, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di Michele Ciliberto, Mondadori, Milano 2000 Letteratura italiana Einaudi   Sommario Argomento del Nolano 2 Avertimento a’ lettori 20 Iscusazion del Nolano 22 Prima parte de gli Eroici Furori Dialogo primo 24 Dialogo secondo 38 Dialogo terzo 48 Dialogo quarto 62 Dialogo quinto 83 Seconda parte de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo terzo Dialogo quarto Dialogo quinto 118 152 164 176 193 Letteratura italiana Einaudi   Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo Letteratura italiana Einaudi 1   Giordano Bruno - De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto constante- mente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una inde- gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di com- passione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, con- templativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, ado- ratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza ri- conoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più super- bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana Einaudi 2   Giordano Bruno - De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricet- to dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in car- te, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’inse- gne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epi- grammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estre- mi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, do- glie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermi- glio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel riset- to, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclis- sato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel se- polcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un fantasma, un so- gno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un na- vilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la no- stra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lez- zo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son manifesti a tutto il mondo; a fin che ama- ramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son forse nemico della gene- razione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può pro- Letteratura italiana Einaudi 3   Giordano Bruno - De gli eroici furori dur l’orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buo- na volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura italiana Einaudi 4   Giordano Bruno - De gli eroici furori quel splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante oc- cupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordi- ni e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno es- sere differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori eroici otte- gnono suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghia- li sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal su- spizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal ri- goroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio divino che farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra Letteratura italiana Einaudi 5   Giordano Bruno - De gli eroici furori per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure sono aperta e manife- stamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paio- no greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fon- damentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il qua- le appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivo- glia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transfe- rirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a sti- racchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui Letteratura italiana Einaudi 6   Giordano Bruno - De gli eroici furori se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa spendere più amore in co- sa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Val- clusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per cele- brar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ no- Letteratura italiana Einaudi 7   Giordano Bruno - De gli eroici furori stri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martel- lo, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de can- zonieri suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono de- gnamente lodate e lodabili: non quelle che possono es- sere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tut- to il sesso femenile, non si deve né può intendere de al- cune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in si- militudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio no- minare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze et atti più nobili de l’ani- ma intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, Letteratura italiana Einaudi 8   Giordano Bruno - De gli eroici furori che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e de- terminazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque arti- coli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi intrinseci sotto nome e figura del mon- te, e del fiume, e de muse che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: on- de vegna significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con- verta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi- mento; onde disse la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in vineis». Là Letteratura italiana Einaudi 9   Giordano Bruno - De gli eroici furori sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto, l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla con- cordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente de- scritto l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti et atti in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me, viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap- partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella Cantica: «Surge, propera, columba Letteratura italiana Einaudi 10   Giordano Bruno - De gli eroici furori mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma. In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore, l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e con- Letteratura italiana Einaudi 11   Giordano Bruno - De gli eroici furori venienza di quelli, per le antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli. argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira. Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale, fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, me- Letteratura italiana Einaudi 12   Giordano Bruno - De gli eroici furori diante le quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo s’esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente espresso quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo- roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se l’intelletto o general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della cognizio- ne, sia maggior de la volontà o generalmente della po- tenza appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin a l’appeti- to in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”; onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in prima, media, et ultimamente noti se- Letteratura italiana Einaudi 13   Giordano Bruno - De gli eroici furori condo la natura: nella quale fanno in conclusione con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en- te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari- mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata Letteratura italiana Einaudi 14   Giordano Bruno - De gli eroici furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza, e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa similitudine analogale dependono dalla Letteratura italiana Einaudi 15   Giordano Bruno - De gli eroici furori prima et unica. Queste da Cabalisti, da Caldei, da Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si signifi- che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et Letteratura italiana Einaudi 16   Giordano Bruno - De gli eroici furori oscure regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con- fermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re- frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno. All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è Letteratura italiana Einaudi 17   Giordano Bruno - De gli eroici furori causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: «Figlia e madre di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or che è messa in speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro mio vase fatale», è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è original- mente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descen- so da un tropico et ascenso da un altro. Là dove dice «Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni», significa che non è progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sa- pienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che ap- parve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et ammini- strano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, a Letteratura italiana Einaudi 18   Giordano Bruno - De gli eroici furori sciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola pre- senza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligen- ze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo della su- periore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le sfere, intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio- ri, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19   Giordano Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale. avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine: Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi 20   Giordano Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21   Giordano Bruno - De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte. Letteratura italiana Einaudi 22   Giordano Bruno - De gli eroici furori PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 23   Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri- mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia, ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta quello: Letteratura italiana Einaudi 24   Giordano Bruno - De gli eroici furori Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so. Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione. cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi 25   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi- dio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori, esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana Einaudi 26   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel ch’è detto e proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli ve- ri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali: e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate. Letteratura italiana Einaudi 27   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi “nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo “inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte” in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli: cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: [1] In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi, Letteratura italiana Einaudi 28   Giordano Bruno - De gli eroici furori non favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen- do esser l’alto affetto del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”, dicendo esser le “bellezze” e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fon- ti, e questi dice esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno illustre- mente coronato per via del suo core, pensieri e lacri- me, che altri per man de “regi”, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: “il core in forma di Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, Letteratura italiana Einaudi 29   Giordano Bruno - De gli eroici furori ad una beltà sola io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade umana che sie- de in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il “suono de la tromba”, cioè della determinata elezzio- ne, chiama “tutti gli guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti “sott’un’insegna” d’un determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: pro- cedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto riguarda”, a cui è volto con l’in- tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga “ingombra la mente”. “In una sola beltade” si diletta e compiace; e dicesi “restarvi affiso”, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là sola- mente concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte Letteratura italiana Einaudi 30   Giordano Bruno - De gli eroici furori ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli elementi attivis- simo è potente a convertire tutti quell’altri semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo “Conosce un paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in similitudine, ombra e parti- cipazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo be- ne. Del secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piace ........................................................................... farà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amo- rosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la “sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”. Dove l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico si- gnor e duce de lui; la sorte non è altro che la disposi- Letteratura italiana Einaudi 31   Giordano Bruno - De gli eroici furori zion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non biso- gna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore “ap- paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che ve- ramente ama non vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte “affanna” per non felici e non bramati suc- cessi, o perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la di- gnità di quello; o perché non faccia reciproca correla- zione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto “contenta” il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”, perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre Letteratura italiana Einaudi 32   Giordano Bruno - De gli eroici furori insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si dimostra (co- me sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturi- sce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in di- spreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amo- re non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che in Letteratura italiana Einaudi 33   Giordano Bruno - De gli eroici furori qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di di- spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e “ria” si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Letteratura italiana Einaudi 34   Giordano Bruno - De gli eroici furori Cossì chiama l’oggetto “alta bellezza”, perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto sud- dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la gelosia, perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemi- ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: “Mi mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra, chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura italiana Einaudi 35   Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie via”, di- ce de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è lontano et adversa- rio. “Ogni ben mi presenta”, dice de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et il tutto. “Me l’invola”, dice della Gelosia, non già per non farlo presente to- gliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso languire. “Tanto ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia” nel suo volere per forza d’amo- re, qualunque sia il successo. “La mente”, cioè la par- te intellettuale, ha “noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce l’amante. “Il spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. “L’alma”, cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considera- zion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di guerra”, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi 36   Giordano Bruno - De gli eroici furori lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”, tu, Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo ogget- to è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque dopo aver detto “nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? fine del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi 37   Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO SECONDO tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per pro- vare quel che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino composto non è pu- ro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li no- stri affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura italiana Einaudi 38   Giordano Bruno - De gli eroici furori ne è causa che troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come senza contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla appren- sion del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni: «Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». Letteratura italiana Einaudi 39   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Volete dumque che colui che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi- derazione ha presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le cose mutabili come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico, intendi come due Letteratura italiana Einaudi 40   Giordano Bruno - De gli eroici furori virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi- nimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là dove è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in- differente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con- tento e minimamente triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella casa della temperanza, e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo eroico furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla Letteratura italiana Einaudi 41   Giordano Bruno - De gli eroici furori dal core per cura d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis». tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi, qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene, d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana Einaudi 42   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Come con questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte morta vita vivo”. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considera- zion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog- giar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pa- store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi? Letteratura italiana Einaudi 43   fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. Giordano Bruno - De gli eroici furori Letteratura italiana Einaudi 44   Giordano Bruno - De gli eroici furori pastore Temo il suo sdegno, più che miei tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami: men- tre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo che son protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto in speranza di futura et incer- ta mercé, et in effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dum- que la speranza esser fondata sul futuro, senza che co- sa alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe es- ser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l’occa- sione per la quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser vera- mente eroico: perché si propone per più principal fi- ne la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che Letteratura italiana Einaudi 45   Giordano Bruno - De gli eroici furori la bellezza del corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre spe- cie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o spe- culativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria: cossì son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla consi- derazione della spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti altri, se- condo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tende- no a fin del gusto che si prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual otten- to (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del cor- po; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui lontananza si la- gnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che presumendo in questo non vegnan privi di quell’affa- bilità, conversazione, amicizia et accordo che gli è più Letteratura italiana Einaudi 46   Giordano Bruno - De gli eroici furori principale: essendo e dal tentare non più può aver si- curezza di successo grato, che gran téma di cader da quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato da qualche sta- tua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso, se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) di- ca: “Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento”. fine del secondo dialogo Letteratura italiana Einaudi 47   Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO TERZO tansillo Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mo- strano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purga- ta, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de pro- pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per pro- prio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno sti- molo e fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendo- no il lume razionale con cui veggono più che ordina- riamente: e questi non vegnono al fine a parlar et ope- rar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi seri Letteratura italiana Einaudi 48   Giordano Bruno - De gli eroici furori essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et asso- migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni, rui- ne e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi- cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine Letteratura italiana Einaudi 49   Giordano Bruno - De gli eroici furori de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra contempla (quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice: Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se quand’il cervio per sete vien meno, Letteratura italiana Einaudi 50   Giordano Bruno - De gli eroici furori al rio va, non sa della freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfal- la, del cervio e del lioncorno, che fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla pri- ma verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, Letteratura italiana Einaudi 51   Giordano Bruno - De gli eroici furori fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quel- le, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è in- dice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’inna- mora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli deter- minati colori o forme, ma in certa armonia e conso- nanza de membri e colori . Questa mostra certa sensi- bile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et in- tensamente s’innamorano, et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e Letteratura italiana Einaudi 52   Giordano Bruno - De gli eroici furori far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac- ciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposi- zion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla conformità si suscita, accende e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che quan- tunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ri- cevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto Letteratura italiana Einaudi 53   Giordano Bruno - De gli eroici furori vili (de quali vizii questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà, es- sendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella di- stinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amia- mo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè ch’io son costretto dal furo- re d’appigliarmi al mio male». In contraria disposizio- ne fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. Letteratura italiana Einaudi 54   Giordano Bruno - De gli eroici furori L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio ch’il martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap- parenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli gra- zie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi- nitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal bel- lezza che gli adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né spe- cie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Letteratura italiana Einaudi 55   Giordano Bruno - De gli eroici furori qual possa esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelli- gibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti, opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri, e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura italiana Einaudi 56   Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può apprendere l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è lassa l’alma a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua, E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in co- tal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender questo quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener maggior perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qual- Letteratura italiana Einaudi 57   Giordano Bruno - De gli eroici furori che nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti, temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina». Letteratura italiana Einaudi 58   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Io intendo quel che dice: “basta ch’alto mi tol- si”; ma non quando dice: “e da l’ignobil numero mi sciolsi”, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’an- tro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che quei che pro- fittano in questa contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per “l’ignobil nu- mero” può intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi- fico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come ri- svegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle cose superiori, si for- zano al mondo intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione alle cose infe- riori, si son trabalsate sotto il fato e termini della ge- nerazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; Letteratura italiana Einaudi 59   Giordano Bruno - De gli eroici furori fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea vo- luntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto per cer- to ordine per cui vegnono affette verso la materia: on- de non come per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per quanto appar- tiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversio- ne che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a gli abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te dalla necessità del fato, e non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto? Letteratura italiana Einaudi 60   Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Ploti- no) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imagi- nazione nel moto e diversità; la mente sempre inten- de uno, come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota del- le metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte emi- nente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende da la destra. Questa con- versione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in forme bas- se et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de l’in- telletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso. E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi 61   Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO QUARTO tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si studia al pro- prio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui slaccia “i mastini et i veltri”: de quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che compren- sibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. “Alle selve”, luoghi inculti e Letteratura italiana Einaudi 62   Giordano Bruno - De gli eroici furori solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, “il giovane” poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, “nel dubio cami- no” de l’incerta et ancipite raggione et affetto desi- gnato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la trac- cia di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade e splender divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel busto e faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per abito et atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina, d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere, il quale è di- versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice “in ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et altri al meglior modo che possono, s’inge- gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran cacciator”: com- prese quanto è possibile, e “dovenne caccia”: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose ap- prese in sé. Letteratura italiana Einaudi 63   Giordano Bruno - De gli eroici furori (cicada Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion della volunta- de, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le cose in- telligibilmente, idest secondo il suo modo; e la vo- luntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il be- ne, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contrat- ta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la di- vinità. cicada Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pen- sieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e più leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra Letteratura italiana Einaudi 64   Giordano Bruno - De gli eroici furori similitudine descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, appli- candolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due ali. E gli com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va pere- grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che non sei mio”, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Letteratura italiana Einaudi 65   Giordano Bruno - De gli eroici furori Lasciato m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata “sonno”, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi, accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come Letteratura italiana Einaudi 66   Giordano Bruno - De gli eroici furori drizzando il suo sermone a gli similmente appassiona- ti: come se non a felice suo grado abbia donato con- gedo al core, che corre dove non può arrivare, si sten- de dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi verso l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che pos- siede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in- telletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse- guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né Letteratura italiana Einaudi 67   tansillo cicada tansillo cicada Giordano Bruno - De gli eroici furori conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’in- finito, è come colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che di- ce il core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto soggiorna, perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo. cicada Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne l’altra. Letteratura italiana Einaudi 68   cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama “qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori Anzi insani son chiamati quelli che non san- no secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appres- so: quai sono le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo Punte son quelle nuove che stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli atten- de; catene son le parti e circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli “sguardi, accenti e modi”? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le rag- gioni con le quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suave- mente arde e constantemente nell’opra persevera; te- me che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore Letteratura italiana Einaudi 69   Giordano Bruno - De gli eroici furori di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che solle- citati e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armi- no d’amore: di quello amore che accende con dome- stiche fiamme, cioè quello che è amico della genera- zione alla quale son ubligati, e nella cui legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli pensieri: “il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applica- zione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materia- le o intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del pri- Letteratura italiana Einaudi 70   Giordano Bruno - De gli eroici furori mo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente affezzione del appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada Questo è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desi- deramo di vedere? Et onde avviene che nelle cose di- vine abbiamo più amore che notizia? tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’of- freno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tan- to può esser bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per sé, certamente per altro è deside- rata, essendo che l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di sen- so né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensi- bile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap- petito et appulso al sensibile in generale; perché l’in- telletto vuol intender tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensi- Letteratura italiana Einaudi 71   Giordano Bruno - De gli eroici furori bile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellet- tiva tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a l’atto in universale, come a cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensi- bilmente o intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vi- sta suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista esteriore? Letteratura italiana Einaudi 72   Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre ama- re quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere, per- ché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la vista si ri- ferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose in- telligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: «repri- met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra gli det- ti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano ri- masi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Letteratura italiana Einaudi 73   Giordano Bruno - De gli eroici furori Eccomi misera priva del core, abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza, la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia po- vertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo? perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le qualitadi ele- mentari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et af- fetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divi- no? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intel- ligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho da veder quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intel- letto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantener- lo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua co- moditade e vita, non a l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si conturbino. Basta che uno non Letteratura italiana Einaudi 74   Giordano Bruno - De gli eroici furori guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non in ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natu- ra di donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre tanto stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Letteratura italiana Einaudi 75   Giordano Bruno - De gli eroici furori Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista ne l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima: atteso che ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade. Come quando il senso monta Letteratura italiana Einaudi 76   Giordano Bruno - De gli eroici furori all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione, ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima- le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può deside- rar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scro- fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, Letteratura italiana Einaudi 77   Giordano Bruno - De gli eroici furori al quale non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel es- sere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo “O cani d’Atteon”, viene introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pen- sieri li quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di con- templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il cor- po è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in alto, e mostra il rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non m’impacciar “ch’io rimonti” al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami ormai che più non verse Letteratura italiana Einaudi 78   Giordano Bruno - De gli eroici furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccor- rerli, o perché rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre- scimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga?” e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito della principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzio- ni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quel- la dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che in- tendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et infor- me, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che Letteratura italiana Einaudi 79   Giordano Bruno - De gli eroici furori tal anima non ascende né descende, ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime par- ticolari diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura, secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala della natu- ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede: non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto Letteratura italiana Einaudi 80   Giordano Bruno - De gli eroici furori mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?” Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. “O destino”, o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà ch’io monte a quel monte”, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate quelle “conte”, cioè rare “bellezze”? Quando sarà, che “for- te” et efficacemente “conforte il mio dolore” (scio- gliendomi da gli strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui che fe’ gionte” et unite “le mie membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè l’amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste “potenze” intellettuali, quali ne gli atti suoi son “smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa- cendole alquanto respirando aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste li- bero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza Letteratura italiana Einaudi 81   Giordano Bruno - De gli eroici furori tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il “mio spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è oltrag- gio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se “tende” et arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e perviene a quell’altezza, dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la propria capacità; e quel “solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che “dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che “dice” o fa chi tutto “predice”, cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco co- me per la scala de cose superiori et inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circola- zione che si vede ne la vertigine de la sua ruota. fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi 82   I. DIALOGO QUINTO cicada Fate pure ch’io veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Vedi come portano l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’im- prese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele- mento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello “At” ha Letteratura italiana Einaudi 83   II. tansillo Appresso è designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper ubique to- tum. Giordano Bruno - De gli eroici furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contra- rietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene espli- cato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta materia significata per la “terra” è la sustanza del furioso; versa dal “gemino lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come piccio- la favilla o debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come poten- te e vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. Letteratura italiana Einaudi 84   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Vedo che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesi- mo, sempre et in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tro- pico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la di- sposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra par- te, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del fu- rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o par- tono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, Letteratura italiana Einaudi 85   Giordano Bruno - De gli eroici furori ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la secon- da; come l’uno e l’altro è molto propriamente signifi- cato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cie- lo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fan- ciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la mate- ria l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice «Mutuo fulcimu»: cioè io vi edifico e vi suste- gno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la Letteratura italiana Einaudi 86   Giordano Bruno - De gli eroici furori speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli venesse Letteratura italiana Einaudi 87   Giordano Bruno - De gli eroici furori manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a la vista del qua- le fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, in- nocente et amica va ad incorrere nelle mortifere fiam- me: onde “hostis” sta scritto per l’effetto del fuoco, “non hostis” per l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo- sca passivamente, “non hostis” attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore, “non hostis” per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, Letteratura italiana Einaudi 88   Giordano Bruno - De gli eroici furori ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furio- so con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se quella mo- sca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la lu- ce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di per- der l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclina- zion di natura, per elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten- dere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, Letteratura italiana Einaudi 89   Giordano Bruno - De gli eroici furori le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge con- tra il peregrino adversario che dal monte de la intelli- genza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e perde- riansi a fatto, se non fusse certa conversione al splen- dor de la specie intelligibile mediante l’atto della con- templazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli co- lori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze ap- prensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have affinità con la prossima anteceden- te, e per la conversione a quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta dalla notizia o apprensione et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la legge di quello viene a do- Letteratura italiana Einaudi 90   Giordano Bruno - De gli eroici furori mar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita vir- tude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contempla- tivo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali «la prima è proporsi de conformarsi d’una simi- litudine divina», divertendo la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; «secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio». Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza quella che in- vaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che altera- zion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato. Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si per- suade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso Letteratura italiana Einaudi 91   Giordano Bruno - De gli eroici furori che non accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né fa cessar quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za e forza, dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana Einaudi 92   Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu, perché il sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili caggioni de circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che im- Letteratura italiana Einaudi 93   Giordano Bruno - De gli eroici furori mediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha in- fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le forme natu- rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la natura dell’apprensione et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da sapere che quel “circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in uno Letteratura italiana Einaudi 94   Giordano Bruno - De gli eroici furori instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima (come disse Salo- mone) e che la medesima sia stabilissima, come è det- to et inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autun- no, insieme insieme il giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; per- ché questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel “Circuit”? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua significa- zione, significa la cosa quanto può essere significato; Letteratura italiana Einaudi 95   Giordano Bruno - De gli eroici furori atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati non per quattro segni mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete leggere “mi scaldo, accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi, avampi”; over “scalda, accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi 96   Giordano Bruno - De gli eroici furori prima scalda, secondo accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que- sta vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si mostra qua piena e lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che acciò che meglio forse in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”: cioè Letteratura italiana Einaudi 97   Giordano Bruno - De gli eroici furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come questa è detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intel- ligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come “svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume d’intelli- genza; or ha “l’orbe oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a l’“Austro”, or monta a “Borea”, cioè or ne si va più e più allonta- nando, or più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso, combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto non se gli concede, sempre se gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero; “sempre è tanto crudele” in suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è “tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”, perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”, percioché gli è con- gionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. Letteratura italiana Einaudi 98   Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua applicazione secondo l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de pensiero, né me si fa più oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natu- ra qual m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è invariabile in su- stanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”, perché al rispetto del sole illumi- nator de quella sempre è ugualmente luminosa, essen- do che sempre ugualmente gli è volta, e quello sem- pre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or più or meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la lu- na che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secon- do participazione, ricevendola da altro; dico non es- sendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo Letteratura italiana Einaudi 99   Giordano Bruno - De gli eroici furori del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura per le po- tenze inferiori, onde è occupata al governo della ma- teria. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quer- cia piantata, contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furio- so d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come Letteratura italiana Einaudi 100   Giordano Bruno - De gli eroici furori quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la no- stra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione, come la detta ra- dicosa pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la sti- mano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella per- fezzione che intendeno gli volgari: perché lui non sti- ma vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor di- vino et eroico quello che sente il sprone, freno o ri- morso o pena per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gion- to ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al con- trario di color che leggono il corso de sua vita et il ter- mine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò il Letteratura italiana Einaudi 101   X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del suo testamento: «Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la con- siderazion del fine». Et è cosa manifesta che non po- nea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de la constanza: non già in questo che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro disse “non sentire”. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno, Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. Letteratura italiana Einaudi 102   Giordano Bruno - De gli eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante. Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi 103   Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo- re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi, riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che si riferisca quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo, summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto, martellato da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men diligente et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della potenza ve- getativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena- no ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è attaccato a cose basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104   Giordano Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose imprese. In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava- gliato e tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te, con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto- posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana Einaudi 105   Giordano Bruno - De gli eroici furori la cipria dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di- versi suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non solamente uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è Letteratura italiana Einaudi 106   Giordano Bruno - De gli eroici furori nell’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e latitudine de la bon- tade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché so- no infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che poten- te, e più potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza: per- ché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Do- ve è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Co- me, voglio dire, la specie intelligibile della divina es- senza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è supera- ta in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie in- telligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cie- lo; e son quattro venti in un suggetto, alli quali sopra- Letteratura italiana Einaudi 107   Giordano Bruno - De gli eroici furori stanno due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conse- guente di quello de la prossima superiore. Perché co- me là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, af- fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie ca- verne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e ra- zionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, Letteratura italiana Einaudi 108   tansillo cicada tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspi- rando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col deside- rio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello su- spira, quello medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro co- me medesimo per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente uccido- no il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso che nella staggione che di nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva per- fezzione. Letteratura italiana Einaudi 109   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Se l’intelletto umano è una natura et atto fini- to, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello infinita- mente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto “Novae partae Aeoliae”, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli antri voragi- nosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core. Letteratura italiana Einaudi 110   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Questa tavola più vera che propriamente espli- ca il senso de la figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son le rag- gioni con le quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E son “focosi”, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie di revelazione che gli scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»; onde l’intelligenza illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù che la admira in se stessa, o in effica- cia che la contempla ne gli effetti. L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de l’affetto, significato per il core, che “bruggiando a tutte l’ore” s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo sta- to non son sì dolci che non siano più gionti a certa af- flizzione, quella almeno che procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus quicquam teneris abradere membris Letteratura italiana Einaudi 111   Giordano Bruno - De gli eroici furori possunt, errantes incerti corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possia- mo aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza ag- gionge dolore, perché dalla maggior apprensione na- sce maggior e più alto desio, e da questo séguita mag- gior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo che séguita la più tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il “meridiano del core”? tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte, efficace e retta- mente è riscaldata. Intende che tale affetto non è co- me in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il Letteratura italiana Einaudi 112   Giordano Bruno - De gli eroici furori quale è avolto un laccio, et ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire che l’amor mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor instat”; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o in- sistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: «questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima». tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello “instans” non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustanti- vo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante? cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo che non abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in- stante se divide in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi sug- getti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se l’intendi (perché non Letteratura italiana Einaudi 113   Giordano Bruno - De gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe- ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi par tempo di procedere a l’altro. Letteratura italiana Einaudi 114   Giordano Bruno - De gli eroici furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve langui- sce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar medesimo fato molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai, sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta. Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115   Giordano Bruno - De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. fine del quinto dialogo e prima parte degli eroici furori Letteratura italiana Einaudi 116   SECONDA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 117   I. DIALOGO PRIMO interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118   Giordano Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude. cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun- Letteratura italiana Einaudi 119   Giordano Bruno - De gl’eroici furori que maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni, per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose presenti non dover rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando furono in sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di- spersione e cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bas- sezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è. Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta- de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son Letteratura italiana Einaudi 121   Giordano Bruno - De gl’eroici furori più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap- paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel- lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez- za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti- Letteratura italiana Einaudi 122   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma, o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al desiderio della divina bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura, imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice «Adorate scabellum pedum eius». Et altrove disse un divino imbasciatore: «Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice “Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. Letteratura italiana Einaudi 123   Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam. Letteratura italiana Einaudi 124   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III. cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par. maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi, contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero, manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, Letteratura italiana Einaudi 125   Giordano Bruno - De gl’eroici furori mentre mi struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara- zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta- re del cor de illustri poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno gionta- mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un Letteratura italiana Einaudi 126   Giordano Bruno - De gl’eroici furori tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a met- terlo nel numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segreta- rio e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: «Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare». Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filo- sofo morale, «è più conosciuto Domenea per le lette- re d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dal- li quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria Letteratura italiana Einaudi 127   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel nu- mero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profon- da altezza di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo». Or per venire al proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi che co- me quella per luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggion- gergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal altro nu- mero, perché non è unità, né da altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser uditi. Letteratura italiana Einaudi 128   Giordano Bruno - De gl’eroici furori IV. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici spettacoli» disse il Letteratura italiana Einaudi 129   Giordano Bruno - De gl’eroici furori filosofo morale, «mediante il piacere più facilmente gli vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso, di sorte che non sia simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de molti, perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti s’appiglie a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato poco quando è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto, per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non dove è ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima, principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver- bigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino? maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma venir al più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, Letteratura italiana Einaudi 130   Giordano Bruno - De gl’eroici furori son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di- ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui “Tranquillarà gli sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà il core” e “darà gli proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo aspirare e stu- dii non debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé sia da quello absente, Letteratura italiana Einaudi 131   Giordano Bruno - De gl’eroici furori farsi come con indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggio- re che esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente riguardare che come carce- re che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no sia servo, catti- vo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cie- co: perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna, magnani- mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro- prio mezzo si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over quiete del tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegno- no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel tanto che s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi 132   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene, speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene- rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto: Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri- soluto, esplicate. Letteratura italiana Einaudi 133   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte, del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza, gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier, miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto, vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli precedenti discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente ad oggetto più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne (come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune vituperosa, altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte, non Letteratura italiana Einaudi 134   Giordano Bruno - De gl’eroici furori si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri: onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse? maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla divinità è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te, dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; Letteratura italiana Einaudi 135   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ma tu perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà (diva) per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il “volto in cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta alla recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti- tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove: «Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso, l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non possa essere) priega la divina luce che “per la sua bellezza” la quale non deve essere a tutti occol- ta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e “per il suo amore che forse a tanta bellezza è uguale” (uguale Letteratura italiana Einaudi 136   Giordano Bruno - De gl’eroici furori intende de la beltade in quanto che la se gli può far comprensibile), che “si renda alla pietà”, cioè che fac- cia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schi- vi si fanno graziosi et affabili: e che “non prolonghe il male” che avviene da quella privazione; e non per- metta che il suo “splendor” per cui è desiderata, ap- paia maggiore che il suo amore con cui si communi- che: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscu- ri? la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di procedere a conside- rar il seguente dissegno simile a questi prossimi avan- ti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una pie- tra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due faz- zioni (quantumque subordinate a queste non manca- no de l’altre), de le quali altre invitano a l’alto dell’in- Letteratura italiana Einaudi 137   Giordano Bruno - De gl’eroici furori telligenza e splendore di giustizia; altre allettano, inci- tano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e primo vero, co- me all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa naturalmente ha impeto verso il suo principio re- gressivamente, e progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i discorrenti lumi; Letteratura italiana Einaudi 138   Giordano Bruno - De gl’eroici furori e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero. La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte della sua su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare et a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per la si- militudine che ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo so- lo questo universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che è ordinata et al proprio e l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti delle seconde e materiali po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più natu- rale, dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa riparare? Letteratura italiana Einaudi 139   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior fa- cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo ver- so la terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non) bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli pro- prii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete comprendere il senso intiero signi- ficato per la figura, per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans. maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la maggior familiarità che avea Letteratura italiana Einaudi 140   Giordano Bruno - De gl’eroici furori con la materia, era più dura et inetta ad esser penetra- ta da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice: «Vulnerasti cor meum, o dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli de- serti della contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri- portano il splender ricevuto dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il pro- prio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indica- trici della divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za, secondo diversi ordini dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata per le fumositadi di quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi 141   Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di- sposizione il presente furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco profondo), per essersi “ac- campato in quelle luci sante”, cioè per aver mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché quelle luci che facea pre- sente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelli- genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci (quella della verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu “quel doppio strale che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè più pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo- strato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi trionfare. Letteratura italiana Einaudi 142   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte vi si tenne”, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada al- tro che bene o specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser “fugaci” concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là “mai cessano ferire”, sollecitando l’affetto e risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto Letteratura italiana Einaudi 143   X. escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in proposito di questo. Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de Letteratura italiana Einaudi 144   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìn- cipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciato- re nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per li- nea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e pre- stezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, pren- de anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto di- stingue se si gli possa presentar megliore o più como- da preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa tempesta Letteratura italiana Einaudi 145   Giordano Bruno - De gl’eroici furori di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori: di sorte che non proce- dono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnani- mità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fe- re a l’improvisto e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama “furtivo fuoco”, “ignote fiamme”; Salomone lo chiama “acqui furtive”, Samuele lo nomò “sibilo d’aura sottile”. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astu- zia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) ti- ranneggiar l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è spiritua- lissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da conside- Letteratura italiana Einaudi 146   Giordano Bruno - De gl’eroici furori rare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tut- ti gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Sa- turno gli mostre il camino, se non con seguitarlo. Ap- presso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima me- desima, il suo letto è l’istesso core, e consiste nella me- desima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa natu- ralmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca que- sta per ferire. maricondo Non bisogna far altro che leggere l’artico- lo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura italiana Einaudi 147   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può es- ser inteso per il sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali ri- luce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda l’affetto del proposto et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le raggioni de po- tenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con- solano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che viene ad essere la sua me- desima affezzione. Allora non è amore o appetito di co- sa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la gran- dezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque pos- so la conclusione, dove dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto” (si di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti ammazzar colui ch’è morto”. Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde da quelli possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene ad essere espo- sto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. Letteratura italiana Einaudi 148   Giordano Bruno - De gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha aban- donati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe che lui dal se- reno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodu- lento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e motto, credo che abbia con- seguenza con il presente; però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, Letteratura italiana Einaudi 149   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione, timo- re e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla putatis dona carere dolis?” Or, per- Letteratura italiana Einaudi 150   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ché la fortezza che non può far esperienza di sé, è cas- sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio ch’il male istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente? Queste son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi 151   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO SECONDO mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qual- sivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo conside- rar il senso, se pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimos- se dalla moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura italiana Einaudi 152   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto essere. Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si te- gna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì “desta la mente” ad eccel- lente amore, che apprende “ogni altra diva”, cioè cu- ra et osservanza d’ogni altra specie, “vile e vana”. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor al- to, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pe- danti et altri simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi, pa- droni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superio- ri et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi, nella no- stra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze al- tre son suggette, altre preminenti, altre serveno et Letteratura italiana Einaudi 153   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per essem- pio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar di co- se divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte “ad alti amori le menti deste”? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo racioci- nio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più in- caminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo “sursum corda”, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è in- comparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti do- po che sono invecchiati nelle culine de fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi 154   Giordano Bruno - De gl’eroici furori tomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et ora non in- tendono: là onde cossì questi col favore della ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son più conformi), po- tranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il Letteratura italiana Einaudi 155   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quale insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di genealogie, quello attende a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor” est fons vite, “nix” est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vo- caboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra altre et altre simili fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som- mo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno mon- tar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci manco alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato, viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergo- gnose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito di Letteratura italiana Einaudi 156   Giordano Bruno - De gl’eroici furori salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) de- vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e sce- lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che come è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gio- ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto circa quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente desta”. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo sotto l’imperio de la det- Letteratura italiana Einaudi 157   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima è im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché vada in sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs». Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale, discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, ab- bracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in Letteratura italiana Einaudi 158   Giordano Bruno - De gl’eroici furori qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; per- ché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o sia mate- matica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobi- le: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligi- bile et una, e come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Ve- dete appresso che gli matematici hanno per concedu- to che le vere figure non si trovano ne gli corpi natu- rali, né vi possono essere per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze soprana- turali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria na- turale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glo- rioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione della Letteratura italiana Einaudi 159   Giordano Bruno - De gl’eroici furori verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag- giore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura, accioché dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son più ex- quisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure, e nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro- va in tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché pro- cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sa- pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo, zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari: perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da le siepe de le definizioni, con- siderando le cose superiori essere participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle cose Letteratura italiana Einaudi 160   Giordano Bruno - De gl’eroici furori inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala, nella quale sem- pre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali conside- rano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpe- tuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de cac- cia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche. Rarissi- Letteratura italiana Einaudi 161   Giordano Bruno - De gl’eroici furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemi- no splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra- sformati in cervio, per quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose particolari, il cac- ciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad appren- dere che resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: «Ecce elongavi fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della mate- ria; onde non più vegga come per forami e per fene- stre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sen- si, come de diverse rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti nu- meri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura italiana Einaudi 162   Giordano Bruno - De gl’eroici furori nade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la ve- de in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa mo- nade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, me- diante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emi- sfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensi- bile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è destinta nella gene- rata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo più degno del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impos- sibile d’essere ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo Letteratura italiana Einaudi 163   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce- re è quel che accende il desio, e per conseguenza, per Letteratura italiana Einaudi 164   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ministerio de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser deve quella specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi 165   Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo, quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla propo- sta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di con- trario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il Letteratura italiana Einaudi 166   Giordano Bruno - De gl’eroici furori modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro De princi- pio et uno; e voglio supponere quello che comun- mente si suppone, che gli contraria nel medesimo ge- no son distantissimi, onde vegna più facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli oc- chi si dicono semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove sono come in principio agente e materiale. Letteratura italiana Einaudi 167   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Però non metteno urgente necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a die- tro, per due caggioni: prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali oltrag- giosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o altro va- se pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta senza che scalde il spesso corpo tra- mezzante: come è verisimile et anco vero che caggio- ne secche et aduste impressioni nelle concavitadi del profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si può conside- rare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo medesima rag- gione non può essere nel mezzo. Come la luce del so- le secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco Letteratura italiana Einaudi 168   Giordano Bruno - De gl’eroici furori che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è questa che non si pone in at- to; se tante son l’acqui, perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è raggion, sens’, o pensiero. Letteratura italiana Einaudi 169   Giordano Bruno - De gl’eroici furori laodonio Non ha più né meno efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca- de che il bel nume per apparenza di lacrima che stile Letteratura italiana Einaudi 170   Giordano Bruno - De gl’eroici furori da gli occhi, o favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi: Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi contraria si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse fini- to, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et etica che vi sta occolta, lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol que- sto non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito mare dall’appren- sion de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto Letteratura italiana Einaudi 171   Giordano Bruno - De gl’eroici furori proposto, non può essere la volontarie appagata de fi- nito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il bra- ma, il cerca, perché (come è detto commune) il sum- mo della specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual ma- niera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è spe- cie definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infi- nitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per pri- vazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più positiva affirmazione de fine infinito et inter- minato. laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine del- le quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel- lo, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fe- condo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la potenza Letteratura italiana Einaudi 172   Giordano Bruno - De gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fi- ne, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal- volta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole per- ché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile, l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e l’anima è come morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi 173   Giordano Bruno - De gl’eroici furori riore illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è re- so in abito e formato in atto. Quindi si dice il core es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è convertito final- mente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinita- de, è fatto divo, e conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può essere ad- mirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve- re l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana Einaudi 174   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e senza desio de quelli. Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran verità et intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico) quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi 175   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUARTO interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cie- co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine divina nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana Einaudi 176   Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio mal tosto sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avan- ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso. Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti? perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli occhi, ha per- Letteratura italiana Einaudi 178   Giordano Bruno - De gl’eroici furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura. minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento: or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose. Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e se si scende o sale: Letteratura italiana Einaudi 179   Giordano Bruno - De gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare: Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi 180   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco, perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra che tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi 181   Giordano Bruno - De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue, dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan- to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in questa sentenza: Letteratura italiana Einaudi 182   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma, punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma, stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor, legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa. Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo tormento. Aprite, aprite il passo, Letteratura italiana Einaudi 183   Giordano Bruno - De gl’eroici furori siate benigni a questo vacuo volto de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima, allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per quanto comporta il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo corpo in cui gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo og- getto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose: per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re- gione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che viene a proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto, nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. Letteratura italiana Einaudi 184   Giordano Bruno - De gl’eroici furori minutolo Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e ti- mido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte co- se veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e questi son gli inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si trova- no coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mo- Letteratura italiana Einaudi 185   Giordano Bruno - De gl’eroici furori stra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chia- mato argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum». Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor- zionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua provi- denza viene a comunicarsi senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan- do aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro loco: «Qui sitit, veniat, et bibat». minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella. Certo non nie- go che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al pro- posito. Letteratura italiana Einaudi 186   Giordano Bruno - De gl’eroici furori La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla consuetudi- ne di credere a false opinioni del volgo il quale è mol- to rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le quali son dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere, quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et Aver- roe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è convertito in sua- ve e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetu- dine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è tale, per quale de- gnamente contentare si possa il presente furioso cie- co, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la co- munità non vorrebe impetrar altro che libero passa- gio e progresso di contemplazione: come per ordina- rio suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede dalla im- proporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose di- vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, si- militudini et altre raggioni che gli Peripatetici com- prendono sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da credere che siano impedimenti, Letteratura italiana Einaudi 187   Giordano Bruno - De gl’eroici furori se credere vogliamo che la più alta e profonda cogni- zion de cose divine sia per negazione e non per affir- mazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concet- to: ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto “speculator de fanta- smi” dal filosofo, e dal teologo “vision per similitudi- ne speculare et enigma”; perché veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da l’antro, onde non per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza visi- va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellet- tuale dove splende il sole dell’intelletto agente me- diante la specie intelligibile formata e come proce- dente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità Letteratura italiana Einaudi 188   Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in si- militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de- nominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e densità del dia- fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: “Spicche fuor di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia- mo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alte- razione; e le operazioni del quale bisogna che seguiti- no la condizione della sua facultà, la quale è conse- quente dalla condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et al- tro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l’acqui in Letteratura italiana Einaudi 189   Giordano Bruno - De gl’eroici furori vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quel- lo che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, on- de alcuni si fanno impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde gli avviene che tutte le cose gli appaia- no secondo il colore della sua affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazio- ne deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secon- do gli abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di com- posizione e divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo- li e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse affezzioni si metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sen- Letteratura italiana Einaudi 190   Giordano Bruno - De gl’eroici furori tenze scritte: onde si doviene sin a questo che medesi- ma luce di verità espressa in un medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero, quan- tumque gli pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. – Or tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente intelligi- bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel- lente sopraposto sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio, sopra il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova, senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata pure da grande amore, perché Letteratura italiana Einaudi 191   Giordano Bruno - De gl’eroici furori con lo ardire teme de offendere; onde disse la Canti- ca: «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fece- re». E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’ap- prensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi 192   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’an- dar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi 193   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la- menti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap- parir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti al- la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spa- cio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre Ta- mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade, et accettati da quelle con gesti d’onestissima Letteratura italiana Einaudi 194   Giordano Bruno - De gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento espo- se la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: «O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo caso Letteratura italiana Einaudi 195   Giordano Bruno - De gl’eroici furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde Letteratura italiana Einaudi 196   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana Einaudi 197   Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e tro- varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, Letteratura italiana Einaudi 198   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ché mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi. Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari Letteratura italiana Einaudi 200   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero»; «Che superbia è la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, Letteratura italiana Einaudi 201   Giordano Bruno - De gl’eroici furori per far del mar più che del ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: «O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. fine della seconda et ultima parte de gli eroici furori Letteratura italiana Einaudi 202Grice: “Agostino da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --.  Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. ColizziKeywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani,  dell’infinito, universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51742827494/in/datetaken/

 

Grice e Colletti – curiazi, ovvero, politica romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre opere: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1958. Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, 1980. Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo del XX secolo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto Lucio Colletti voce "contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di Lucio Colletti, Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito Lucio Colletti e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, 2001.  88-04-48844-1 Ministero per i beni e le attività culturali, Lucio Colletti: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, 2003 Pino Bongiorno, Aldo G. Ricci, Lucio Colletti scienza e libertà, Roma, Ideazione, Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifestolibri. Collétti, Lucio la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. il 20/07/ Lucio Colletti, su CameraXIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di Lucio Colletti di Costanzo Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di Colletti Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review” nel numero di luglio-agosto 1974, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra “opposizione reale” (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e “contraddizione dialettica”». Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch)» (1974: 65). La opposizione dialettica (66-69) è espressa dalla formula «A non-A», nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto «ha la sua essenza fuori di sé» (67), nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale (70-76) è espressa dalla formula «A e B», nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che  Massimiliano Biscuso – Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il contrario negativo dell’altro» (72). Questo accade ad esempio quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere» (74). Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché sono «senza contraddizione» (dove è già implicito, come sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il modello della contraddizione “A non-A”. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali» (80), e l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta Colletti, «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione logica» (81 – si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo», 112). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza» (86). Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di della Volpe: a costo di liquidare «gran parte dell’opera filosofica di Engels» (94) in quanto fonte del Diamat, sembrava però legittimarsi «l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società» (95). In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto,  www.filosofia-italiana.net 5 l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava […] nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa» (97). Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una soggettività utopica» (102). Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate» (107). «Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria» (109): la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo» (111), dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico» (112). Georg Wilhelm Friedrich Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt.[3] Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten 'Dogmatismus in der Metaphysik' zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung [Kants] betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten […].“[4]  Logisches Quadrat  Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen:  Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben.  Wikipedia Ricerca Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma antica.   Il giuramento degli Orazi (1784), di Jacques-Louis David, Museo del Louvre Leggenda                                Modifica Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist. I, 24-25), durante il regno di Tullo Ostilio (VII secolo a.C.) Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro territori.  Ma Roma e Alba Longa condividevano attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue.  Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana; propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella versione.  Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà, pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità differenti.  Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise.  Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium,[1] che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di Roma[2]), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase repubblicana[3]).  Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia moglie di Marco Orazio.  Realtà storica      Modifica  Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio della via Appia.  Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi.  Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato.  C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia.  Orazi e Curiazi nelle arti                 Modifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio.  Teatro                                                       Modifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche:  Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia il 26 dicembre 1796. Orazi e Curiazi di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli il 10 novembre 1846. The Horatian - Three Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi (1934) è anche uno dei drammi didattici scritti da Bertold Brecht. Cinema Modifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto del 1910. Orazi e Curiazi, film del 1961 di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi 3-2, film-rivisitazione in chiave farsesca del mito (1977). Curiosità  La vicenda dello scontro tra gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le relative conseguenze sono identiche.  Note                                  Modifica ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 48. Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit iuvenem. ^ Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, pag.45, § 5 ^ Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, pag.46, § 6 Altri progetti          Modifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Orazi e Curiazi Collegamenti esterni                                             Modifica ( EN ) Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                          LCCN ( EN ) sh90004494   Portale Antica Roma   Portale Mitologia Ultima modifica 6 mesi fa di 87.9.113.140 PAGINE CORRELATE Tullo Ostilio terzo re di Roma  Gens Horatia famiglie romane che condividevano il nomen Horatius  Il giuramento degli Orazi dipinto di Jacques-Louis David  Wikipedia IlGrice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of ‘utterance’ to include the characterization of something that need not be linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51773361575/in/dateposted-public/

 

Grice e Colli – espressione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare.  Lo stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)  Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano);  La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario biografico degli italiani,  Implicazioni estetiche in Colli; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di Colli, ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in Colli, in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma.  Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος) nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in acqua.  Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia, quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era nel frattempo morto.  Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa; intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo, si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri dionisiaci.  Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa. Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani; questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1].  Riti notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però di descriverceli[2].  Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca" (1984), ristampato nella sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei" (1996). Questo mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo fallico all'interno del culto dionisiaco[3][4][5].  NoteModifica ^ Igino, Astronomy 2.5; Clemente di Alessandria, Protreptikos 2.34.2-5; Arnobio, Against the Gentiles 5.28; Dalby, 2005, pag.108–117. ^ Pausania, Guide to Greece 2.37; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, 2005, pag.135. ^ Dionisio-Baco, su geocities.com, 19 ottobre 2008 (archiviato dall' url originale  il 19 gennaio 2005). ^ Mitos del cielo: Dioniso, su mitosdelcielo.iespana.es, 19 ottobre 2008 (archiviato dall' url originale  il 28 settembre 2008). ^ Susana Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos griegos. De op. cit.: Calasso, Roberto (1999), "Las bodas de Cadmo y Harmonía", Barcelona, Anagrama( PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex.mx, 19 ottobre 2008. BibliografiaModifica Andrew Dalby, The Story of Bacchus, London, British Museum Press, 2005, ISBN 0-7141-2255-6.(US ISBN 0-89236-742-3) Voci correlateModifica Pederastia Pederastia greca Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio , Contro i pagani (V, 28). Clemente di Alessandria , Esortazione ai Greci (Protrettico) (II, 34, 2-5). Igino , Astronomia (II, 5). Pausania , Descrizione della Grecia (II, 37). Plutarco , Iside e Osiride (35).   Portale LGBT   Portale Mitologia greca Ultima modifica 2 mesi fa di 87.19.205.60 PAGINE CORRELATE Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei teatri, della fertilità e dell'ubriachezza  Canopo (mitologia) Pederastia tebana Wikipedia Il contenuto  Che l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi  distinte dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus É  sistere della loro venerabilità, pur tacendo .la vastità É  e profondità loro e più ch’ogni altra cosa, l’orrendo fi  mistero del loro essere, provengano da una particola  rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app*  lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto que  sto ciclo: Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J.  Bachhofen in modo eccellente, trascina irresistibilmente  seco. l’eterno femminino di questa sfera e ne rimane  assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa nell’ine          L'ESSENZA DEI NUOVI DÈI 193       briante beveraggio, che venne chiamato il sangue della  terra. Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co-  scienza nello sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi  adoratori e agli estasiati si schiudon i tesori del regno.  terrestre. Anche intorno a Dioniso accorrono i morti, che  lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori. Amore  e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten-  gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis-  simi tratti essenziali della divinità della Terra son in  lui accresciuti a dismisura," ma pure infinitamente ap-  profonditi, Questa figura divina che tutto trascina con  sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio « forsennato >,  e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle sue  accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è  che similitudine, come quando paragona ad una Menade  Andromaca, la quale presa da oscuro presentimento si  precipita fuor dalle sue stanze (Iliade, 22, 460; cfr.  Inno Omer. a Dem. 386), come pure quando occasional-  mente narra memorabili storie (Iliade, 6, 130 ss.; Odis-  sea, 11, 325). Nel vivo mondo di Omero le Menadi non  trovan posto e pure invano si cerca Dioniso, che non vi  ha parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia » (Esio-  do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo quanto l’uomo  doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli è  proprio, non s’accorda con la chiarezza che contraddi-  stingue qui tutto ciò ch’è realmente divino.   Da questa chiarezza sono assai lontane anche le al-  tre figure del ciclo della Terra. Sian pure intessute. di  dolcissimo incanto, e portin sulla fronte la più sublime  gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al fianco.  Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della  sua oscura pesantezza e necessità. La loro benevolenza  è quella dell’elemento materno, ed il loro diritto ha la  rigidità di tutti i legami del sangue. Tutte arrivano    15    194 | GLI DÈI BELLA GRECIA       nella notte della morte, o meglio: la morte ed il passato  risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza dei  viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il  trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore  nè una liberazione del campo di vita e d’azione da ciò  che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane per sempre,  ed. eleva la sua esigenza, sempre con la medesima ron.  cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è solo  una conferma di codesto carattere, il predominio ch’'ha  nel mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi.  nile. Nella cerchia celeste della religione omerica invece  sì trae in disparte in modo tale, che non può essere ca.  suale. | I   . Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso  maschile, sibbene rappresentano decisamente lo spirito  virile. Ed anche quando Atena si unisce ad Apollo e-a  Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare esplicitamente  il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m     JUN 121925     Dirisioti ^LT^b     !-'" 0'     25outonV %tt^^\t Hitiratp.     VOL. I.     ELEUSINIAN AND BACCHIC MYSTERIES.     JUN 121925     THE   ELEUSINIAN     AND     BACCHIC MYSTERIES.   A DISSERTATION.     ^ ^y:     THOMAS TAYLOR,   TXANSL4TOH OF ■'PLATO." " PLOTINTJS," " POEPITIllY," " lAMBLICHCS." "PEOCI-nS,'  *■ ABISTOTLE," ETC., ETC.     EDITED, WITH INTRODUCTION, NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY,   BY   ALEXANDER WILDER, M. D.     Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai ncpip-  pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi; Spuiixeviav,  (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv.   Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I. AMbiadet.     WITH 85 ILLUSTRATIONS BY A. L, RAWSON.     FOURTH EDITION.     f     NEW- YORK :   J. W. BOUTON, 8 WEST 28th STREET.   1891.     CopyriKlit, 1K91, by  J. W. BulITDN.     The DeVinne Press.     TO MY OLD FRIEND   ^cniarti OSuatitcl)   THE GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT  OR MODERN TIMES   CbiB Dolttme is reBpcctfuIl? Jeiiicateli   BY THE PUBLISHER       Bacchic Ceremonies.      Bacchus ami Nymphs.      Pluto, Prosevpiua, aud Furies.      Eleusinian     Prieatesses.      Bacchante and Faun.     Faun and Bacchus.      CONTENTS.     Fable is Love's World, Poem by Schiller . . 9   Introduction 11   Section I., Eleusinian Mysteries 31   Section II., Bacchic Mysteries 187   Hymn to Minerva 224   Appendix 229   Orphic Hymns . . ^ 238   Hymn of Cleanthes 239   Glossary 241   List of Illustrations 248       Klensiiiiiiii Mj'steriea.      '"Tis not merely  The human breing's pride that peoples space  With life and mystical predominance,  Since likewise for the stricken heart of Love  This visible nature, and this common world  Is all too narrow ; yea, a deeper import  Lurks in the legend told my infant years  That lies upon that truth, we live to learn,  For fable is Love's world, his home, his birthplace ;  Delightedly he dwells 'mong fays and talismans,  And spirits, and delightedly believes  Divinities, being himself divine.  The intelligible forms of ancient poets.  The fair humanities of Old Religion,  The Power, the Beauty, and the Majesty,  That had their haunts in dale or piny motmtain,  Or forests by slow stream, or pebbly spring.  Or chasms or wat'ry depths ; — all these have vanished.  They live no longer in the faith of Eeason,  But still the heart doth need a language ; still  Doth the old instinct bring back the old names."   Schiller : The Piccolomini, Act. ii. Scene 4.     9      Apollo autl Muaes.      ITolM.'tll.MlS.     INTKODrOTlOX TO THE TJIIKM) EDrriON.     IN offering- to the ])ublic a new edition of Mr. Thomas  Taylor's admii-able treatise upon the Elensiidan  and Bacchic Mysteries, it is proper to insert a few  words of explanation. These observances once repre-  sented the spiritual life of (Ireeee, and were considered  for two thousand years and more the appointed means  for regeneration through an interior union with the  Divine Essence. However absurd, or even offensive  they may seem to us, we should therefore hesitate long-  before we venture to lay desecrating hands on what  others have esteemed holy. We can learn a valuable  lesson in this regard from the (xrecian and Roman  writers, who had learned to treat the popular religious  rites with mirth, but always considered the Eleusinian  Mysteries with the deepest reverence.   It is ignorance which leads to profanation. Men  ridicule what they do not properly understand. Alci-  biades was drunk when he ventured to touch what his   11     12 Introduction.   countrymen deemed sacred. The undercurrent of this  worhl is set toward one goal; and inside of human  credulity — call it human weakness, if you please —  is a power almost infinite, a holy faith capa))le of  apprehending the siipremest truths of all Existence.  The veriest dreams of life, pertaining as they do to  " the minor mystery of death," have in them more than  external fact can reach or explain ; and Myth, how-  ever much she is proved to be a child of Earth, is also  received among men as the child of Heaven. The  Cinder- Wench of the ashes will become the Cinderella  of the Palace, and be wedded to the King's Son.   The instant that we attempt to analyze, the sensible,  palpable facts upon which so many try to build dis-  appear beneath the surface, like a foundation laid upon  quicksand. " In the deepest reflections," says a dis-  tinguished writer, '' all that we call external is only the  material basis upon which our dreams are built ; and  the sleep that surrounds life swallows up life, — all  but a dim wreck of matter, floating this way and that,  and forever evanishing from sight. Complete the anal-  ysis, and we lose even the shadow of the external  Present, and only the Past and the Future are left  us as our sure inheritance. This is the first initia-  tion, — the vailing [mnesis] of the eyes to the external.  But as epo])fm, by the synthesis of this Past and Future  in a living nature, we obtain a higher, an ideal  Present, comprehending within itself all that can be  real for us within us or without. This is the second     Introduction. 13   initiation in which is uuvailed to us the Present as a  new birth from our own life. Thus the great problem  of Idealism is symbolically solved in the Eleusinia." *   These were the most celebrated of all the sacred  orgies, and were called, by way of eminence. The  Mysteries. Although exhibiting apparently the fea-  tures of an Eastern origin, they were evidently copied  from the rites of Isis in Egypt, an idea of which, more  or less correct, may be found in The Mefamotyhoses of  Apuleius and The Epicurean by Thomas Moore. Every  act, rite, and person engaged in them was symbolical ;  and the individual revealing them was put to death  without mercy. So also was any uninitiated person who  happened to be present. Persons of all ages and both  sexes were initiated ; and neglect in this respect, as in  the case of Socrates, was regarded as impious and  atheistical. It was required of all candidates that  they should be first admitted at the MiJo'a or Lesser  Mysteries of Agree, by a process of fasting called ^j«f/'/-  ficafion, after which they were styled mysfce, or initi-  ates. A year later, they might enter the higher degree.  In this they learned the aporrheta, or secret meaning of  the rites, and were thenceforth denominated ephori, or  epoptm. To some of the interior mysteries, however,  only a very select number obtained admission. From  these were taken all the ministers of holy rites. The  Hierophant who presided was bound to celibacy, and  requii'ed to devote his entire life to his sacred office.   * Atlantic Monthly, vol. iv. September, 1859.     14 Introduciion.   He had three assistants, — the torch- bearer, the lierux or  crier, and the minister at the altar. There were also a  hasileus or king, who was an archon of Athens, four  curators, elected by suffrage, and ten to offer sacrifices.   The sacred Orgies were celebrated on every fifth  year ; and began on the 15th of the month Boedromiau  or September. The first day was styled the agurmos or  assembly, because the worshipers then convened. The  second was the day of purification, called also alacU  mystaij from the proclamation : ''To the sea, initiated  ones ! " The third day was the day of sacrifices ; for  which purpose were offered a mullet and barley from  a field in Eleusis. The officiating persons were for-  bidden to taste of either ; the offering was for Achtheia  (the sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth  day was a solemn procession. The JcalafJios or sacred  basket was borne, followed by women, ciske or chests  in which were sesamum, carded wool, salt, pomegran-  ates, poppies, — also thyrsi, a serpent, boughs of ivy,  cakes, etc. The fifth day was denominated the day of  torches. In the evening were torchlight processions  and much tumult.   The sixth was a great occasion. The statue of  lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought  from Athens, by the laccJiogoroi, all crowned with  myrtle. In the way was heard only an uproar of sing-  ing and the beating of brazen kettles, as the votaries  danced and ran along. The image was borne " through  the sacred Gate, along the sacred way, halting by the        P^  '^^^'      Introduction. 17   sacred fig-tree (all sacred, mark you, from Eleiisinian  associations), where the procession rests, and then  moves on to the bridge over the Cephissns, where again  it rests, and where the expression of the wildest grief  gives place to the trifling farce, — even as Demeter, in  the midst of her grief, smiled at the levity of lambe  in the palace of Celeus. Through the 'mystical en-  trance ' we enter Eleusis. On the seventh day games  are celebrated; and to the victor is given a measure  of barley, — as it were a gift direct from the hand of  the goddess. The eighth is sacred to ^sculapius, the  Divine Physician, who heals all diseases; and in the  evening is performed the initiatory ritual.   " Let us enter the m3\stic temple and be initiated, —  though it must be supposed that, a year ago, we were  initiated into the Lesser Mysteries at Agrae. We must  have been mystm (vailed), before we can become epoptce  (seers) ; in plain English, we must have shut our  eyes to all else before we can behold the mysteries.  Crowned with myrtle, we enter with the other initiates  into the vestibule of the temple, — blind as yet, but the  Hierophaut within will soon open our eyes.   '■' But first, — for here we must do nothing rashly,—  first we must wash in this holy water; for it is with  pure hands and a pure heart that we are bidden to  enter the most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios  seJcos]. Then, led into the presence of the Hierophaut,*   * In the Oriental countries the designation nns Peter (an in-  terpreter), appears to have been the title of this personage ; and     18 Introduction.   he reads to us, from a book of stone [■jreTpajfjia, petroma]^  tliiuii's which we must not divulge on pain of death.  Let it suffice that they fit the place and the occasion ;  and though you might laugh at them, if they were  spokiMi outside, still you seem very far from that mood  now, as you hear the words of the old man (for old he  he always was), and look upon the revealed symbols.  And very far, indeed, are you from ridicule, when  Demeter seals, by her own peculiar utterance and sig-  nals, by vivid coruscations of light, and cloud piled  upon cloud, all that we have seen and heard from her  sacred priest; and then, finally, the light of a serene  wonder fills the temple, and we see the pure fields of  Elysium, and hear the chorus of the Blessed; — then,  not merely by external seeming or philosophic inter-  pretation, but in real fact, does the Hierophant become  the Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all  things; the Sun is but his torch-bearer, the Moon his  attendant at the altar, and Hermes his mystic herald *  [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been uttered  ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are  vpoptit forever ! "  Those who are curious to know the myth on which   the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.  There is in these facts some reminder of the peculiar circum-  stances of the Mosaic Law which was so preserved ; and also of  the claim of the Pope to be the successor of Peter, the hierophant  or interpreter of the Christian religion.  * Porphyry.     Introduction. 19   the " mystical drama " of the Eleusinia is founded will  find it in any Classical Dictionary, as well as in these  pages. It is only pertinent here to give some idea of  the meaning. That it was regarded as profound is  evident from the peculiar rites, and the obligations im-  posed on every initiated person. It was a reproach not  to observe them. Socrates was accused of atheism, or  disrespect to the gods, for having never been initiated.*  Any person accidentally guilty of homicide, or of any  crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The  secret doctrines, it is supposed, were the same as are  expressed in the celebrated Hymn of Cleanthes. The  philosopher Isocrates thus bears testimony : " She  [Demeter] gave us two gifts that are the most excel-  lent ; fruits, that we may not live like beasts ; and that  initiation — those who have part in which have sweeter  hope, both as regards the close of life and for all  eternity." In like manner, Pindar also declares : " Happy  is he who has beheld them, and descends into the Under-  world: he knows the end, he knows the origin of life."  The Bacchic Orgies were said to have been instituted,   * Ancient Sijmhol-Worsliip, page 12, note. "Socrates was not  initiated, yet after drinking the hemlock, he addressed Crito :  ' We owe a cock to ^sculapius.' This was the peculiar offering  made by initiates (now called kerJcnophori) on the eve of the last  day, and he thus symbolically asserted that he was about to re-  ceive the great apocalypse."   See, also, " Progress of Religious Ideas," byLYDiA Maria Child,  vol. ii. p. 308 ; and " Discourses on the Worship of Priapus," by  EiCHARD Payne Knight.     20 Introduction.   or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a mythical  personage, supposed to have flourished in Thrace.*  The Orphic associations dedicated themselves to the  worship of Bacchus, in which they hoped to find the  gratification of an ardent longing after the worthy and  elevating influences of a religious life. The worshipers  did not indulge in unrestrained pleasure and frantic  enthnsiasni, but rather aimed at an ascetic purity of   * Euripides : Ehaesns. "Orpheus showed forth the rites of  the hidden Mysteries."   Plato : ProUifforas. " The art of a sophist or sage is ancient,  but tlie men who proposed it in ancient times, fearing the odium  attached to it, sought to conceal it, and vailed it over, some under  the garb of poetry, as Homer, Hesiod, and Simonides : and others  under that of the Mysteries and prophetic manias, such as Orpheus,  Musseus, and their followers."   Herodotus takes a different view — ii. 49. "Melampus, the son  of Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of  Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the pro-  cession of the phallus. He did not, however, so completely ap-  prehend the whole doctrine as to be able to communicate it  entirely : but various sages, since his time, have carried out his  teaching to greater perfection. Still it is certain that Melampus  introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him the  ceremonies which they now practice. I therefore maintain that  Melampus, who was a sage, and had acquired the art of divina-  tion, having become acquainted with the worship of Dionysus  tln-ough knowledge derived from Eg>ijt, introduced it into Greece,  with a few slight changes, at the same time rhat he brought in  various other practices. For I can by no means allow that it is by  mere coincidence that the Bacchic ceremonies in Greece are so  nearly the same as the Egyptian."     y     r^isi      Etruscan Kleusiniau Ci-renionies.     Introdiidion, 23   life and manners. The worship of Dionysus \yas the  center of their ideas, and the starting-point of all their  speculations upon the world and human nature. They  believed that human souls were confined in the body as  in a prison, a condition which was denominated genesis  or generation; from which Dionysus would liberate  them. Their sufferings, the stages by which they  passed to a higher form of existence, their lafharsis  or purification, and their enlightenment constituted the  themes of the Orphic writers. All this was represented  in the legend which constituted the groundwork of the  mystical rites.   Dionysus-Zagreus was the son of Zeus, whom he had  begotten in the form of a dragon or serpent, upon the  person of Kore or Persephoneia, considered by some  to have been identical with Ceres or Demeter, and by  others to have been her daughter. The former idea is  more probably the more correct. Ceres or Demeter  was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta  in a fragment by Psellus, and is also styled a Fury.  The divine child, an avatar or incarnation of Zeus, was  denominated Zagreus, or Chakra (Sanscrit) as being  destined to universal dominion. But at the instigation  of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac-   * Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the  definite name of any goddess, but was used by ancient writers as  a designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be  of Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other  divinities.     24 Introduction.   cordingly, one day while he was contemplating a mir-  ror,* they set upon him, disguised under a coating of  plaster, and tore him into seven parts. Athena, how-  ever, rescued from them his heart, which was swallowed  by Zeus, and so returned into the paternal substance,  to be generated anew. He was thus destined to be  again born, to succeed to universal rule, establish the  reign of happiness, and release all souls from the  dominion of death.   The hypothesis of Mi-. Taylor is the same as was  maintained by the philosopher Porphyry, that the  Mysteries constitute an illustration of the Platonic   * The mirror was a part of the symbolism of the Thesmophoria,  and was iised in the search for Atmu, the Hidden One, evidently  the same as Tammuz, Adonis, and Atys. See Exodus xxxviii. 8 ;  1 Samuel ii. 22 ; and Esekiel viii. 14. But despite the assertion of  Herodotus and others that the Bacchic Mysteries were in reality  Egyptian, there exists strong probability that they came originally  from India, and were Sivaic or Buddhistical. Core-Persephoneia  was but the goddess Parasu-pani or Bhavani, the patroness of the  Thugs, called also Goree ; and Zagi'eus is from Chakra, a country  extending from ocean to ocean. If this is a Turanian or Tartar  Story, we can easily recognize the "Horns" as the crescent worn  by lama-priests : and translating god-names as merely sacerdotal  designations, assume the whole legend to be based on a tale of  Lama Succession and transmigration. The Titans would then be  the Daityas of India, who were opposed to the faith of the north-  ern tribes ; and the title Dionysus but signify the god or chief-  priest of Nysa, or Mount Meru. The whole story of Orpheus, the  institutor or rather the reformer of the Bacchic rites, has a Hindu  ring all through.     Introduction. 25   philosophy. At first sight, this may l)e hard to believe ;  but we must know that no pageant could hold place so  long, without an under-meaning. Indeed, Herodotus  asserts that " the rites called Orphic and Bacchic are in  reality Egyptian and Pythagorean."* The influence of  the doctrines of Pythagoras upon the Platonic system  is generally acknowledged. It is only important in  that case to understand the great philosopher correctly ;  and we have a key to the doctrines and symbolism of  the Mysteries.   The first initiations of the Eleusinia were called  Telefce or terminations, as denoting that the imperfect  and rudimentary period of generated life was ended  and purged off ; and the candidate was denominated a  mijsfa, a vailed or liberated person. The Greater-  Mysteries completed the work ; the candidate was more  fully instructed and disciplined, becoming an epopta  or seer. He was now regarded as having received the  arcane principles of life. This was also the end sought  by philosophy. The soul was believed to be of com-  posite nature, linked on the one side to the eternal  world, emanating from God, and so partaking of Di-  vinity. On the other hand, it was also allied to the  phenomenal or external world, and so liable to be  subjected to passion, lust, and the bondage of evils.  This condition is denominated genemtion ; and is sup-  posed to be a kind of death to the higher form of life.  Evil is inherent in this condition ; and the soul dwells  * Herodotus: ii. 81.     26 Introduction. .   in the body as in a prison or a grave. In this state, and  previous to the discipline of education and the mysti-  cal initiation, the rational or intellectual element, which  Paul denominates the spiritual, is asleep. The earth-  life is a dream rather than a reality. Yet it has  longings for a higher and nobler form of life, and its  affinities are on high. "All men yearn after God,"  says Homer. The object of Plato is to present to us the  fact that there are in the soul certain ideas or princi-  ples, innate and connatural, which are not derived  from without, but are anterior to all experience, and  are developed and brought to view, but not produced  by experience. These ideas are the most vital of all  truths, and the purpose of instruction and discipline  is to make the individual conscious of them and  willing to be led and inspired b}^ them. The soul  is purified or separated from evils by knowledge,  truth, expiations, sufferings, and prayers. Our life  is a discipline and preparation for another state of  being; and resemblance to God is the highest motive  of action.*   * Many of the early Christian writers were deeply imbued with  the Eclectic or Platonic doctrines. The very forms of speech were  almost identical. One of the four Gospels, bearing the title " ac-  cording to John,'''' was the evident product of a Platonist, and  hardly seems in a considerable degree Jewish or historical. The  epistles ascribed to Paul evince a great familiarity with the Eclec-  tic philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries, as  well as with the Mithraic notions that had penetrated and  permeated the religious ideas of the western countries.     Introduction. 27   Proclus does not hesitate to identify the theological  doctrines with the mystical dogmas of the Orphic  system. He says : '' What Orpheus delivered in hidden  allegories, Pythagoras learned when he was initiated  into the Orphic Mysteries.; and Plato next received a  perfect knowledge of them from the Orphean and  Pythagorean writings."   Mr. Taylor's peculiar style has been the subject of  repeated criticism ; and his translations are not accepted  by classical scholars. Yet they have met with favor at  the hands of men capable of profound and recondite  thinking ; and it must be conceded that he was endowed  with a superior qualification, — that of an intuitive per-  ception of the interior meaning of the subjects which  he considered. Others may have known more Greek,  but he knew more Plato. He devoted his time and  means for the elucidation and dissemination of the doc-  trines of the divine philosopher ; and has rendered into  English not only his writings, but also the works of  other authors, who affected the teachings of the great  master, that have escaped destruction at the hand of  Moslem and Christian bigots. For this labor we can-  not be too grateful.   The present treatise has all the peculiarities of style  which characterize the translations. The principal diffi-  culties of these we have endeavored to obviate — a labor  whicli will, we trust, be not unacceptable to readers.  The book has been for some time out of print ; and no  later writer has endeavored to replace it. There are     28     Introduction.     many who still cherish a regard, almost amounting to  veneration, for the author; and we hope that this repro-  duction of his admirable explanation of the nature and  object of the Mysteries will prove to them a welcome  undertaking. There is an increasing interest in philo-  sophical, mystical, and other antique literature, which  will, we believe, render our labor of some value to a  class of readers whose sympathy, good-will, and fellow-  ship we would gladly possess and cherish. If we have  added to their enjoyment, we shall be doubly gratified.   A. W.      V'euus ami Proserpina iu Hailes.      Rape of Proserplua.   ADVERTISEMENT TO THE AUTHOR'S EDITION.   AS there is nothing more celebrated than the Mys-  ■^l\^ teries of the ancients, so there is perhaps nothing-  which has hitlierto been less solidly known. Of the  trnth of this observation, the liberal reader will, I per-  snade myself, be fully convinced, from au attentive  perusal of the following sheets; in which the secret  meaning of the Eleusinian and Bacchic Mysteries is un-  folded, from authority the most respectable, and from  a philosophy of all others the most venerable and  august. The authority, indeed, is principally derived  from manuscript writings, which are, of course, in the  possession of but a few; but its respectability is no  more lessened by its concealment, than the value of a  diamond when secluded from the light. And as to the  philosophy, by whose assistance these Mysteries are de-  veloped, it is coeval with the universe itself ; and, how-  ever its continuity maybe broken by opposing systems,  it will make its appearance at different periods of time, as  long as the sun himself shall continue to illuminate the   29     30     Advertisement.     world. It has, indeed, and may hereafter, be violently as-  saulted l)y delusiv^e opinions; but the opposition will be  just as imbecile as that of the waves of the sea against a  temple built on a rock, which majestically pours them   back,   Broken and A^anquish'd, foaming to the main.      Pallas, Venus, aud Diaua.     THE ELEUSINIAN AND BACCHIC      Dionysus as God of the Sun.     a. SECTION I. SJ     DR. WARBURTON, in Ms Divine  Legation of Moses, has ingeniously  proved, that the sixth book of Virgil's  ^neid represents some of the dramatic  exhibitions of the Eleusinian Mysteries ;  but, at the same time, has utterly failed  in attempting to unfold their latent mean-  ing, and obscure though important end.  By the assistance, howevei", of the Pla-  tonic philosophy, I have been enabled to  correct his errors, and to vindicate the  wisdom * of antiquity from his aspersions   * The profounder esoteric doctrines of the ancients were  denominated wisdom, and attevwnrd philosophy, and also the [piosis  or knowledge. They related to the human soul, its divine parent-   31     32 Eleiisinian and   by a genuine account of this sublime  institution; of which the foUowing obser-  vations are designed as a comprehensive  view.   In the fii'st place, then, I shall present  the reader with two superior authorities,  who perfectly demonstrate that a part of  the shows (or dramas) consisted in a  representation of the infernal regions; au-  thorities which, though of the last conse-  quence, were unknown to Dr. Warbiu'ton  himself. The first of these is no less a  person than the immortal Pindar, in a  fragment preserved by Clemens Alexan-  drinus : ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsa-  acvt {Jiua'CTjpuov Xsycov STrcrpspsL OXpcoc, oart?   ^. 6". " But Pindar, speaking of the Eleusinian  Mysteries, says : Blessed is he who, having   age, its supposed degradation from its high estate by becoming  connected with " generation " or the physical world, its onward  progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly sup-  posed to be transmigrations, etc. — A. W.  " Stroma la, book iii.     Bacchic Mysteries. 33   seen those common concerns in the under-  world, knows both the end of hfe and its  divine origin from Jupiter." The other of  these is from Prochis in his Commentary  on Plato's Politicus, who, speaking concern-  ing the sacerdotal and symbolical mythol-  ogy, observes, that from this mythology  Plato himseK establishes many of his own  peculiar doctrines, " since in the Phcedo he  venerates, mtli a becoming silence, the  assertion delivered in the arcane discourses,  that men are placed in the body as in a  prison, secured by a guard, and testifies^  accordlny to the mystic cerem^onies, the dif-  ferent allotments of purified and unpuri-  fied souls in Hades, their severed conditions,  and the three-forJicd path from the pecidiar  places where they tcere ; and this was shown  accordiny to traditionary institutions ; every  part of which is full of a symbolical repre-  sentation, as in a dream, and of a descrip-  tion which treated of the ascending and  descending ways, of the tragedies of Dio-  nysus (Bacchus or Zagreus), the crimes of  the Titans, , the three ways in Hades, and     34 Eleusinian and   the wandering of everything of a similar  hind.^^ — "Ar/Aot 5s sv <l>7.too)vt xov ts sv   6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^ cs^3(ov, xai  ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.) (JLCtp-  -:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^  %£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic, o/joo   rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa?   xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov (lege %ai  %7.x7. t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a  5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara,   7,7.L t(OV 7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV   rj.yo^my zs 7.7.t 7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov  3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov TiTy-vizfov onxapiYjixa-   -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'-> TpCOOCOV,  7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV d'7L7.VXa)V." *   Ha^dllg iDremised thus much, I now pro-  ceed to prove that the th'amatic spectacles .of  the Lesser Mysteries f were designed by the  ancient theologists, their founders, to signify  occultly the condition of the unpurified soul   * Commentary on the Statesman of Plato, page 374.   t The Lesser Mysteries were celebrated at Agrse ; and the per-  sons there initiated were denominated Mi/sta: Only such could  be received at the sacred rites at Eleusis.     Bacchic Mysteries. 35   invested with an earthly body, and envel-  oped in a material and physical nature ; or,  in other words, to signify that such a soul in  the present life might be said to die, as far  as it is possible for a soul to die, and that  on the dissolution of the present body, while  in this state of impuiity, it would experience  a death still more permanent and profound.  That the soul, indeed, till purified by phi-  losophy,* suffers death through its union with  the body was obvious to the philologist  Macrobius, who, not penetrating the secret  meaning of the ancients, concluded from  hence that they signified nothing more than  the present body, by their descriptions of  the infernal abodes. But this is manifestly  absurd ; since it is universally agreed, that  all the ancient theological poets and philos-  ophers inculcated the doctrine of a future  state of rewards and punishments in the  most full and decisive terms ; at the same  time occultly intimating that the death of  the soul was nothing more than a profound  union with the ruinous bonds of the body.   * Philosophy here relates to discipline of the life.     36 Eleusinian and   Indeed, if these wise men believed in a  future state of retribution, and at the same  time considered a connection with the body-  as death of the soul, it necessarily follows,  that the soul's punishment and existence  hereafter are nothing more than a continu-  ation of its state at present, and a transmi-  gration, as it were, from sleep to sleep, and  from dream to dream. But let us attend  to the assertions of these divine men con-  cerning the soul's union with a material  nature. And to begin with the obscure and  profound Heracleitus, speaking of souls  imembodied: "We live their death, and we  die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,  TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Em-  pedocles, deprecating the condition termed  " generation," beautifully says of her :   The aspect changing with destruction dread,  She makes the Uv'okj pass into the dead.   Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi a|JLj'.j3ojv.   And again, lamenting his connection with  this corporeal world, he pathetically exclaims:     Bacchic Mysteries. 37   For this I weep, for this indulge my woe,   That e'er my soul such novel realms should know.   KXauaa te v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. *   Plato, too, it is well known, considered the  body as the sepulchre of the soul, and in  the Crcifijlus concurs with the doctrine of  Orpheus, that the soul is x>^niished through  its union with body. This was likewise the  opinion of the celebrated Pythagorean, Phi-  lolaus, as is evident from the following re-  markable passage in the Doric dialect, pre-  served by Clemens Alexandrinus in Strom at.  book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi TcrjXaifx.  tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C, ^la ziyac, xqj-copiac,   £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^'' i. e. " The ancient  theologists and priests * also testify that the  soul is united with the body as if for the  sake of punishment ; f and so is buried in  body as in a sepulchre." And, lastly, Py-   * Greek it-ayxsiq mantels — more properly proi)hets, those filled  by the prophetic mania or eutheasm.   t More correctly — '* The soul is yoked to the body as if by way  of punishment," as culprits were fastened to others or even to  corpses. See PauVs Epistle to the liomans, vii, 25.     38 Eleusinian and   thagoras himself confii'ms the above senti-  ments, when he beautifully observes, accord-  ing to Clemens in the same book, " that  wild fever tee see when airali'e is death ; and  when asleep,- a dreamt brj^rxio;^ sa-rcv, oxoaa   But that the mysteries occultly signi-  fied this sublime truth, that the soul by  being merged in matter resides among the  dead both here and hereafter, though it fol-  lows by a necessary sequence from the preced-  ing observations, yet it is indisputably con-  firmed, by the testimony of the great and  truly divine Plotinus, in Ennead I., book viii.  ''When the soul," says he, '*has descended into  generation (from its first divine condition)  she partakes of evil, and is carried a great  way into a state the opposite of her  first purity and integrity, to he entirely  merged in ivhich, is nothing more than to  fall into dark mire.^^ And again, soon after :  " The soul therefore dies as much as it is pos-  sible for the soul to die : and the death to her  is^ while Mptized or immersed in the present     Bacchic Mysteries. 39   hocly^ to descend into matter * and he wholly  subjected hy it ; and after departing thence  to lie there till it shall arise and turn  its face away from the abhorrent filth.  This is what is meant hy the falling asleep  in Ifades, of those who have come there.'''' j   * Greek ^^>^'<], matter supposed to contain all the principles the  negative of life, order, and goodness.   tThis passage doubtless alludes to the ancient and beautiful  story of Cupid and Psyche, in which Psyche is said to fall asleep  in Hades ; and this through rashly attempting to behold corporeal  beauty : and the observation of Plotinus will enable the profoimd  and contemplative reader to unfold the greater part of the mys-  teries contained in this elegant fable. But, prior to Plotinus,  Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such as  are unable in the present life to apprehend the idea of the good,  will descend to Hades after death, and fall asleep in its dark  abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv aXXtov  Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v It-'^'/'fJ 5oa  Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax' ouatav npofl'U^oofjLsvo?  eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo  cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^  ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^  c'^aTiXja&ai ; xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v  jvO'ao' E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;  ETTixaxaSapO-aviiv ; ». e. "He who is not able, by the exercise  of his reason, to define the idea of the good, separating it from all  other objects, and piercing, as in a battle, through every kind  of argument ; endeavoring to confute, not according to opinion,  but according to essence, and proceeding through all these dia-  lectical energies with an unshaken reason; — he who can not     40 Bacchic Mysteries.   TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;; rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap   '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc zotzco,  evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov  SGzrji 'jisacov. — A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;; 'j'''>Z''i '^•'^  iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o  GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac,  7C/.C 7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst  %£iai)'7.L, £(oc av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v  G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac to'jto sb-'. to sv  4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the   aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the  good itself, nor anything which is pi'operly denominated good?  And would you not assert that such a one, when he apprehends  any certain image of reality, apprehends it rather through the  medium of opinion than of science ; that in the present life he  is sunk in sleep, and conversant with the delusion of dreams ;  and that before he is roused to a vigilant state he will descend  to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly profound."  Henry Davis ti-anslates this passage more critically: "Is not  the ease the same with i"eference to the good ? Whoever can not  logically define it, abstracting the idea of the good from all  others, and taking, as in a fight, one opposing argument after  another, and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest  his ease, not on the ground of opinion, but of true being, — such a  one knows nothing of the r/ood itself, nor of any good whatever ;  and should he have attained to any knowledge of the (jood, we  must say that he has attained it by opinion, not by science  {sKizzfiiirj) ; that he is sleeping and dreaming away his present  life ; and before he is roused will descend to Hades, and there  be profoundly and perfectly laid asleep." vii. 14.     Bacchic Mysteries. 43   reader may observe that the obsciu'e doc-  trine of the Mysteries mentioned by Plato  in the Phcedo^ that the nnpurified soul in a  future state lies immerged in mire, is beauti-  fully explained; at the same time that our  assertion concerning their secret meaning  is not less substantially confirmed.* In a  similar manner the same divine philosopher,  in his book on the Beautiful, Ennead^ I., book  vi., explains the fable of Narcissus as an em-  blem of one who rushes to the contempla-  tion of sensible (phenomenal) forms as if  they were perfect realities, when at the  same time they are nothing more than Uke  beautiful images appearing in water, falla-  cious and vain. " Hence," says he, " as Nar-  cissus, by catching at the shadow, plunged  himself in the stream and disappeared, so  he who is captivated by beautiful bodies,  and does not depart fi'om their embrace,  is precipitated, not with his body, but with   * Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us ap-  pear to have intimated that whoever shall arrive in Hades un-  ptirified and not initiated shall lie in mud ; but he who arrives there  purified and initiated' shall dwell with the gods. For there are  many hearers* of the wand or thyrsus, but few who are inspired."     44 Eleusiniari and   his soul, into a darkness profound and repug-  nant to intellect (the higher soul),* through  which, remaining bhnd both here and in  Hades, he associates with shadows." Tov   T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri   -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco  [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll sv-   taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still  farther confirms our exposition is that mat-  ter was considered by the Egyptians as a  certain mire or mud. " The Egyptians,"  says Simplicius, " called matter, which they  symbolically denominated water, the dregs  or sediment of the first life ; matter being,  as it were, a certain mire or mud.f Aco xat  AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i-  |5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXs-  yov, oiov ihjv ziya ooaav. So that fi*om all   * Intellect, Greek vouc, nous, is the higher faculty of the mind.  It is substantially the same as the pncH))ia, or spirit, treated of in  the New Testament; and hence the term '^ iiifcUectual," as used  in Mr. Taylor's translation of the Platonic writers, may be  pretty safely read as spiritual, by those familiar with the Chris-  tian cultus. * A. W.   t Physics of Aristotle.     Bacchic Mysteries. 45   tliat has been said we may safely conclude  with Ficinus, whose words are as express to  our purpose as possible. " Lastly," says he,  "that I may comprehend the opinion of the  ancient theologists, on the state of the soul  after death, in a few words : tlieij considered^  as we have elsewhere asserted, things divine  as the only realities^ and that all others  were only the images and shadows of  truth. Hence they asserted that prudent  men, who earnestly employed themselves in  divine concerns, were above all others in a  vigilant state. But that imprudent [/. e.  without foresight] men, who pursued objects  of a different nature, being laid asleep, as it  were, were only engaged in the delusions  of dreams ; and that if they happened to  die in this sleep, before they were roused,  they would be afflicted with similar and  still more dazzling visions in a future state.  And that as he who in this life pursued  realities, would, after death, enjoy the high-  est truth, so he who pursued deceptions  would hereafter be tormented with fallacies  and delusions in the extreme : as the one     46 Eleusinian and   would be delighted with true objects of  enjoyment, so the other would be tor-  mented with delusive semblances of reali-  ty." — Denique ut priscormn theologorum  sententiam de statu animae post mortem  paucis comprehendam : sola di\ina (ut alias  diximus) arbitrantur res veras existere, re-  hqua esse rerum verarum imagines atque  umbras. Ideo prudentes homines, qui divi-  nis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impm-  dentes autem, qui sectantur alia, insomniis  omnino quasi dormientes illudi, ac si in  hoc somno priusquam expergefacti fuerint  moriantur similibus post (hscessum et acri-  oribus visionibus angi. Et sicut emn qui  in vita veris incubuit, post mortem summa  veritate potiri, sic eum qui falsa sectatus  est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus  veris oblectetur, hie falsis vexetur simu-  lachris." *   But notwithstanding this important truth  was obscurely hinted by the Lesser Myster-  ies, we must not suppose that it was gen-   *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.     Bacchic Mysteries. 47   erally known even to the initiated persons  themselves : for as individuals of almost  all descriptions were admitted to these rites,  it would have been a ridiculous prostitution  to disclose to the multitude a theory so ab-  stracted and sublime.* It was sufficient to  instruct these in the doctrine of a future  state of rewards and punishments, and in  themeans of returning to the principles  from which they originally fell : for this   * We observe in the Netv Testament a like disposition on the part  of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and ex-  oteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles,  and "pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom," says  Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1 Cor-  intliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to know the  Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not given;  therefore I speak to them in parables : because they seeing, see  not, and hearing, they hear not, neither do they understand."  — Matthew xiii., 11-13. He also justified the withholding of the  higher and interior knowledge from the untaught and ill-disposed,  in the memorable Sermon on the Mount. — Matthew vii. :   •'Give ye not that which is sacred to the dogs,  Neither cast ye your pearls to the swine ;  For the swine will tread them under their feet  And the dogs will turn and rend you."   This same division of the Christians into neophytes and perfect,  appears to have been kept up for centuries ; and Godfrey Higgins  asserts that it is maintained in the Roman Cliurch. — A. W.     48 Eleusinian and   last piece of information was, according to  Plato in the PJuedo, the ultimate design of  the Mysteries ; and the former is necessarily  infeiTed from the present discourse. Hence  the reason why it was obvious to none hut  the Pythagorean and Platonic philosophers,  who derived their theology from Orpheus  himseK,* the original founder of these sacred  institutions; and why we meet with no in-  formation in this particular in any writer  prior to Plotinus ; as he was the first who,  having penetrated the profound interior wis-  dom of antiquity, delivered it to posterity  without the concealments of mystic symbols  and fabulous narratives.     VIBGIL NOT A PLATONIST.   Hence too, I think, we may infer, with  the greatest probabihty, that this recondite  meaning of the Mysteries was not known   * Herodotus, ii. 51, 81.   "What Orpheus delivered in hidden allegories Pythagoras  learned when he was initiated into the Orphic Mysteries ; and  Plato next received a knowledge of them from the Orphic and  Pythagorean writings."     Bacchic Mysteries. 49   even to Virgil himself, who has so elegantly  described their external form ; for notwith-  standing the traces of Platonism which are  to be found in the ^neid, nothing of any  great depth occurs throughout the whole,  except what a superficial reading of Plato  and the dramas of the Mysteries might easily  afford. But this is not perceived by modern  readers, who, entirely luiskilled themselves in  Platonism, and fascinated by the charms of  his poetry, imagine him to be deeply knowing  in a subject with which he was most hkely  but slightly acquainted. This opinion is still  farther strengthened by considering that the  doctrine delivered in his Eclogues is perfectly  Epicurean, which was the fashionable phi-  losophy of the Augustan age ; and that there  is no trace of Platonism in any other part of  his works but the present book, which, con-  taining a representation of the Mysteries,  was necessarily obliged to display some of  the principal tenets of this philosophy, so  far as they illustrated and made a part of  these mystic exhibitions. However, on the  supposition that this book presents us with     50 , Eleusinian and   a faithful view of some part of these sacred  rites, and this accompanied with the utmost  elegance, harmony, and purity of versifica-  tion, it ought to be considered as an invalu-  able rehc of antiquity, and a precious mon-  ument of venerable mysticism, recondite  wisdom, and theological information.* This  will be sufficiently e\ddent from what has  been already delivered, by considering some  of the beautiful descriptions of this book in  their natural order; at the same time that  the descriptions themselves will corroborate  the present elucidations.   In the first place, then, when he says,   faeilis descensus Averno.     Noetes atque dies patet atra janua ditis :   Sed revoeare gradum, superasqiie evadere ad aiiras,   Hoe opus, hie labor est. Pauei quos sequus amavit   Jupiter, aut ardens evexit ad sethera virtus,   Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae,   Cocytusque siuu labens, circumvenit atro 1   * Ancient Symhol-Worship, page 11, noie.   t Davidson^s Translation. — " Easy is the path that leads down to  hell ; grim Pluto's gate stands open night and day : but to retrace  one's steps, and escape to the upper regions, this is a work, this is  a task. Some few, whom favoring Jove loved, or illustrious virtue     Bacchic Mysteries. 51   is it not obvious, from tlie preceding expla-  nation, that by Avernus, in this place, and  the dark gates of Pluto, we mnst understand  a corporeal or external nature, the descent  into which is, indeed, at all times obvious  and easy, but to recall our steps, and ascend'  into the upper regions, or, in other words,  to separate the soul from the body by the  purifying discipline, is indeed a mighty work,  and a laborious task ? For a few only, the fa-  vorites of heaven, that is, born with the true  philosophic genius,^ and whom ardent virtue  has elevated to a disposition and capacity for  divine contemplation, have been enabled to  accomplish the arduous design. But when  he says that all the middle regions are  covered with woods, this hkewise plainly in-  timates a material nature ; the word silva^ as  is well known, being used by ancient writers  to signify matter, and implies nothing more  than that the passage leading to the barafh-   advaneecl to heaven, the sons of the gods, have effected it.  Woods cover all the intervening space, and Cocytus, gliding with  his black, winding flood, surrounds it."   * /. e., a disposition to investigate for the purpose of eliciting  truth, and reducing it to practice.     52 Meusinian and   rum [abyss] of body, /. e. into profound  darkness and oblivion, is throngh the me-  dium of a material nature ; and this medium  is surrounded by the black bosom of Cocy-  tus,* that is, by bitter weeping and lamenta-  tions, the necessary consequence of the soul's  union with a nature entirely foreign to her  own. So that the poet in this particular per-  fectly corresponds with Empedocles in the  line we have cited above, where he exclaims,  alluding to this union.   For this I weej), for this indulge my icoe,   That e'er my soul such novel realms should know.   In the next place, he thus describes the  cave, through which ^neas descended to  the infernal regions :   Spelunea alta fuit, vastoque immanis hiatu,  Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris :  Quam super hand ulla? poterant impune volantes  Tendere iter pennis : talis sese halitus atris  Faueicus effundens supera ad eonvexa fevebat :  Unde locum Graii dixerimt nomiue Aornum 1   * Coeytus, lamentation, a river in the Underworld.  \ Davidson^ s Trnnslation. — "There was a cave profound and  hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a black lake,     Bacchic Mysteries. 53   Does it not afford a beautiful representation  of a corporeal nature, of which a cave, de-  fended with a black lake, and dark woods,  is an obvious emblem *? For it occultly re-  minds us of the ever-flowing and obscin*e  condition of such a nature, which may be  said   To roll incessant with impetuous speed,  Like some dai'k river, into Matter's sea.   Nor is it with less propriety denominated  Aornus, i. e. destitute of birds, or a winged  nature ; for on account of its native sluggish-  ness and inactivity, and its merged condi-   and the gloom of woods ; over which none of the flying kind were  able to wing their way unliurt ; such exhalations issuing from its  grim jaws ascended to the vaulted skies ; for w^iich reason the  Greeks called the place by the name of Aornos" (without birds).   Jacob Bryant says: " All fountains were esteemed sacred, but  especially those which had any preternatural quality and abounded  with exhalations. It was an universal notion that a divine energy  proceeded from these effluvia ; and that the persons who resided  in their vicinity were gifted with a prophetic quality. . . . The  Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or fountains of the  oracle ; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of God.' These terms  the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a nymph." — Ancient  Mythology, vol. i. p. 276.   The Delphic oracle was above a fissure, (jnnnous or hocca infe-  riore, of the earth, and the pythoness inhaled the vapors. — A. W.     51 Eleiisinian and   tion, being situated in the outmost extremity  of tilings, it is perfectly debile and languid,  incapable of ascending into the regions of  reality, and exchanging its obscure and de-  graded station for one every way splendid  and divine. The propriety too of sacrificing,  previous to his entrance, to Night and Earth,  is obvious, as both these are emblems of a  corporeal nature.   In the verses which immediately follow, —   Ecee autem, priini sub limina solis et ortus,  Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta movere  Silvarum, visaque canes ululare per umbram,  Adventante dea *   we may perceive an evident allusion to the  earthquakes, etc., attending the descent of  the soul into body, mentioned by Plato in  the tenth book of his Republic ;\ since the   * " So, now, at the fii-st beams and rising of tlie sun, the earth  under the feet begins to rumble, the wooded hills to quake, and  dogs were seen howling through the shade, as the goddess came  hither "   i Republic, x, 16. "After they were laid asleep, and midnight  was approaching, there was thunder and earthquake ; and they  were thence on a sudden carried upward, some one way, and  some another, approaching to the region of generation like stars."     Bacchic Mysteries. 55   lapse of the soul, as we shall see more fully  hereafter, was one of the important truths  which these Mysteries were intended to re-  veal. And the howling dogs are symbols  of material * demons, who are thus denomi-  nated by the Magian Oracles of Zoroaster,  on account of then" ferocious and malevolent  dispositions, ever baneful to the felicity of  the human soul. And hence Matter herseK  is represented by Synesius in his first Hymn,  with great propriety and beauty, as barking  at the soul with devoimng rage : for thus he  sings, addressing himself to the Deity :   Maxap 6c x:c popov oImc,  npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc,  AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po)  lyyoc, £? t^sov v.xo.vjzi.   Which may be thus paraphrased :   Blessed! thrice blessed! who, with winged speed,  From Hyle's t dread voracious bai'kiug flies,   * Material demons are a lower grade of spiritual essences that  are capable of assuming forms which make them perceptible by  the physical senses. — A. W.   t Hijle or Matter. All evil incident to human life, as is here  shown, was supposed to originate from the connection of the soul  to material substance, the latter being regarded as the receptacle     56 EleMsinian and   And, leaving Earth's obscnrity behind,  By a light leap, directs his steps to thee.   And that material demons actually ap-  peared to the initiated previous to the lucid  visions of the gods themselves, is evident  from the following passage of Proclus in  his manuscript Commentary on tlie first  Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov tsaskov  Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%-  poAat xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov  ayai^cov zic zr^v ohriy 7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e.  " In the most interior sanctities of the Mys-  teries, before the presence of the god, the  rushing forms of earthly demons appear, and  call the attention from the immaculate good  to matter." And Pletho (on the Oracles),  expressly asserts, that these spectres ap-  peared in the shape of dogs.   After this, ^neas is described as proceed-  ing to the infernal regions, through profound  night and darkness :   Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram,  Perque domos Ditis vaciias, et inania regna.   of everything evil. But why the soul is thus immerged and pun-  ished is nowhere explained. — A. W.     Bacchic Mysteries. 57   Quale per ineertam lunam sub luce maligna  Est iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra  Jupiter, et rebus nox abstulit atra colorem.*   And this with the greatest propriety; for  the Mysteries, as is well known, were cele-  brated by night ; and in the Republic of  Plato, as cited above, souls are described as  falling into the estate of generation at mid-  night ; this period being peculiarly accom-  modated to the darkness and oblivion of a  corporeal nature ; and to tliis circumstance  the nocturnal celebration of the Mysteries  doubtless alluded.   In the next place, the following vivid  description presents itself to our view :   Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei  Luctus, et ultrices posuere eubilia Curte :  Pallentesque habitant morbi, tristisque senectus,  Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis egestas;   *" They went along, amid the gloom under the solitary night,  through the shade, and through the desolate halls, and empty  realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods  beneath the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter  has enveloped the sky in shade, and the black Night has taken  from all objects their color."     58 Eleiisinian and   Terribiles visu forraje ; Lethumque Laborque ;  Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis  Gaudia, mortiferumqiie adverso in limine bellum  Ferreique Eumenidum thalami et Discordia demons,  Vipereum crinem vittis inuexa cruentis.  In medio ramos annosaque braehia pandit  Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia vulgo  Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent.  Multaque prseterea variarum monstra f erarum :  Centauri in foribus stabiilant, Scyllseque biforines,  Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,  Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera,  Gorgones Hai'pyigeque, et foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^   And surely it is impossible to draw a more  lively picture of the maladies with wliich a   * "Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief  and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases in-  habit there, and sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess  of persuasion, and unsightly Poverty — forms terrible to contem-  plate ! and there, too, are Death and Toil ; then Sleep, akin to  Death, and evil Delights of mind ; and upon the opposite threshold  are seen death-bringing War, and the iron marriage-couches of  the Furies, and raving Discord, with her viper-hair bound with  gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge expands its  boughs and aged limbs ; making an abode which vain Dreams are  said to haunt, and under whose every leaf they dwell. Besides all  these, are many monstrous api^aritions of various wild beasts. The  Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas, the hun-  dred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and  Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and  the shades of three-bodied form."     Bacchic Mysteries. 59   material natui'e is connected ; of the sonl's  dormant condition tlirougli its union with  body ; and of the various mental diseases to  which, through such a conjunction, it be-  comes unavoidably subject ; for this descrip-  tion contains a threefold division ; represent-  ing, in the first place, the external evil with  which this material region is replete ; in the  second place, intimating that the life of the  soul when merged in the body is nothing but  a dream; and, in the third place, under the dis-  guise of multiform and terrific monsters, ex-  hibiting the various vices of our iiTational and  sensuous part. Hence Empedocles, in perfect  conformity w^th the first part of this descrip-  tion, calls this material abode, or the realms  of generation, — a-c£p:r£.oc /(opov,* a '^joyless  region^   "Where slaiighter, rage, ami countless ills reside;  EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa llYjpWV   and into which those who fall,   * This and the other citations from Empedocles are to be found  in the book of Hieroeles on The Golden Verses of Pythagoras.     60 Bacchic Mysteries.   "Through Ate's meads and dreadful darkness stray."     And hence lie justly says to sncli a soul,  that   " She flies from deity and heav'nly light,  To serve mad Discord in the realms of night."     iSf.v.ti ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;.     Where too we may observe that the Discordla  demens of Virgil is an exact translation of  the Nsixst {iaivo{j.£vco of Empeclocles.     In the hues, too, which immediately suc-  ceed, the sorrows and mournful miseries  attending the soul's union with a material  nature, are beautifully described.   Hinc via, Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas;  Turbidus hie caeno vastaque voragine gurges  ^stuat, atque omuem Coeyto eructat arenam.*   And when Charon calls out to ^neas to   * "Here is the way whieli leads to the surging billows of Hell  [Acheron] ; here an abyss turbid boils up with loathsome mud and  vast whirlpools; and vomits all its quicksand into Cocytus."      IJiaua auct Calisto.     Bacchic Mysteries. 63   desist from entering any farther, and tells  him,   " Here to reside delusive shades delight;   ''F.or nought dwells here but sleep and drowsy night."   Umbrarum hie locus est, Somni Noctisque soporse   nothing can more aptly express the condi-  tion of the dark regions of body, into which  the soul, when descending, meets with no-  thing but shadows and drowsy night : and  by persisting in her course, is at length lulled  into profound sleep, and becomes a true in-  habitant of the phantom-abodes of the dead.   ^neas having now passed over the Sty-  gian lake, meets with the three-headed mon-  ster Cerberus,* the guardian of these infernal  abodes :   Tandem trans fluvium incolumis vatemque virumque  Informi limo glaueaque exponit in ulva.   * The presence of Cerberus in Grecian and Roman descriptions  of the Underworld shows that the ideas of the poets and mythol-  ogists were derived, not only from Egypt, but from the Brahmans  of the far East. Yama, the lord of the Underworld, is attended  by his dog Karharu, the spotted, styled also Trikasa, the three-  headed.     64 Meusinian and   Cerberus haec ingens latratu regna trifauci  Personat, adverse recubaus immanis in antro.*   By Cerberus we must understand the dis-  criminative part of the soul, of which a dog,  on account of its sagacity, is an emblem ; and  the three heads signify the triple distinction  of this part, into the intellective [or intui-  tional], cogitative [or rational], and opinion-  ative powers. — With respect f to the three  kinds of persons described as situated on the  borders of the infernal realms, the poet  doubtless intended by this enumeration to  represent to us the three most remarkable   * "At length across the river safe, the prophetess and the man,  he lands upon the slimy strand, upon the blue sedge. Huge Cer-  berus makes these realms [of death] resound with barking from his  threefold throat, as he lies stretched at prodigious length in the  opposite cave."   tin the second edition these terms are changed to dianoietic  and doxastic, words which we cannot adopt, as they are not  accepted English terms. The nous, intellect or spirit, pertains  to the higher or intuitional part of the mind; the dianoia or  understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or opinion-  forming power, to the faculty of investigation. — Plotinus, accept-  ing this theory of mind, says: "Knowledge has three degrees —  opinion, science, and illumination. The means or instrument of  the first is reception ; of the second, dialectic ; of the third, in-  tuition."— A. W.     Bacchic Mysteries. 65   characters, wlio, though not apparently de-  serving of punishment, are yet each of them  similarly im merged in matter, and conse-  quently require a similar degree of purifica-  tion. The persons described are, as is well  known, first, the souls of infants snatched  away by untimely ends ; secondly, such as  are condemned to death unjustly ; and, third-  ly, those who, weary of their lives, become  guilty of suicide. And with respect to the  first of these, or infants, their connection  with a material nature is obvious. The sec-  ond sort, too, who are condemned to death  unjustly, must be supposed to represent the  souls of men who, though innocent of one  crime for which they were wrongfully pun-  ished, have, notwithstanding, been guilty of  many crimes, for which they are receiving  proper chastisement in Hades, i. e, through  a profoiuid union with a material nature.*  And the third sort, or suicides, though ap-   * Hades, the Underworld, supposed by classical students to be  the region or estate of departed souls, it will have been noticed, is  regarded by Mr. Taylor and other Platonists, as the human body,  which they consider to be the grave and place of punishment of  the soul. — A. W.     66 Eleusinian and   parently separated from the body, have only  exchanged one place for another of similar  nature ; since conduct of this kind, according  to the arcana of divine philosophy, instead  of separating the soul from its body, only  restores it to a condition perfectly correspon-  dent to its former inchnations and habits,  lamentations and woes. But if we examine  this affair more profoundly, we shall find  that these three characters are justly placed  in the same situation, because the reason of  punishment is in each equally obscure. For  is it not a just matter of doubt why the  souls of infants should be punished? And  is it not equally dubious and wonderful why  those who have been unjustly condemned to  death in one period of existence should be  punished in another? And as to suicides,  Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition  of this crime in the aTzorjfjrfa {aporrheta) *  is a profound doctrine, and not easy to be   * Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the  candidate undergoing initiation. In the Eleusinia, these were  made by the Hierophant, and enforced by him from the Book  of InterpretatInterpretation, said to have consisted of two tablets of stone.  This was the petroma, a name usuallj' derived from j^e^ra, a rock,     Bacchic Mysteries. 67   understood.* Indeed, the true cause why  the two first of these characters are in Hades,  can only be ascertained from the fact of a prior  state of existence, in surveying which, the  latent justice of punishment will be mani-  festly revealed ; the apparent inconsistencies  in the administration of Providence fully  reconciled; and the doubts concerning the  wisdom of its proceedings entirely dissolved.  And as to the last of these, or suicides, since  the reason of their punishment, and why an  action of this kind is in general highly  atrocious, is extremely mystical and obscure,  the following solution of this difficulty will,  no doubt, be gratefully received by the Pla-  tonic reader, as the whole of it is no where  else to be found but in manuscript. Olym-   or possibly from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians,  xii. 6-8.— A. W.   * PJuedo, 16. " The instruction in the doctrine given in the  Mysteries, that we human beings are in a kind of prison, and  that we ought not to free ourselves from it or seek to- escape,  appears to me difficult to be understood, and not easy to ap-  prehend. The gods take care of us, and we are theirs."   Plotinus, it will be remembered, perceived by the interior  faculty that Porphyry contemplated suicide, and admonished  him accordingly. — A. W.     68 Eleusinian and   piodorus, then, a most learned and excellent  commentator on Plato, in his commentary  on that part of the PJuedo where Plato  speaks of the prohibition of suicide in the  aporrhefa, observes as follows: "The argu-  ment which Plato employs in this place  against suicide is derived fi^om the Orphic  mythology, in which foui" kingdoms are  celebrated; the first of Uranus [Ouranos]  (Heaven), whom Ki'onos or Satm^n as-  saulted, cutting off the genitals of his  father.* But after Saturn, Zeus or Jupiter  succeeded to the government of the world,  having hurled his father into Tartarus. And  after Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to  light, who, according to report, was, through  the insidious treachery of Hera or Juno, torn  in pieces by the Titans, by whom he was sur-  rounded, and who afterwards tasted his flesh :  but Jupiter,enraged at the deed, hurled his  thunder at the guilty offenders and consumed  them to ashes. Hence a certain matter be-   * In the Hindu mythology, from which this symbolism is  evidently derived, a deity deprived thus of the lingam or phal-  lus, parted with his diviue authority.     Bacchic Mysteries. 69   ing formed from the ashes or sooty vapor  of the smoke ascending from their burning  bodies, out of this mankind were produced.  It is unlawful, therefore, to destroy ourselves,  not as the words of Plato seem to unport,  because we are in the body, as in prison,  secured by a guard (for this is evident,  and Plato would not have called such an  assertion arcane), but because our body is  Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus :  for we are a part of him, since we are  composed from the ashes, or sooty  vapor of the Titans who tasted his  flesh. Socrates, therefore, as if fearful of  disclosing the arcane part of this narra-  tion, relates nothing more of the fable  than that we are placed as in a prison  secured by a guard : but the interpreters re-  late the fable openly." Koci z^zi zo {j.'ji>c7,ov  s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst xsaaaps^  paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j  Oopctvoy, Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct  atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov Kpovov, 6   * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually so  translated.     70 Elensinian and   Ze'jc £p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.-  zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7. ^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v  (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc :r£pi a'jto'j  TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj   £7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V  '(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^  YEVEGil-a^ lO'JC 7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj.  Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl 0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^   Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3 a(0|X7.rr   TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO 7.7:0p-  P(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^  ka.OZ'j'JZ MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U  OVrO:;' 'jX£pO^ Y'^-P '^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £% tYjC   al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov a'JY/.£qJL£i)-7. y^'->^''^-1^*~   V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0 {JL£V O'JV ]^(07,p7-  XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J {J-'Ji)-0'J   0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi rppo'jpa  £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£-  7a:v £|(oi)-£v. After this he beautifully ob-  serves, " That these four governments signify  the different gradations of virtues, accord-  ing to which oui^ soul contains the symbols  of all the qualities, both contemplative and  purifying, social and ethical; for it either     Bacchic Mysteries. 71   operates acoording to the theoretic or con-  templative virtues, the model of which is the  government of Uranus or Heaven^ that we  may begin from on high ; and on this ac-  count Uranus (Heaven) is so called irctpa  TOO la avco 6pc/.v, from beholding the things  above : Or it lives purely, the exemplar of  which is the Kronian or Satiu^nian kingdom ;  and on this account Kronos is named as  Koro-nous, one who perceives through him-  self. Hence he is said to devour his own  offspring, signifying the conversion of him-  self into his own substance : — or it operates  according to the social virtues, the sym-  bol of which is the government of Jupiter.  Hence, Jupiter is styled the Demiurgus,  as operating about secondary things : — or  it operates according to both the ethical  and physical virtues, the symbol of which  is the kingdom of Bacchus ; and on this  account is fabled to be torn in pieces by  the Titans, because the virtues are not cut  off by each other." Aiyozzoyzai (lege aLVL-c-  tovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc, x(ov aps-  xtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja     72 Bacchic Mysteries.   iraawv tcov apsKov, icov tis O-scopYj'iL'jctov, otat   yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv Tza^jo.-  ^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv  ap^a{j.£i)-a, 5io y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j  T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)? C'^j? '^jC 'irapa-  Sstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc st-  p'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov  6pav. Aio y,7/w xaxamveiv ta ocxsia ysw/)-  {laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov sTutatps-  cpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T)   XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;,   (0? TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l-   %aC %7C CpDa:7,7.? 7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou   A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai, 5wti  O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i.  And thus far Olympiodorus ; in which pas-  sages it is necessary to observe, that as the  Titans are the artificers of things, and stand  next in order to their creations, men are  said to be composed from their fragments,  because the human soul has a partial life  capable of proceeding to the most extreme  division united with its proper natiu'e. And  while the soul is in a state of servitude to       Kleusinian Mysteries.     Bacchic Mysteries. 75   the body, she hves confined, as it were, in  bonds, througli the dominion of this Titan-  ical life. We may observe farther concerning  these dramatic shows of the Lesser Mys-  teries, that as they were intended to rep-  resent the condition of the soul while  subservient to the body, we shall find that  a liberation from this servitude, through the  purifying disciplines, potencies that separate  from evil, was what the wisdom of the an-  cients intended to signify by the descent of  Hercules, Ulysses, etc., into Hades, and their  speedy return from its dark abodes. ' ' Hence,"  says Proclus, " Hercules being purified by  sacred initiations^ obtained at length a per-  fect estabhshment among the gods:"* that  is, well knowing the dreadful condition of  his soul while in captivity to a corporeal  nature, and purifying himself by practice of  the cleansing virtues, of which certain puri-  fications in the mystic ceremonies were sym-  bolical, he at length was freed from the  bondage of matter, and ascended beyond her   Commentary on the Statesman of Plato, p. 382.     76 Meusinian and   reach. On this account, it is said of him,  that   " He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day ; "   intimating that by temperance, continence,  and the other virtues, he drew upwards the  intuitional, rational, and opinionative part of  the soul. And as to Theseus, who is repre-  sented as . suffering eternal punishment in  Hades, we must consider him too as an  allegorical character, of which Proclus, in the  above-cited admirable work, gives the fol-  lowing beautiful explanation : " Theseus and  Pirithous," says he, " are fabled to have ab-  ducted Helen, and descended to the infernal  regions, i. e. they were lovers both of mental  and visible beauty. Afterward one of these  (Theseus), on account of his magnanimity,  was Hberated by Hercules from Hades ; but  the other (Pirithous) remained there, be-  cause he could not attain the difficult height  of divine contemplation." This account, in-  deed, of Theseus can by no means be recon-  ciled with Virgil's :   sedet, seternumque sedebit,   Infelix Theseus.*  * " There sits, and forever shall sit, the unhappy Theseus."     Bacchic Mysteries. 11   Nor do I see how Virgil can be reconciled  with himself, who, a httle before this, rep-  resents him as hberated from Hades. The  conjecture, therefore, of Hyginus is most  probable, that Virgil in this particular com-  mitted an oversight, which, had he lived, he  would doubtless have detected, and amended.  This is at least much more probable than the  opinion of Dr. Warbm^ton, that Theseus was  a living character, who once entered into the  Eleusinian Mysteries by force, for which he  was imprisoned upon earth, and afterward  punished in the infernal realms. For if this  was the case, why is not Hercules also  represented as in punishment? and this  with much greater reason, since he actually  dragged Cerberus from Hades ; whereas the  fabulous descent of Theseus was attended  with no real, but only intentional, mischief.  Not to mention that Virgil appears to be  the only writer of antiquity who condemns  this hero to an eternity of pain.   Nor is the secret meaning of the fables  concernmg the punishment of impure souls     78 Eleusinian and   less impressive and profound, as the follow-  ing extract fi'om the manuscript commentary  of Olympiodorus on the Gorgias of Plato will  abundantly affirm: — "Ulysses," says he,  " descending into Hades, saw, among others,  Sisyphus, and Tityus, and Tantalus. Tityus  he saw lying on the earth, and a vulture de-  vouring his liver; the liver signifying that  he lived solely according to the principle of  cupidity in his natiu'e, and tln^ough this was  indeed internally prudent ; but the earth  signifies that his disposition was sordid. But  Sisyphus, living under the dominion of ambi-  tion and anger, was employed in continually  rolling a stone up an eminence, because it  perpetually descended again ; its descent im-  plying the vicious government of himself ;  and his rolling the stone, the hard, refractory,  and, as it were, rebounding condition of his  hf e. And, lastly, he saw Tantalus extended  by the side of a lake, and that there was a  tree before him, with abundance of fruit on  its branches, which he desired to gather, but  it vanished from his view ; and this indeed  indicates, that he lived under the dominion     Bacchic Mysteries. 79   of phantasy ; but his hanging over the lake,  and in vain attempting to drink, imphes the  elusive, humid, and rapidly-ghding condition  of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv sec   cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc  xov TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c  yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv  Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct xo   STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO £C3(0   cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov  a'jxoy '-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^Xo-  xqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi; C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov,  %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/. xaxap-   p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,   hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JC-  Tov o£ T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj)   %7.l OXt £V 5£v5pOtC '^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£   xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo ai o^copat.   TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V Cto'^v.   Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,  %7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that accord-  ing to the wisdom of the ancients, and the  most sublime philosophy, the misery which  a soul endures in the present life, when giv-  ing itself up to the dominion of the irrational     80 Elensinian and   part, is nothing more than the commence-  ment, as it were, of that torment which it  win experience hereafter : a torment the  same in kind though different in degree, as  it will be much more di'eadful, vehement,  and extended. And by the above specimen,  the reader may perceive how infinitely supe-  rior the explanation which the Platonic phi-  losophy affords of these fables is to the frigid  and trifling interpretations of Bacon and  other modern mythologists ; who are able  mdeed to point out their correspondence to  something in the natui'al or moral world, be-  cause such is the wonderful connection of  things, that all things sympathize with all,  but are at the same time ignorant that these  fables were composed by men divinely wise,  who framed them after the model of the  highest originals, from the contemplation of  real and permanent heing, and not from re-  garding the delusive and fluctuating objects  of sense. This, indeed, mil be evident to  every ingenuous mind, from reflecting that  these wise men universally considered Hell  or death as commencing in the present life     Baccldc Mysteries. 81   (as we have already abundantly proved), and  that, consequently, sense is nothing more  than the energy of the dormant soul, and a  perception, as it were, of the delusions of  di'eams. In consequence of tliis, it is ab-  surd in the highest degree to imagine that  such men would compose fables from the  contemplation of shadows only, without re-  garding the splendid originals from which  these dark phantoms were produced : — not  to mention that their harmonizing so much  more perfectly with intellectual explications  is an indisputable proof that they were de-  rived from an intellectual [noetic] source.   And thus much for the dramatic shows  of the Lesser Mysteries, or the first part of  these sacred institutions, which was properly  denominated xsXst-r] [telete^ the closing up]  and [vrrpiz Muesis [the initiation], as con-  taining certain perfective rites, symbolical ex-  hibitions and the imparting and reception of  sacred doctrines, previous to the beholding of  the most splendid visions, or ETuoTutsta \epop-  teia, seership]. For thus the gradation of     82 Bacchic Mysteries.   the Mysteries is disposed by Proclus in  Theology of Plato, book iv. " The perfective  rite [rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in or-  der the initiation [\xorpiQ, muesis], and initia-  tion, the final apocalypse, epopteiay npoY^yst-   STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to  observe that the whole business of initiation  was distributed into five parts, as we are  informed by Theon of Smyrna, in Matliema-  tica, who thus elegantly compares philosophy  to these mystic rites : " Again," says he,  " philosophy may be called the initiation into  true sacred ceremonies, and the instruction  in genuine Mysteries ; for there are five  parts of initiation : the first of which is the  previous purification ; for neither are the  Mysteries communicated to all who are  wilhng to receive them ; but there are cer-  tain persons who are prevented by the voice  of the crier [%Tjpu^, herux^, such as those  who possess impure hands and an inartic-  ulate voice ; since it is necessary that such  as are not expelled from the Mysteries   * Theology of Plato, book iv. p. 220.     Bacchic Mysteries. 85   should first be refined by certain purifica-  tions : but after purification, the reception of  the sacred rites succeeds. The third part is  denominated epopfeia, or reception.* And  the fourth, which is the end and design of the  revelation, is [the investiture] the binding of  the head and fixing of the crowns. The ini-  tiated person is, by this means, authorized  to communicate to others the sacred rites  in which he has been instructed ; whether  after this he becomes a torch-bearer, or an  hierophant of the Mysteries, or sustains some  other part of the sacerdotal office. But the  fifth, which is produced from all these, is  friendship and interior commtmion with  God, and the enjoyment of that felicity  which arises from intimate converse with  divine beings. Similar to this is the com-  munication of political instruction ; for, in  the first place, a certain purification precedes,   * Theon appears to regard the final apocalypse or epopteia, like  E. Poeocke to whose views allusion is made elsewhere. This  writer says : " The initiated were styled ebaptoi," and adds in a  foot-note — " Avaptoi, literaWj obtaining or getting." According  to this the epopteia would imply the final reception of the interior  doctrines. — A. W.     86 Eleusinian and   or else an exercise in proper matliematical  discipline from early youth. For thus Em-  pedocles asserts, that it is necessary to be  purified from sordid concerns, by drawing  from five fountains, with a vessel of indis-  soluble brass : but Plato, that purification  is to be derived fi'om the five mathematical  disciplines, namely from arithmetic, geome-  try, stereometry, music, and astronomy ; but  the philosophical instruction in theorems,  logical, pohtical, and physical, is similar to  initiation. But he (that is, Plato) denom-  inates zTzoizzzirj, [or the reveahng], a contem-  plation of things which are apprehended in-  tuitively, absolute truths, and ideas. But he  considers the binding of the head, and corona-  tion, as analogous to the authority w^hich any  one receives from his instructors, of leading  others to the same contemplation. And the  fifth gradation is, the most perfect fehcity  arising from hence, and, according to Plato,  an assimilation to divinity^ as far as is pos-  sible to mankind." But though s'jroTrTS'.a,  or the rendition of the arcane ideas, princi-  pally characterized the Greater Mysteries, yet     Bacchic Mysteries. 87   this was likewise accompanied with the [j.uyj-  GLc, or initiation, as will be evident in the  conrse of this inquuy.   But let US now proceed to the doctrine of  the Greater Mysteries : and here I shall en-  deavor to prove that as the dramatic shows  of the Lesser Mysteries occultly signified the  miseries of the soul while in subjection to  body, so those of the Grreater obscurely inti-  mated, by mystic and splendid visions, the  felicity of the soul both here and hereafter,  when purified from the defilements of a  material nature, and constantly elevated to  the realities of intellectual [spiritual] vision.  Hence, as the ultimate design of the Mys-  teries, according to Plato, was to lead us back  to the principles from which we descended,  that is, to a perfect enjoyment of intellectual  [spiritual] good, the imparting of these prin-  ciples was doubtless one part of the doctrine  contained in the airoppTjia, aporrheta, or se-  cret discourses ; * and the different purifica-   * The apostle Paul apparently alludes to the disclosing of the  Mystical doctrines to the epopts or seers, in his Second Epistle  to the Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man, — whether in     88 Eleusinian and   tions exhibited in these rites, in conjunction  with initiation and the epopteia were symbols  of the gradation of virtues requisite to this  reascent of the soul. And hence, too, if this  be the case, a representation of the descent of  the soul [from its former heavenly estate]  must certainly form no inconsiderable part of  these mystic shows ; all which the f ollomng  observations will, I do not doubt, abundantly  evince.   In the first place, then, that the shows of  the Greater Mysteries occultly signified the  felicity of the soul both here and hereafter,  when separated from the contact and influ-  ence of the body, is evident from what has  been demonstrated in the former part of this  discourse : for if he who in the present life is  in subjection to Ms irrational part is truly  in ITades, he who is superior to its dominion  is liheivise an inhahitayit of a place totally  different from Hades* If Hades therefore   body or outside of body, I know not: God knoweth, — who was  rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings ineffable,  which it is not lawful for a man to repeat."   *Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is  in the heavens."     Bacchic Mysteries. 89   is the region or condition of punishment and  misery, the purified soul must reside in the  regions of bhss ; in a hf e and condition of  purity and contemplation in the present life,  and entheastically,* animated by the divine   * Medical and Surgical Bejiorter, vol. xxxii. p. 195. "Those  who have professed to teach their fellow-mortals new truths eon-  cerning immortality, have based their authority on direct divine  inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed, Swedenborg, all  claimed communication with higher spirits ; they were what the  Greeks called eniheast — 'immersed in God' — a sti'iking word  which Byron introduced into our tongue." Carpenter describes  the condition as an automatic action of the brain. The inspired  ideas arise in the mind suddenly, spontaneously, but very vividly,  at some time when tliinhing of some other topic. Francis Galton  defines genius as " the automatic activity of the mind, as distin-  guished from the effort of the will, — the ideas coming by inspira-  tion." This action, says the editor of the Reporter, is largely  favored by a condition approaching mental disorder — at least by  one remote from the ordinary working day habits of thought.  Fasting, prolonged intense mental action, gi-eat and unusual com-  motion of mind, will produce it ; and, indeed, these extraordinary  displays seem to have been so preceded. Jesus, Buddha, Moham-  med, all began their careers by fasting, and visions of devils fol-  lowed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries  also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic  orgies. "We do not, however, accept the materialistic view of this  subject. The cases are enftieasHe ; and although hysteria and  other disorders of the sympathetic system sometimes imitate the  phenomena, we believe with Plato and Plotimis, that the higher  faculty, intellect or intuition as we prefer to call it, the noetic part  of our nature, is the faculty actually at work. "By reflection,     90 Eleusinian and   energy, in the next. This being admitted,  let us proceed to consider the description  which Virgil gives us of these fortunate  abodes, and the latent signification which  it contains, ^neas and his guide, then, hav-  ing passed tlu^ough Hades, and seen at a dis-  tance Tartarus, or the utmost profundity of  a material nature, they next advance to the  Elysian fields :   Devenere locus Isetos, et amaena vireta  Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas.  Largiov Me campos gether et lumine vestit  Purpureo ; solemque suum, sua sidera norunt. *   Now the secret meaning of these joyful  places is thus beautifully unfolded by Olym-  piodorus in his manuscript Commentary on  the Gorgias of Plato. "It is necessary to  know," says he, " that the fortunate islands  are said to be raised above the sea ; and   self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be raised  to the vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to  the vision of God." This is the epopteia. — A. W.   * "They came to the blissful regions, and delightful gi'eeu re-  treats, and happy abodes in the fortunate gi'oves. A freer and  purer sky here clothes the fields with a purjile light ; they recog-  uize their own suu, their own stars."     Bacchic Mysteries. 91   hence a condition of being, which transcends  this corporeal hfe and generated existence, is  denominated the islands of the blessed ; but  these are the same with the Elysian fields.  And on this account Hercules is said to  have accomphshed his last labor in the Hes-  perian regions ; signifying bythis, that having  vanquished a dark and earthly life he after-  ward hved in day, that is, in truth and light."  Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q  i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov Tzokizsiay  XTjV 67:£|v7,u^0Laav too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc,  {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI. TaoTC/v $£ saxi ■vcc/.t  xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6 'Hpay,-  Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv  s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov  ■jcai yO-oviov pwv, xai Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv  sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he who  in the present state vanquishes as much  as possible a corporeal life, through the  practice of the piu'ifying virtues, passes in  reahty into the Fortunate Islands of the soul,  and lives surrounded with the bright splen-  dors of truth and wisdom proceeding from  the sun of good.     92 Bacchic Mysteries.   The poet, in describing the employments   of the blessed, says :   Pars in gramineis exereent membra paleestris :  Coutendunt ludo, et f ulva luctantur arena :  Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.  Nee non Threicius longa cum veste saeerdos  Obloquitur uumeris septem discrimina vocum:  lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.  Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles,  Magnanimi heroes, nati melioribus annis,  Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus auctor.  Arma procul, currusque virum miratur inanis.  Stant terra defixse hastse, passimque soluti  Per campum pascuntur equi. Quae gratia curruum  Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis  Pascere equos, eadem sequitur tellure repostos.  Conspicit, ecee alios, dextra laevaque per herbam  Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis.  Inter odoratum lauri nemus : unde superne  Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur amnis.*   * "Some exercise their limbs upon the grassy field, contend in  play and wrestle on the yellow sand ; some dance on the ground  and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his long  robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven  distinguished notes ; and now strikes them with his fingers, now  with the ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer,  a most illustrious progeny, noble heroes, born in happier j-ears, —  II, Assarac, and Dardan, the founder of Troy, ^neas looking  from afar, admires the arms and empty war-cars of the heroes.  There stood spears fixed in the ground, and scattered over the  plain horses are feeding. The same taste which when alive      •'i%^^^^_^ ^^^!^mm^      Eleusiuiau Mj'steries.     Bacchic Mysteries. 95   This must not be understood as if the soul  in the regions of fehcity retained any affec-  tion for material concerns, or was engaged in  the trifling pursuits of the everyday cor-  poreal life ; but that when separated from  generation, and the world's life, she is con-  stantly engaged in employments proper to the  higher spiritual nature ; either in divine con-  tests of the most exalted wisdom ; in forming  the responsive dance of refined imagina-  tions; in tuning the sacred lyi'e of mystic  piety to strains of divine fury and ineffable  dehght ; in giving free scope to the splendid  and winged powers of the soul; or in  nourishing the higher intellect with the sub-  stantial banquets of intelligible [spiritual]  food. Nor is it without reason that the  river Eridanus is represented as flowing  through these delightful abodes; and is at   these men had for chariots and arms, the same passion for rear-  ing glossy steeds, follow them reposing beneath the earth. Lo!  also he views others, on the right and left, feasting on the grass,  and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove of  laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls  through the woods."  A peeon was chanted to Apollo at Delphi every seventh day.     96 Eleusinian and   the same time denominated plurimus (great-  est), because a great part of it was absorbed  in the earth without emerging from thence :  for a river is the symbol of hfe, and conse-  quently signifies in this place the intellectual  or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that  is, from divinity itself, and gliding with pro-  lific energy through the hidden and profound  recesses of the soul.   In the following lines he says :   Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis,  Riparumque toros, et prata recentia rivis  Incolimus.*   By the blessed not being confined to a par-  ticular habitation, is implied that they are  perfectly free in all things ; being entirely  free from all material restraint, and purified  from all inclination incident to the dark  and cold tenement of the body. The shady  groves are symbols of the retiring of the     » li     ' No one of us has a fixed abode. We inhabit the dark groves,  and occupy couches on the river-banks, and meadows fresh with  little rivulets."     Bacchic Mysteries. 97   soul to the depth of her essence, and there,  by energy solely divine, establishing herself  in the ineffable principle of things.* And  the meadows are syin])ols of that prolific  power of the gods through which all the  variety of reasons, animals, and forms was  produced, and which is here the refresh-  ing pastui'e and retreat of the hberated  soul.   But that the communication of the knowl-  edge of the principles from which the soul  descended formed a part of the sacred Mys-  teries is evident from Yirgil ; and that this  was accompanied with a vision of these prin-  ciples or gods, is no less certain, from the  testimony of Plato, Apuleius, and Proclus.  The first part of this assertion is evinced by  the following beautiful lines :   * Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true  knowledge is naturally carried in his aspirations to the real prin-  ciple of being ; and his love knows no repose till it shall have been  united with the essence of each object through that jiart of the soul,  which is akin to the Permanent and Essential ; and so, the divine  conjunction having evolved interior knowledge and truth, the  knowledge of being is won."     98 EleiiHinian and   Prineipio cfelum ac tei-ras, eamposque liquentes   Lucentemque globum luuas, Titauiaque astra   Spiritus intus alit, totumque infusa per artus   Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.   Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum,   Et qu£e marmoreo fert monstra sub sequore pontus.   Igneus est oUis vigor, et cselestis origo   Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,   Terrenique hebetant artus, moribundaque membra.   Hinc metiiunt cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras   Despieiunt clausa tenebris et carcere csecc*   For the sources of the soul's existence are  also the principles from which it fell; and  these, as we may learn from the Thnams of  Plato, are the Demiurgus, the mundane soul,  and the junior or mundane gods.f Now, of   * "First of all the interior spirit sustains the heaven and earth  and watery plains, the illuminated orb of the moon, and the Titan-  ian stars ; and the Mind, diffused through all the members, gives  energy to the whole frame, and mingles with the vast body [of the  universe]. Thence proceed the race of men and beasts, the vital  souls of birds and the brutes which the Ocean breeds beneath  its smooth surface. In them all is a potency like fire, and a  celestial origin as to the rudimentary principles, so far as they  are not clogged by noxious bodies. They are deadened by earthly  forms and members subject to death ; hence they fear and desire,  grieve and rejoice ; nor do they, thus enclosed in darkness and  the gloomy prison, behold the heavenly air."   \ Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the  divine; and then delivered over to his celestial offspring [the     Bacchic Mysteries. 99   these, the mundane intellect, which, accord-  ing to the ancient theology, is represented  by Bacchus, is principally celebrated by the  poet, and this because the soul is particu-  larly distributed into generation, after the  manner of Dionysus or Bacchus, as is evident  from the preceding extracts from Olympio-  dorus : and is still more abundantly confirmed  by the following curious passage from the  same author, in his comment on the Plicedo of  Plato. " The soul," says he, " descends Cori-  cally [or after the manner of Proserpine]  into generation,* but is distributed into gen-  eration Dionysiacally,t and she is bound in  body PrometheiacallyJ and Titanically: she  fi'ees herself therefore from its bonds by ex-  ercising the strength of Hercules ; but she   subordinate or generated gods], the task of creating the mortal.  These subordinate deities, copying the example of their parent,  and receiving from his hands the immortal principles of the human  soul, fashioned after this the mortal body, which they consigned  to the soul as a vehicle, and in which they placed also another  kind of a soul, which is mortal, and is the seat of violent and fatal  passions."   * That is to say, as if dying. Kore was a name of Proserpina.   t /. e. as if divided into pieces.   X I. e. Chained fast.     100 We US in km and   is collected into one through the assistance  of Apollo and the savior Minerva, by phi-  losophical discipline of mind and heart purify-  ing the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv   'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza-   AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L-  '^(oc -(0 oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however,  intimates the other causes of the soul's exis-  tence, when he says,   Igneiis est ollis vigor, et coelestis origo  Semiuibus *   which evidently alludes to the sowing of  souls into generation, t mentioned in the  Timmus. And fi'om hence the reader will   * "There is then a certain fiery potency, and a celestial oi'igiu  as to the rudimentary principles." /. e. Restored to wholeness  and divine life.   tl Corinthians, xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the  dead. It is sown in corruption [the material body] ; it is raised  in incorruption : it is sown in dishonor ; it is raised in gloi-y : it  is sown in weakness ; it is raised in power : it is sown a psychical  body ; it is raised a spiritual body."     Bacchic Mysteries. 101   easily perceive the extreme ridiculousness of  Dr. Warburton's system, that the grand secret  of the Mysteries consisted in exposing the  errors of Polytheism, and in teaching the  doctrine of the unity, or the existence of one  deity alone. For he might as well have said,  that the great secret consisted in teaching a  man how, by writing notes on the works of  a poet, he might become a bishop ! But it  is by no means wonderful that men who  have not the smallest conception of the true  nature of the gods ; who have persuaded  themselves that they were only dead men  deified ; and who measure the understand-  ings of the ancients by their own, should be  led to fabricate a system so improbable and  absurd.   But that this instruction was accompanied  with a vision of the source from which the  soul proceeded, is evident from the express  testimony, in the first place, of Apuleius,  who thus describes his initiation into the  Mysteries. " Accessi confinium mortis ; et  calcato Proserpinse limine, per omnia vectus  elementa remeavi. Nocte media vidi solem.     102 Meusinicm and   candido coniscantem kimine, deos inferos, et  deos superos. Access! coram, et adoravi de  proximo." * That is, "I approached the  confines of death : and having trodden on  the threshold of Proserpina returned, having  been carried through all the elements. In  the depths of midnight I saw the sun glitter-  ing with a splendid light, together with the  infernal and supernal gods : and to these  divinities approaching near, I paid the tribute  of devout adoration." And this is no less  evidently implied by Plato, who thus de-  scribes the fehcity of the holy soul prior to  its descent, in a beautiful allusion to the  arcane visions of the Mysteries. Ka/.Ao? 3s   TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV £UOaL|J,OVt   )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot jjis'La  [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov  t£ 7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a-   pKOXW.TYjV YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^  OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC %7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p  /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£ 7,7.1 TLTiXa %7.C  aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt T£  7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl  * The Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn).     Bacchic Mysteries. 103     TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s  d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien law-  ful to survey the most splendid beauty, when  we obtained, together with that blessed choir,  this happy vision and contemplation. And  we indeed enjoyed this blessed spectacle to-  gether with Jupiter ; but others in conjunc-  tion with some other god ; at the same time  being initiated in those Mysteries^ which it  is lawful to call the most blessed of all  Mysteries. And these divine Orgies* were  celebrated by us, while we possessed the  proper integrity of our nature, we were  freed from the molestations of evil which  otherwise await us in a future period of time.  Likewise, in consequence of this divine  initiation, we became spectators of entire,  simple, immovable, and blessed visions, res-  ident in a pure hght ; and were ourselves  pure and immaculate, being hberated from  this surrounding vestment, which we denom-  inate body, and to which we are now bound   * The peculiar rites of the Mysteries were indifferently termed  Orgies or Labors, teletai or finishings, and initiations.     10-i Bacchic Mysteries.   like an oyster to its shell."* Upon this  beautiful passage Proclus observes, "That the  initiation and epopfeia [the vailing and the  reveahng] are symbols of ineffable silence,  and of union with mystical natures, through  intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai r^   * Phcedriis, 64.   t Proclus : Theology of Plato, book iv. The following reading  is suggested : "The initiation and final disclosing are a symbol  of the Ineffable Silence, and of the enosis, or being at one and  en rapport with the mystical verities through manifestations in-  tuitively comprehended."   The ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as  relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal  happiness, the liberation of the soul from the body and its exemp-  tion from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there  was a certain welcome to the abodes of the blessed. The term  cTTOTrcjioi, epopteia, applied to the last scene of initiation, he de-  rives from the Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being  regarded as having secured for himself or herself divine bliss.   It is more usual, however, to treat these terms as pure Greek;  and to render the mnesis as initiation and to derive epopteia from  STCOrtTopiat. According to this etymology an epopt is a seer or  clairvoyant, one who knows the interior wisdom. The terms in-  spector and superintendent do not, tome, at all express the idea,  and I am inclined, in fact, to suppose with Mr. Pocoeke, that the  Mysteries came from the East, and from that to deduce that the  technical words and expressions are other than Greek.   Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual  discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your  soul from all undue hope and fear about earthly things ; mortify        tl'^     £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.     Bacchic Mysteries. 107   TYjC iTpoc xa {jLoatixa "^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjia-  xtov svcoascoc;. Now, from all tliis, it may be  inferred, that the most sublime part of the  zTzrj'Kisirx \epoptei(i\ or final revealing, con-  sisted in beholding the gods themselves in-  vested with a resplendent hght ; * and that  this was symbohcal of those transporting  visions, which the virtuous soul will con-  stantly enjoy in a future state ; and of which  it is able to gain some ravishing glimpses,  even while connected with the cumbrous  vestment of the body.f   the body, deny self, — affections as well as appetites, — and the inner  eye will begin to exercise its clear and solemn vision." " In the  reduction of yonr soul to its simplest principles, the divine germ,  you attain this oneness. We stand then in the immediate pres-  ence of God, who shines out from the profound depths of the  soul."- A. W.   * Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate was instructed  by the hierophant, and permitted to look within the cistn or chest,  which contained the mystic serpent, the phallus, egg, and gi-ains  sacred to Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise, he  now "knew himself" by the sentiments aroused. Plato and Al-  cibiades gazed with emotions wide apart. — A. W.  t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and then that  . we can enjoy the elevation made possible for us, above the limits  of the body and the world. I myself have realized it but three  times as yet, and Porphyry hitherto not once."     108 Bacchic Mysteries.   But that this was actually the case, is  evident fi'om the following unequivocal tes-  timony of Proclus : Ev airaac zaic, zsXszaic   TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza s^-  aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizM-  zov a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc, xors 5s sec c(v-  {J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os stc  dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all  the initiations and Mysteries, the gods ex-  hibit many forms of themselves, and appear  in a variety of shapes : and sometimes, in-  deed, a formless light ^ of themselves is held  forth to the view ; sometimes this hght is  according to a human form, and sometimes  it proceeds into a different shape." f This  assertion of divine visions in the Mysteries,     Porpbyiy afterward declared that he witnessed four times,  when near him, the soul or " intellect " of Plotiiius thns raised up  to the First and Sovereign Good ; also that he himself was only  once so elevated to the enosis or union with God, so as to have  glimpses of the eternal world. This did not occur till he was  sixty-eight years of age. — A. W.   * I. e. Si luminous appearance without any defined form or shape  of an object.   \ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.      Cupids, Satyr, aud statue of Priapua.     Bacchic Mysteries. Ill   is clearly confirmed by Plotinus.* And, in  short, that magical evocation formed a part  of the sacerdotal office in the Mysteries, and  that this was universally believed by all  antiquity, long before the era of the latter  Platonists,t is plain from the testimony of  Hippocrates, or at least Democritus, in his  Treatise de Morbo Sacro.X For speaking of  those who attempt to cure this disease by  magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac-   Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo  zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac  STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric, zivoq yvtofj-Tj?  {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza btzizt^^so-  oyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /. e.  " For if they profess themselves able to draw  down the moon, to obscure the sun, to pro-  duce stormy and pleasant weather, as like-  wise showers of rain, and heats, and to render  the sea and earth barren, and to accomplish   *Ennead, i. book 6; and ix. book 9.   t Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their  associates.  X Epilepsy.     112 Eleusinian and   every thing else of this kind ; whether they  derive this knowledge from flie Mysteries^ or  from some other mental effort or meditation,  they appear to me to be impious, from the  study of such concerns." From all which is  easy to see, how egregiously Dr. Warburton  was mistaken, when, in page 231 of his Divine  Legation^ he asserts, " that the light beheld  in the Mysteries, was nothing more than an  illuminated image which the priests had  thoroughly purified."   But he is likewise no less mistaken, in  transferring the injunction given in one of  the Magic Oracles of Zoroaster, to the busi-  ness of the Eleusinian Mysteries, and in per-  verting the meaning of the Oracle's admoni-  tion. For thus the Oracle speaks :   Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw.,   That is, " Invoke not the self -revealing image  of Nature, for you must not behold these  things before your body has received the  initiation." Upon which he observes, " that     Bacchic Mysteries. 113   the self-revealing image ivas only a diffusive  shining light, as the name partly declares^ *  But this is a piece of gross ignorance, from  which he might have been freed by an atten-  tive perusal of Proehis on the Timceus of  Plato : for in these truly divine Commenta-  ries we learn, " that the moonf is the cause  of nature to mortals, and the self -rev eating  image of the fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv  acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c, ^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a.  o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac, 'f'jasco^. If the reader is  desirous of knowing what we are to under-  stand by the fountain of nature of which the  moon is the image, let him attend to the fol-  lowing information, derived from a long and  deep study of the ancient theology : for from  hence I have learned, that there are many  divine fountains contained in the essence of  the demiurgus of the world ; and that among  these there are three of a very distinguished  rank, namely, the fountain of souls, or Juno,  — the fountain of virtues, or Minerva — and   * Divine Legation, p. 231.   t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter, symbolized as  Selene or the Moon,     114 Eleusinian and   the fountain of nature, or Diana. This last  fountain too immediately depends on the  vilifying goddess Rhea; and was assumed  by the Demiurgus among the rest, as neces-  sary to the prohfic reproduction of liimself.  And this information will enable us besides  to explain the meaning of the following i3as-  sages in Apuleius, which, from not being-  understood, have induced the moderns to  believe that Apuleius acknowledged but one  deity alone. The first of these passages is  in the beginning of the eleventh book of his  MetamorpJioses, in which the divinity of the  moon is represented as addressing him in  this sublime manner : " En adsum tuis com-  mota, Luci, precibus, rerum Natura parens,  elementorum omnium domina, seculorum  progenies initialis, summa numinum, regina  Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearum-  que facies uniformis : quae cseh luminosa  culmina, maris salubria flamina, inferorum de  plorata silentia nutibus meis dispenso : cu jus  numen unicum, multiformi specie, ritu vario,  nomine multijugo totus veneratur orbis. Me  primigenii Phryges Pessinunticam nominant     Bacchic Mysteries. 115   Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici  Cecropiam Minervam ; ilhiic fluctuantes Cy-  prii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri  Dictjninam Dianam ; Sicuh trihngues Sty-  giam Proserpinam ; Eleusinii vetustam Deam  Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii  Hecaten, Rhamnusiam ahi. Et qui nascen-  tis dei Sohs inchoantibus radiis iUustrantur,  ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pol-  lentes ^gyptii cserimoniis me prorsus propriis  percolentes appellant vero nomine reginam  Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved  with thy supphcations, I am present ; I,  who am Nature, the parent of things, mis-  tress of all the elements, initial progeny of  the ages, the highest of the divinities, queen  of departed spirits, the first of the celes-  tials, of gods and goddesses the sole hkeness  of all : who rule by my nod the luminous  heights of the heavens, the salubrious breezes  of the sea, and the woful silences of the in-  fernal regions, and whose divinity, in itself  but one, is venerated by all the earth, in  many characters, various rites, and different  appellations. Hence the primitive Phry-     116 Bacchic Mysteries.   gians call me Pessinuntica, the motlier of  the gods ; the Attic Autochthons, Cecropian  Muierva; the wave-siUTOunded Cyprians,  Paphian Venus ; the arrow-bearing Cretans,  Dictynnian Diana; the three-tongued Sicil-  ians, Stygian Proserpina ; and the inhabit-  ants of Eleusis, the ancient goddess Ceres.  Some, again, have invoked me as Juno, others  as Bellona, others as Hecate, and others as  Rhamnusia ; and those who are enlightened  by the emerging rays of the rising sun, the  Ethiopians, and Aryans, and likewise the  Egyptians powerful in ancient learning, who  reverence my divinity with cerenioaies per-  fectly proper, call me by my true appellation  Queen Isis." And, again, in another place of  the same book, he says of the moon : " Te  Superi colunt, observant Inferi : tu rotas  orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas  Tartarum. Tibi respondent sidera, gaudent  numina, redeunt tempora, serviunt elementa,  etc." That is, " The supernal gods reverence  thee, and those in the realms beneath at-  tentively do homage to thy divinity. Thou  dost make the universe revolve, illuminate     Bacchic Mysteries. 119   the sun, govern the world, and tread on Tar-  tarns. The stars answer thee, the gods re-  joice, the houi's and seasons retui*n by thy  appointment, and the elements serve thee."  For all tliis easily follows, if we consider it as  addressed to the fountain-deity of nature,  subsisting in the Demiurgus, and which is  the exemplar of that nature which flourishes  in the lunar orb, and throughout the mate-  rial world, and from which the deity itself  of the moon originally proceeds. Hence, as  this fountain innnediately depends on the  life-giving goddess Rhea, the reason is ob-  vious, why it was formerly worshiped as the  mother of the gods : and as all the mundane  are contained in the super-mundane gods,  the other appellations are to be considered as  names of the several mundane divinities pro-  duced by this fountain, and in whose essence  they are likewise contained.   But to proceed with our inquiry, I shall,  in the next place, prove that the different  purifications exhibited in these rites, in con-  junction with initiation and the epopteia  were symbols of the gradation of disciplines     120 Eleusinian and   requisite to the reascent of the soul.* And  the fii'st part, indeed, of this proposition  respecting the purifications, immediately fol-  lows from the testimony of Plato in the pas-  sage already adduced, in which he asserts  that the ultimate design of the Mysteries was  to lead us back to the principles from which  we originally fell. For if the Mysteries were  symbohcal, as is universally acknowledged,  this must likewise be true of the purifica-  tions as a part of the Mysteries ; and as in-  ward puiity, of which the external is sym-  bolical, can only be obtained by the exercise  of the virtues, it evidently follows that the  purifications were symbols of the pimfying  moral virtues. And the latter part of the  proposition may be easily inferred, from the  passage ah'eady cited from the Phmdrus of  Plato, in which he compares initiation and  the epopteia to the blessed vision of the  higher intelligible natures ; an employment  which can alone belong to the exercise of  contemplation. But the whole of this is  rendered indisputable by the following re-   */. e. to its former divine condition.     Bacchic Mysteries. 121   markable testimony of Olympiodorus, in his  excellent manuscript Commentary on the  PJuedo of Plato.* "In the sacred rites," says  he, "popular pui4fications are in the first  place brought forth, and after these such as  are more arcane. But, in the third place,  collections of various things into one are re-  ceived ; after which follows inspection. The  ethical and political virtues therefore are  analogous to the apparent purifications ; the  cathartic virtues which banish all external  impressions, correspond to the more arcane  purifications. The theoretical energies about  intelligibles, are analogous to the collections ;  and the contraction of these energies into an   * We have taken the liberty to present the following version of  this passage, as more correctly expressing the sense of the orig-  inal: "At the holy places are first the public purifications. With  these the more arcane exercises follow ; and after those the obliga-  tions [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations follow, ending  with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the moral and  social (political) virtues are analogous to the public purifications ;  the purifying virtues in their turn, which take the place of all  external matters, correspond to the moi'e arcane disciplines ; the  contemplative exei'cises concerning things to be known intui-  tively to the taking of the obligations ; the including of them as  an undivided whole, to the initiations ; and the simple ocular view  of simple objects to the epoptic revelations."     122 Eleusinian and   indivisible nature, corresponds to initiation.  And the simple self-inspection of simple  forms, is analogous to epoptic vision." 'On   QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s   za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri  zaozruQ ixorpBiQ- £v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/Ao-  yooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^ 7:o/dziY.'y,i aps-  xa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s %7.i)"7pii-   7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC, ZOIQ   aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt-  %7c TS svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv  G'jya.irjSJsiQ sec "co ajispiarov X7cc \vyqGZGiy.   Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V 70X0'V.7C t71C   s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from  noticing, with indignation mingled with pity,  the ignorance and arrogance of modern crit-  ics, who pretend that this distribution of the  virtues is entirely the invention of the latter  Platonists, and without any foundation in the  writings of Plato.* And among the sup-  porters of such ignorance, I am sovry to find   * The writings of Augustin handed Neo-Platonism down to pos-  terity as the original and esoteric doctrine of the first followers  of Plato. He enumerates the causes which led, in his opinion, to  the negative position assumed by the Academics, and to the con-     Bacchic Mysteries. 123   Fabricius, in his prolegomena to the hfe of  Proclus. For nothing can be more obvious  to every reader of Plato than that in his  Laws he treats of the social and political  virtues ; in his Phcedo, and seventh book of  the RepiibUc^ of the purifying; and in his  Thceafetus, of the contemplative and sub-  limer virtues. This observation is, indeed,  so obvious, in the Phcedo, with respect to the  purifying virtues, that no one but a verbal  critic could read this dialogue and be insen-  sible to its truth : for Socrates in the very  beginning expressly asserts that it is the  business of philosophers to study to die, and  to be themselves dead,* and yet at the same  time reprobates suicide. What then can such   eealment of their real opinions. He describes Plotinus as a re-  suscitated Plato. — Against the Academics, iii. 17-20.   * Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o- TOY/_otvou-iv op&to? «t:to|j.evo'.  (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la? aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y  Y) aTCofl-VYjoxstv zt xa: TsS-vava:. /. e. For as many as rightly apply  themselves to philosophy seem to have left others ignorant, that  they themselves aim at nothing else than to die and to be dead.   Elsewhere (31) Socrates says : " While we live, we shall ap-  proach nearest to intuitive knowledge, if we hold no communion  with the body, except, what absolute necessity requires, nor suffer  ourselves to be pervaded by its nature, but purify ourselves from  it until God himself shall release us."     124 Eleusinian and   a death mean but symbolical or philosophical  death ? And what is this but the true ex-  ercise of the virtues which purify '? But  these poor men read only superficially, or  for the sake of displaying some critical  acumen in verbal emendations ; and yet with  such despicable preparations for philosoph-  ical discussion, they have the impudence to  oppose their puerile conceptions to the de-  cisions of men of elevated genius and pro-  found investigation, who, happily freed from  the danger and drudgery of learning any  foreign language,* directed all their attention  without restraint to the acquisition of the  most exalted truth.   It only now remains that we prove, in the  last place, that a representation of the descent  of the soul formed no inconsiderable part of  these mystic shows. This, indeed, is doubt-   * It is to be regretted, nevertheless, that our author had not  risked the " danger and drudgery " of learning Greek, so as to  have rendered fuller justice to his subject, and been of greater  service to his readers. We are conscious that those who are too  learned in verbal criticism are prone to overlook the real purport  of the text.— A. W.     Bacchic Mysteries. 125   less occultly intimated by Yirgil, when speak-  ing of the souls of the blessed ui Elysium, he  adds,   Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos,  Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine magno :  Scilicet immemores supera ut convexa revisant,  Eursus et incipiant iu eorpore velle reverti.*   But openly by Apuleius in the following  prayer which Psyche addresses to Ceres :  Per ego te frugiferam tuam dextram istam  deprecor, per Isetificas messium cserimonias,  per tacita sacra cistarum, et per famulorum  tuorum draconum pinnata cuiTicula, et glebae.  Siculae fulcamina, et currum rapacem, et ter-  ram tenacem, et illuminarum Proserpinse  nuptiarum demeacula, et caetera quae silentio  tegit Eleusis, Atticae sacrarium ; miserandse  Psyches animse, supplicis fuse, subsiste.f That  is, "I beseech thee, by thy fruit-bearing right   * " All these, after they have passed away a thousand years, are  summoned by the divine one in great array, to the Lethfean river.  In this way they become forgetful of their former earth-life, and  revisit the vatilted realms of the world, willing again to return  into bodies."   t Apuleius : The Golden Ass. (Story of Cupid and Psyche),  book vi.     126 Bacchic Mysteries.   hand, by the joyful ceremonies of harvest, by  the occult sacred rites of thy cistae,* and by  the winged car of thy attending dragons, and  the furrows of the Sicilian soil, and the ra-  pacious chariot (or car of the ravisher), and  the dark descending ceremonies attending the  marriage of Proserpina^ and the ascending  rites which accompanied the lighted return  of thy daughter^ and l)ij other arcana  which Eleusis the Attic sanctuary conceals  in profound silence^ reheve the sorrows of  thy wretched suppliant Psyche." For the  abduction of Proserpina signifies the descent  of the soul, as is e^ddent from the passage  previously adduced from Olympiodorus, in  which he says the soul descends Corically ; f  and this is confirmed by the authority of the  philosopher Sallust, who observes, " That the  abduction of Proserpina is fabled to have  taken place about the opposite equinoctial ;  and by this the descent of souls [into earth-   * Chests or baskets, made of osiers, in which were enclosed the  mystical images and utensils which the uninitiated were not per-  mitted to behold.   t /• €. as to death ; analogously to the descent of Kore-Per-  sephone to the Underworld.      Ceres lends lier ear to Triptolemus.      Proserpina and Pluto. Jupiter augry.     Bacchic Mysteries. 129   life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav lo^q-   {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as  the abduction of Proserpina was exhibited in  the dramatic representations of the Myste-  ries, as is clear from Apuleius, it indisputa-  bly follows, that this represented the descent  of the soul, and its union with the dark tene-  ment of the body. Indeed, if the ascent and  descent of the soul, and its condition while  connected with a material nature, were rep-  resented in the dramatic shows of the Mys-  teries, it is evident that this was implied by  the rape of Proserpina. And the former  part of this assertion is manifest from Apu-  leius, when describing his initiation, he says,  in the passage already adduced : "I ap-  proached the confines of death, and having  trodden on the threshold of Proserpina,  / returned^ having been carried through all  the elements.^'' And as to the latter part, it  has been amply proved, fi'om the highest  authority, in the first division of this dis-  course.   * De Diis et Mundo, p. 251.     130 Meusinian and   Nor must the reader be distiu^bed on find-  ing that, according to Porphyry, as cited by  Eusebius,* the fable of Proserpina alludes to  seed placed in the ground ; for this is like-  wise true of the fable, considered according-  to its material explanation. But it will be  proper on this occasion to rise a httle higher,  and consider the various species of fables,  according to their philosophical arrange-  ment ; since by this means the present sub-  ject will receive an additional elucidation,  and the wisdom of the ancient authors of  fables will be vindicated from the unjust  aspersions of ignorant declaimers. I shall  present the reader, therefore, with the fol-  lowing interesting division of fables, fi'om  the elegant book of the Platonic philoso-  pher Sallust, on the gods and the universe.  " Of fables," says he, " some are theological,  others physical, others animastic (or relating  to soul), others material, and lastly, others  mixed from these. Fables are theological  which relate to nothing corporeal, but contem-  plate the very essences of the gods ; such as   * Evang. Prcepui: book iii. chap. 2.     Bacchic Mysteries. 131   the fable which asserts that Saturn devoured  his children : for it insinuates nothing more  than the nature of an intellectual (or intu-  itional) god ; since every such intellect returns  into itself. We regard fables physically when  we speak concerning the operations of the  gods about the world ; as when considering  Saturn the same as Time, and calhng the  parts of time the children of the universe, we  assert that the children are devoiu'ed by their  parent. But we utter fables in a spiritual  mode, when we contemplate the operations  of the soul ; because the intellections of our  souls, though by a discursive energy they go  forth into other things, yet abide in their  parents. Lastly, fables are material, such as  the Egyptians ignorantly employ, consider-  ing and calling corporeal natures divinities :  such as Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon,  heat • or, again, denominating Saturn water,  Adonis, fruits, and Bacchus, wine. And, in-  deed, to assert that these are dedicated to the  gods, in the same manner as herbs, stones, and  animals, is the part of wise men ; but to call  them gods is alone the province of fools and     132 Eleusinian and   madmen ; unless we speak in the same man-  ner as when, from estabhshed custom, we call  the orb of the sun and its rays the sun itself.  But we may perceive the mixed kind of  fables, as well in many other particulars, as  when they relate that Discord, at a banquet  of the gods, tlu'ew a golden apple, and that  a dispute about it arising among the god-  desses, they were sent by Jupiter to take the  judgment of Paris, who, charmed with the  beauty of Venus, gave her the apple in pref-  erence to the rest. For in this fable the  banquet denotes the super-mundane powers  of the gods ; and on this account they sub-  sist in conjunction with each other : but the  golden apple denotes the world, which, on  account of its composition from contrary  natures, is not improperly said to be thrown  by Discord, or strife. But again, since dif-  ferent gifts are imparted to the world by dif-  ferent gods, they appear to contest with each  other for the apple. And a soul living ac-  cording to sense (for this is Paris), not per-  ceiving other powers in the universe, asserts  that the apple is alone the beauty of Venus.     Bacchic Mysteries. 133   But of these species of fables, such as are  theological belong to philosophers ; the phys-  ical and spiritual to poets ; l)ut the mixed to  the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;) ;  since the intention of all mystic ceremonies  is to conjoin us with the world and the  gods.^''   Thus far the excellent Sallust : from  whence it is evident, that "the fable of Pro-  serpina, as belonging to the Mysteries, is  properly of a mixed nature, or composed  from all the four species of fables, the theo-  logical [spiritual or psychical], and material.  But in order to understand this divine  fable, it is requisite to know, that according  to the arcana of the ancient theology, the  Coric * order (or the order belonging to  Proserpina) is twofold, one part of which is  super-mundane, subsisting with Jupiter, or  the Demiurgus, and thus associated with him  establishing one artificer of divisible natures ;  but the other is mundane, in which Proser-   * Coric from KopY], Kore, a name of Proserpina. The name is  derived by E. Pococke from the Sanscrit Goure.     134 EJeiisinian and   pina is said to be ravished by Pluto, and to  animate the extremities of the universe.  *' Hence," says Prockis, "according to the  statement of theologists, who dehvered to  us the most holy Mysteries, she [Proserpina]  abides on high in those dwellings of her  mother which she prepared for her in inac-  cessible places, exempt from the sensible  world. But she likewise dwells beneath  with Pluto, administering terrestrial con-  cerns, governing the recesses of the earth,  supplying life to the extremities of the uni-  verse, and imparting soul to beings which  are rendered by her inanimate and dead."  Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac aytco-  xata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,G-  xtov, avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic  JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj (J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv  sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq. Katco §£  {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i  zooQ ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v  £xop£Y£tv ZOIC eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^  {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y aj^oyoic, 7.ai V£-  xpot?.* Hence we may easily perceive that   * Proclus: TJieology of Plato, p. 371.     Bacchic Mysteries. 135   this fable is of the mixed kind, one part of  which relates to the super-mundane estabhsh-  ment of the secondarj^ cause of life,* and the  other to the procession or outgoing of life  and soul to the farthest extremity of things.  Let us therefore more attentively consider  the fable, in that part of it which is sym-  bolical of the descent of souls ; in order to  which, it will be requisite to premise an  abridgment of the arcane discourse, respecting  the wanderings of Ceres, as preserved by  Minutius Felix. " Proserpina," says he, " the  daughter of Ceres by Jupiter, as she was  gathering tender flowers, in the new spring,  was ravished from her dehghtful abodes by  Pluto ; and being carried from thence  through thick woods, and over a length of  sea, was brought by Pluto into a cavern,  the residence of departed spirits, over whom  she afterward ruled with absolute sway. But   * Plotiuus taught the existence of three hypostases in the Divine  Nature. There was the Demiurge, the God of Creation and  Providence ; the Second, the Intelligible, self-contained and im-  mutable Source of life ; and above all, the One, who like the  Zervane Akerene of the Persians, is above all Being, a pure will,  an Absolute Love — " Intellect." — A. W.     136 Bacchic Mysteries.   Ceres, upon discovering the loss of her daugh-  ter, with hghted torches, and begirt with a  serpent, wandered over the whole earth for  the purpose of finding her till she came to  Eleusis ; there she found her daughter, and  also taught to the Eleusinians the cultivation  of corn." Now in this fable Ceres represents  the evolution of that intuitional part of our  nature which we properly denominate intel-  lect'^ (or the unfolding of the intuitional  faculty of the mind from its quiet and col-  lected condition in the world of thought) ;  and Proserpina that living, self -moving, and  animating part which we call sonl. But lest  this comparing of unfolded intellect to Ceres  should seem ridiculous to the reader, unac-  quainted with the Orphic theology, it is neces-  sary to inform him that this goddess, from  her intimate union with Rhea, in conjunc-  tion with whom she produced Jupiter, is   * Also denominated by Kant, Pure reason, and by Prof, Cocker,  Intuitive reason. It was considered by Plato, as " not amenable to  the conditions of time and space, but in a particular sense, as  dwelling in eternity : and therefore capable of beholding eternal  realities, and coming into communion with absolute beauty, and  goodness, and truth — that is, with God, the Absolute Being."       Proserpina.— Greek.     Bacclius.— India.       Ceres.— Roman.     Demeter.— Ktruscan.     Bacchic Mysteries. 139   evidently of a Saturnian and zoogonic, or in-  tellectual and vivific rank ; and hence, as we  are informed by the philosopher Sallust,  among the mundane divinities she is the  deity of the planet Saturn.* So that in con-  sequence of this, our intellect (or intuitive  faculty) in a descending state must aptly  symbohze with the divinity of Ceres. But  Pluto signifies the whole of a material  natui'e ; since the empire of this god, accord-  ing to Pythagoras, commences downward  from the Gralaxy or milky way. And the  cavern signifies the entrance, as it were, into  the profundities of such a nature, which is  accomplished by the soul's union with this  terrestrial body. But in order to under-  derstand perfectly the secret meaning of the  other parts of this fable, it will be necessary  to give a more exphcit detail of the particu-  lars attending the abduction, from the beau-  tiful poem of Claudian on this subject. From   * Hence we may perceive the reason why Ceres as well as Sat-  urn was denominated a legislative deity; and why illuminations  were used in the celebration of the Saturnalia, as well as in the  Eleusinian Mysteries.     140 Bacchic Mysteries.   this elegant production we learn that Ceres,  who was a&aid lest some violence should be  offered to Proserpina, on account of her in-  imitable beauty, conveyed her privately to  Sicily, and concealed her in a house built on  purpose by the Cyclopes, while she herself  directs her course to the temple of Cybele,  the mother of the gods. Hej:'e, then, we see  the first cause of the soul's descent, namely,  the abandoning of a life wholly according to  the higher intellect, which is occultly signi-  fied by, the separation of Proserpina fi*om  Ceres. Afterward, we are told that Jupiter  instructs Venus to go to this abode, and be-  tray Proserpina from her retirement, that  Pluto may be enabled to carry her away;  and to prevent any suspicion in the virgin's  mind, he commands Diana and Pallas to go  in company. The three goddesses arriving,  find Proserpina at work on a scarf for her  mother ; in which she had embroidered the  primitive chaos, and the formation of the  world. Now by Venus in this part of the  narration we must understand desire^ which  even in the celestial regions (for such is the      Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina*     Bacchic Mysteries. 143   residence of Proserpina till slie is ravished by  Pluto), begins silently and stealthily to creep  into the recesses of the soul. By Minerva  we must conceive the rational power of the  soul, and by Diana, nature^ or the merely  natural and vegetable part of our composi-  tion ; both which are now ensnared through  the allurements of desire. And lastly, the  web in which Proserpina had displayed all  the fair variety of the material world, beau-  tifully represents the commencement of the  illusive operations through which the soul  becomes ensnared with the beauty of imagi-  native forms. But let us for a while attend  to the poet's elegant description of her em-  ployment and abode :   Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant  Cyclopum firmata manu. Stant ardua f erro  Msenia ; ferrati postes : immensaqiie nectit  Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon,  Nee Steropes, eonstruxit opus : nee talibus unquam  Spiravere uotis animge : nee flumine tanto  Incoctum maduit lassa fornaee metallum.  Atria vestit ebur : trabibus solidatur aenis  Culmen, et in eelsas surgunt eleetra eolumnas.  Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu  Irrita texebat rediturje munera matri.  Hie elementorum seriem sedesque pateruas     144 Eleusinian and   Insignibat aeu : veterem qua lege tutmiltum  Diserevit natiira parens, et semiua jiistis  Diseessere locis : quidquid leve fertiu" iu altum :  111 medium graviora caduut : incaiiduit tether :  Egit flamma polum : fluxit mare •. terra pependit  Nee color uuus inest. Stellas accendit in auro.  Ostro fundit aquos, attollit litora gemmis,  Filaque mentitos jam jam cfelantia liuctus  Arte tumeiit. Credas illidi cautibus algam,  Et raucum bibiilis inserpere murmur arenis.  Addit quinqiie plagas : mediam subtemine rubro  Obsessam fervore notat : squalebat adustus  Limes, et assiduo sitiebant stamina sole.  Vitales utrimque duas ; quas mitis oberrat  Temperies habitanda viris. Tum fine supremo  Torpentes traxit geminas, brumaque perenni  Fgedat, et a3terno coiitristat frigore telas.  Nee non et patrui piugit sacraria Ditis,  Fatalesque sibi manes. Nee def nit omen.  Prasscia nam subitis maduerimt fletibus ora.     After this, Proserpina, forgetful of her par-  ent's commands, is represented as venturing  from her retreat, through the treacherous  persuasions of Venus :   Impulit Joiiios pra?misso lumine fluetus  Nondum pura dies : tremulis vibravit in iindis  Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe.  Jamque audax animi, fidseque oblita parentis,  Fraude Dioiifea riguos Proserpina saltus  (Sic Parcse voluere) petit.     Bacchic Mysteries. 145   And this with the greatest propriety: for  obhvion necessarily follows a remission of  intellectnal action, and is as necessarily at-  tended with the allurements of desire.* Nor  is her dress less symbolical of the acting of   * When the person turns the back upon his higher faculties, and  disregards the communications which he receives through them  from the world of unseen realities, an oblivion ensues of their  existence, and the person is next brought within the province and  operation of lower and worldly ambitions, such as a love of power,  passion for riches, sensual pleasure, etc. This is a descent, fall,  or apostasy of the soul, — a separation from the sources of divine  life and ravishment into the region of moral death.   In the Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged  Steeds, Plato represents the lower or inferior part of man's nature  as dragging the soul down to the earth, and subjecting it to the  slavery of corporeal conditions. Out of these conditions there  arise numerous evils, that disorder the mind and becloud the rea-  son, for evil is inherent to the condition of finite and multiform  being into which we have "fallen by our own fault." The pres-  ent earthly life is a fall and a punishment. The soul is now  dwelling in ''the gi-ave which we call the body." In its incorpo-  rate state, and previous to the discipline of education, the rational-  element is " asleep." " Life is more of a dream than a reality."  Men are utterly the slaves of sense, the sport of phantoms and  illusions. We now resemble those " captives chained in a subter-  raneous cave," so poetically described in the seventh book of The  Republic ; their backs are turned to the light, and consequently  they see but the shadows of the objects which pass behind them,  and " they attribute to these shadows a perfect reality." Their  sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in the body, a  dreamy exile from their proper home." — CucJcer's Greek Philosophy,     146 Eleiisinian and   the soul in such a state, principally according  to the energies and promptings of imagina-  tion and nature. For thus her garments are  beautifully described by the poet :     Qiias inter Cereris proles, nunc gloria luatris,  Mox dolor, sequali tendit per gratnina passu,  Nee membris nee honore minor ; potuitque  Pallas, si clipeum, si ferret spieula, Phoebe.  CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes.  Peetinis ingenio nunquam felicior arti  Coutigit eventus. Nullse sic consona telae  Fila, nee in tantum veri duxere figuram.  Hie Hyperionis Solem de semine nasei  Fecerat, et pariter, sed forma dispare lunam,  Aurora} noetisque duces. Cunabula Tethys  Praebet, et infantes gremio solatur anhelos,  Cseruleusque sinus roseis radiatur alumnis.  Invalidum dextro portat Titana laeerto  Nondum luce gravem, nee pubescentibus alte  Cristatum radiis : prime clementior sevo  Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem.  Lseva parte soror vitrei libaraina potat  Uberis, et parvo signatur tempora cornu.   In which description the sun represents the  phantasy, and the moon, nature, as is well  known to every tyro in the Platonic philos-  ophy. They are likewise, with great pro-  priety, described in their infantine state : for     Bacchic Mysteries. 147   these energies do not arrive to perfection  previous to the sinking of the soul into the  dark receptacle of matter. After this we be-  hold her issuing on the plain with Minerva  and Diana, and attended by a beauteous  train of nymphs, who are evident symbols of  world of generation,* and are, therefore, the  proper companions of the soul about to fall  into its fluctuating realms.   But the design of Proserpina, in venturing  from her retreat, is beautifully significant of  her approaching descent: for she rambles  from home for the purpose of gathering  flowers ; and this in a lawn replete with the  most enchanting variety, and exhahng the  most dehcious odors. This is a manifest  image of the soul operatmg principally ac-  cording to the natural and external life, and  so becoming effeminated and ensnared  through the delusive attractions of sensible  form. Minerva (the rational faculty in this  case), likewise gives herself wholly to the   * Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj  sigaified a bride.     148 EJeusinian and   dangerous employment, and abandons the  proper characteristics of her nature for the  destructive revels of desire.   All which is thus described with the ut-  most elegance by the poet :   Forma loci siiperat flores : eurvata tumore  Pai'vo planities, et moUibus edita clivis  Creverat in eoUem. Vivo de pumice fontes  Roscida mobilibus lambebant gramina rivis.  Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles  Temperat, et medio brumam sibi viudicat sestu.  Apta fretis abies, bellis aecomoda eomus,  Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus,  Hex plena favis, venturi pra?seia lanrus.  Fluctuat hie denso crispata cacumine buxus,  Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos.  Hand proeul inde laciis (Pergum dixere Sioani)  Panditur, et nemorum frondoso margine cinetus  Vicinis pallescit aquis : admittit in altum  Cernentes oculos, et late perviiis humor  Ducit inoflfensus liquido sub gurgite visus,  Imaque perspicui prodit secreta profundi.   Hue elapsa eohors gaudent per florea rura  Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite, sorores,  Dum matutinis prsesudat solibus aer :  Dum meus humectat flaventes Lucifer agros,  Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris  Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus  Invasere eohors. Credas examina fundi  Hyblagum raptura thymum, cum cerea reges     Baccliic Mysteries. 149   Castra movent, fagique cava demissus ab alvo  Mellifer electis exereitus obstrepit lierbis.  Pratorum spoliatur honos. Hac lilia fuseis  Iiitexit violis : banc mollis amaraeus ornat :  Heec graditur stellata rosis ; haec alba ligiistris.  Te quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris,  Narcissumque metunt, nunc inclita germina veris,  Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis :  Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error :  Hune fontis decepit amor. Te fronte retusa  Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget.  j3^]staat ante alias avido fervore legeudi  Frugiferte spes una Dese. Nunc vimine texto  Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet :  Nunc sociat flores, seseque ignara corouat.  Augurium fatale tori. Quin ipsa tubarum  Armorumque potens, dextram qua fortia turbat  Agmina ; qua stabiles portas et msenia vellit,  Jam levibus laxat studiis, hastamque reponit,  Insolitisque docet galeam mitescere sertis.  Ferratus lascivit apex, horrorque recessit  Martins, et cristse pacato fulgure vernant.  Nee quae Parthenium canibus scrutatur odorem,  Aspernata clioros, libertatemque comarum  Injecta tantum voluit freuare corona.   But there is a circumstance relative to the  narcissus which must not be passed over in  silence : I mean its being, according to Ovid,  the metamorphosis of a youth who fell a  victim to the love of his own corporeal  form ; the secret meaning of which most     150 Bacchic Mysteries.   admirably accords with the rape of Proser-  pina, which, according to Homer, was the  immediate consequence of gathering this  wonderful flower.* For by Narcissus falling  in love with his shadow in the limpid stream  we may behold an exquisitely apt represen-  tation of a soul vehemently gazing on the  flowing condition of a material body, and in  consequence of this, becoming enamored  with a corporeal life, which is nothing more  than the delusive image of the true man, or  the rational and immortal soul. Hence, by  an immoderate attachment to this unsubstau-  tial mockery and gliding semblance of the  real soul, such an one becomes, at length,  wholly changed, as far as is possible to his  nature, into a vegetive condition of being,  into a beautiful but transient flower, that is,  into a corporeal life, or a life totally consist-   * Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the pleasant  flowers, the beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and the  narcissus, which, like the crocus, the wide earth produced. I was  plucking them with joy, when the earth yawned beneath, and out  leaped the Strong King, the Many-Receiver, and went bearing me,  grieving much, beneath the earth in his golden chariot, and I  cried aloud."     "v..            Pioseipiua gathering Flowers.      Pluto carrj'iiig off Pioserplna.     Bacchic Mysteries, 153   ing in the mere operations of nature. Pro-  serpina, therefore, or the soul, at the very  instant of her descent into matter, is, with  the utmost propriety, represented as eagerly  engaged in pkicking this fatal flower ; for  her faculties at this period are entirely oc-  cupied with a hf e divided about the fluctuat-  ing condition of body.   After this, Pluto, forcing his passage  through the earth, seizes on Proserpina,  and carries her away with him, notwith-  standing the resistance of Minerva and  Diana. They, indeed, are forbid by Jupiter,  who in this place signifies Fate, to attempt  her deUverance. By this resistance of Mi-  nerva and Diana no more is signified than  that the lapse of the soul into a material  nature is contrary to the genuine wish and  proper condition, as well of the corporeal hfe  depending on her essence, as of her true and  rational nature. Well, therefore, may the  soul, in such a situation, pathetically exclaim  with Proserpina :     154 Bacchic Mysteries.   O male dileeti flores, despeetaque matris  Consilia : O Veneris deprensse serius artes ! *   But, according to Minutius Felix, Proserpina  was carried by Pluto tlu-ough thick woods,  and over a length of sea, and brought into a  cavern, the residence of the dead : where by  'woods a material nature is plainly implied, as  we have already observed in the first part of  this discourse ; and where the reader may  likewise observe the agreement of the de-  scription in this particular with that of Yvn-  gil in the descent of his hero :   Tenent media omnia silvce  Coeytusque sinuque labens, cireumvenit atro.t   In these words the woods are expressly  mentioned; and the ocean has an evident  agreement with Cocytus, signifying the out-  flowing condition of a material nature, and  the sorrows and sufferings attending its con-  nection with the soul.   * Oh flowers fatally dear, and the mother's cautions despised :  Oh cruel arts of cunning Venus !   t " Woods cover all the middle space and Cocytus gliding on,  surrounds it with his dusky bosom."     Bacchic Mysteries. 157   Pluto hurries Proserpina into the infernal  regions : in other words, the soul is sunk  into the profound depth and darkness of a  material nature. A description of her mar-  riage next succeeds, her union with the dark  tenement of the body :   Jam siius iuferno processerat Hesperus orbi  Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta  Stellautes Nox pieta sinus, tangensque cubile  Omina perpetuo genitalia federe sancit.   Night is with great beauty and propriety in-  troduced as standing by the nuptial couch,  and confirming the oblivious league. For  the soul through her union with a material  body becomes an inhabitant of darkness, and  subject to the empire of night ; in conse-  quence of which she dwells wholly with de-  lusive phantoms, and till she breaks her  fetters is deprived of the intuitive percep-  tion of that which is real and true.   In the next place, we are presented with  the following beautiful and pathetic descrip-  tion of Proserpina appearing in a dream to     158 Eleusinian and   Ceres, and bewailing her captive and miser-  able condition :   Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus ullis  Nuutia, materna faeies ingesta sopori.  Namque videbatur tenebroso obtecta reeessu  Carceris, et ssevis Proserpina vineta catenis,  Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae  Suspexere Dete. Squalebat pulchrior auro  Csesaries, et nox oculorum infeeerat ignes.  Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi  Flamineus oris honos, et non cessura pruinis  Membra eolorantur pieei caligine regni.  Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere visu  Evaluit : cujus tot p«n£e criminis ? inquit.  Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f acultas  In me ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri  Vix aptanda f eris molles meruere lacerti ?  Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra ?   Such, indeed, is the wretched situation of  the soul when profoundly merged in a cor-  poreal nature. She not only becomes captive  and fettered, but loses all her original splen-  dor ; she is defiled with the impurity of mat-  ter ; and the sharpness of her rational sight  is blunted and dunmed through the thick  darkness of a material night. The reader  may observe how Proserpina, being repre-  sented as confined in the dark recess of a     Bacchic Mysteries. 159   prison, and bound with fetters, confirms the  explanation of the fable here given as sym-  bolical of the descent of the soul ; for such,  as we have ah*eady largely proved, is the  condition of the soul from its union with the  body, according to the uniform testimony of  the most ancient philosophers and priests.*   After this, the wanderings of Ceres for the  discovery of Proserpina commence. She is  described, by Minutius Fehx, as begirt ^dth  a serpent, and bearing two hghted torches in  her hands ; but by Claudian, instead of being  gu^t with a serpent, she commences her  search by night in a car drawn by dragons.  But the meaning of the allegory is the same  in each ; for both a serpent and a di'agon are  emblems of a divisible hfe subject to transi-  tions and changes, with which, in this case,  our intellectual (and diviner) part becomes  connected : since as these animals put off  their skins, and become young again, so   * Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term is more commonly trans-  lated prophets, and actually signifies persons gifted with divine  insight, through being in an entheastic condition, called also mania  or divine fury.     160 Bacchic Mysteries.   tlie divisible life of the soul, falling into  generation, is rejuvenized in its subsequent  career. But what emblem can more beau-  tifully represent the evolutions and out-  goings of an intellectual nature into the  regions of sense than the wanderings of  Ceres by the hght of torches through the  darkness of night, and continuing the pursuit  until she proceeds into the depths of Hades  itself ? For the intellectual part of the soul,*  when it verges towards body, enkindles, in-  deed, a light in its dark receptacle, but be-  comes itself situated in obscurity : and, as  Proclus somewhere divinely observes, the  mortal nature by this means participates of  the divme intellect, but the intellectual part  is drawn down to death. The tears and lam-  entations too, of Ceres, in her coiu'se, are sym-  bolical both of the providential operations of   * " The soul is a composite nature, is on one side linked to the  eternal world, its essence being generated of that ineffable ele-  ment which constitutes the real, the immutable, and the perma-  nent. It is a beam of the eternal Sun, a spark of the Divinity, an  emanation from God. On the other hand, it is linked to the phe-  nomenal or sensible world, its emotive part being formed of that  which is relative and phenomenal." — Cocker.     Bacchic Mysteries. 163   intellect about a mortal nature, and the mis-  eries with which such operations are (with  respect to imperfect souls like oui's) attended.  Nor is it without reason that lacchus, or  Bacchus, is celebrated by Orpheus as the  companion of her search : for Bacchus is the  evident symbol of the imperfect energies of  intellect, and its scattering into the obscure  and lamentable dominions of sense.   But our explanation will receive additional  strength from considering that these sacred  rites occupied the space of nine days in their  celebration; and this, doubtless, because,  according to Homer,* this goddess did not  discover the residence of her daughter till  the expu-ation of that period. For the soul,  in falling from her original and divine abode  in the heavens, passed through eight spheres,   * Hymn to Ceres. "For nine days did holy Demeter perambulate  the earth . . and when the ninth shining morn had come, Hecate  met her, bringing news."   Apuleius also explains that at the initiation into the Mysteries  of Isis the candidate was enjoined to abstain from luxurious food  for ten days, from the flesh of animals, and from wine. — Golden Ass,  book xi. p. 239 (BoJin).     164 Eleusinian and   namely, the fixed or inerratic sphere, and  the seven planets, assuming a different body,  and employing different faculties in each;  and becomes connected with the sublunary  world and a terrene body, as the ninth, and  most abject gradation of her descent. Hence  the first day of initiation into these mystic  rites was called agurmos^ L e. according to  Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov,  an assembly^ and all collecting fogefher :  and this with the greatest propriety; for,  according to Pythagoras, "the people of  dreams are souls collected together in the  Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za noO-ayopav   Jcav.f And from this part of the heavens  souls first begin to descend. After this, the  soul falls from the tropic of Cancer into the  planet Satm'n; and to this the second day  of initiation was consecrated, which they  called AXol5s (j-uarai, [" to the sea, ye initi-  ated ones ! "] because, says Meui'sius, on that   * Only persons taking a view solely external will suppose the  galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky.  t Cave of the Xymphs.     Bacchic Mysteries. 165   day the crier was accustomed to admonisli  the mystte to betake themselves to the sea.  Now the meaning of this will be easily  understood, by considering that, according to  the arcana of the ancient theology, as may be  learned from Proclus, * the whole planetary  system is under the dominion of Neptune;  and this too is confirmed by Martianus  Capella, who describes the several planets  as so many streams. Hence when the soul  falls into the planet Saturn, which Capella  compares to a river voluminous, sluggish,  and cold, she then first merges herself into  fluctuating matter, though purer than that  of a sublunary natiu'e, and of which water is  an ancient and significant symbol. Besides,  the sea is an emblem of purity, as is evident  from the Orphic hymn to Ocean, in which that  deity is called {^swv ayvtajxa {xsy^^'^^v, tlieon  agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of  the gods : and Saturn, as we have already  observed, is pure [intuitive] intellect. And  what still more confirms this observation is,  that Pythagoras, as we are informed by Por-   * Theology of Plato, book vi.     166 Bacchic Mysteries.   pliyry, in his life of that philosopher, symbol-  ically called the sea a tear of Saturn. But the  eighth day of initiation, which is symbohcal  of the falhng of the soul into the lunar  orb,* was celebrated by the candidates by a  repeated initiation and second sacred rites ;  because the soul in this situation is about to  bid adieu to every thing of a celestial natui'e ;  to sink into a perfect obhvion of her divine  origin and pristine felicity ; and to rush pro-  foundly into the region of dissimilitude,!  ignorance, and error. And lastly, on the  ninth day, when the soul falls into the sub-  lunary world and becomes united with a ter-  restrial body, a hbation was performed, such  as is usual in sacred rites. Here the initiates,  filling two earthen vessels of broad and spa-  cious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat,  plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the  former of these words denoting vessels of a  conical shape, and the latter small bowls or   * The Moon typified the mother of gods and men. The soul  descending into the lunar orb thus came near the scenes of earthly  existence, where the life which is transmitted by generation has  opportunity to involve it about.   t The condition most unlike the former divine estate.      Goddess Night.     Three Graces.     Bacchic Mysteries. 169   cups sacred to Bacchus, they placed one  towards the east, and the other towards the  west. And the first of these was doubtless,  according to the interpretation of Proclus,  sacred to the earth, and symbolical of the  soul proceeding from an orbicular figure, or  divine form, into a conical defluxion and ter-  rene situation : * but the other was sacred to  the soul, and symbolical of its celestial origin ;  since our intellect is the legitimate progeny  of Bacchus. And this too was occultly sig-  nified by the position of the earthen ves-  sels ; for, according to a mundane distribu-  tion of the divinities, the eastern center of  the universe, which is analogous to fire,  belongs to Jupiter, who likewise governs the  fixed and inerratic sphere ; and the western  to Pluto, who governs the earth, because  the west is allied to earth on account of  its dark and nocturnal nature. f   Again, according to Clemens Alexandri-  nus, the following confession was made by   * An orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the  masculine divine Energy.  t Proclus: Theology of Plato, book vi. c. 10.     170 Eleusinian and   tlie new initiate in these sacred rites, in an-  swer to the interrogations of the Hierophant :  "I have fasted; I have drank the Cyceon;*  I have taken out of the Cista, and placed  what I have taken ont into the Calathns;  and alternately I have taken out of the Ca-  lathus and put into the Cista." Kcj^a-cc xo  a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov. EvYja-cwaa*   xtatY^v. But as this pertains to a circum-  stance attending the wanderings of Ceres,  which formed the most mystic and emblem-  atical part of the ceremonies, it is necessary  to adduce the following arcane narration,  summarily collected from the writings of  Arnobius : " The goddess Ceres, when search-  ing through the earth for her daughter, in the  course of her wanderings arrived at the  boundaries of Eleusis, in the Attic region, a  place which was then inhabited by a people  called Autochthones, or descended fi'om the   * Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup of  sweet wine, but slie refused it ; but bade her to mix wheat and  water with pounded pennyroyal. Having made the mixture, she  gave it to the goddess."     Bacchic Mysteries. 171   earth, whose names were as follows : Baubo  and Triptolemus ; Dysaules, a goatherd ; Eu-  bulus, a keeper of swme ; and Eumolpus, a  shepherd, from whom the race of the Eumol-  pidse descended, and the illustrious name of  Cecropidse was derived ; and who afterward  flourished as bearers of the caduceus, hiero-  phants, and criers belonging to the sacred  rites. Baubo, therefore, who was of the  female sex, received Ceres, wearied with  complicated evils, as her guest, and endea-  vored to soothe her sorrows by obsequious  and flattering attendance. For this purpose  she entreated her to pay attention to the re-  freshment of her body, and placed before her  a mixed potion to assuage the vehemence of  her thirst. But the sorrowful goddess was  averse from her solicitations, and rejected the  friendly officiousness of the hospitable dame.  The matron, however, who was not easily re-  pulsed, still continued her entreaties, which  were as obstinately resisted by Ceres, who  persevered in her refusal with unshaken per-  sistency and invincible firmness. But when  Baubo had thus often exerted her endeavors     172 Bacchic Mysteries.   to appease the sorrows of Ceres, but without  any effect, she, at length, changed her arts,  and determined to try if she could not exhil-  arate, by prodigies (or out-of-the-way expe-  dients), a mind which she was not able to  allure by earnest endeavors. For this pur-  pose she uncovered that part of her body by  which the female sex produces children and  derives the appellation of woman.* This she  caused to assume a purer appearance, and a  smoothness such as is found in the private  parts of a stripling child. She then returns  to the afflicted goddess, and, in the midst of  those attempts which are usually employed  to alleviate distress, she uncovers herself,  and exhibits her secret parts ; upon which  the goddess fixed her eyes, and was diverted  with the novel method of mitigating the an-  guish of soiTow; and afterward, becoming  more cheerful through laughter, she assuages  her thirst with the mingled potion which she  had before despised." Thus far Arnobius ;  and the same narration is epitomized by  Clemens Alexandrinus, who is very indignant   * FuvT), (June, woman, from y^juvo;, gounos, Latin ciodiks.      Cupifl auil Veuus. Satyr and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs.     Bacchic Mysteries. 175   at the indecency as he conceives, in the stoiy,  and because it composed the arcana of the  Eleusinian rites. Indeed as the simple father,  with the usual ignorance * of a Christian  priest, considered the fable literally, and as  designed to promote indecency and lust, we  can not wonder at his ill-timed abuse. But  the fact is, this narration belonged to the  aiuoppYjxa, aporrheta^ or arcane discourses, on  account of its mystical meaning, and to pre-  vent it from becoming the object of ignorant  declamation, licentious perversion, and im-  pious contempt. For the purity and excel-  lence of these institutions is perpetually  acknowledged even by Dr. Warburton him-  seK, who, in this instance, has dispersed, for a  moment, the mists of delusion and intolerant  zeaLf Besides, as lamblichus beautifully ob-  serves, t "exhibitions of this kind in the  Mysteries were designed to free us from hcen-   * Uneandidness was more probably the fault of which Clement  was guilty.   t Divine Legation of Moses, book ii.   I "The wisest and best men in the Pagan world are unanimous  in this, that the Mysteries were instituted pure, and proposed the  noblest ends by the worthiest means.     176 Bacchic Mysteries.   tioiis passions, by gratifying the sight, and  at the same time vanquisliing desire, through  the awful sanctity with which these rites  were accompanied : for," says he, " the proper  way of freeing ourselves from the passions is,  first, to indulge them mth moderation, by  which means they become satisfied ; hsten, as  it were, to persuasion, and may thus be en-  tirely removed."* This doctrine is indeed so  rational, that it can never be objected to by  any but quacks in philosophy and rehgion.  For as he is nothing more than a quack in  medicine who endeavors to remove a latent  bodily disease before he has called it forth  externally, and by this means diminished its  fuiy ; so he is nothing more than a pretender  in philosophy who attempts to remove the  passions by violent repression, instead of  moderate comphance and gentle persuasion.   But to return from this disgression, the fol-  lowing appears to be the secret meaning of  this mystic discourse : The matron Baubo  may be considered as a symbol of that pas-   * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and Assyrians.     Bacchic Mysteries. 177   sive, womanish, and corporeal life tlirongh  whicli the soul becomes united with this  earthly body, and through which, being at  first ensnared, it descended, and, as it were,  was born into the world of generation, pass-  ing, by this means, from mature perfection,  splendor and reality, into infancy, darkness,  and error. Ceres, therefore, or the intel-  lectual soul, in the course of her wanderings,  that is, of her evolutions and goings-f orth into  matter, is at length captivated with the arts  of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets her  sorrows, that is, imbibes oblivion of her  wretched state in the mingled potion which  she prepares : the mingled hquor being an  obvious symbol of such a life, mixed and im-  pure, and, on this account, liable to cor-  ruption and death ; since every thing pure  and unmixed is incorruptible and divine.  And here it is necessary to caution the  reader from imagining, that because, accord-  ing to the fable, the wanderings of Ceres  commence after the rape of Proserpina,  hence the intuitive intellect descends sub-  sequently to the soul, and separate from it.     178 Eleusinimi and   Notliing more is meant by this circumstance  than that the diviner intellect, from the su-  perior excellence of its nature, has in cause,  though not in time, a priority to soul, and  that on this account a defection and revolt  (and descent earthward from the heavenly  condition) commences, from the soul, and  afterward takes place in the intellect, yet  so that the former descends with the latter  in inseparable attendance.   From this explanation, then, of the fable,  we may easily perceive the meaning of the  mystic confession, / have fasted; I have  drank a mingled potion, etc.; for by the  former part of the assertion, no more is  meant than that the higher intellect, previous  to imbibing of oblivion through the decep-  tive arts of a corporeal life, abstains from  all material concerns, and does not mingle  itself (as far as its nature is capable of such  abasement) with even the necessary delights  of the body. And as to the latter part, it  doubtless alludes to the descent of Proser-  pina to Hades, and her re-ascent to the     Bacchic Mysteries. 179   abodes of her mother Ceres : that is, to the  outgoing and return of the soul, alternately  falhng into generation, and ascending thence  into the intelhgible world, and becoming per-  fectly restored to her divine and intellec-  tual nature. For the Cista contained the  most arcane symbols of the Mysteries, into  which it was unlawful for the profane to  look : and whatever were its contents,* we  learn from the hymn of Callimachus to  Ceres, that they were formed from gold,  which, from its incorruptibihty, is an evi-  dent symbol of an immaterial nature. And  as to the Calathus, or basket, this, as we are  told by Claudian, was filled with spoliis agres-  tibus^ the spoils or fruits of the field, which are  manifest symbols of a life corporeal and  earthly. So that the candidate, by confess-  ing that he had taken from the Cista, and  placed what he had taken into the Calathus,   *A golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt look-  ing upon these, was rapt with awe as contemplating in the»sym-  bols the deeper mysteries of all life, or being of a grosser temper,  took a lascivious impression. Thus as a seer, he beheld with the  eyes of sense or sentiment ; and the real apocalypse was therefore  that made to himself of his own moral life and character. — A. W.     180 Eleusinian and   and tlie contrary, occultly acknowledged the  descent of his soul from a condition of being  super-material and immortal, into one mate-  rial and mortal ; and that, on the contrary,  by hving according to the purity which the  Mysteries inculcated, he should re-ascend to  that perfection of his nature, from which he  had unhappily fallen.*   * "Exiled from the true home of the spirit, imprisoned in the  body, disordered by passion, and becloixded by sense, the soul has  yet longings after that state of perfect knowledge, and purity, and  bliss, in which it was first created. Its affinities are still on high.  It yearns for a higher and nobler form of life. It essays to rise,  but its eye is darkened by sense, its wings are besmeared by pas-  sion and lust ; it is ' borne downward until it falls upon and  attaches itself to that which is material and sensual,' and it floun-  ders and grovels still amid the objects of sense. And now, Plato  asks: How may the soul be delivered from the illusions of sense,  the distempering influence of the body, and the disturbances of  passion, which becloud its vision of the real, the good, and the  true?"   " Plato believed and hoped that this could be accomplished by  philosophy. This he regarded as a grand intellectual discipline  for the purification of the soul. By this it was to be disenthralled  from the bondage of sense, and raised into the empyrean of pure  thought, 'where truth and reality shine forth.' All souls have the  faculty of knowing, but it is only by reflection and self-knowledge,  and intellectual discipline, that the soul can be raised to the  vision of eternal truth, goodness, and beauty — that is, to the  vision of God." — Cocker: Christianity and Greek Philosophy, x.  pp. 351-2.     Bacchic Mysteries. 181   It only now remains that we consider the  last part of this fabulous narration, or arcane  discourse. It is said, that after the goddess  Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered  her daughter, she instructed the Eleusinians  in the planting of corn : or, according to  Claudian, the search of Ceres for her daugh-  ter, through the goddess, instructing in the  art of tillage as she went, proved the occasion  of a universal benefit to mankind. Now the  secret meaning of this will be obvious, by  considering that the descent of the superior  intellect into the realms of generated exis-  tence becomes, indeed, the greatest benefit  and ornament which a material nature is  capable of receiving : for without this parti-  cipation of intellect in the lowest department  of corporeal life, nothing but the irrational  soul* and a brutal life would subsist in its  dark and fluctuating abode, the body. As the  art of tillage, therefore, and particularly the  growing of corn, becomes the greatest possi-   * " It is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive  part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and phe-  nomenal."     182 Elensinian and   ble benefit to our sensible life, no symbol can  more aptly represent the unparalleled ad-  vantages arising from the evolution and pro-  cession of intellect with its divine natui^e into  a corporeal life, than the good resulting from  agriculture and corn : for whatever of horrid  and dismal can be conceived in night, sup-  posing it to be perpetually destitute of the  friendly illuminations of the moon and stars,  such, and infinitely more dreadful, would be  the condition of an earthly nature, if de-  prived of the beneficent irradiations [irfio-  o5o J and supervening benefits of the diviner  hfe.   And this much for an explanation of the  Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres  and Proserpina ; in which it must be remem-  bered that as this fable, according to the  excellent observation of Sallust already ad-  duced, is of the mixed kind, though the  descent of the soul was doubtless principally  alluded to by these sacred rites, yet they  hkewise occultly signified, agreeable to the  nature of the fable, the descending of divinity     Bacchic Mysteries. 183   into the sublunary world. But when we  view the fable in this part of its meaning,  we must 'be careful not to confound the nature  of a partial inteUect like ours with the one uni-  versal and divine. As everything subsisting  about the gods is divine, therefore intellect  in the highest degree, and next to this soul,  and hence wanderings and abductions, lam-  entations and tears, can here only signify  the participations and providential opera-  tions of these in inferior natures ; and this  in such a manner as not to derogate from  the dignity, or impair the perfection, of the  divine principle thus imparted. I only add,  that the preceding exposition will enable  us to perceive the meaning and beauty of  the following representation of the rape of  Proserpina, from the Heliacan tables of Hi-  eronymus Aleander.* Here, first of all, we  behold Ceres in a car drawn by two drag-  ons, and afterwards, Diana and Minerva,  with an inverted calathus at their feet, and  pointing out to Ceres her daughter Proser-  pina, who is hurried away by Pluto in his   * KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius, page 227.     184 Meusinian and   car, and is in the attitude of one struggling  to be free. Hercules is likewise represented  with his club, in the attitude of opposing the  violence of Pluto : and last of all, Jupiter is  represented extending his hand, as if wilhng  to assist Proserpina in escaping from the  embraces of Pluto. I shall therefore con-  clude this section with the following remark-  able passage from Plutarch, which will not  only confirm, but be itself corroborated by  the preceding exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ Tza-  Xata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai Bappa-   Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts Xrj-  Xo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoX-  Xoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov AaXoy|jLSV(ov  UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc Opcpt-  Y.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ  XojoiQ. MaXcara 5s of 'Jispt try.c xsXszac opyt-  aa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ  cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat $ia-  voirjy.^ i. e. " The ancient physiology,! both   * Plutarch : Euseh.   i I. e. Exposition of the laws and oi^erations of Nature.     Bacchic Mysteries. 185   of the Greeks and the Barbarians^ was noth-  ing else than a discoiu'se on natiu^al subjects,  involved or veiled in fables, conceahng many  things through enigmas and under -meanings,  and also a theology taught, in which, after  the manner of the Mysteries,* the things  spoken were clearer to the multitude than  those dehvered in silence, and the things  delivered in silence were more subject to  investigation than what was spoken. This  is manifest from the Orphic verses^ and the  Egyptian and Phrygian discourses. But the  orgies of initiations^ and the sumbolical cere-  monies of sacred rites especiallij, exhibit the  understanding had of them by the ancients,''''   * MuaxYjp:tuoTj?, mystery-like.      A.IB^     Psyche Asleep in Hades.      River Gortrtesses.     O. SECTION 11. 4:::?   THE Dionysiacal sacred rites instituted  by Orpheus,* depended on the follow-  ing arcane narration, part of which has been  already related in the preceding section,  and the rest may be found in a variety of  authors. "Dionysus, or Bacchus [Zagreus],  while he was yet a boy, w^s engaged by the  Titans, through the stratagems of Juno, in a  variety of sports, with which that period of   * Whethei' Orpheus was an actual living person has been ques-  tioned by Aristotle ; but Herodotus, Pindar, and other writers,  mention him. Although the Orphic system is asserted to have  come from Egypt, the internal evidence favors the opinion that it  was derived from India, and that its basis is the Buddhistic phi-  losophy. The Orphic associations of Greece were ascetic, con-  trasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license of the  popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs.  The name Kox-e is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of  Hindu story. His visit to the chamber of Kore-Persephoneia  (Parasu-pani) in the form of a dragon or na(ja, and the horns or  crescent on the head of the child, are Tartar or Buddhistic. The   187     188 Eleusinian and   life is so vehemently allured ; and among  the rest, he was particularly captivated with  beholding his image in a mirror ; during his  admiration of which, he was miserably torn  in pieces by the Titans; who, not content  with this cruelty, first boiled his members in  water, and afterwards roasted them by the  fire. But while they were tasting his flesh  thus dressed, Jupiter, roused by the odor,  and perceiving the cruelty of the deed,  hurled his thunder at the Titans ; but com-  mitted the members of Bacchus to Apollo,  his brother, that they might be properly in-  terred. And this being performed, Diony-  sus (whose heart during his laceration was  snatched away by Pallas and preserved), by  a new regeneration again emerged, and  being restored to his pristine life and integ-   name Zagreus is evidently Chahra, or ruler of the earth. The  Hera who compassed his death is Aira, the wife of Buddha ; and  the Titans are the Daityas, or apostate tribes of India. The doc-  trine of metempsychosis is expressed by the swallowing of the heart  of the murdered child, so as to reabsorb his soul, and bring him  anew into existence as the son of Semele. Indeed, all the stories  of Bacchus liave Hindu characteristics ; and his cultus is a part  of the serpent worship of the ancients. The evidence appears to  us unequivocal. A. W.     Bacchic Mysteries. 189   rity, he afterwards filled up the number of  the gods. But m the mean time, from the  exhalations arising from the ashes of the  burning bodies of the Titans, mankind were  produced." Now, in order to understand  properly the secret of this naiTation, it is  necessary to repeat the observation already  made in the preceding chapter, "that all  fables belonging to mystic ceremonies are  of the mixed kind " : and consequently the  present fable, as well as that of Proserpina,  must in one part have reference to the gods,  and in the other to the human soul, as the  following exposition will abundantly evince :   In the first place, then, by Dionysus, or  Bacchus, according to the highest concep-  tion of this deity, we understand the spiritual  part of the mundane soul ; for there are  Various processions or avatars of this god,  or Bacchuses, derived from his essence. But  by the Titans we must understand the mun-  dane gods, of whom Bacchus is the highest ;  by Jupiter, the Demiurgus,* or artificer of   * Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the god of  providence, thought, essence, and power. Above him was the     190 Eleusinian and   the universe ; by Apollo, the deity of the  Sun, who has both a mundane and super-  mundane establishment, and by whom the  universe is bound in symmetry and consent,  through splendid reasons and harmonizing  power ; and, lastly, by Minerva we must un-  derstand that original, intellectual, ruhng,  and providential deity, who guards and pre-  serves all middle lives* in an immutable  condition, through intelhgence and a self-  supporting life, and by this means sustains  them from the depredations and inroads  of matter. Again, by the infancy of Bac-  chus at the period of his laceration, the  condition of the intellectual natui^e is im-  phed; since, according to the Orphic theol-  ogy, souls, under the government of Saturn,  or Kronos, who is pure intellect or spiritual-  ity, instead of proceeding, as now, from youth  to age, advance in a retrograde progression  from age to youth.t The arts employed by   deity of " pure intellect," aud still higher The One. These three  were the hypostases.   * Lives which are not conjoined with material bodies, nor yet  elevated to the lofty state which is the true divine condition.   t Emanuel Swedenborg says: "They who are in heaven are     Bacchic Mysteries. 191   the Titans, in order to ensnare Dionysus, are  symbolical of those apparent and divisible  operations of the mundane gods, through  which the participated intellect of Bacchus  becomes, as it were, torn in pieces ; and by  the mirror we must understand, in the lan-  guage of Proclus, the inaptitude of the uni-  verse to receive the plenitude of intellectual  or spiritual perfection ; but the symbolical  meaning of his laceration, through the strat-  agems of Juno, and the consequent punish-  ment of the Titans, is thus beautifully  unfolded by Olympiodorus, in his manuscript  Commentary on the PJi(edo of Plato : " The  form," says he, " of that which is universal is  plucked off, torn in pieces, and scattered into  generation ; and Dionysus is the monad of  the Titans. But his laceration is said to  take place through the stratagems of Juno,   continually advancing to the spring of life, and the more thou-  sands of years they live, so much the more delightful and happy is  the spring to which they attain, and this to eternity with increments  according to the progresses and degrees of love, of charity, and of  faith. Women who have died old and worn out with age, yet have  lived in faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and in  happy conjugal love with a husband, after a succession of years,  come more and more into the flower of youth and adolescence."     192 Eleusinian and   because this goddess is the supervising  guardian of motion and progression ; * and  on this account, in the Iliad, she perpetually  rouses and excites Jupiter to providential  action about secondary concerns ; and, in  another respect, Dionysus is the epJiof^us or  supervising guardian of generation, because  he presides over life and death ; for he is the  guardian or epliorus of life because of genera-  tion, and also of death because wine produces  an enthusiastic condition. We become more  enthusiastic at the period of dying, as Proc-  lus indicates in the example of Homer who  became prophetic [[xavxcxoc] at the time of his  death.f They likewise assert, that tragedy  and comedy are assigned to Dionysus : com-  edy being the play or ludicrous representation  of life ; and tragedy having relation to the   'By progression [7rpoo5oc] is here signified the raying-out, or  issuing forth of the soul ; having left the divine or pre -existent  life, and come forth toward the human.   t See also Plato : Phcedrus, 43. " When I was about to  cross the river, the divine and wonted signal was given me — it  always deters me from what I am about to do — and I seemed to  hear a voice from this very spot, which would not suffer me to  depart before I had purified myself, as if I had committed some     Bacchic Mysteries. 193   passions and death. The comic writers,  therefore, do not rightly call in question the  tragedians as not rightly representing Bac-  chus, saying that such things did not happen  to Bacchus. But Jupiter is said to have  hurled his thunder at the Titans ; the thun-  der signifying a conversion or changing : for  fire naturally ascends ; and hence Jupiter,  by this means, converts the Titans to his  own essence." ^TzapazzEzai §£ to xa^oXoo  si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo-   aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i-   vrpetoc, et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru  aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi si^avcaTTjatv aozrj, %ai   OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV SsOXSpCOV.   Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,  5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap  srpopG?, STTsid'^ .7,at z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s  5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt xyjv  TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi;   offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a very  good one : for the soul is in some measure prophetic."  See also Shakspere : Henry IV. part 1.   " Oh I could prophesy,  But that the earthy and cold hand of death  Lies on my tongue."     194 Eleiisinian and   StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys-   T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav to'j [3tov  TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'j-  I'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi?  syxaXoaacv, (o:; \rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov  Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov. Kspau-   VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05   X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol'  S'lriatpsrpsL O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by  the members of Dionysus being first boiled  in water by the Titans, and afterward roasted  by the fire, the outgoing or distribution of  intellect into matter, and its subsequent re-  turning from thence, is evidently implied:  for water was considered by the Egyptians,  as we have ah*eady observed, as the symbol  of matter ; and fire is the natural symbol of  ascending. The heart of Dionysus too, is,  with the greatest propriety, said to be pre-  served by Minerva ; for this goddess is the  guardian of hfe, of which the heart is a sym-  bol. So that this part of the fable plainly  signifies, that while intellectual or spiritual     Bacchic Mysteries. 195   life is distributed into the universe, its prin-  ciple is preserved entire by the guardian  power and providence of the Divine intel-  ligence. And as Apollo is the source of all  union and harmony, and as he is called by  Proclus, " the key-keeper of the fountain of  life," * the reason is obvious why the mem-  bers of Dionysus, which were buried by this  deity, again emerged by a new generation,  and were restored to their pristine integrity  and life. But let it here be carefidly ob-  served, that renovation, when apphed to the  gods, is to be considered as secretly implying  the rising of their proper hght, and its con-  sequent appearance to subordinate natures.  And that punishment, when considered as  taking place about beings of a nature superior  to mankind, signifies nothing more than a  secondary providence over such beings which  is of a punishing character, and which sub-  sists about souls that deteriorate. Hence,  then, from what has been said, we may  easily collect the ultimate design of the first  part of this mystic fable ; for it appears to be   * Hymn to the Sun.     196 Bacchic Mysteries.   no other than to represent the manner in  which the form of the mundane intellect is  divided through the universe ; — that such an  intellect (and every one which is total) re-  mains entire during its division into parts,  and that the divided parts themselves are  continually turned again to their source,  with which they become finally united. So  that illumination from the liigher reason,  while it proceeds into the dark and rebound-  ing receptacle of matter, and invests its ob-  scurity with the supervening ornaments of  divine light, returns at the same time with-  out interruption to the source or principle  of its descent.   Let us now consider the latter part of the  fable, in which it is said that our souls were  formed from the vapors emanating from the  ashes of the burning bodies of the Titans;  at the same time connecting it with the  former part of the fable, which is also appli-  cable in a certain degree to the condition of  a partial intellect * hke ours. In the first   * Partial, as being parted from the Supreme Mind.      Etruscan Kleusiuiaus.     Bacchic Mysteries. 199   place, then, we are made up from frag-  ments (says Olympiodorus), because, through  faUing into generation, our hf e has proceeded  into the most distant and extreme division ;  and from Titanic fragments^ because the  Titans are the ultimate artificers of things,*  and stand immediately next to whatever is  constituted from them. But further, our  irrational life is Titanic, by which the rational  and higher life is torn in pieces. Hence,  when we disperse the Dionysus, or intuitive  intellect contained in the secret recesses of  our nature, breaking in pieces the kindred  and divine form of our essence, and which  communicates, as it were, both with things  subordinate and supreme, then we become  Titans (or apostates) ; but when we establish  ourselves in union with this Dionysiacal or  kindred form, then we become Bacchuses, or  perfect guardians and keepers of our irra-  tional life : for Dionysus, whom in this re-  spect we resemble, is himself an epJiorus or   * The Demiurge or Creator being superior to matter in which  is concupiscence and all evil, the Titans who are not thus superior  are made the actual artificers.     200 Meusinian and   guardian deity, dissolving at his pleasure the  bonds by which the soul is united to the  body, since he is the cause of a parted hfe.  But it is necessary that the passive or femi-  nine nature of our UTational part, through  which we are bound in body, and which is  nothing more than the resounding echo, as it  were, of soul, should suffer the punishment  incurred by descent ; for when the soul casts  aside the [divine] peculiarity of her nature,  she requires her own, but at the same time a  multiform body, that she may again become  in need of a common form, which she has  lost through Titanic dispersion into matter.   But in order to see the perfect resem-  blance between the manner in which our  souls descend and the dividing of the intui-  tive intellect by mundane natures, let the  reader attend to the following admirable  citation from the manuscript Commentary  of Olympiodorus on the Phcedo of Plato :  "It is necessary, first of all, for the soul to  place a hkeness of herself in the body. This  is to ensoul the body. Secondly, it is neces-     Baccliic Mysteries. 201   sary for her to sympathize with the image, as  being of hke idea. For every external form  or substance is wrought into an identity with  its interior substance, through an ingenerated  tendency thereto. In the third place, being  situated in a divided nature, it is necessary  that she should be torn in pieces, and fall  into a last separation, till, through the action  of a life of puiification, she shall raise herself  from the dispersion, loose the bond of sym-  pathy, and act as of herself without the  external image, having become established  according to the first-created life. The like  things are fabled in the example. For Dio-  nysus or Bacchus because his image was  formed in a mirror, pursued it, and thus  became distributed into everything. But  Apollo collected him and brought him up ;  being a deity of puiification, and the true  savior of Dionysus ; and on this account he  is styled in the sacred hymns, Dionusites."   sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yyco-  oai TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(o-  Xcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav yap stSoc sTust-     202 Eleusinian and   xcti £Lc Tov ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov. 'Eco?  av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv  eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssa-  jj-ov XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso  xou £co(oAou, xctx)-' Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV  C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai, '>c7.i sv xcp  Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scoco-  Xov svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac  ouxd)? eiQ zo Tifjy sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aov-  aystpst t£ aozoy 7,ac avaysi, xavJ-apiwoc (ov  ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?.  Kat 5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence,  as the same author beautifully observes, the  soul revolves according to a mystic and  mundane revolution : for flying from an in-  divisible and Dionysiacal hfe, and operating  according to a Titanic and revolting energy,  she becomes bound in the body as in a prison.  Hence, too, she abides in punishment and  takes care of her partial and secondary  concerns; and being purified from Titanic  defilements, and collected into one, she be-     Bacchic Mysteries. 203   comes a Bacchus ; that is, she passes into the  proper integrity of her nature according to  the divine principle ruhng on high. From all  which it evidently fohows, that he who hves  Dionysiacally rests from labors and is freed  from his bonds ; * that he leaves his prison,  or rather his apostatizing life ; and that he  who does this is a philosopher purifying him-  seK from the contaminations of his earthly  life. But farther fi'om this account of Dio-  nysus, we may perceive the truth of Plato's  observation, " that the design of the Myste-  ries is to lead us back to the perfection from  which, as our beginning, we first made our de-  scent." For in this perfection Dionysus him-  self subsists, establishing perfect souls in  the throne of his father ; that is, in the in-  tegrity of a life according to Jupiter. So  that he who is perfect necessarily resides  with the gods, according to the design of  those deities, who are the sources of con-  summate perfection to the soul. And lastly,   *"We strive toward virtue by a strenuous use of the gifts  which God communicates ; but when God communicates himself,  then we can be only passive — we repose, we enjoy, but all opera-  tion ceases."     204 Bacchic Mysteries.   the Thyrsus itself, which was used in the  Bacchic procession, as it was a reed full of  knots, is an apt symbol of the diffusion of the  higher nature into the sensible world. And  agreeable to this, Olympiodorus on the Pluedo  observes, " that the Thyrsus * is a symbol of  a forming anew of the material and parted  substance from its scattered condition ; and  that on this account it is a Titanic plant.  This it was customary to extend before Bac-  chus instead of his paternal scepter; and  through this they called him down into our  partial nature. Indeed, the Titans are Thyr-  sus-bearers ; and Prometheus concealed fire  in a Thyi'sus or reed ; after which he is con-  sidered as bringing celestial light into genera-  tion, or leading the soul into the body, or  calling forth the divine illumination, the  whole being ungenerated, into generated ex-  istence. Hence Socrates calls the multitude  Thyrsus-bearers Orphically, as hving accord-  ing to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov  ZQZi zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta   * The word thyrsus, it will be seen, is here translated from  vapd'Yj^, a rod or ferula.     Bacchic Mysteries. 207   TY]v [laXtaxa StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at  Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp  Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj.  Kai xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov.  Kat {isvcoi, 'jcc/.i vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g   ITpGIJLTjiJ'SaC, £V VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO   oupaviov cp(oc see x'A^v ysvsatv xaxaaTucov, stxs  xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv o^scav  £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvs-  atv TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -co-  y-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc "JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Op-  cpt7,(oc, co^ C^'^vxac Ttxry.vcy.(oc.   And thus much for the secret meaning  of the fable, which formed a principal part of  these mystic rites. Let us now proceed to  consider the signification of the symbols,  which, according to Clemens Alexandrinus,  belonged to the Bacchic ceremonies ; and  which are comprehended in the following-  Orphic verses :   M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov.   That is,   A wheel, a pine-nut, and the wanton plays,  Which move and bend the limbs in various ways :     208 Eleusinian and   With these th' Hesperian golden-fruit combine,  Which beauteous nymphs defend of voice divine.   To all which Clemens adds saoTU'pov, esop-  troii, a mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool,  and aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone.  In the first place, then, wdth respect to the  wheel, since Dionysus, as we have already  explained, is the mimdane intellect, and in-  tellect is of an elevating and convertive na-  ture, nothing can be a more apt symbol of  intellectual action than a w^heel or sphere :  besides, as the laceration and dismemberment  of Dionysus signifies the going-forth of in-  tellectual illumination into matter, and its  returning at the same time to its source, this  too will be aptly symbolized by a wheel. In  the second place, a pine-nut, from its conical  shape, is a perspicuous symbol of the manner  in which intellectual or spiritual illmnination  proceeds from its source and beginning into  a material nature. " For the soul," says Ma-  crobius,* "proceeding from a round figure,  which is the only divine form, is extended  into the form of a cone in going forth."   * In Somnid Scijnonis, xii.     Bacchic Mysteries. 209   And the same is true sjrmbolically of the  higher intellect. And as to the wanton  sports which bend the limbs, this evidently  alludes to the Titanic arts, by which Dionysus  was allured, and occultly signifies the facul-  ties of the mundane intellect, considered as  subsisting according to an apparent and  divisible condition. But the Hesperian  golden-apples signify the pure and incorrupt-  ible nature of that intellect or Dionysus, which  is possessed by the world ; for a golden-apple,  according to Sallust, is a symbol of the world ;  and this doubtless, both on account of its ex-  ternal figui'e, and the incorruptible intellect  which it contains, and with the illuminations  of which it is externally adorned ; since gold,  on account of never being subject to rust, aptly  denotes an incorruptible and immaterial na-  ture. The mirror, which is the next symbol,  we have already explained. And as to the  fleece of wool, this is a symbol of laceration,  or distri])ution of intellect, or Dionysus, into  matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy  diJanio, which is used in the relation of the  Bacchic discerption, signifies to tear in pieces     210 Bacchic Mysteries.   like wool : and hence Isidoinis derives the  Latin word laua, wool, from Janiando, as  velliis from vellendo. Nor must it pass un-  observed, that Xq^jz^ in Greek, signifies wool,  and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed, the  pressing of grapes is as evident a symbol of  dispersion as the tearing of wool; and this  circumstance was doubtless one principal  reason why grapes were consecrated to Bac-  chus : for a grape, previous to its pressure,  aptly represents that which is collected into  one ; and when it is pressed into juice, it no  less aptly represents the diffusion of that  which was before collected and entu'e. And  lastly, the aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJe-  hone, as it is principally subser\dent to the  progressive motion of animals, so it belongs,  with great propriety, to the mystic symbols  of Bacchus; since it doubtless signifies the  going forth of that deity into the department  of physical existence : for nature, or that  divisible life which subsists about the body,   * The practice of punning, so common in all the old rites, is  here forcibly exhibited. It aided to conceal the symbolism and  mislead uninitiated persons who might seek to ascertain the  genuine meaning.         i\v>'- .../Mm      Hercules Reclining.     Bacchic Mysteries. 213   and whicli is productive of seeds, imme-  diately depends on Bacchus. And hence we  are informed by Proclus, that the sexual parts  of this god are denominated by theologists,  Diana, who, says he, presides over the whole  of the generation into natural existence,  leads forth into light all natural reasons, and  extends a prolific power from on high even  to the subterranean reahns.* And hence we  may perceive the reason why, in the Orphic  Hjjmn to Nature, that goddess is described as  " turning round silent traces with the ankle-  bones of her feet. ^^   And it is highly worthy our observation that  in this verse of the hymn Nature is cele-  brated as Fortune, according to that descrip-  tion of the goddess in which she is repre-  sented as standing with her feet on a wheel  which she continually turns round ; as the  following verse from the same hymn abun-  dantly confirms :   Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa o'.vsooooa..  * Commentary upon the Timceus.     214 Meusinian and   The sense of which is, "moving with rapid  motion on an eternal wheel." Nor ought it  to seem wonderful that Nature should he  celebrated as Fortune; for Fortune in the  Orphic h}Tnn to that deity is invoked as  Diana : and the moon, as we have observed  in the preceding section, is the aoro'iriov  ayaXjia rpyasto?, fJie self-revealing emblem of  Nature ; and indeed the apparent incon-  stancy of Fortune has an evident agreement  with the fluctuating condition in which the  dominions of nature are perpetually involved.  It only now remains that we explain the  secret meaning of the sacred dress with  which the initiated in the Dionysiacal Myste-  ries were invested, in order to the GpovLajxo^  (fhromsmoSy enthroning) taking place ; or  sitting in a solemn manner on a throne,  about which it was customary for the other  initiates to dance. But the particulars of  this habit are thus described in the Orphic  verses preserved by Macrobius : *   Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q.  * Satunialia, i. 18.     Bacchic Mysteries. 215   flpwxct ;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov «xTtvsaa:v   IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov a^cp-paAEO^oc-.   ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu xa*«-|a'.   ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,   Aatpoiv o«-5aXftov ;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o.   Eka r 6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at   n«;A'favoaiVTa irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia   Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv Tac-r]? (paja-wv avopouaiov   Xpoasiai? axxcat ,3(x>.-/j poov Oxsavow,   Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj a;jLcpt;xtYE:aa   Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj. xoxXov,   Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v   <I>aovjx' ap' ily.zrj.wo ■Kov.Uq, iityx Oau^' ecowsa^ac.   That is,   He who desires in pomp of sacred dress   The sun's resplendent body to express,   Should first a vail assume of purple bright,   Like fair white beams combin'd with fiery light :   On his right shoulder, next, a mule's broad hide   Widely diversified with spotted pride   Should hang, an image of the pole divine,   And dfBdal stars, whose orbs eternal shine.   A golden splendid zone, then, o'er the vest   He next should throw, and bind it round his breast;   In mighty token, how with golden light.   The rising sun, from earth's last bounds and night   Sudden emerges, and, with matchless force,   Darts through old Ocean's billows in his course.   A boundless splendor hence, enshrin'd in dew,   Plays on his whirlpools, glorious to the view ;   While his circumfluent waters spread abroad,   Full in the presence of the radiant god :     216 Eleusinian and   But Ocean's circle, like a zone of light,   The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring sight.   lu the first place, then, let us consider  why this mystic dress belonging to Bacchus  is to represent the sun. Now the reason of  this will be evident from the following ob-  servations : according to the Orphic theol-  ogy, the divine intellect of every planet is  denominated a Bacchus, who is characterized  in each by a different appellation; so that  the intellect of the solar deity is called Trie-  tericus Bacchus. And in the second place,  since the divinity of the sun, according to  the arcana of the ancient theology, has a  super-mundane as well as mundane establish-  ment, and is wholly of an exalting or intel-  lectual nature ; hence considered as super-  mundane he must both produce and contain  the mundane intellect, or Dionysus, in his  essence ; for all the mimdane are contained  in the super-mundane deities, by whom also  they are produced. Hence Proclus, in his  elegant Hijmn to the Sun, says :     Bacchic Mysteries. 217   That is, " they celebrate thee in hymns as the  illustrious parent of Dionysus." And thirdly,  it is through the subsistence of Dionysus in  the sun that that luminary derives its circular  motion, as is evident from the following Or-  phic verse, in which, speaking of the sun, it  is said of him, that     " He is called Dionysus, because he is carried  with a circular motion through the immense-  ly-extended heavens." And this with the  greatest propriety, since intellect, as we have  already observed, is entirely of a transforming  and elevating nature : so that from all this, it  is sufficiently evident why the dress of Diony-  sus is represented as belonging to the sun.  In the second place, the vail, resembling a  mixture of fiery light, is an obvious image of  the solar fire. And as to the spotted mule-  skin,* which is to represent the starry heav-  ens, this is nothing more than an image of   * Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one  at the great festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible.  In India the robe of Indra is spotted.     218 Bacchic Mysteries.   tlie moon ; tMs luminary, according to Proc-  lus on Hesiod, resembling the mixed nature  of a mule ; " becoming dark through her par-  ticipation of earth, and deriving her proper  light from the sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o-   So that the spotted hide signifies the moon  attended with a multitude of stars : and  hence, in the Oi'phic Hymn to the Moon, that  deity is celebrated "as shining surrounded  with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi ppy-  ooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, as-  trarche, or " queen of the starsy   In the next place, the golden zone is the  circle of the Ocean, as the last verses plainly  evince. But, you will ask, what has the  rising of the sun through the ocean, from the  boundaries of earth and night, to do with the  adventures of Bacchus ? I answer, that it is  inpossible to devise a symbol more beauti-  fully accommodated to the purpose : for, in  the first place, is not the ocean a proper  emblem of an earthly nature, whirling and     Bacchic Mysteries. 221   stormy, and perpetually rolling without ad-  mitting any periods of repose ? And is not  the sun emerging from its boisterous deeps a  perspicuous symbol of the higher spiritual  nature, apparently rising from the dark and  fluctuating material receptacle, and confer-  ring form and beauty on the sensible uni-  verse through its light ? I say apparently  rising, for though the spiritual nature always  diffuses its splendor with invariable energy,  yet it is not always perceived by the subjects  of its illuminations : besides, as psychical na-  tures can only receive partially and at inter-  vals the benefits of the divine irradiation ;  hence fables regarding this temporal partici-  pation transfer, for the purpose of conceal-  ment and in conformity to the phenomena,  the imperfection of subordinate natures to  such as are supreme. This description, there-  fore, of the rising sun, is a most beautiful  symbol of the new birth of Bacchus, which,  as we have already observed, implies nothing  more than the rising of intellectual light, and  its consequent manifestation to subordinate  orders of existence.     222 Eleusinian and   And thus much for the mysteries of Bac-  chus, which, as well as those of Ceres, relate  in one part to the descent of a partial in-  tellect into matter, and its condition while  united with the dark tenement of the body :  but there appears to be this difference be-  tween the two, that in the fable of Ceres and  Proserpine the descent of the whole rational  soul is considered ; and in that of Bacchus  the scattering and going forth of tliat su-  preme part alone of our nature which we  properly characterize hy the appellation of.  intellect* In the composition of each we  may discern the same traces of exalted wis-  dom and recondite theology; of a theology  the most venerable for its antiquity, and the  most admirable for its excellence and reahtyo   I shall conclude this treatise by presenting  the reader with a valuable and most elegant  hymn of Proclusf to Minerva, which I have   * Greek, wn;;, nous, the Intuitive Eeasoii, that faculty of the  mind that apprehends the Ineffable Truth.   t That the following hymn was composed by Proclus, can not  be doubted by any one who is conversant with those already ex-  tant of this incomparable man, since the spirit and manner in  both is perfectly the same.     Bacchic Mysteries. 223   discovered in the British Museum ; and the  existence of which appears to have been  hitherto utterly unknown. This hymn is to  be found among the Harleian Manuscripts,  in a volume containing several of the OrpJiic  liymns^ with which, through the ignorance of  transcriber, it is indiscriminately ranked, as  well as the other four hymns of Proclus,  already printed in the Bihliotlieca Grmca of  Fabricius. Unfortunately too, it is tran-  scribed in a character so obscure, and with  such great inaccuracy, that, notwithstanding  the pains I have taken to restore the text  to its original purity, I have been obUged to  omit two hues, and part of a third, as beyond  my abilities to read or amend ; however, the  greatest, and doubtless the most important  part, is fortunately intelhgible, which I now  present to the reader's inspection, accompa-  nied with some corrections, and an Enghsh  paraphrased translation. The original is  highly elegant and pious, and contains one  mythological particular, which is no where  else to be found. It has likewise an evident  connection with the preceding fable of Bac-     224 EJeusinian and   chus, as will be obvious from the perusal;  and on tins account principally it was in-  serted in the present discoui'se.   Ek aohnan.   KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(;   IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,? ano asipa?  Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5* o,3p:|i,07tarrjp,*  KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia i)'U^uj   'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,] TTuXjUlVa;;.   Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya (p'j)>a •j-'-Y^"^'^'^^*  '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J rjyrj.v.xo^  Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou  l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa  Ocppa VEOi; ^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?,  Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov avY]^f]av] Alovuooo?.  'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va %apv]va  Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv  'H v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov  H jjioxov v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c,  Azix:oof'^:xry ojprjv || '{^'j'/at-t ^aXXouaa*   'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/.   So|JLpoXov axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?'   * Lege oPptjULOTraxpT),  t Lege f)joaj,3Eia?.  t Lege a|j.oax'. Xuxoo.  § Lege tceXexu?.  II Lege Op;jL-r]v.     BaccJiic Mysteries. 225   'H x8-ova ,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa? p-^Xoiv.   K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa Trpoatouou-  Ao? OS ;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav.  Ao? -]/ox-/y Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv  Ka: ao-^iY]v -/.at jpcoxoc- ,j.svoc S's/J-Tivsoaov jpwTi,  Toaaattov, xac towv, oaov /&ov:ojv ajio xoXttojv  A'^spv-r] ,rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^ £o:o,  Ei5j Ttc «/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;.   IXa9.- /x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f   Trcjoavat? TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot,   KstfAsvov Ev 8aTT:s5otatv, 61: TcO? so/o/jiac swxr   KsxXofl-: xjxXoO-- xa: ;xol iitCu^yiv 00a? 6tox£C.   TO MINEEVA.   Daughter of aegis-bearing Jove, divine,   Propitious to thy votaries' prayer incline ;   From thy great father's fount supremely bright,   Like fire resounding, leaping into light.   Shield-bearing goddess, hear, to whom belong   A manly mind, and power to tame the strong!   Oh, sprung from matchless might, with joyful mind   Accept this hymn ; benevolent and kind !   The holy gates of wisdom, by thy hand   Are wide unfolded ; and the daring band   Of earth-born giants, that in impious fight   Strove with thy fire, were vanquished by thy might.   Once by thy care, as sacred poets sing.   The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king,   * Lege a|xirXaxY]|ULa.  t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^.     226 Eleusinian and   Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired,   Tlie Titans fell against his life conspired ;   And with relentless rage and thirst for gore,   Their hands his members into fragments tore :   But ever watchful of thy father's will,   Thy power preserv'd him from succeeding ill.   Till from the secret counsels of his fire,   And born from Semele through heavenly sire,   Great Dionysus to the world at length   Again appeared with renovated strength.   Once, too, thy warlike ax, with matchless sway,   Lopped from their savage necks the heads away   Of furious beasts, and thus the pests destroyed   Which long all-seeing Hecate annoyed.   By thee benevolent great Juno's might   Was roused, to furnish mortals with delight.   And thro' life's wide and various range, 't is thine   Each part to beautify with art divine :   Invigorated hence by thee, we find   A demiurgic impulse in the mind.   Towers proudly raised, and for protection strong.   To thee, dread guardian deity, belong.   As proper symbols of th' exalted height   Thy series claims amidst the courts of light.   Lands are beloved by thee, to learning prone.   And Athens, Oh Athena, is thy own !   Great goddess, hear! and on my dark'ned mind   Pour thy pure light in measure unconfined ; —   That sacred light, Oh all-protecting queen.   Which beams eternal from thy face serene.   My soul, while wand'ring on the earth, inspire   With thy own blessed and impulsive fire :   And from thy fables, mystic and divine.   Give all her powers with holy light to shine.     Bacchic Mysteries. 227   Give love, give wisdom, and a power to love,  Incessant tending to the realms above ;  Such as unconscious of base earth's control  Gently attracts the vice-subduing soul :  From night's dark region aids her to retire,  And once moi'e gain the palace of her sire.  O all-propitious to my prayer incline !  Nor let those horrid punishments be mine  Which guilty souls in Tartarus confine,  With fetters fast'ned to its brazen floors.  And lock'd by hell's tremendous iron doors.  Hear me, and save (for power is all thine own)  A soul desirous to be thine alone.*   It is very remarkable in this hymn, that  the exploits of Minerva relative to cutting  off the heads of wild beasts with an ax, etc.,  is mentioned by no writer whatever; nor  can I find the least trace of a circumstance  either in the history of Minerva or Hecate  to which it alludes.f And from hence, I   * If I should ever be able to publish a second edition of my  translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a translation  of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant ; but  which are nothing more than the wreck of a great multitude which  he composed.   t If Mr. Taylor had been conversant with Hindu literature, he  would have perceived that these exploits of Minerva-Athene were  taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani. The whole  Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and Buddhistic  legends into a Grecian dress. — ^A. W.     228     Bacchic Mysteries.     think, we may reasonably conclude that it  belonged to the arcane Orphic narrations  concerning these goddesses, which were con-  sequently but rarely mentioned, and this but  by a few, whose works, which might afford  us some clearer information, are unfortu-  nately lost.      Musical Couference.      Venus Kisiiig troni the Sea.     APPENDIX.     SINCE writing the above Dissertation, I  have met with a curious Greek manu-  script entitled: "Of Psellus, Concerning  DcBmons^* according to the opinion of the  GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov  So^aCooacv 'EXXtjvs? : In the course of which  he describes the machinery of the Eleusinian  Mysteries as follows : — 'A oe ys [lo^jzr^iAa xoo-  T(ov, oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov  OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov xifj Stjgi, t] "cyj Atjix'/j-  x£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]? Ospas^axxTj xt]  xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot  sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat  iro)? Y] ArppoScx'rj airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs-   * Daemons, divinities, spirits ; a term formerly applied to all  rational beings, good or bad, other than mortals.   229     230 Appendix,   (ov TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj  6[JL£vaio?. Kat s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jl-  Tuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov sttiov, sxtpvo'fo-  p'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov  siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?.   Ttat xapocaXytaL Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt-  {x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi? ^l^'jjxo^c' otc xsp   TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov, to)  x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou.  Etc^ xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj xrjauc,  y,ai T7. iroXyoix'-paXa TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa-   CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^ {XC{J-aA(OV£C, %at   zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M A(o5(ovctcov  yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£-  poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc  (lege Y^ Baupfo xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat  6 yovaixo? %x£ic> oozio yap ovo{xaCoDaL xy^v  ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v  x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The Mysteries  of these demons, such as the Eleusinia, con-  sisted in representing the mythical narra-  tion of Jupiter mingling mth Ceres and her  daughter Proserpina (Phersephatte). But as     Appendix. 231   venereal connections are in the initiation,* a  Venus is represented rising from the sea, from  certain moving sexual parts : afterwards the  celebrated marriage of Proserpina (with  Pluto) takes place ; and those who are  initiated sing :   " 'Out of the drum I have eaten,  Out of the cymbal I have drank,  The mystic vase I have sustained,  The bed I have entered.'   The pregnant throes likewise of Ceres [Deo]  are represented : hence the supphcations of  Deo are exhibited; the drinking of bile,  and the heart-aches. After this, an effigy  with the thighs of a goat makes its appear-  ance, which is represented as suffering vehe-  mently about the testicles : because Jupiter,  as if to expiate the violence which he had  offered to Ceres, is represented as cutting off  the testicles of a goat, and placing them on  her bosom, as if they were his own. But  after all this, the rites of Bacchus suc-  ceed; the Cista, and the cakes with many  bosses, Uke those of a shield. Likewise the   * /. e. a representation of them.     232 Appendix.   mysteries of Sabazius, divinations, and the  mimalons or Bacchants ; a certain sound of  the Thesprotian bason ; the Dodonsean brass ;  another Corybas, and another Proserpina, —  representations of Demons. After these suc-  ceed the uncovering of the thighs of Baubo,  and a woman's comb (lie is), for thus, through  a sense of shame, they denominate the sexual  parts of a woman. And thus, with scanda-  lous exhibitions, they finish the initiation."   From this curious passage, it appears that  the Eleusinian Mysteries comprehended those  of almost all the gods ; and this account will  not only throw hght on the relation of the  Mysteries given by Clemens Alexandidnus,  but likewise be elucidated by it in several  particulars. I would willingly unfold to the  reader the mystic meaning of the whole of  this machinery, but this can not be accom-  phshed by any one, without at least the pos-  session of all the Platonic manuscripts which  are extant. This acquisition, which I would  infinitely prize above the wealth of the In-  dies, will, I hope, speedily and fortunately     k'^■      Jupiter disguised as Diana, and Calisto.     ~-_ ;^ ^ C\r I           ■■■■ mt^         Hercules, Deianeira and Nessus.     Appendix. 235   be mine, and then I shall be no less anxious  to communicate this arcane infoiTQation,  than the liberal reader will be to receive it.  I shall only therefore observe, that the mu-  tual communication of energies among the  gods was called by ancient theologists c'spo^  yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage ;  concerning which Proclus, in the second  book of his manuscript Commentary on the  Parmenides, admirably remarks as follows:   TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV, TTOrS {1£V £V ZOIQ GO-   Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at vcaXooat  Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpo-  voo v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov TzpOQ  xa xpsLtto), %ai v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac Atjjxtj-  Tpac* irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov  xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat Atoc %ct: KopTj?  Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af  irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi;  xa xpo 7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa.  Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C {j.£-   XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V   dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time  considered this communion of the gods in  divinities co-ordinate with each other ; and     236 Appendix.   then tliey called it the mamage of Jupiter  and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and  Gre], of Saturn and Rhea : but at another  time, they considered it as svibsisting be-  tween subordinate and superior divinities;  and then they called it the marriage of Jupi-  ter and Ceres ; but at another time, on the  contrary, they beheld it as subsisting be-  tween superior and subordinate divinities;  and then they called it the marriage of Jupi-  ter and Kore. For in the gods there is one  kind of communion between such as are of  a co-ordinate nature ; another between the  subordinate and supreme ; and another again  between the supreme and subordinate. And  it is necessary to understand the peculiarity  of each, and to transfer a conjunction of this  kind froin the gods to the communion of  ideas with each other." And in Tim (mis ^  book i., he observes : y.rj.i zo rrjv wjzr^v (supple   /. e. '' And that the same goddess is conjoined  with other gods, or the same god with many  goddesses, may be collected fi'om the mystic     Appendix.     237     discourses, and those marriages which are  called in the Mysteries Sacred Marriages.''^  Thus far the divine Proclus ; from the first  of which passages the reader may perceive  how adultery and rapes, as represented in the  machinery of the Mysteries, are to be under-  stood when apphed to the gods; and that  they mean nothing more than a communica-  tion of divine energies, either between a su-  perior and subordinate, or subordinate and  superior, divinity. I only add that the ap-  parent indecency of these exhibitions was, as I  have already observed, exclusive of its mystic  meaning, designed as a remedy for the passions  of the soul : and hence mystic ceremonies  were very properly called a%£7., akea, medicines,  by the obscure and noble Heracleitus.'^   * Iamblichus : De Mijsteriis.      Saciifice of a Pig.      Hercules Drunk.     ORPHIC HYMNS.     I shall utter to whom it is lawful ; but let the doors be closed,  Nevertheless, against all the profane. But do thou hear,  Oh Musseus, for I will declare what is true. . . .   He is the One, self -proceeding ; and from him all things proceed,  And in them he himself exerts his activity ; no mortal  Beholds Him, but he beholds all.   There is one royal body in which all things are enwombed,  Fire and Water, Earth, ^ther, Night and Day,  And Counsel [Metis'], the first producer, and delightful Love, —  For all these are contained in the great body of Zeus.     Zeus, the mighty thunderer, is first ; Zeus is last ;  Zeus is the head, Zeus the middle of all things ;  From Zeus were all things produced. He is male, he is female ;  Zeus is the depth of the earth, the height of the starry heavens ;   238     Appendix. 239   He is the breath of all things, the force of untamed fire ;  The bottom of the sea ; Sun, Moon, and Stars ;  Origin of all ; King of all ;  One Power, one God, one Great Ruler.   HYMN OF CLEANTHES.   Greatest of the gods, God with many names,   God ever-ruling, and ruling all things !  Zeus, origin of Nature, governing the universe by law,  All hail ! For it is right for mortals to address thee ;  For we are thy offspring, and we alone of all <   That live and creep on earth have the power of imitative speech.  Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power.  Thee the wide heaven, which surrounds the earth, obeys :  Following where thou wilt, willingly obeying thy law.  Thou boldest at thy sei'vice, in thy mighty hands,  The two-edged, flaming, immortal thunderbolt.  Before whose flash all nature trembles.  Thou rulest in the common reason, which goes through all.  And appears mingled in all things, great or small,  Which filling all nature, is king of all existences.  Nor without thee. Oh Deity,* does anything happen in the world.  From the divine ethereal pole to the great ocean,  Except only the evil preferred by the senseless wicked.  But thou also art able to bring to order that which is chaotic.  Giving form to what is formless, and making the discordant   friendly ;  So reducing all variety to imity, and even making good out of evil.  Thus throughout nature is one great law  Which only the wicked seek to disobey.  Poor fools ! who long for happiness.  But will not see nor hear the divine commands.   * Greek, Aaifxov, Demon,     240     Appendix.     [In frenzy blind they stray a\v;iy from good,   By thii'st of glory tempted, or sordid avarice,   Or pleasures sensual and joys that fall.]   But do thou, Oh Zeus, all-bestower, cloud-compeller!   Ruler of thunder ! guard men from sad error.   Father ! dispel the clouds of the soul, and let us follow   The laws of thy great and just reign !   That we may be honored, let us honor thee again,   Chanting thy great deeds, as is proper for mortals,   For nothing can be better for gods or men   Than to adore with hymns the Universal King.*   * Rev. J. Freeman Clarke, whose version is here copied, renders  this phrase "the law common to all." The Greek text reads:  " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q u/ivstv," — the term vojj.oc:, nomos, or  Law, being used for King, as Love is for God. — A. W.      Proserpina Enthroned in Hades.      Nymphs and Centaurs.     GLOSSARY.     AporrJieta, Greek aiioppTjTa — The instructions given by the  hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not to  be disclosed on pain of death. There was said to be a syn-  opsis of them in the i^etroma or two stone tablets, which, it  is said, were bound together in the form of a book.   Apostatise — To fall or descend, as the spiritual part of the soul is  said to descend from its divine home to the world of nature.   Cathartic — Purifying. The term was used by the Platonists and  others in connection with the ceremonies of purification be-  fore initiation, also to the corresponding performance of rites  and duties which renewed the moral life. The cathartic  virtues were the duties and mode of living, which conduced  to that end. The phrase is used but once or twice in this  edition.   Cause — The agent by which things are generated or produced.   Circulation — The peculiar spiral motion or progress by which the  spiritual nature or "intellect" descended from the divine  region of the universe into the world of sense.   Cogitative — Relating to the understanding: dianoetic.   Conjecture, or Opinion — A mental conception that can be changed  by argument.   Core — A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic and  later writers to her daughter Persephone or Proserpina. She  was supposed to typify the spiritual nature which was ab-  241     242 Glossary,   Core — con tinned.   ducted by Hades or Pluto into the Underworld, the figure  signifying the apostasy or descent of the soul from the higher  life to the material body.   CoricaUy — After the manner of Proserpina, i. e., as if descending  into death from the supernal world.   D(emoii — A designation of a certain class of divinities. Different  authors employ the term differently. Hesiod regards them as  the souls of the men who lived in the Golden Age, now act-  ing as guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus,  says " that daemon is a term denoting wisdom, and that every  good man is dsemonian, both while living and when dead, and  is rightly called a daemon." His own attendant spirit that  checked him whenever he endeavored to do what he might  not, was styled his Daemon. lamblichus places Daemons in  the second order of spiritual existence. — Cleanthes, in his  celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov (daimon).   Demiurgiis — The creator. It was the title of the; chief-magistrate  in several Grecian States, and in this work is applied to Zeus  or Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Pla-  tdnists, and more especially the Gnostics, who regarded matter  as constituting or containing the principle of Evil, sometimes  applied this term to the Evil Potency, who, some of them  affirmed, was the Hebrew God.   Distrihuted — 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and scattered. The  spiritual nature or intellect in its higher estate was regarded  as a whole, but in descending to worldly conditions became  divided into parts or perhaps characteristics.   Divisible — Made into parts or attributes, as the mind, intellect, or  spiritual, first a whole, became thus distinguished in its de-  scent. This division was regarded as a fall into a lower plane  of life.   Energise, Greek z^z^^-^zw — Ho operate or work, especially to  undergo discipline of the heart and character.     Glossary. 243   Energy — Operation, activity.   Eternal — Existing through all past time, and still continuing.   Faith — The correct conception of a thing as it seems, — fidelity.   Freedom — The ruling power of one's life ; a power over what per-  tains to one's self in life.   Friendship — Union of sentiment; a communion in doing well.   Fury — The peculiar mania, ardor, or enthusiasm which inspired  and actuated prophets, poets, intei'preters of oracles, and  others ; also a title of the goddesses Demeter and Persephone  as the chastisers of the wicked, — also of the Eumenides.   Generation, Greek Y^^'^t? — Generated existence, the mode of  life peculiar to this world, but which is equivalent to death,  so far as the pure intellect or spiritual nature is concerned ;  the process by which the soul is separated from the higher  form of existence, and brought into the conditions of life  upon the earth. It was regarded as a punishment, and ac-  cording to Mr. Taylor, was prefigured by the abduction of  Proserpina. The soul is supposed to have pre-existed with  God as a pure intellect like him, but not actually identical —  at one but not absolutely the same.   Good — That which is desired on its own account.   Hades — A name of Pluto; the Underworld, the state or region of  departed souls, as understood by classic writers ; the physical  nature, the corporeal existence, the condition of the soul  while in the bodily life.   Herald, Greek y.7]po4 — The crier at the Mysteries.   Hierophant — The interpreter who explained the purport of the  mystic doctrines and dramas to the candidates.   Holiness, Greek ooioty]? — Attention to the honor due to God.   Idea — A principle in all minds underlying our cognitions of the  sensible world.   Imprudent — Without foresight ; deprived of sagacity.   Infernal regions — Hades, the Underworld.   Instruction — A power to cure the soul.     244 Glossary.   Intellect, Greek voo? — Also rendered j)?^re reason, and by Professor  Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the spiritual  nature. " The organ of self-evident, necessary, and universal  truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it takes  hold on truth with absolute certainty. The reason, through  the medium of ideas, holds communion with the world of real  Being. These ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of  unseen realities, as the sun reveals the world of sensible forms.  ' The Idea of the good is the Sun of the Intelligible World ;  it sheds on objects the light of truth, and gives to the soul  that knows the power of knowing.' Under this light the eye  of reason apprehends the eternal world of being as truly, yet  more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of  phenomena. This power the rational soul possesses by virtue  of its having a nature kindred, or even homogeneous with  the Divinity. It was ' generated by the Divine Father,' and  like him, it is in a certain sense ' eternal.' Not that we  are to understand Plato as teaching that the rational soul had  an independent and underived existence ; it was created or  'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,  is not amenable to the condition of time and space, but, in a  peculiar sense, dwells in eternity : and therefore is capable of  beholding eternal realities, and coming into communion with  absolute beauty, and goodness, and truth — that is, with God,  the Absolute Being." — Christianity and Greek Philosophy, x.  pp. 349, 350,   Intellective — Intuitive ; perceivable by spiritual insight.   Ititelligihle — Eelating to the higher reason.   Interpreter — The hierophant or sacerdotal teacher who, on the last  day of the Eleusinia, explained the petroma or stone book to  the candidates, and unfolded the final meaning of the repre-  sentations and symbols. In the Phoenician language he was  called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two  tablets of stone, was a pun on the designation, to imply the     Glossary. 245   Interpreter — continued.   wisdom to be uiit'olcled. It has been suggested by the Rev,  Mr. Hyslop, that the Pope derived his claim, as the successor  of Peter, from his succession to the rank and function of  the Hierophant of the Mysteries, and not from the celebrated  Apostle, who probably was never in Rome.   Just — Productive of Justice.   Justice — The harmony or perfect proportional action of all the  powers of the soul, and comprising equity, veracity, fidelity,  usefulness, benevolence, and purity of mind, or holiness.   Judgment — A. peremptory decision covering a disputed matter;  also o'.avoLa, dianoia, or understanding.   Knowledge — A comprehension by the mind of fact not to be over-  thrown or modified by argument. o   Legislative — Regulating.   Lesser Mysteries — The TsXeia:, teletai, or ceremonies of purifica-  tion, which were celebrated at Agrae, prior to full initiation  at Eleusis. Those initiated on this occasion were styled  fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail ; and their initiation  was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as expressive of being  vailed from the former life.   Magic — Persian mag, Sanscrit maha, great. Relating to the order  of the Magi of Persia and Assyria.   Material do'mons — Spirits of a nature so gross as to be able to  assume visible bodies like individuals still living on the Earth.   Matter — The elements of the world, and especially of the human  body, in which the idea of evil is contained and the soul  incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle.   Muesis, Greek iinrioiq, from ixotn, to vail — The last act in the  Lesser Mysteries, or rsXtza:, teletai, denoting the separating of  the initiate from the former exotic life.   Mysteries — Sacred dramas performed at stated periods. The  most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and  Eleusis.     246 Glossary.   Mystic — Relating to the Mysteries: a person initiated in the  Lesser Mysteries — Greek jj.u3Totu   Occult — Arcane; hidden; pertaining to the mystical sense.   Orgies, Greek opY-'^' — The peculiar rites of the Bacchic Mysteries.   Opinion — A hypothesis or conjecture.   Partial — Divided, in parts, and not a whole.   Philologist — One pursuing literature.   Philosopher — One skilled in philosophy; one disciplined in a right  life.   Philosophise — To investigate final causes; to undergo discipline  of the life.   Philosophy — The aspiration of the soul after wisdom and truth,  " Plato asserted philosophy to be the science of unconditioned  being, and asserted that this was known to the soul by its  intuitive reason (intellect or spiritual instinct) which is the  organ of all philosophic insight. The reason perceives sub-  stance ; the understanding, only phenomena. Being (xo ov),  which is the reality in all actuality, is in the ideas or thoughts  of God; and nothing exists (or appears outwardly), except  by the force of this indwelling idea. The word is the true  expression of the nature of every object : for each has its divine  and natural name, besides its accidental human appellation.  Philosophy is the recollection of what the soul has seen of  things and their names." (J. Freeman Clarke.)   Plotinus — A philosopher who lived in the Third Century, and re-  vived the doctrines of Plato.   Prudent — Having foresight.   Purgation, purification — The introduction into the Teletce or Lesser  Mysteries ; a separation of the external principles from the soul.   Punishment — The curing of the soul of its errors.   Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, — One possessing the prophetic mania, or  inspiration.   Priest — Greek \xrjyz'.c, — A prophet or inspired person, ispjuc — a  sacerdotal person.     Glossary.     247     Revolt — A rolling away, the career of the soul in its descent from  the pristine divine condition.   Science — The knowledge of universal, necessary, unchangeable,  and eternal ideas.   Shows — The peculiar dramatic representations of the Mysteries.   Telete, Greek tjXext] — The finishing or consummation ; the Lesser  Mysteries.   Theologist — A teacher of the literatiu-e relating to the gods.   Theoretical — Perceptive.   Torch bearer — A priest who bore a torch at the Mysteries.   Titans — The beings who made war against Kronos or Saturn. E.  Poeoeke identifies them with the Daittjas of India, who resisted  the Brahmans. In the Orphic legend, they are described as  slaying the child Bacchus-Zagreus.   Titanic — Eelating to the nature of Titans.   Transmigration — The passage of the soul from one condition of  being to another. This has not any necessary reference to  any rehabilitation in a corporeal nature, or body of flesh and  blood. See I Corinthians, XV.   Virtue — A good mental condition; a stable disposition.   Virtues — Agencies, rites, inflluences. Cathartic Virtues — Purify-  ing rites or influences.   Wisdom — The knowledge of things as they exist ; " the approach  to God as the substance of goodness in truth."   World — The cosmos, the universe, as distinguished from the earth  and human existence upon it.      /■ ('§     Eleusinian Priest and Assistants.      Fortune and the Three Fates.     LIST OF ILLUSTRATIONS.     Drawm from the antique. A. L. RAWSON.     A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume properly  includes the two or three theories of human life held by the  ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Pro-  serpina, the most charming of all mythological fancies, and  the Orgies of Bacchus, which together supplied the motives  to the artists of the originals from which these drawings  were made.   From them* we learn that it was believed»that the soul is a  part of, or a spark from, the Great Soul of the Kosmos, the Cen-  tral Sun of the intellectual universe, and therefore immortal ;  has lived before, and will continue to hve after this '' body  prison " is dissolved ; that the river Styx is between us and  the unseen world, and hence we have no recollection of any  former state of existence ; and that the body is Hades, in  which the soul is made to suffer for past misdeeds done in the  unseen world.   Poets and philosophers, tragedians and comedians, embel-  lished the myth with a thousand fine fancies which were   248     List of Illustrations. 249   woven into the ritual of Eleusis, or were presented in the  theaters during the Bacchic festivals.   The pictures include, beside the costumes of priests, jiriest-  esses, and their attendants, and of the fauns and satjrrs, many  of the sacred vessels and implements used in celebrating the  Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which were  drawn by the ancient artists from the objects represented,  and their work has been carefully followed here.   Page.   1. Frontispiece. Sacrifice to Ceres.   — Denhndler, sculptur.  The goddess stands near a serpent-guarded altar, on which a  sheaf of grain is aflame. Worshipers attend, and Jupiter  approves. (See page 17.)   2. Decoratinq a Statue of Bacchus 4   — Bom. Campana.  The priest wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural  vine with grape clusters, and there are fruit and wine bearers.   3. Bacchantes with Thyrsus and Flute 4   Two fragments. —Bom. Camp.   4. Symbolical Ceremony. — Bom. Camp 4   Torch and thyrsus bearers and faun. See cut No. 40, and page  208 for reference to pine nut.   5. Bacchus and Nymphs 5   6. Pluto, Proserpina, and Furies 5   — Galerie des Peintres.  The Furies were said to be children of Pluto and Proserpina ;  other accounts say of Nox and Acheron, and Acheron was a son  of Ceres Avithout a father. (See page 65.)   7. Priestess with Amphora and Sacred Cake 6   8. Priestess with Musical Instruments 6   9. Faun Kissing Bacchante. — Bourbon Mus 6   10. Faun and Bacchus. — Bourbon Mus 6     250 List of Ilhistrations.   Page.   11. Etruscan Y A^Y^.—MilUngen 7   See drawings on page lOG.   12. Mercury Presenting a Soul to Pluto 8   — Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. I, 8.   13. Mystic Rites. — Arhniranda, tav. 17 8   14. Eleusinian Ceremony. — Oes^. Benk. Alt. Kimst, II., 8 8   15. Bacchic Festival.— JSarto?*, Admiranda, 43 9   Probably a stage scene. The cliaracters are the king, who was  an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician, wine and  fruit bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy re-  moves the king's sandal. (See page 35.)   16. Apollo and the Muses. — Florentine Museum 10   The muses were the daughters of Jupiter and Mnemosyne ;  that is, of the god of the present instant, and of memory.  Their office was, in part, to give information to any inquiring  soul, and to preside over the various arts and sciences. They  were called by various names derived from the places where  they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides,  HeUconiades, Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was  called Musagetes, as their leader and conductor. The palm  tree, laurel, fountains on Helicon, Parnassus, Pindus, and  other sacred mountains, were sacred to the muses.   17. Prometheus Forms a Woman 11   — Visconti, Mus. Fio. Clem., IV., 34.  Mercury, the messenger of the gods, brings a soul from  Jupiter for the body made by Prometheus, and the three Fates  attend. The Athenians built an altar for the worship of Pro-  metheus in the grove of the Academy.   18. Procession of Iacchus and Phallus 16   — Montfaucon.  From Athens to Eleusis, on the sixth day of the Eleusinia.  The statue is made to play its part in a mystic ceremony, typi-  fying the union of the sexes in generation. Attendant priest-  esses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of fruit,  vases of wine, with clematis, and musical and sacrificial instni-  ments. None but women and children were permitted to take  part in this ceremony. The wooden emblem of fecundity was  an object of supreme veneration, and the ceremony of placing  and hooding it. was assigned to the most highly respected  woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and Plutarch     List of Illustrations. 251   Pagk.   say the phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the  top of long poles, and their bodies were stained with wine lees,  and partly covered with a lamb-skin, their heads crowned with  a wreath of ivy. (See page 14.)   19, 20, 21. From Etruscan Vases — Florentine Museum. 22   Human sacrifice may be indicated in the lower group.   22. Venus and Proserpina in Hades 28   — Galerie des Peintres.  The myth relates that Venus gave Proserpina a pomegranate  to eat in Hades, and so made her subject to the law which re-  quired her to remain four months of each year with Pluto in  the Underworld, for Venus is the goddess who presides over  birth and growth in all cases. Cerberus (see page 65) keeps  guard, and one of the heads holds her garment, signifying that  his master is entitled to one-third of her time.   23. Rape of Proserpina. Carried Down to Hades   (Invisibility) — Flor. Mus 29   See note, p. 152.   24. Pallas, Venus, and Diana Consulting 30   — Gal. des Peint.  Jupiter ordered these divinities to excite desire in the heart of  Proserpina as a means of leading her into the power of the  richest of all monarchs, the one who most abounds in treasures.  (See page 140.)   25. Dionysus as God op the Sun 31   — Pit. Ant. Ercolmio.  Dionysus — Bacchus — symbolizes the sun as god of the sea-  sons ; rides on a panther, pours wine into a drinking-horn held  by a satyr, who also carries a wine skin bottle. The winged genii  of the seasons attend. Winter carries two geese and a cornu-  copia ; Spring holds in one hand the mystical cist, and in the  other the mystic zone ; Summer bears a sickle and a sheaf  of grain ; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full of  fruits. Fauns, satyrs, boy-fauns, the usual attendants of  Bacchus, play with goats and panthers between the legs of the  larger figures.   26. Herse and Mercury 42   — Pit. Ant. Ercolano.  A fabled love match between the god and a daughter of Cecrops,  the Egyptian who founded Athens, supplied the ritual for  the festivals Hersephoria, in which young girls of seven  to eleven years, from the most noted families, dressed in     252 List of Illustrations.   Page.   white, carried the sacred vessels and implements used in the  Mysteries in procession. Cakes of a peculiar form were made  for the occasion.   27. Narcissus Sees His Image in Water 42   — P. Ovid. Naso.  The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to be  very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of  the fountain where he saw his face reflected, and failing, he  drowned himself in chagrin. The gods, unwilling to lose so  much beauty, changed him into the flower now known by his  name. (See page 150.)   28. Jupiter as Diana, and Calisto. — P. Ovid. Naso . . 62   The supreme deity of the ancients, beside numerous marriages,  was credited with many amours with both divinities and mor-  tals. In some of those adventures he succeeded by using a  disguise, as here in the form of the Queen of the Starry  Heavens, when he surprised Calisto (Helice), a daughter of  Lycaon, king of Arcadia, an attendant on Diana. The com-  panions of that goddess were pledged to celibacy. Jupiter, in  the form of a swan, surprised Leda, who became mother of the  Dioscuri (twins).   29. Diana and Calisto. — Ovid. Naso, Neder 62   The fable says that when Diana and her nymphs were bathing   the swelling form of Calisto attracted attention. It was re-  ported to the goddess, when she punished the maid by chang-  ing her into the form of a bear. She would have been torn in  pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and trans-  lated her to the heavens, where she forms the constellation  The Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and requested  Thetis to refuse the Great Bear permission to descend at night  beneath the waves of ocean, and she, being also jealous of  Poseidon, complied, and therefore the dipper does not dip,  but revolves close around the pole star.   30. Bacchantes and Fauns Dancing 74   A stage ballet. — Bom. Campana, 37.   31. Hercules, Bull, and Priestess. — Bom. Camp 74   Bacchic orgies.   32. Fruit and Thyrsus Bearers. — Boiir. Mm 84   33. Torch-Bearer as Apollo. — Bourbon Mits 84   34. Eleusinian Mysteries. — Florence 3Ius 94     List of Illustrations. 253     r>- T-, Page,   60. Etruscan Mystic Ceremony.— i?oH«. Camp 94   36. Etruscan Altar Group.— JPtor. Mus 106   The mystic cist with serpent coiled around, the sacred oaks,  baskets, drinking-horns, zones, f estoou of branches and flowers,  make very pretty and impressive accessories to two handsome  priestesses.   37. Etruscan Bacchantes.— JfiZZm^en 106   These two groups were drawn from a vase (page 7) which is  a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols,  accessories, and all the details of implements used in the cele-  bration of the Mysteries are very carefully drawn on the vase,  which is well preserved. This vase is a strong proof of the  antiquity of the orgies, for the Etruscans, Tyrrheni, and  Tusci were ancient before the Romans began to build on the  Tiber.   38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m 106   39. Satyr, Cupid and Venus.— ilfo>i?/a«cow; SculpUre . 110   Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real animal,  but science has dissipated that belief, and the monster has  been classed among the artificial attractions of the theater  where it belongs, and where it did a large share of duty in the  Mysteries. They were invented by the poets as an impersona-  tion of the life that animates the branches of trees when the  wind sweeps through them, meaning, whistling, or shrieking  in the gale. They were said to be the chief attendants on  Bacchus, and to delight in revel and wine.   40. Cupids, Satyr, and Statue of ^niwvs^.—Montfaucon 110   The many suggestive emblems in this picture form an instruc-  tive group, symbolic of Nature's life-renewing power. The  ancients adored this power under the emblems of the organs  of generation. Many passages in the Bible denounce that wor-  ship, which is called " the grove," and usually was an iipright  stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome,  where it became a statue to the waist, as seen in the engrav-  ing. The Palladium at Athens was a Greek form. The  Druzes of Mount Lebanon in Syria now dispense with em-  blems of wood and stone, and use the natural objects in their  mystic rites and ceremonies.   41. Apollo and Daphne,— Galerie des Peint 118   The rising sun shines on the dew-drops, and warming them as  they hang on the leaves of the laurel tree, they disappear,     254 List of lUiisfrations.   Page.   leaving the tree ; and it is said by the poet that Apollo loves and  seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies and is  transformed into a laurel tree at the instant she is embraced by  the sun-god.   42. Diana and Endymion. — Bourbon 3Ius 118   Diana as the queen of the night loves Endymion, the setting  sun. The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as ever  prevents them from enjoying each other's society. The fair  huntress sometimes is permitted, as when she is the new moon,  or in the first quarter, to approach near the place where her  beloved one lingers near the Hesperian gardens, and to follow  him even to the Pillars of Hercules, but never to embrace him.  The new moon, as soon as visible, sets near but not with the sun.  Endymion reluctantly sinks behind the western horizon, and  would linger until the loved one can be folded in his arms,  but his duty calls and he must turn his steps toward the  Elysian Fields to cheer the noble and good souls who await  his presence, ever cheerful and benign. Diana follows closely  after and is welcomed by the brave and beautiful inhabitants  of the Peaceful Islands, but while receiving their homage her  lover hastens on toward the eastern gates, where the golden  fleece makes the morning sky resplendent.   43. Ceres and the Car op Treptolemus 127   P. Ovid. Naso, Neder.  Triptolemus (the word means three plowings) was the founder  of the Eleusinian Mysteries, and was presented by Ceres with  her car drawn by winged dragons, in which he distributed seed  grain all over the world.   44. Pluto Marries Proserpina 127   — P. Ovid. Naso, Neder.  Jupiter is said to have consented to request of Pluto that Proser-  pina might revisit her mother's dwelling, and the picture repre-  sents him as very earnest in his appeal to his brother. Since  then the seed of grain has remained in the ground no longer  than four months ; the other eight it is above, in the regions of  light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.  This seems conclusive that it was a representation of a dra-  matic scene. (See pp. 159, 186.)   45. Proserpina, according to the Greeks. — Heck... 138   46. Bacchus after the Visit to India. — Heck 138   47. A Roman Figure of Geres.— Heck 138     List of Illustrations. 255   Page.   48. Demeter, from Etruscan Vase.— IfecZ; 138   49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the   Needlework of Proserpina.— Galerie des Peini . 142   50. Proserpina Exposed to Pluto 152   — Ovid. Naso, Neder.  There may have been a mild sarcasm in this artist's mind when  he drew the maid as dallying with Cupid, and the richest mon-  arch in all the earth in the distance, hastening toward her. He  succeeded, as is shown in the next engraving.   51. Pluto Carrying Off Proserpina 152   — P. Ovid. Naso, Neder.  Eternal change is the universal law. Proserpina must go down  into the Underworld that she may rise again into light and life.  The seed must be planted under or into the soil that it may  have a new birth and growth.   52. Proserpina in Pluto's Court. — Montfaucon 156   As a personation she was the "Apparent Brilliance" of all  fruits and flowers.   53. Ceres in Hades. — Montfaucon 162   54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars. — Montfaucon .... 168   55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum 168   56. A Group of Deities. — Heck 168   Pan and Dionysus, Hygeia, Hermes, Dionysus and Faunus,  and Silenus.   57. Night with Her Starry Canopy. — Heck 168   58. The Three Graces. — Heck 168   59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174   — Galerie des Peint.   60. Prize Dance between a Satyr and a Goat 174   — Anticld.   61. Baubo and Ceres at Eleusis. — Galerie des Peint. 174  See page 232.     256 List of Illustrations.   Page.   62. Psyche Asleep in Hades 186   — From the ruins of the Bath of Titus, Rome.  See page 45.   63. Nymphs of the Four Rivers in Hades 187   — Tomb of the Nasons.  "It was easy for poets and mythographers, when they had  once started the idea of a gloomy land watered with the rivers  of woe, to place Styx, the stream which mates men shudder, as  the boundary which separates it from the world of Uving men,  and to lead through it the channels of Lethe, in which all  things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with  shrieks of pain, and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire."  Acheron, in the early myths, was the only river of Hades.   64. Etruscan Vase Group. — MilUngen 198   65. Dancers, ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198   66. Greek Convivial Scene. — Millin, 1 ^9^ 38 198   67. Faun and Bacchante. — Bour. Mus 206   68. Thyrsus-Bearer. — Bourbon Museum 206   69. Bacchante and Faun.— 5o«r. Mus 206   These three verj' graceful pictures were drawn from paintings  on walls in Herculaneum.   70. KiN<T, Torch, Fruit, and Thyrsus Bearer 212   71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«, Bassirilievi, 70 212   Here is an actual ceremony in which many actors took parts ;  with an altar, flames, a torch, tripod, the kerux (crier), bac-  chantes, fauns, and other attendants on the celebration of the  Mystei'ies, including tlie role of an angel with wings.   72. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220   — Montfaucon.  See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at the  Bacchic theaters, those dramas must have been very popular,  and justly so. To those theaters, which were supported by the  government in Athens and in many other cities througliout  Greece, we owe the immortal works of ^schylus and Soph-  ocles.     List of Illustrations. 257   Page.   73, Musical Conference (Epithalamium) 228   S. Bartoli, Admiranda, pi. 62,  Written music was evidently used, for one of the company is  writing as if correcting the score, and writing with the left  hand.   74. Venus Rising from the QEA.—Ovid. Naso, Verburg. 229   This goddess was called Venus Anadyomene, for the poets said  she rose from the sea — the morning sunlight on the foam of  the sea on the shore of the island Cythera, or Cyprus, or  wherever the poet may choose as the favored place for the  manifestation of the generative power of nature, and wherever  flowers show her footprints. The loves bear aloft her magic  girdle, which Juno borrowed as a means of winning back  Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to  her. Her worship was the motive for building temples in Cy-  thera and in Cyprus at Amathus, Idalium. Golgoi, and in many  other places. (See engravings 22, 39, and 49, and page 230.)   75, Jupiter Disguised as Diana, and Calisto 234   — Ovid. Naso, Neder.  The gods were said to have the power, and to practice as-  suming the form of any other of their train, or of any animal.  In these disguises they are supposed to play tricks on each  other as here. Diana is the queen of the night sky, Calisto is  one of her attendants, and many white clouds float over the  blue ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs).   76. Hercules, Deianeira, and Nessus 234   — Ovid. Naso, Neder.  The sun nears the end of the day's journey; he is aged and  weary ; dark clouds obscure his face and obstruct his way, but  stUl Hercules loves beautiful things, and Deianeira, the  fair daughter of the king of ^tolia, retires with him into exile.  At a ford the hero entrusts his bride to Nessiis the Centaur, to  carry across the river. The ferryman made love to the lady,  and Hercules resented the indiscretion, and wounded him by  an arrow. Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood as a  love charm in case her husband should love another woman.  Hercules did love another, named lole, and Deianeira dipped  his shirt in the blood of Nessus — the crimson' and scarlet  clouds of a splendid sunset are made glorious by the blood of  Nessus, and Hercules is burnt on the funeral pyre of scarlet  and crimson sunset clouds.     258 List of Illustrations.   Page.   77. The Sacrifice. — Herculaneum, IV., 13 237   78. Hercules Drunk. — Zoegciy BassirilievU tav. 67 238   79. Proserpina Enthroned in Hades- — Archdol. Zeit. 240   The principle of growth rules the Underworld.   80. Bacchante and Centaur. — Bourbon Mus . . . . ■ . 241   81. Bacchante and Cbntauress.^ — Bourbon Mus 241   82. Eleusinian Priest and Assistants 247   83. The Fates. — Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248   84. Supper Scene 258   85. Bacchic Bull. — Antichi Ou cover.      Suppei- Scene.       Date Due      5" : - q    .        MY is'iS          MM^>«4^9^fiC    1        ... :^^m          NCWMf          JliPf'U "'■          ,11^    !«>            •s--.*^-.^.;;^    '■                JUL 1 ? i^    /                                                                        (|)           BL795 E5T24   The Eleusinian and Bacchic mysteries.     Princeton Theological Semmary-Speer Library      1 1012 00009 5325 PHALLIC WORSHIP      PHALLIC WORSHIP    A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES   OF THE   SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS   WITH THE HISTORY OF   THE MASCULINE CROSS    AN ACCOUNT OF   PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM,  BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND  THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS    LONDON   PRIVATELY PRINTED   1880   NAWAL S>a:..'.. ■ JCWO UAHAUUH.      PREFACE    The present somewhat slight sketch of a most interesting  subject , whilst not claiming entire originality , yet embraces  the cream y so to speak , of various learned works of great costy  some of which being issued for private circulation onlyy are almost  unobtainable.   During the past few years several books have been written  upon Phallicism in conjunction with other kindred matters f  but not devoting themselves entirely to one ancient mystery y  the writers have only partially ventilated the subject. The  present work seeks to obviate this failing by confining its  attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the  ancient world.   Many of the topics have received only slight treatmenty  being little more than indicated ; but the work will enable the  reader to understand and possess the truth concerning the  Phallic Worship of the Ancients .   Those who desire to know more, or to authenticate the  statements and facts given in this book , should consult the large  and important works of Payne Knight , Higgins , Dulaure,  Rolky Inman , and other writers .   It was intended to give with this volume a list of works  and miscellaneous pieces written on the subject , but the length  of the list prevented its being added.      PHALLIC WORSHIP   NATURE AND SEX WORSHIP   Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient  times, sometimes contemporaneous and often mixed with  Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature  were sexualised and endowed with the same feelings,  passions, and performing the same functions as human  beings.   Among the ancients, whether the Sun, the Serpent,  or the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the  same — the veneration of the generative principle. Thus  we find a close relationship between the various  mythologies of the ancient nations, and by a comparison  of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring  from the same source, namely, the worship of the forces  and operations of nature, the original of which was doubt-  less Sun worship. It is not necessary to prove that in  primitive times the Sun must have been worshipped  under various names, and venerated as the Creator,  Light, Source of Life, and the Giver of Food.   In the earliest times the worship of the generative  power was of the most simple and pure character, rude  in manner, primitive in form, pure in idea, the homage  of man to the supreme power, the Author of life.   Afterwards the worship became more depraved, a  religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priest-     8    Phallic Worship    hood who were not slow to take advantage of this state  of affairs, and inculcated with it profligate and mysterious  ceremonies, union of gods with women, religious prosti-  tution and other degrading rites. Thus it was not long  before the emblems lost their pure and simple meaning  and became licentious statues and debased objects.   Hence we have the depraved ceremonies at the worship  of Bacchus, who became, not only the representative  of the creative power, but the God of pleasure and  licentiousness.   The corrupted religion always found eager votaries,  willing to be captives to a pleasant bondage by the  impulse of physical bliss, as was the case in India and  Egypt, and among the Phoenicians, Babylonians, Jews  and other nations.   Sex worship once personified became the supreme and  governing deity, enthroned as the ruling God over all ;  dissent therefrom was impious and punished. The priests  of the worship compelled obedience ; monarchs complied  to the prevailing faith and became willing devotees to the  shrines of Isis and Venus on the one hand, and of Bacchus  and Priapus on the other, by appealing to the most  animating passion of nature.    PHALLICISM   This is the worship of the reproductive powers, the  sexual appointments revered as the emblems of the  Creator. The one male, the active creative power ;  the other the female or passive power ; ideas which were  represented by various emblems in different countries.     Phallic Worship    9    These emblems were of a pure and sacred character,  and used at a time when the prophets and priests spoke  plain speech, understood by a rude and primitive people ;  although doubtless by the common people the emblems  were worshipped themselves, even as at the present day  in Roman Catholic countries the more ignorant, in many  cases, actually worship the images and pictures themselves,  while to the higher and more intelligent minds they are  only symbols of a hidden object of worship. In the  same manner, the concealed meaning or hidden truth  was to the ignorant and rude people of early times entirely  unknown, while the priests and the more learned kept  studiously concealed the meaning of the ceremonies and  symbols. Thus, the primitive idea became mixed with  profligate, debased ceremonies, and lascivious rites,  which in time caused the more pure part of the worship  to be forgotten. But Phallicism is not to be judged  from these sacred orgies, any more than Christianity  from the religious excitement and wild excesses of a few  Christian sects during the Middle Ages.   In a work on the “ Worship of the Generative Powers  during the Middle Ages,” the writer traces the superstition  westward, and gives an account of its prevalence through-  out Southern and Western Europe during that period.   The worship was very prevalent in Italy, and was  invariably carried by the Romans into the countries they  conquered, where they introduced their own institutions  and forms of worship. Accordingly, in Britain have  been found numerous relics and remains ; and many  of our ancient customs are traced to a Phallic origin.  “ When we cross over to Britain,” says the writer, “ we  find this worship established no less firmly and extensively  in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes.     io Phallic Worship   pottery covered with obscene pictures, are found wherever  there are any extensive remains of Roman occupation,  as our antiquaries know well. The numerous Phallic  figures in bronze found in England are perfectly identical  in character with those that occur in France and Italy.”   All antiquaries of any experience know the great number  of obscene subjects which are met with among the fine  red pottery which is termed Samian ware, found so  abundantly in all Roman sites in our island. “ They  represent erotic scenes, in every sense of the word, with  figures of Priapus and Phallic emblems.”    PHALLUS   The Phallus, or Lingam, which stood for the image  of the male organ, or emblem of creation, has been  worshipped from time immemorial. Payne Knight  describes it as of the greatest antiquity, and as having  prevailed in Egypt and all over Asia.   The women of the former country carried in their re-  ligious processions, a movable Phallus of disproportionate  magnitude, which Deodorus Siculus informs us signified  the generative attribute. It has also been observed  among the idols of the native Americans and ancient  Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus  alone, and changed the personified attribute into a distinct  deity, called Priapus.   Phallus, or privy member ( membrum virile ), signifies,  “ he breaks through, or passes into.” This word survives  in German pfabl, and pole in English. Phallus is supposed     Phallic Worship    ii    to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or  phallo , “ to brandish preparatory to throwing a missile,”  is so near in assonance and meaning to Phallus, that one  is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit  it can be traced to phal> “ to burst,” “ to produce,” “ to  be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and  is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu  deities. Phallus, then, was the ancient emblem of  creation : a divinity who was companion to Bacchus.   The Indian designation of this idol was Lingam, and  those who dedicated themselves to its service were to  observe inviolable chastity. “ If it were discovered,”  says Crawford, “ that they had in any way departed from  them, the punishment is death. They go naked, and  being considered as sanctified persons, the women  approach without scruple, nor is it thought that their  modesty should be offended by it.”    SYMBOLS OR EMBLEMS   The Phallus and its emblems were representative of the  gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and  Asher, who were all Phallic deities. The symbols were  used as signs of the great creative energy or operating  power of God from no sense of mere animal appetite,  but in the highest reverence. Payne Knight, describing  the emblems, says : —   “ Forms and ceremonials of a religion are not always  to be understood in their direct and obvious sense, but     12    Phallic Worship    arc to be considered as symbolical representations of some  hidden meaning extremely wise and just, though the  symbols themselves, to those who know not their true  signification, may appear in the highest degree absurd  and extravagant. It has often happened that avarice  and superstition have continued these symbolical repre-  sentations for ages after their original meaning has  been lost and forgotten; they must, of course, appear  nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.  Such is the case with the rite now under consideration,  than which nothing can be more monstrous and indecent,  if considered in its plain and obvious meaning, or as part  of the Christian worship ; but which will be found to be  a very natural symbol of a very natural and philosophical  system of religion, if considered according to its original  use and intention.”   The natural emblems were those which from their  character were most suitable representatives ; such as  poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu,  Egyptian, and Jewish divinities.   Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to  be found at Narmada and other places, which is sacred  to the Hindu deity Siva ; these emblem stones were  anointed, like the stone consecrated by the Patriarch  Jacob.   Blavalsky further says that these stones are “ identical  in shape, meaning, and purpose with the ‘ pillars ’ set up  by the several patriarchs to mark their adoration of the  Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might  even now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta  without its Hebrew derivation being suspected.”     Phallic Worship    *5    THE POLE   The Pole was an emblem of the Phallus, and with the  serpent upon it, was a representative of its divine wisdom  and symbol of life. The serpent upon the tree is the same  in character, both are representative of the tree of life.  The story of Moses will well illustrate this, when he  erected in the wilderness this effigy, which stood as a  sign of hope and life, as the cross is used by the Catholics  of the present day ; the cross then, as now, being simply  an emblem of the Creator, used as a token of resurrection  or regeneration. iEsculapius, as the restorer of health,  has a rod or Phallus with a serpent entwined.   The Rev. M. Morris has shown that the raising of the  May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom of  India or Egypt, and is typical of the fructifying powers  of spring.   The May festival was carried on with great licentious-  ness by the Romans, and was celebrated by nearly all  peoples as the month consecrated to Love. The May-day  in England was the scene of riotous enjoyment, very  nearly approaching to the Roman Floralia. No wonder  the Puritans looked upon the May-pole as a relic of  Paganism, and in their writings may be gleaned much  of the licentious character of the festival.   Philip Stubbes, a Puritan writer in the reign of Elizabeth,  thus describes a May-day in England : “ Every parishe,  towne, and village assemble themselves together, bothe  men, women, and children, olde and younge even indiffer-  ently ; and either goyng all together, or devidyng  themselves into companies, they go some to the woods  and groves, some to one place, some to another, where  thei spend all the night in pleasant pastymes ; and in the     14 Phallic Worship   mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes  and branches of trees, to deck their assemblies withall.  . . . But their cheerest jewell thei bryng from thence  is their Maie pole, whiche thei bryng home with great  veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke  of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers  placed on the tippe of his homes, and these oxen drawe  home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which  is covered all over with flowers and hearbes, bound  rounde aboute with strynges from the top to the bottome,  and sometyme painted with variable colours, with two  or three hundred men, women, and children, folio wyng  it with great devotion. And thus beyng reared up, with  handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei  strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute  it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by  it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and  daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication  of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather  the thyng itself.”   The ceremony was almost identical with the Roman  festival, where the Phallus was introduced with garlands.  Both were attended with the same licentiousness, for  Stubbes gives a further account of the depravity attending  the festivities.    PILLARS   Another type of emblem was the stone pillar, remains of  which still exist in the British Isles. These pillars or so  called crosses generally consist of a shaft of granite with     Phallic Worship    iJ    a carved head. In the West of England crosses are very  common, standing in the market and receiving the name  of “ The Cross.”   These stone pillars were first erected in honour of the  Phallic deity, and on the introduction of Christianity  were not destroyed, but consecrated to the new faith,  doubtless to honour the prejudices of the people. These  monolisks abound in the Highlands, they are stones set  up on end, some twenty-four or thirty feet high, others  higher or lower and this sometimes where no such stones  are to be quarried.   We learn that the Bacchus of the Thebans was a pillar.  The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,  consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an  account of this practice, as also does Theophrastus, who  speaks of it as a custom for a superstitious man, when  he passed by these anointed stones in the streets to take  out a phial of oil and pour it upon them and having  fallen on his knees to make his adorations, and so depart.   In various parts of the Bible the Pillar is referred to as  of a sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “ In that  day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the  land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah,  and it should be for a sign and a witness to the Lord.”   The Orphic Temples were doubtless emblems of the  same principle of the mystic faiths of the ancients, the  same as the Round Towers of Ireland, a history of which  was collected by O’Brien, who describes the Towers as  “ Temples constructed by the early Indian colonists  of the country in honour of the Fructifying principle of  nature, emanating as was supposed from the Sun, or the  deity of desire instrumental in that principle of universal  generativeness diffused throughout all nature.”     16 Phallic Worship   According to the same author these towers were very  ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have  been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,” says  O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower  of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the  priest who attended them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superin-  tendent of Baal tower.” This Baal was worshipped  wherever the Phoenicians went, and was represented by  a pillar or stone or similar objects. The stone that  Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,  became afterwards an object of worship to the Phoenicians.   The earliest navigators of the world were the Phoenicians,  they founded colonies and extended their commerce  first to the isles of the Mediterranean, from thence to  Spain, and then to the British Isles. Historians have  accorded to them the settlements of the most remote  localities. They formed settlements in Cyprus, and  Atticum, according to Josephus, was the principal settle-  ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony  is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed  themselves of the best part of Spain.   Where the Phoenicians settled, there they introduced  their religion, and it is in these countries we find the  remains of ancient stone and pillar worship.    LOGGIN STONES, ETC.   Loggin stones are by Payne Knight considered as  Phallic emblems. “ Their remains,” he says, “ are still  extant, and appear to have been composed of a crone set  into the ground, and another placed upon the point of     Phallic Worship    *7    it and so nicely balanced that the wind could move it,  though so ponderous that no human force, unaided by  machinery, can displace it; whence they are called  * logging rocks * and * pendre stones/ as they were  anciently * living stones * and 4 stones of God/ titles  which differ very little in meaning from that on the  Tyrian coins. Damascius saw several of them in the  neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,  particularly one which was then moved by the wind ;  and they are equally found in the Western extremities  of Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain,  and in China.”   Bryant mentions it as very usual among the Egyptians  to place with much labour one vast stone upon another  for a religious memorial.   Such immense masses, being moved by causes seeming  so inadequate, must naturally have conveyed the idea of  spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded  them that they were animated by an emanation of the  vital spirit, whence they were consulted as oracles, the  responses of which could always be easily obtained by  interpreting the different oscillatory movements into  nods of approbation or dissent.   Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and  many other places, even in modern times. A physician,  writing to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last winter  (1865-66), and there certainly are numerous figures of  gods and kings, on the walls of the temple at Thebes,  depicted with the male genital erect. The great temple  at Karnak is, in particular, full of such figures, and the  temple of Danclesa likewise, though that is of much later  date, and built merely in imitation of old Egyptian art.  The same inspiring bas-reliefs arc pointed out by Ezek.   B     1 8 Phallic Worship   xxiii. 14. I remember one scene of a king (Rameses II)  returning in triumph with captives, many of whom were  undergoing the process of castration.”   Obelisks were also representative of the same emblem.  Payne Knight mentions several terminating in a cross,  which had exactly the appearance of one of those crosses  erected in churchyards and at cross roads for the adoration  of devout persons, when devotions were more prevalent  than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of  trees, upright stones have all the same signification, and  are means by which the male element was symbolised.    TRIADS   The Triune idea is to be found in the system of almost  every nation. All have their Trinity in Unity, three in  one, which can be distinctly recognised in the cross.  The Triad is the male or triple, the constitution of the  three persons of most sacred Trinity forming the Triune  system. In the analysis of the subject by Rawlinson,  we find the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated  with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of  the Assyrians, represents the Phallus or central organ  or the Linga, the membrum virile . The cognomen Anu  was given to the right testis, while that of Hea designated  the left.   It was only natural that Asshur being deified, his  appendages should be deified also. “ Beltus,” says  Inman, “ was the goddess associated with them, the four  together made up Arba or Arba-il, the four great gods,”  the Trinity in Unity. The idea thus broached receives     Phallic Worship    *9   great confirmation when we examine the particular stress  laid in ancient times respecting the right and left side of  the body in connection with the Triad names given to  offspring mentioned in the scriptures with the titles given  to Anu and Hea. The male or active principle was typified  by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the  females or passive by the principles of “ water,” “ soft-  ness,” and other feminine principles. Thus the goddess  Hea was associated with water, and according to Forlong,  the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes repre-  sented to be the great Hea, without whom there was no  creation or life, and whose godhead embraced also the  female element water.   Rawlinson also gives a similar conclusion, and states  as far as he could determine the third divinity or left side  was named Hea, and he considered this deity to correspond  to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep,  ruler of the abyss, and king of the rivers. As Darwin  and his coadjutors teach, mankind, in common with all  animal life, originally sprung from the sea ; so physiology  teaches that each individual had origin in a pond of water.  The fruit of man is both solid and fluid. It was natural  to imagine that the two male appendages had a distinct  duty, that one formed the infant, the other water in which  it lived, that one generated the male, the other the female  offspring ; and the inference was then drawn that water  must be feminine, the emblem of all possible powers of  creation.   It will be seen that the names and signification of the  gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in  Genesis xxx. 13, we find Asher given as a personality,  which signifies “ to be straight,” “ upright,” “ fortunate,”   “ happy.” Asher was the supreme god of the Assyrians,     20    Phallic Worship    the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male  structure and creative energy. The same idea of the  creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the  Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone  relics.   To a rude and ignorant people, enslaved with such a  religion, it was an easy step from the crude to the more  refined sign, from the offensive to a more pictured and  less obnoxious symbol, from the plain and self-evident  to the mixed, disguised, and mystified, from the unclothed  privy member to the cross.    THE CROSS   The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,  Egypt, Japan, and India ; the triple deities Asshur, Anu,  and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,  Greeks, and Hebrews became the sign or type of the  deities representing the Phallic trinity, and in time became  the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight  that “ The male organs of generation are sometimes found  represented by signs of the same sort, which properly  should be called the symbol of symbols. One of the most  remarkable of these is a cross, in the form of the letter  (T), which thus served as the emblem of creation and  generation before the Church adopted it as a sign of  salvation.”   Another writer says, “ Reverse the position of the  triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure  of the ancient ‘ tau * of the Christians, Greeks, and ancient  Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of     Phallic Worship    21    the cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian,  Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and  Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the  exact prototype and image of the cross, or rather, to state  the fact in order of merit and time, the cross is made in  the exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf,  having three lobes to it, became a symbol of the triad.  As the male genital organs were held in early times  to exemplify the actual male creative power, various  natural objects were seized upon to express the theistic  idea, and at the same time point to those parts of the human  form. Hence, a similitude was recognised in a pillar,  a heap of stones, a tree between two rocks, a club between  two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two  ribbons with the two ends pendant, a thumb and two  fingers, the caduceus. Again, the conspicuous part of  the sacred triad Asshur is symbolised by a single stone  placed upright — the stump of a tree, a block, a tower,  spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while  eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like  represented the remaining two portions, altogether called  Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which seems  designed to perpetuate the triad, since it signifies c my  Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’ ”   We must not omit to mention other Phallic emblems,  such as the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch,  fire, a knobbed stick, the crozier ; and still further per-  sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,  Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,  Asher, and others.   If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur,  Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in  his day not symbolically used, but actually employed;     22    Phallic Worship    for he bluntly says “ whoredom was committed with the  images of men/’ or, as the marginal note has it, images  of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this god-mark  — a cross in the form of the letter T — that Ezekiel was  directed to stamp the foreheads of the men of Judaea  who feared the Lord (Ezek. ix. 4).   That the cross, or crucifix, has a sexual origin we  determine by a similar rule of research to that by which  comparative anatomists determine the place and habits of  an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric  tooth which belongs to an antique religious body physical,  and that essentially human. A study of some of the  earliest forms of faith will lift the veil and explain the  mystery.   India, China, and Egypt have furnished the world with  a genus of religion. Time and culture have divided and  modified it into many species and countless varieties.  However much the imagination was allowed to play upon  it, the animus of that religion was sexuality — worship  of the generative principle of man and nature, male and  female. The cross became the emblem of the male  feature, under the term of the triad — three in one. The  female was the unit ; and, joined to the male triad, con-  stituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes  paid to the male, sometimes to the female, or to the two  in one.   So great was the veneration of the cross among the  ancients that it was carried as a Phallic symbol in the  religious processions of the Egyptians and Persians.  Higgins also describes the cross as used from the earliest  times of Paganism by the Egyptians as a banner, above  which was carried the device of the Egyptian cities.   The cross was also used by the ancient Druids, who held     Phallic Worship    2 3    it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the significa-  tion of eternal life. Schedeus describes it as customary  for the Druids “ to seek studiously for an oak tree, large  and handsome, growing up with two principal arms in  the form of a cross , besides the main stem upright. If  the two horizontal arms are not sufficiently adapted to  the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they  consecrate in this manner : Upon the right branch they  cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’ ;  upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9 ;  upon the left branch * Belenus * ; over this, above the  going off of the arms, they cut the name of the god Thau ;  under all, the same repeated, Thau ”    YONI   There is in Hindostan an emblem of great sanctity,  which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of  a simple pillar in the centre of a figure resembling the  outline of a conical ear-ring. It is expressive of the female  genital organ both in shape and idea. The Greek letter  “ Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a  house.   Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means  (i) the vulva, (2) the womb, (3) the place of birth, (4)  origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur  and Jupiter were the representatives of the male potency,  so Juno and Venus were representatives of the female  attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says :  “ Oriental writers have generally spelled the word,  * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam     24 Phallic Worship   was the vocalised cognomen of the male organ, or deity,  so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight : “ The  female organs of generation were revered as symbols  of the generative powers of nature or of matter, as those  of the male were of the generative powers of God. They  are usually represented emblematically by the shell  Concha Veneris , which was therefore worn by devout  persons of antiquity, as it still continues to be by the  pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On  the worship of Priapus,” p. 28).   If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,  is supplied with types and representative figures of himself,  so the female feature is furnished with substitutes and  typical imagery of herself.   One of these is technically known as the sistrum of  Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the  fenestrum> or opening, are bent so that they cannot be  taken out, and indicate that the door is closed. It signifies  that the mother is still virgo intacta — a truly immaculate  female — if the truth can be strained to so denominate  a mother . The pure virginity of the Celestial Mother  was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted  Virgin Mary now adored was born. We might infer  that Solomon was acquainted with the figure of the  sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my spouse,  a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12).  The sistrum , we are told, was only used in the worship  of Isis, to drive away Typhon (evil).   The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or  plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte,  Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.  The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian  monuments, and yet more frequently on bas-reliefs.     Phallic Worship    *3    Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the  Father, the Trinity ; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam,  Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius,  Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter,  Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden ; the cross,  tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ;  while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,  Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele,  Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of Heaven, the oval,  the trough, the delta, the door, the ark, the ship, the  chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,  and a number of other names. Lucian, who was an  Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the  Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch  with this inscription on them, “ These Phalli I, Bacchus,  dedicate to my step-mother Juno.”   The Papal religion is essentially the feminine, and built  on the ancient Chaldean basis. It clings to the female  element in the person of the Virgin Mary. Naphtali  (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers,  if there be any meaning in a concrete name. Bear in mind,  names and pictures perpetuate the faith of many peoples.  Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A1 or El being  God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is  “the Yoni is my God,” or “I worship the Celestial  Virgin.” The Philistine towns generally had names  strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or  esby means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,”  “ boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the  heat of love,” or “ the fire which impels to union.”  Could not those people exclaim, Our " God is love ” ?  (i John iv. 8).   The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.     26 Phallic Worship   though the language is dressed in the habiliments of seem-  ing decency. The burden of thought of most of it bears  direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman  say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S.  i. 1 3). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “ I  will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs  thereof ” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms  of the male genitals.    HEBREW PHALLICISM   The nations surrounding the Jews practising the  Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not  to be supposed that the Jews escaped their influence.  It is indeed certain that the worship of the Phallics was a  great and important part of the Hebrew worship.   This will be the more plainly seen when we bear in  mind the importance given to circumcision as a covenant  between God and man. Another equally suggestive  custom among the Patriarchs was the act of taking the  oath, or making a sacred promise, which is commented  upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says :  “ Another primitive custom which obtained in the  patriarchal age was, that the one who took the oath put  his hand under the thigh of the adjurer (Gen. xxiv. 2,  and xlvii. 29). This practice evidendy arose from the  fact that the genital member, which is meant by the euphe-  mistic expression thigh , was regarded as the most sacred  part of the body, being the symbol of union in the tenderest  relation of matrimonial life, and the seat whence all issue     Phallic Worship 27   proceeds and the perpetuity so much coveted by the  ancients. Compare Gen. xlvi. 26 ; Exod. i. 5 ; Judges  vii. 30. Hence the creative organ became the symbol  of the Creator , and the object of worship among all  nations of antiquity. It is for this reason that God  claimed it as a sign of the covenant between himself  and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing  therefore could render the oath more solemn in those days  than touching the symbol of creation, the sign of the  covenant, and the source of that issue who may at any  future period avenge the breaking a compact made with  their progenitor.” From this we learn that Abraham,  himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as an  emblem of the Creator. We also learn that the rite of  circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From  Herodotus we are informed that the Syrians learned  circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews.  Says Dr. Inman : “I do not know anything which  illustrates the difference between ancient and modern  times more than the frequency with which circumcision is  spoken of in the sacred books, and the carefulness with  which the subject is avoided now.”   The mutilation of male captives, as practised by Saul  and David, was another custom among the worshippers  of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The practice  was to debase the victims and render them unfit to take  part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be  formed of the esteem in which people in former times  cherished the male or Phallic emblems of creative power  when we note the sway that power exercised over them.  If these organs were lost or disabled, the unfortunate one  was unfitted to meet in the congregation of the Lord,  and disqualified to minister in the holy temples. Excessive     28    Phallic Worship    punishment was inflicted upon the person who had the  temerity to injure the sacred structure. If a woman were  guilty of inflicting injury, her hand was cut off without  pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration  in the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic  emblem, a symbol of the preservation of the germ of  life.   In the historical and prophetic books of the Old  Testament we have repeated evidence that the Hebrew  worship was a mixture of Paganism and Judaism, and  that Jehovah was worshipped in connection with other  deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to  have “ removed the high places, and broken the images,  and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces  the brazen serpent that Moses had made, for unto those  days the children of Israel did burn incense to it.” The  Ashera, or sacred groves here alluded to are named  from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes  as the proper name of the goddess ; while Ashera is the  name of the image of the goddess. Rawlinson, in his  Five Great Monarchies of the Ancient World, describes  Ashera to imply something that stood straight up, and  probably its essential element was the stem of a tree,  an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the  Tree of Life of the Scriptures. This stem, which stood  for the emblem of life, was probably a pillar, or Phallus,  like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove  or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We  read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven  image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older  reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image  or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the  worship of Baal, the Priapus of the Greeks and Romans,     Phallic Worship    *9   was extensively practised by the Jews. Pillars and  groves were reared in his name.   In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected  an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven survived  the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple  of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x.  18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on  the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,  undoubtedly proves that during the monarchial period  of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between  the two kingdoms of Judah and Israel were between  the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the  priesthood at the chief places of worship, concerning the  true patriarch, and each party manufacturing and inserting  legends to give a more ancient and important part to its  own faith.   It is not at all improbable that the conflict was between  the two portions of the Phallic faith, the Lingam and  Yoni parties. The cause of this conflict was the erection  of the consecrated stones or pillars which were put up  by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar  erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according  to Bernstein the word altar can only be used for the erection  of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar  of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the  tomb of Rachel.   A great portion of the facts have been suppressed by  the translators, who have given to the world histories  which have glossed over the ancient rites and practices  of the Jews.   An instance is given by Forlong on the important  word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the  Jews addressed their devotions. He says, “It should     30    Phallic Worship    not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English  readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur  was the real old god of all Arabs , Jews, and Phoenicians,  that this would be clear to Christians were the Jewish  writings translated according to the first ideas of the  people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God/  * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .  Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship  of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations  are addressed to the Rock , instance, Deut. xxxii. 4, 18.  Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial  of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar  as a witness, that he would not pass over it. Connected  with this pillar worship is the ceremony of anointing  by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob  at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental  Memoirs, the “ pouring of oil upon a stone is practised  at this day upon many a shapeless stone throughout  Hindostan.”   Toland gives a similar account of the Druids as practising  the same rite, and describes many of the stones found in  England as having a cavity at the top made to receive the  offering. The worship of Baal like the worship of  Priapus was attended with prostitution, and we find the  Jews having a similar custom to the Babylonians.   Payne Knight gives the following account of it in his  work : “ The women of every rank and condition held  it to be an indispensable duty of religion to prostitute  themselves once in their lives in her temple to any stranger  who came and offered money, which, whether little or  much, was accepted, and applied to a sacred purpose.  Women sat in the temple of Venus awaiting the selection  of the stranger, who had the liberty of choosing whom     Phallic Worship 51   he liked. A woman once seated must remain until she  has been selected by a piece of silver being cast into her  lap, and the rite performed outside the temple.”   Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even  in Palestine, and were a feature of the worship of Baal  Peor. The Hebrew prophets described and denounced  these excesses which had the same characteristics as the  rites of the Babylonian priesthood. The identical  custom is referred to in 1 Sam. ii. 22, where “ the sons of  Eli lay with the women that assembled at the door of the  tabernacle of the congregation.”   Words and history corroborate each other, or are apt  to do so if contemporaneous. Thus kadesh , or kaesb ,  designate in Hebrew “ a consecrated one,” and history  tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will  be shown in the sequel.   That the religion was dominating and imperative is  determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous  refusal to listen to the priest was death to the offender.  To us it is inconceivable that the indulgence of passion  could be associated with religion, but so it was. Much  as it is covered over by altered words and substituted  expressions in the Bible — an example of which see men  for male organ, Ezek. xvi. 17 — it yet stands out offensively  bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse-  crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially  the same. They indicate the passion of amatory devotion.  It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and  Italy of classic times ; and we find that “ holy women ”  is a title given to those who devote their bodies to be used  for hire, the price of which hire goes to the service of the  temple.   As a general rule, we may assume that priests who make     Phallic Worship    3 *   or expound the laws, which they declare to be from God,  are men, and, consequently, through all time, have  thought, and do think, of the gratification of the masculine  half of humanity. The ancient and modern Orientals  are not exceptions. They lay it down as a momentous  fact that virginity is the most precious of all the possessions  of a woman, and, being so, it ought, in some way or  other, to be devoted to God.   Throughout India, and also through the densely  inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a  class of females who dedicate themselves to the service  of the deity whom they adore ; and the rewards accruing  from their prostitution are devoted to the service of the  temple and the priests officiating therein.   The temples of the Hindus in the Dekkan possessed  their establishments. They had bands of consecrated  dancing-girls called the Women of the Ido/, selected in their  infancy by the priests for the beauty of their persons, and  trained up with every elegant accomplishment that could  render them attractive.   We also find David and the daughters of Shiloh per-  forming a wild and enticing dance ; likewise we have the  leaping of the prophets of Baal.   It is again significant that a great proportion of Bible  names relate to “ divine,” sexual, generative, or creative  power ; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the  strong Jas is El”; Amasai, “Jah is firm”; Asher,  <c the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is  Jah ” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, iC El is  upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ; Aram,  " high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my  Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett,  M son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan,     Phallic Worship    33   “ he stands upright ” ; these are only a few of the many  names of a similar signification.   It will be seen, from what has been given, that the Jews,  like the Phoenicians (if they were not the same), had the  same ceremonies, rites, and gods as the surrounding  nations, but enough has been said to show that Phallic  worship was much practised by the Jews. It was very  doubtful whether the Jehovah-worship was not of a  monotheistic character, but those who desire to have a  further insight into the mysteries of the wars between the  tribes should consult Bernstein’s valuable work.    EARTH MOTHER   The following interesting chapter is taken from a  valuable book issued a few years ago anonymously :   “ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of  the most general type. Religious genius gave the female  quality to the earth with a special meaning. When once  the idea obtained that our world was feminine , it was  easy to induce the faithful to believe that natural chasms  were typical of that part which characterises woman.  As at birth the new being emerges from the mother,  so it was supposed that emergence from a terrestrial  cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion  to the resemblance between the sign and the thing signified  was the sacredness of the chink, and the amount of virtue  which was imparted by passing through it. From natural  caverns being considered holy, the veneration for apertures  in stones, as being equally symbolical, was a natural   c     34    Phallic Worship    transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen  in those structures which are called Druidical, both in  the British Isles and in India. It is impossible to say  when these first arose ; it is certain that they survive in  India to this day. We recognise the existence of the  emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to  look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We  have also an indication that chasms were symbolical  among the same people in Isaiah lvii. 5 , where the wicked  among the Jews were described as “ inflaming themselves  with idols under every green tree, and slaying the children  in the valleys under the clefts of the rocks.” It is possible  that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar  signification. In modern Rome, in the vestibule of the  church close to the Temple of Vesta, I have seen a large  perforated stone , in the hole of which the ancient Romans  are said to have placed their hands when they swore a  solemn oath, in imitation, or, rather, a counterpart, of  Abraham swearing his servant upon his thigh — that is  the male organ. Higgins dwells upon these holes, and  says : “ These stones are so placed as to have a hole under  them, through which devotees passed for religious  purposes. There is one of the same kind in Ireland,  called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham  Crags there is a place made for the devotees to pass  through. We read in the accounts of Hindostan that  there is a very celebrated place in Upper India, to which  immense numbers of pilgrims go, to pass through a place  in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the  Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon  the surface of which there is a natural crevice, which  communicates with a cavity opening below. This place  is used by the Gentoos as a purification of their sins.     Phallic Worship 35   which they say is effected by their going in at the opening  below, and emerging at the cavity above — “ born again.”  The ceremony is in such high repute in the neighbouring  countries that the famous Conajee Angria ventured by  stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform  the ceremony, and got off undiscovered. The early  Christians gave them a bad name, as if from envy ; they  called these holes “ Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis, p. 346)    BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS   The Romans called the feasts of Bacchus, Bacchanalia  and Liberalia, because Bacchus and Liber were the names  for the same god, although the festivals were celebrated  at different times and in a somewhat different manner.  The latter, according to Payne Knight, was celebrated  on the 17th of March, with the most licentious gaiety,  when an image of the Phallus was carried openly in  triumph. These festivities were more particularly cele-  brated among the rural or agricultural population, who,  when the preparatory labour of the agriculturist was over,  celebrated with joyful activity Nature’s reproductive  powers, which in due time was to bring forth the fruits.  During the festival a car containing a huge Phallus was  drawn along accompanied by its worshippers, who in-  dulged in obscene songs and dances of wild and extrava-  gant character. The gravest and proudest matrons  suddenly laid aside their decency and ran screaming  among the woods and hills half-naked, with dishevelled  hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.     }6    Phallic Worship    The Bacchanalian feasts were celebrated in the latter part  of October when the harvest was completed. Wine and  figs were carried in the procession of the Bacchants, and  lastly came the Phalli, followed by honourable virgins,  called canephora , who carried baskets of fruit. These were  followed by a company of men who carried poles, at the  end of which were figures representing the organ of  generation. The men sung the Phallica and were crowned  with violets and ivy, and had their faces covered with  other kinds of herbs. These were followed by some  dressed in women’s apparel, striped with white, reaching  to their ancles, with garlands on their heads, and wreaths  of flowers in their hands, imitating by their gestures the  state of inebriety. The priestesses ran in every direction  shouting and screaming, each with a thyrsus in their  hands. Men and women all intermingled, dancing and  frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus says  the festivals were carried into the night, and it was then  frenzy reached its height. He says, “ In performing  the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about  frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god ; then  the women in a body offer the sacrifices, and roar out the  praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation  of the ancient Maenades, who accompanied him.” These  festivities were carried into the night, and as the celebrators  became heated with wine, they degenerated into extreme  licentiousness.   Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the Luper-  calian Feasts instituted in honour of the god Pan (under  the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in  his Worship of Serpents , on the morning of the Feast ran  naked through the streets, striking the married women  they met on the hands and belly, which was held as an     Phallic Worship    37    omen promising fruitfulness. The nymphs performing  the same ostentatious display as the Bacchants at the  festival of Bacchanalia.   The festival of Venus was celebrated towards the begin-  ning of April, and the Phallus was again drawn in a car,  followed by a procession of Roman women to the temple  of Venus. Says a writer, “ The loose women of the town  and its neighbourhood, called together by the sounding  of horns, mixed with the multitude in perfect nakedness,  and excited their passions with obscene motions and  language until the festival ended in a scene of mad revelry,  in which all restraint was laid aside.”   It is said that these festivals took their rise from Egypt,  from whence they were brought into Greece by Metampus,  where the triumph of Osiris was celebrated with secret  rites, and from thence the Bacchanals drew their original ;  and from the feasts instituted by Isis came the orgies of  Bacchus.    DRUID AND HEBREW FAITHS   It seems not at all improbable that the deities wor-  shipped by the ancient Britons and the Irish, were no  other then the Phallic deities of the ancient Syrians and  Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius  Periegites, who lived in the time of Augustus Csesar,  states that the rites of Bacchus were celebrated in the  British Isles ; while Strabo, who lived in the time of  Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier writer  described the worship of the Cabiri to have come originally     3 «    Phallic Worship    from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,  says, the supreme god above the rest was called Seodhoc  and Baal. The name of Baal is found both in Wales,  Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.   The same god, according to O’Brien, was the chief deity  of the Irish, in whose honour the round towers were  erected, which structures the ancient Irish themselves  designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers,  xxii, will be found a mention of a similar pillar consecrated  to Baal. Many of the same customs and superstitions  that existed among the Druids and ancient Irish, will  likewise be found among the Israelites. On the first  day of May, the Irish made great fires in honour of Baal,  likewise offering him sacrifices. A similar account is  given of a custom of the Druids by Toland, in an account  of the festival of the fires ; he says : — “ on May-day eve  the Druids made prodigious fires on these earns, which  being everyone in sight of some other, could not but  afford a glorious show over a whole nation.” These  fires are said to be lit even to the present day by the  Aboriginal Irish, on the first of May, called by them  Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as  given them in the Highlands of Scotland.   A similar practice to this will be noticed as mentioned in  the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship  of Baal, are said to have passed their children through the  fire of Baal, which seems to have been a common practice,  as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the  same thing. Higgins in his Anacalypsis y says this super-  stitious custom still continues, and that on “ particular  days great fires are lighted, and the fathers taking the  children in their arms, jump or run through them, and  thus pass their children through them ; they also light     Phallic Worship    39    two fires at a little distance from each other, and drive  their cattle between them.” It will be found on reference  to Deuteronomy, that this very practice is specially for-  bidden. In the rites of Numa, we have also the sacred  fire of the Irish ; of St. Bridget, of Moses, of Mithra,  and of India, accompanied with an establishment of  nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have been  kept burning by the nuns of Kildare, which was established  by St. Bridget. This fire was never blown with the  mouth, that it might not be polluted, but only with  bellows ; this fire was similar to that of the Jews, kept  burning only with peeled wood, and never blown with  the mouth. Hyde describes a similar fire which was kept  burning in the same way by the ancient Persians, who  kept their sacred fire fed with a certain tree called Hawm  Mogorum ; and Colonel Vallancey says the sacred fire  of the Irish was fed with the wood of the tree called  Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at Kildare,  the glorious Bridget was rendered illustrious by many  miracles, amongst which was the sacred fire, which had  been kept burning by nuns ever since the time of the  Virgin.   The earliest sacred places of the Jews were evidently  sacred stones, or stone circles, succeeded in time by  temples. These early rude stones, emblems of the  Creator, were erected by the Israelites, which in no way  differed from the erections of the Gentiles. It will be  found that the Jews to commemorate a great victory,  or to bear witness of the Lord, were all signified by stones :  thus, Joshua erected a stone to bear witness ; Jacob  put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the  same for a place of worship ; Samuel erected a stone as  a boundary, which was to be the token of an agreement     40    Phallic Worship    made in the name of God. Even Maundrel in his travels  names several that he saw in Palestine. It is curious that  where a pillar was erected there, sometime after, a temple  was put up in the same manner that the Round Towers  of Ireland were, — always near a church, but never formed  part of it. We find many instances in the Scriptures of the  erection of a number of stones among the early Israelites,  which would lead us to conclude that it was not at all  unlikely that the early places of worship among them, were  similar to the temples found in various parts of Great  Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4,  that Moses rose up early in the morning, and builded  an altar under the hill, and twelve pillars, according to  the twelve tribes of Israel, were erected. It is also  given out that when the children of Israel should pass  over the Jordan, unto the land which the Lord giveth  them, they should set up great stones, and plaster them  with plaster, and also the words of the law were to be  written thereon. In many other places stones were  ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated  instances are given that the stones should be twelve  in number and unhewn.   Stone temples seem to have been erected in all countries  of the world, and even in America, where, among the  early American races are to be found customs, superstitions,  and religious objects of veneration, similar to the  Phoenicians. An American writer says : — “ There is  sufficient evidence that the religious customs of the  Mexicans, Peruvians and other American races, are  nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . . .  We moreover discover that many of their religious terms  have, etymologically, the same origin.” Payne Knight,  in his Worship of Priapus, devotes much of his work to     Phallic Worship    4i    show that the temples erected at Stonehenge and other  places, were of a Phoenician origin, which was simply  a temple of the god Bacchus.    STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS   Of all the nations of antiquity the Persians were the  most simple and direct in the worship of the Creator.  They were the puritans of the heathen world, and not  only rejected all images of God and his agents, but also  temples and altars, according to Herodotus, whose  authority we prefer to any other, because he had an  opportunity of conversing with them before they had  adopted any foreign superstitions. As they worshipped  the ethereal fire without any medium of personification  or allegory, they thought it unworthy of the dignity of  the god to be represented by any definite form, or cir-  cumscribed to any particular place. The universe was  his temple, and the all-pervading element of fire his only  symbol. The Greeks appear originally to have held  similar opinions, for they were long without statues  and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by  Adrastus — who lived in an age before the Trojan war —  which consisted of columns only, without wall or roof,  like the Celtic temples of our northern ancestors, or the  Phyrcetheia of the Persians, which were circles of stones  in the centre of which was kindled the sacred fire, the  symbol of the god. Homer frequently speaks of places  of worship consisting of an area and altar only, which were  probably enclosures like those of the Persians, with an     42    Phallic Worship    altar in the centre. The temples dedicated to the creator  Bacchus, which the Greek architects called hypathral ,  seem to have been anciently of this kind, whence probably  came the title (“ surround with columns ”) attributed  to that god in the Orphic litanies. The remains of one of  these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the  inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments  of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it  to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same  deity worshipped under another form, being usually a  personification of the sun. The architecture is of the  Roman times ; but the ground plan is probably that of a  very ancient one, which this was made to replace — for  it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,  published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square  buildings which enclose it are not properly parts of the  temple, but apartments of the priests, places for victims  and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub-  ordinate deities, introduced by a more complicated and  corrupt worship and probably unknown to the founder  of the original edifice. The portico, which runs parallel  with these buildings, encloses the temenss , or area of  sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was  circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple  in Zeeland, and the Indian pagoda before described.  In the centre was the holy of holies, the seat of the god,  consisting of a circle of columns raised upon a basement,  without roof or walls, in the middle of which was probably  the sacred fire or some other symbol of the deity. The  square area in which it stood was sunk below the natural  level of the ground, and, like that of the Indian pagoda,  appears to have been occasionally floated with water;  the drains and conduits being still to be seen, as also several     Phallic Worship    43    fragments of sculpture representing waves, serpents, and  various aquatic animals, which once adorned the basement.  The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the  Orphic hymn above cited, the sun in his character of  extinguisher of the fires which once pervaded the earth.  He is supposed to have done this by exhaling the waters  of the ocean and scattering them over the land, which was  thus supposed to have acquired its proper temperature  and fertility. For this reason the sacred fire, the essential  image of the god, was surrounded by the element which  was principally employed in giving effect to the beneficial  exertion* of the great attribute.   From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus  Siculus, it seems evident that Stonehenge and all the monu-  ments of the same kind found in the north, belong to the  same religion which appears at some remote period to  have prevailed over the whole northern hemisphere.  According to that ancient historian, the Hyperboreans  inhabited an island beyond Gaul , as large as Sicily , in which  Apollo was worshipped in a circular temple considerable for  its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of  the Greeks of that age, can mean no other than the sun,  which according to Caesar was worshipped by the Germans,  when they knew of no other deities except fire and the  moon. The island can evidently be no other than Britain,  which at that time was only known to the Greeks by the  vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain  and obscure that Herodotus, the most inquisitive and  credulous of historians, doubts of its existence. The  circular temple of the sun being noticed in such slight and  imperfect accounts, proves that it must have been some-  thing singular and important ; for if it had been an  inconsiderable structure, it would not have been mentioned     44    Phallic Worship    at all ; and if there had been many such in the country,  the historian would not have employed the singular  number.   Stonehenge has certainly been a circular temple, nearly  the same as that already described of the Bacchus at  Puzznoli, except that in the latter the nice execution and  beautiful symmetry of the parts are in every respect the  reverse of the rude but majestic simplicity of the former.  In the original design they differ but in the form of the  area. It may therefore be reasonably supposed that we  have still the ruins of the identical temple described by  Hecataeus, who, being an Asiatic Greek, might have  received his information from Phoenician merchants, who  had visited the interior parts of Britain when trading there  for tin. Anacrobius mentions a temple of the same kind  and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated  to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The  large obelisks of stone found in many parts of the north,  such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in  Yorkshire, belong to the same religion ; obelisks being,  as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they  represented both by their form and name . — Payne Knight* s  Worship of Priapus.    BUNS AND RELIGIOUS CAKES   Says Hyslop : — “ The hot cross-buns of Good Friday,  and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in  the Chaldean rites just as they do now. The buns known,  too, by that identical name, were used in the worship of the     Phallic Worship    45    Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte),  as early as the days of Cecrops, the founder of Athens,  1,500 years before the Christian era.” “ One species of  bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the  gods, was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes  mentioned * they were made of flour and honey.’ ” It  appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this  lecherous worship. He says : — “ The children gather  wood, the fathers kindle the fire, and the women knead  the dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer.  vii., 18). Hyslop does not add that the “ buns ” offered  to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities,  were framed in the shape of the sexual organs, but that  they were so in ancient times we have abundance of  evidence.   Martial distinctly speaks of such things in two epigrams,  first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein  the female part is commemorated ; the cakes being made  of the finest flour, and kept especially for the palate of the  fair one.   Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)  says : — “ When the people of Syracuse were sacrificing to  goddesses, they offered cakes called mullot , shaped like the  female organ, and in some temples where the priestesses  were probably ventriloquists, they so far imposed on the  credulous multitude who came to adore the Vulva as to  make them believe that it spoke and gave oracles.”   We can understand how such things were allowed in  licentious Rome, but we can scarcely comprehend how  they were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent  surprise we find they were, from the second part of the  “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge,  in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in     46    Phallic Worship    the form of the Phallus are made as offerings at Easter,  carried and presented from house to house. Dulare  states that in his time the festival of Palm Sunday, in the  town of Saintes, was called le fete des pinnes — feast of the  privy members — and that during its continuance the  women and children carried in the procession a Phallus  made of bread, which they called a pinne, at the end of their  palm branches ; these pinnes were subsequently blessed  by priests, and carefully preserved by the women during  the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered,  is a euphemism of the male organ, and it is curious to see  it united with the Phallus in Christendom. Dulare also  says that, in some of the earlier inedited French books on  cookery, receipts are given for making cakes of the  salacious form in question, which are broadly named. He  further tells us those cakes symbolized the male, in Lower  Limousin, and especially at B rives ; while the female  emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and other  places.    THE ARK AND GOOD FRIDAY   The ark of the covenant was a most sacred symbol in  the worship of the Jews, and like the sacred boat, or  ark of Osiris, contained the symbol of the principle of  life, or creative power. The symbol was preserved with  great veneration in a miniature tabernacle, which was  considered the special and sanctified abode of the god.  In size and manner of construction the ark of the Jews  and the sacred chest of Osiris of the Egyptians were     Phallic Worship    47   exactly alike, and were carried in processions in a similar  manner   The ark or chest of Osiris was attended by the priests,  and was borne on the shoulders of men by means of  staves. The ark when taken from the temple was placed  upon a table, or stand, made expressly for the purpose,  and was attended by a procession similar to that which  followed the Jewish ark. According to Faber, the ark  was a symbol of the earth or female principle, containing  the germ of all animated nature, and regarded as the  great mother whence all things sprung. Thus the ark,  earth, and goddess, were represented by common symbols,  and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”   The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians  were the Phallus, the Egg, and the Serpent ; the first  representing the sun, fire, and male or generative principle  — the Creator ; the second, the passive or female, the  germ of all animated things — the Preserver ; and the  last the Destroyer : the Three of the sacred Trinity.  The Hindu women, according to Payne Knight, still  carry the lingam, or consecrated symbol of the generative  attribute of the deity, in solemn procession between two  serpents ; and in a sacred casket, which held the Egg  and the Phallus in the mystic processions of the Greeks,  was also a Serpent.   “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the  ancient religions.” It was often represented in the form of  a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of  the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show  that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important  place in their mysteries. In the story of Osiris, like that  of the Siva, will be found the reason for the emblem being  carried in the sacred chest, and the explanation of one of     4 «    Phallic Worship    the mysteries of the Egyptian priests. It is said that  Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon, who  after cutting up the body, distributed the parts over the  earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought  them back to Egypt ; but, being unable to find the part  which distinguished his sex, she had an image made of  wood, which was enshrined in an ark, and ordered to  be solemnly carried about in the festivals she had instituted  in his honour, and celebrated with certain secret rites.   The Egg, which accompanied the Phallus in the ark was  a very common symbol of the ancient faiths, which was  considered as containing the generation of life. The  image of that which generated all things in itself. Jacob  Bryant says : — “ The Egg, as it contained the principles  of life was thought no improper emblem of the ark,  in which were preserved the future world. Hence in the  Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal  ceremony consisted in the consecration of an egg.”  This egg was called the Mundane Egg.   The ark was likewise the symbol of salvation, the place  of safety, the secret receptacle of the divine wisdom.  Hence we find the ark of the Jews containing the tables  of the law ; we find too that the Jews were ordered to  place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying  the idea of symbolised fertility : showing that the ark  was considered as the receptacle of the life principle — as  an emblem of the Creator.   With the Egyptians Osiris was supposed to be buried in  the ark, which represented the disappearance of the deity.  His loss, or death, constituted the first part of the mysteries,  which consisted of lamentations for his decease. After the  third day from his death, a procession went down to the  seaside in the night, carrying the ark with them. During     Phallic Worship    49    the passage they poured drink offerings from the river, and  when the ceremony had been duly performed, they raised a  shout that Osiris had again risen — that the dead had been  restored to life. After this followed the second or joyful  part of the mysteries. The similarity of this custom with  the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the  rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,  will be at once observed. It is further said that the missing  part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a  sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good  Friday brought together, also the Egg, for the origin of  the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as  breaking an egg with his horn, which signified the  liberating of imprisoned life at the opening or spring of  the year, 'which had been destroyed by Typhon. The  opening of the year at that time commenced in the spring,  pot according to our present reckoning ; thus, the Egg  was a symbol of the resurrection of life at the spring, or  our Easter time. The author of the “ Worship of the  Generative Powers,” describes the origin of the hot cross-  bun at Easter, which is a further parallelism of the Christian  and Pagan festivals. The author also draws a further  conclusion — that the cakes or buns have in reality a  Phallic origin, for in France and other parts, the Easter  cakes were called after the membrun virile. The writer  says : — “ In the primitive Teutonic mythology, there  was a female deity named in old German, Ostara, and in  Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her  is the simple statement of our father of history, Bede,  that her festival was celebrated by the ancient Saxons in  the month of April, from which circumstance that month  was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or Eoster-  mona, and that the name of the goddess had been frequently     50    Phallic Worship    given to the Paschal time, with which it was identical. The  name of this goddess was given to the same month by  the old Germans and by the Franks, so that she must have  been one of the most highly honoured of the Teutonic  deities, and her festival must have been a very important  one and deeply implanted in the popular feelings, or the  Church would not have sought to identify it with one of  the greatest Christian festivals of the year. It is under-  stood that the Romans considered this month as dedicated  to Venus, no doubt because it was that in which the  productive powers of nature began to be visibly developed.  When the Pagan festival was adopted by the Church, it  became a moveable feast, instead of being fixed to the  month of April. Among other objects offered to the  goddess at this time were cakes, made no doubt of fine  flour, but of their form we are ignorant. The Christians  when they seized upon the Easter festival, gave them the  form of a bun, which indeed was at that time the ordinary  form of bread ; and to protect themselves and those who  ate them from any enchantment — or other evil influences  which might arise from their former heathen character —  they marked them with the Christian symbol — the cross.  Hence we derived the cakes we still eat at Easter under  the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings  attached to them ; for multitudes of people still believe  that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,  they would be unlucky all the rest of the year.”     Phallic Worship    5 *   ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE  LOTUS   The earliest capital seems to have been the bell or  seed vessel, simply copied without alteration, except a  little expansion at the bottom to give it stability. The  leaves of some other plant were then added to it, and  varied in different capitals according to the different  meanings intended to be signified by the accessory symbols.  The Greeks decorated it in the same manner, with the  foliage of various plants, sometimes of the acanthus and  sometimes of the aquatic kind, which are, however,  generally so transformed by excessive attention to elegance,  that it is difficult to distinguish them. The most usual  seems to be the Egyptian acacia, which was probably  adopted as a mystic symbol for the same reasons as the  olive, it being equally remarkable for its powers of  reproduction. Theophrastus mentions a large wood of  it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so  that we reasonably suppose it to have been employed by  the Egyptians in the same symbolical sense. From  them the Greeks seem to have borrowed it about the  time of the Macedonian conquest, it not occurring in any  of their buildings of a much earlier date ; and as for the  story of the Corinthian architect, who is said to have  invented this kind of capital from observing a thorn  growing round a basket, it deserved no credit, being fully  contradicted by the buildings still remaining in Upper  Egypt.   The Doric column, which appears to have been the  only one known to the very ancient Greeks, was equally  derived from the Nelumbo ; its capital being the same  •eed-vessel pressed flat, as it appears when withered and     Phallic Worship    5 Z   dry — the only state probably in which it had been seen in  Europe. The flutes in the shaft were made to hold  spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in  the “ Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and  blocks of the cornice were also derived from utility,  they having been intended to represent the projecting  ends of the beams and rafters which formed the roof.   The Ionic capital has no bell, but volutes formed in  imitation of sea-shells, which have the same symbolical  meaning. To them is frequently added the ornament which  architects call a honeysuckle, but which seems to be  meant for the young petals of the same flower viewed  horizontally, before they are opened or expanded. Another  ornament is also introduced in this capital, which they  call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of  eggs and spear-heads, the symbols of female generation  and male destructive power, or in the language of  mythology, of Venus and Mars . — Payne Knight .    BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP   Stripped, however, of all this splendour and magnifi-  cence it was probably nothing more than a symbolical  instrument, signifying originally the motion of the  elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele,  the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have  overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away  Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells  and clatter of metals were almost universally employed  as a means of consecration, and a charm against the     Phallic Worship    53    destroying and inert powers. Even the Jews welcomed  the new moon with such noises, which the simplicity of  the early ages employed almost everywhere to relieve  her during eclipses, supposed then to be morbid affections  brought on by the influence of an adverse power. The  title Priapus y by which the generative attribute is dis-  tinguished, seems to be merely a corruption of Briapuos  (clamorous) ; the beta and pi being commutable letters,  and epithets of similar meaning, being continually applied  both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many  Priapic figures, too, still extant, have bells attached to  them, as the symbolical statues and temples of the Hindus  are ; and to wear them was a part of the worship of  Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find  them of extremely small size, evidently meant to be worn  as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests  of the Egyptians and also the high priests of the Jews,  hung them as sacred emblems to their sacerdotal garments ;  and the Brahmins still continue to ring a small bell at the  interval of their prayers, ablutions, and other acts of  devotion ; which custom is still preserved in the Roman  Catholic Church at the elevation of the host. The  Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the  death of their kings, and we still retain the custom of  tolling a bell on such occasions, though the reason of it  is not generally known, any more than that of other  remnants of ancient ceremonies still existing . 1 It will  be observed that the bells used by the Christians very  probably came direct from the Buddhists. And from the  same source are derived the beads and rosaries of the  Roman Catholics, which have been used by the Buddhist   1 The above description is from Payne Knight's "Symbolical  Language of ancient Art and Mythology."     Phallic Worship    54   monks for over 2,000 years. Tinkling bells were  suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and  during the service the gods were invited to descend upon  the altars by the ringing of bells ; they were likewise  sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,  and were worn on the garments of the Bacchantes, much  in the same manner as they are used at our carnivals and  masquerades.    HINDU PHALLICISM   The following curious fable is given by Sir William  Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin of  Phallic devotion : — “ Certain devotees in a remote time had  acquired great renown and respect, but the purity of the  art was wanting, nor did their motives and secret thoughts  correspond with their professions and exterior conduct.  They affected poverty, but were attached to the things of  this world, and the princes and nobles were constantly  sending their offerings. They seemed to sequester them-  selves from this world ; they lived retired from the towns ;  but their dwellings were commodious, and their women  numerous and handsome. But nothing can be hid from  their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.  He desired Prakeety (nature) to accompany him ; and  assumed the appearance of a Pandaram of a graceful  form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.  She went before the devotees who were assembled with  their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform  their ablutions and religious ceremonies. As she advanced     Phallic Worship    55    the refreshing breeze moved her flowing robe, showed  the exquisite shape which it seemed intended to conceal.  With eyes cast down, though sometimes opening with a  timid but tender look, she approached them, and with a  low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.  The devotees gazed on her with astonishment. The  sun appeared, but the purifications were forgotten ;  the things of the Poo j ah (worship) lay neglected ; nor  was any worship thought of but that of her. Quitting the  gravity of their manners, they gathered round her as  flies round the lamp at night — attracted by its splendour,  but consumed by its flame. They asked from whence  she came ; whither she was going. ‘ Be not offended  with us for approaching thee, forgive us our importunities.  But thou art incapable of anger, thou who art made to  convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,  indignation and resentment are unknown. But whoever  thou mayest be, whatever motive or accident might have  brought thee amongst us, admit us into the number of  thy slaves ; let us at least have the comfort to behold  thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul  seemed ready to take its flight ; the vow was forgotten,  and the policy of years destroyed.   “ Whilst the devotees were lost in their passions, and  absent from their homes, Sheevah entered their village  with a musical instrument in his hand, playing and singing  like some of those who solicit charity. At the sound of his  voice, the women immediately quitted their occupation ;  they ran to see from whom it came. He was as beautiful  as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their  jewels without turning to look for them ; others let  fall their garments without perceiving that they discovered  those abodes of pleasure which jealousy as well as decency     Phallic Worship    56   had ordered to be concealed. All pressed forward with  their offerings, all wished to speak, all wished to be taken  notice of, and bringing flowers and scattering them before  him, said — ‘ Askest thou alms ! thou who are made to  govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as  the morning, whose voice is the voice of pleasure, and  they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of  the rose I Stay with us and we will serve thee ; nor  will we trouble thy repose, but only be zealous how to  please thee/ The Pandaram continued to play, and sung  the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the  Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. . . .   “ But the desire of repose succeeds the waste of pleasure.  Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the  morning the Pandaram was gone. When they awoke  they looked round with astonishment, and again cast  their eyes on the ground. Some directed to those who  had formerly been remarked for their scrupulous manners,  but their faces were covered with their veils. After  sitting awhile in silence they arose and went back to their  houses, with slow and troubled steps. The devotees  returned about the same time from their wanderings after  Prakeety. The days that followed were days of embarrass-  ment and shame. If the women had failed in their  modesty, the devotees had broken their vows. They  were vexed at their weakness, they were sorry for what  they had done ; yet the tender sigh sometimes broke  forth, and the eyes often turned to where the men first  saw the maid — the women, the Pandaram.   “But the women began to perceive that what the  devotees foretold came not to pass. Their disciples,  in consequence, neglected to attend them, and the offerings  from the princes and nobles became less frequent than     Phallic Worship    57    before. They then performed various penances ; they  sought for secret places among the woods unfrequented  by man ; and having at last shut their eyes from the  things of this world, retired within themselves in deep  meditation, that Sheevah was the author of their  misfortunes. Their understanding being imperfect,  instead of bowing the head with humility, they were  inflamed with anger ; instead of contrition for their  hypocrisy, they sought for vengeance. They performed  new sacrifices and incantations, which were only allowed  to have effect in the end, to show the extreme folly of  man in not submitting to the will of heaven.   “ Their incantations produced a tiger, whose mouth  was like a cavern and his voice like thunder among the  mountains. They sent him against Sheevah, who with  Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled  at their weakness, and killing the tiger at one blow with  his club, he covered himself with his skin. Seeing them-  selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse  to another, and sent serpents against him of the most  deadly kind ; but on approaching him they became  harmless, and he twisted them round his neck. They  then sent their curses and imprecations against him, but  they all recoiled upon themselves. Not yet disheartened  by all these disappointments, they collected all their  prayers, their penances, their charities, and other good  works, the most acceptable sacrifices ; and demanding  in return only vengeance against Sheevah, they sent a  fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at  this attempt, turned the fire with indignation against the  human race ; and mankind would soon have been  destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger,  implored him to suspend his wrath. At his entreaties     JS    Phallic Worship    Sheevah relented ; but it was ordained that in his temples  those parts should be worshipped \ which the false doctrines  had impiously attempted to destroy.”    THE CROSS AND ROSARY   The key which is still worn with the Priapic hand, as an  amulet, by the women of Italy appears to have been an  emblem of the equivocal use of the name, as the language  of that country implies. Of the same kind, too, appears to  have been the cross in the form of the letter tau> attached  to a circle, which many of the figures of Egyptian deities,  both male and female, carry in their left hand ; and by the  Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,  representing the planet Venus, worshipped by them as the  emblem or image of that goddess. The cross in this  form is sometimes observable on coins, and several of  them were found in a temple of Serapis, demolished at the  general destruction of those edifices by the Emperor  Theodosius, and were said by the Christian antiquaries  of that time to signify the future life. In solemn sacrifices,  all the Lapland idols were marked with it from the blood  of the victims ; and it occurs on many Runic ornaments  found in Sweden and Denmark, which are of an age  long anterior to the approach of Christianity to those  countries, and probably to its appearance in the world.  On some of the early coins of the Phoenicians, we find it  attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to  form a complete rosary, such as the Lamas of Thibet  and China, the Hindus, and the Roman Catholics now  tell over while they pray.     Phallic Worship    59    BEADS   Beads were anciently used to reckon time, and a circle,  being a line without termination, was the natural emblem  of its perpetual continuity ; whence we often find circles  of beads upon the heads of deities, and enclosing the  sacred symbols upon coins and other monuments.  Perforated beads are also frequently found in tombs, both  in the northern and southern parts of Europe and Asia,  whence are fragments of the chaplets of consecration  buried with the deceased. The simple diadem, or fillet,  worn round the head as a mark of sovereignty, had a  similar meaning, and was originally confined to the statues  of deities and deified personages, as we find it upon the  most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in  the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the  god upon his sceptre, as the most imposing and invocable  emblem of sanctity ; but no mention is made of its being  worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any  other ensign of temporal power and command, except the  royal staff or sceptre.    THE LOTUS   The double sex typified by the Argha and its contents is  by the Hindus represented by the “ Mymphcea ” or  Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where  the whole plant signifies both the earth and the two  principles of its fecundation. The germ is both Meru and  the Linga ; the petals and filaments are the mountains     6o    Phallic Worship    which encircle Meru, and are also a type of the Yoni;  the leaves of the calyx are the four vast regions to the  cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are  the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this  plant or lily was probably the most celebrated of all the  vegetable creation among the mystics of the ancient world,  and is to be found in thousands of the most beautiful and  sacred paintings of the Christians of this day — I detain  my reader with a few observations respecting it. This is  the more necessary as it appears that the priests have now  lost the meaning of it ; at least this is the case with everyone  of whom I have made enquiry ; but it is like many other  very odd things, probably understood in the Vatican,  or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the  different plants which ornament our globe, there is not  one which has received so much honour from man as  the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma  was born, and Osiris delighted to float. This is the  sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in  oriental mythology, and in truth not without reason, for it  is itself a lovely prodigy. Throughout all the northern  hemispheres it was everywhere held in profound  veneration, and from Savary we learn that the veneration  is yet continued among the modern Egyptians. And  we find that it still continues to receive the respect if  not the adoration of a great part of the Christian world,  unconscious, perhaps, of the original reason of this  conduct. Higgins’s Anacalypsis.   The following is an account given of it by Payne  Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship : —  “ The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant  grows in the water, among its broad leaves puts forth  a flower, in the centre of which is formed the seed vessel.     Phallic Worship    6x   shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the  top with little cavities or cells, in which the seeds grow.  The orifices of these cells being too small to let the seeds  drop out when ripe, they shoot forth into new plants in  the places where they are formed : the bulb of the vessel  serving as a matrix to nourish them, until they acquire  such a degree of magnitude as to burst it open and release  themselves, after which, like other aquatic weeds, they  take root wherever the current deposits them. This  plant, therefore, being thus productive of itself, and  vegetating from its own matrix, without being fostered  in the earth, was naturally adopted as the symbol of the  productive power of the waters, upon which the active  spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,  to matter. We accordingly find it employed in every  part of the northern hemisphere, where the symbolical  religion, improperly called idolatry , does or ever did prevail.  The sacred images of ihe Tartars, Japanese, and Indians  are almost placed upon it, of which numerous instances  occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc.  The Brahma of India is represented as sitting upon his  Lotus throne, and the figure upon the Isaaic table holds the  stem of this plant surmounted by the seed vessel in one  hand, and the Cross representing the male organs of  generation in the other ; thus signifying the universal  power, both active and passive, attributed to that goddess.”   Nimrod says : — “ The Lotus is a well-known allegory,  of which the expansive calyx represents the ship of the  gods floating on the surface of the water ; and the erect  flower arising out of it, the mast thereof. The one was  the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;  but as the ship was Isis or Magna Mater, the female  principle, and the mast in it the male deity, these parts of     62    Phallic Worship    the flower came to have certain other significations, which  seem to have been as well known at Samosata as at Benares.  This plant was also used in the sacred offices of the Jewish  religion. In the ornaments of the temple of Solomon,  the Lotus or lily is often seen.”   The figure of Isis is frequently represented holding the  stem of the plant in one hand, and the cross and circle  in the other. Columns and capitals resembling the  plant are still existing among the ruins of Thebes, in  Egypt, and the island of Philce. The Chinese goddess,  Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in  that country Lin, with many arms, having symbols  signifying the various operations of nature, while similar  attributes are expressed in the Scandinavian goddess  Isa or Disa.   The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and  Egyptian cosmogony. This plant appears to have the  same tendency with the Sphinx, of marking the connection  between that which produces and that which is produced.  The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue  Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of  celestial love so frequently seen mounted on the back of  Leo in the ancient remains. The following is a translation  of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,  and will be found interesting as showing the importance  attached to the Lotus in the worship of the ancients : —  “ We find Brahma emerging from the Lotus. The whole  universe was dark and covered with water. On this  primeval water did Bhagavat (God), in a masculine  form, repose for the space of one Calpho (a thousand  years) ; after which period the intention of creating  other beings for his own wise purposes became pre-  dominant in the mind of the Great Creator . In the first     Phallic Worship    65   place, by his sovereign will was produced the flower  of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought  to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,  emerging from the cup of the Lotus, looked round on all  the four sides, and beheld from the eyes of his four heads  an immeasurable expanse of water. Observing the whole  world thus involved in darkness and submerged in water,  he was stricken with prodigious amazement, and began  to consider with himself, ‘ Who is it that produced me ? *  * whence came I ? 9 ' and where ami?’   “ Brahma, thus kept two hundred years in contem-  plation, prayers, and devotions, and having pondered in  his mind that without connection of male and female an  abundant generation could not be effected — again entered  into profound meditation on the power of the Supreme,  when, on a sudden by the omnipotence of God, was  produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man  of perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a  woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs  thus : — ■* O Bhagavat 1 since thou broughtest me from  nonentity into existence for a particular purpose,  accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a  short time a small white boar appeared, which soon  grew to the size of an elephant. He now felt God in all,  and that all is from Him, and all in Him. At length the  power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.  He began to use the instinct of that animal. Having  divided the water, he saw the earth a mighty barren  stratum. He then took up the mighty ponderous globe  (freed from the water) and spread the earth like a carpet  on the face of the water ; Brahma, contemplating the  whole earth, performed due reverence, and rejoicing  exceedingly, began to consider the means of peopling     6 4    Phallic Worship    the renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the  first land said to have appeared, but with the Brahmins  it is a disputed point, for many affirm that Cast or Benares  was the sacred ground.    MERU   The learned Higgins, an English judge, who for some  years spent ten hours a day in antiquarian studies, says  that Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the  Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon  built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which  because mounts of Venus, mons veneris — Meru and Mount  Calvary — each a slightly skull-shaped mount, that might  be represented by a bare head. The Bible translators  perpetuate the same idea in the word “ calvaria.” Prof.  Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name  from its being the place of the crucifixion of Jesus.  Looking elsewhere and in earlier times for the bare calvaria,  we find among Oriental women, the Mount of Venus,  mons veneris > through motives of neatness or religious  sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see  Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of  a priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles,  continue to shave the head. To make a place holy,  among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it  was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,  or Arba.     Phallic Worship 65   LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA   This marvellous work of excavation by the slow process  of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards  published a volume describing the temple and its vast  statues. The beauty of its architectural ornaments, the  innumerable statues or emblems, all hewn out of solid  rock, dispute with the Pyramids for the first place among  the works undertaken to display power and embody  feeling. The stupendous temple is detached from the  neighbouring mountain by a spacious area all round, and  is nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to the  height of 100 feet and in length about 145 feet. It has  well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,  containing fine large rooms of a smooth and polished  surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole  bulk of this immense block of isolated excavation being  upwards of 500 feet in circumference, and having beyond  its areas three handsome figure galleries or verandas  supported by regular pillars. Outside the temple are  two large obelisks or phalli standing, “ of quadrangular  form, eleven feet square, prettily and variously carved, and  are estimated at forty-one feet high ; the shaft above the  pedestal is seven feet two inches, being larger at the base  than Cleopatra’s Needle.”   In one of the smaller temples was an image of Lingam,  “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily  strewed on its circular top. This Lingam is larger than  usual, occupying with the altar, a great part of the room.  In most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries  to walk round whilst making the usual invocations to the  deity (Maha Deo). This deity is much frequented by  female votaries, who take especial care to keep it clean   E     66    Phallic Worship    washed, and often perfume it with oderiferous oils and  flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment  and attend the five oil lights and bell ringing.” This oil  vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the  light itself was placed. No symbol was more venerated  or more frequently met with than the altar and Ling, Siva,  or Maha Deo. “ Barren women constantly resort to it to  supplicate for children,” says Seeley. The mysteries  attended upon them is not described, but doubtless they  were of a very similar character to those described by the  author of the “ Worship of the Generative Powers of  the Western Nations,” showing again the similarity of  the custom with those practised by the Catholics in France.  The writer says : — “ Women sought a remedy for barren-  ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they  appear to have placed a part of their body, naked, against  the image of the saint, or to have sat upon it. This latter  trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies  of Pagan worship to last long, or to be practised openly ;  but it appears to have been innocently represented by  lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,  understood to represent him without the presence of the  energetic member. In a corner in the church of the  village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a  stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity  upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing  should intervene between their bare skin and the stone.  In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar  which barren women kissed for the same purpose and  which had perhaps replaced some less equivocal object.”   The principal object of worship at Elora is the stone, so  frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he  apologises for using the word so often, but asks to be     Phallic Worship    67    excused, “ is an emblem not generally known, but as  frequently met with as the Cross in Catholic worship.”  It is the god Siva, a symbol of his generative character,  the base of which is usually inserted in the Yoni. The  stone is of a conical shape, often black stone, covered  with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers  hang pendant from the crown of the Ling stone to the  spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same  as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly  used in the worship at the symbol, or one lamp with five  wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling.    VENUS-URANIA. — THE MOTHER GODDESS   The characteristic attribute of the passive generative  power was expressed in symbolical writing, by different  enigmatical representations of the most distinguished  characteristic of the female sex : such as the shell or  Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter  Delta, all of which occur very frequently upon coins and  other ancient monuments in this sense. The same  attribute personified as the goddess of Love, or desire,  is usually represented under the voluptuous form of a  beautiful woman, frequently distinguished by one of these  symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names  of rather uncertain mythology. She is said to be the  daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and  female personifications of the all-pervading Spirit of the  Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and there-  fore associated with him in the most ancient oracular     68    Phallic Worship    temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears  to have been known in the Homeric times ; though a  different one is employed to account for the name of  Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod.   The Genelullides or Genoidai were the original and  appropriate ministers or companions of Venus, who was  however, afterwards attended by the Graces, the proper  and original attendants of Juno ; but as both these  goddesses were occasionally united and represented in  one image, the personifications of their respective sub-  ordinate attributes were on other occasions added :  whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a  beard, and other appearances of virility, which seems to  have been the most ancient mode of representing the  celestial as distinguished from the popular goddess of that  name — the one being a personification of a general  procreative power, and the other only of animal desire or  concupiscence. The refinement of Grecian art, however,  when advanced to maturity, contrived more elegant  modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work  of Phidias, we find the former represented with her foot  upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,  the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an  androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of  the double power ; and the goat was equally appropriate  to what was meant to be expressed in the other.   The same attribute was on other occasions signified by a  dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the  polypus, which often appears upon coins with the head  of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac,  though it is likewise of the androgynous class. The fig  was a still more common symbol, the statue of Priapus  being made of the tree, and the fruit being carried with the     Phallic Worship    69   Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus,  and still continuing among the common people of Italy  to be an emblem of what it anciently meant : whence  we often see portraits of persons of that country painted  with it in one hand, to signify their orthodox elevation to  the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la  fica , which was done by putting the thumb between the  middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic orna-  ments extant ; or by putting the finger or thumb into the  corner of the mouth and drawing it down, of which there  is a representation in a small Priapic figure of exquisite  sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum.    LIBERALITY AND SAMENESS OF THE  WORLD-RELIGIONS   The same liberal and humane spirit still prevails among  those nations whose religion is founded on the same  principles. “ The Siamese,” says a traveller of the  seventeenth century, “ shun disputes and believe that  almost all religions are good ” (“ Journal du Voyage de  Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked their  king, in his master’s name, to embrace Christianity, he  replied, “ that it was strange that the king of France  should interest himself so much in an affair which concerns  only God, whilst He, whom it did concern, seemed to  leave it wholly to our discretion. Had it been agreeable  to the Creator that all nations should have had the same  form of worship, would it not have been as easy to His  omnipotence to have created all men with the same send-     7 °    Phallic Worship    merits and dispositions, and to have inspired them with the  same notions of the True Religion, as to endow them with  such different tempers and inclinations ? Ought they  not rather to believe that the true God has as much pleasure  in being honoured by a variety of forms and ceremonies,  as in being praised and glorified by a number of different  creatures ? Or why should that beauty and variety,  so admirable in the natural order of things, be less  admirable or less worthy of the wisdom of God in the  supernatural ? ”   The Hindus profess exactly the same opinion. “ They  would readily admit the truth of the Gospel,” says a very  learned writer long resident among them, “ but they  contend that it is perfectly consistent with their Shastras.  The Deity, they say, has appeared innumerable times in  many parts of this world and in all worlds, for the salvation  of his creatures ; and we adore, they say, the same God, to  whom our several worships, though different in form, are  equally acceptable if they be sincere in substance.”   The Chinese sacrifice to the spirits of the air the  mountains and the rivers ; while the Emperor himself  sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all  these spirits are subordinate, and from whom they are  derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged  this primitive elementary worship with some of the  allegorical fables of their neighbours ; but still as their  creed — like that of the Greeks and Romans — remains  undefined, it admits of no dogmatical theology, and of  course no persecution for opinion. Obscure and  sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on  many occasions ; but still as actions and not as opinions.  Atheism is said to have been punished with death at  Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted     Phallic Worship    7i    whether the atheism, against which the citizens of that  republic expressed such fury, consisted in a denial of the  existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged  to fly for this crime, was accused of revealing and calum-  niating the doctrines taught in the Mysteries ; and from  the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe  that his offence was of the same kind, though he had not  been initiated.   These were the only two martyrs to religion among the  ancient Greeks, such as were punished for actively violating  or insulting the Mysteries, the only part of their worship  which seems to have possessed any vitality ; for as to  the popular deities, they were publicly ridiculed and  censured with impunity by those who dared not utter a  word against the populace that worshipped them ; and  as to the forms and ceremonies of devotion, they were  held to be no otherwise important, then as they were  constituted a part of civil government of the state ; the  Phythian priestess having pronounced from the tripod,  that whoever performed the rites of his religion according to the  laws of his country , performed them in a manner pleasing to the  Deity . Hence the Romans made no alterations in the  religious institutions of any of the conquered countries ;  but allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant  as they pleased, and to enforce their absurdities and  extravagances wherever they had any pre-existing laws  in their favour. An Egyptian magistrate would put  one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora  monkey ; and though the religious fanaticism of the  Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely  free from restraint, a chief of the synagogue could order  anyone of his congregation to be whipped for neglecting  or violating any part of the Mosaic Ritual.     7* Phallic Worship   The principle underlying the system of emanations  was, that all things were of one substance, from which they  were fashioned and into which they were again dissolved,  by the operation of one plastic spirit universally diffused  and expanded. The polytheist ot ancient Greece and  Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all  rites of worship and forms of devotion were directed  to the same end, though in different modes and through  different channels. <c Even they who worship other gods , says  Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem  ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they know it notP —  Payne Knight.   THE END. Giorgio Colli. Colli. Keywords: espressione,  L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia, l’implicatura di Prosimno, l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio bacchico, bacchic mystery, the fig tree branch, phallus, self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even with pleasure – Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus eromenon , the symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the role of the widow, female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of the sentence, ‘you probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51686202260/in/photolist-2mSEtHs-2mSMmGg-2mSsmMU-2mRjrN1-2mQPiYS-2mQAguG-2mQxzwE-2mQjVch-2mPTNKh-2mPJYbw-2mPvJmk-2mNzeEc-2mN1wvj-2mMZzKx-2mMRLT9-2mPnLLb-2mLD3NK-2mKTjot-2mLznXk-2mKDUFV-2mKSk8n-2mKM1De-2mPYoE5-2mKG3XG-2mKRy6y-2mKRu2r-2mKbok1-2mJpFSS-CkaHMd-hSTpSd-2mKfEK1-2mKj3f2-2mKkidh-2mKbDfw-2mKgF2t-2cu7Hur-DcDDsS-AJp6ja-jkW6UL-jkLbzM-jkL81T-jkTfPx-jkTLNG-jkMzHr-jkNwNs-jfXqCL-jhL2qR-jhLapC-hJHSQv-hJGf7v

 

Grice e Collini – naturalismo e naturismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love birds, you love Collini – he loved ‘pterodattili,’ though and made nice drawings of them, as they fought with ‘uomini’!” Discendente di una nobile famiglia, studia a Pisa. Si trasferì a Coira. Collini venne descritto come scontroso, spesso in litigio. A lui si deve la descrizione dello pterodactylus, un rettile volante, o pterosauro o pterodattilo. Denuncia il fanatismo durante le guerre rivoluzionarie francesi in Europa. Grice: “I often wondered why the conte would flee his family seat in lovely Tuscany for the darker landscapes of the North – till I found out the reason: he had helped one of his noble friends (Ottavio) to do some evil-act on a nobile gentildonna (Malspina): so he had no choice!”. Altro Italiano non ricordato dal Lucchesini, forse perchè assai più tardi aggregato all'Accademia, è Cosimo Alessandro Collini, nato a Firenze. Narra il Denina (1) che, mentre ea Pisa, aiuta a Domenico Eusebio Chelli, da famglia civile di Livorno, nel ratto della marchesa Gabbriella Malaspina, sicchè dovette fuggirsene (2). Dopo essersi fermato a Coira, va a Berlino raccomandato da una signora M. (egli stesso non ne dà che l’iniziale) abitante in Firenze, amica di famiglia e sorella della Barberina. Accolto da questa, ormai signora Coccei, con molta benevolenza, attesea studiare, e con baldanza, quando Voltaire venne a Berlino, si presenta a lui, che lo riceve amorevolmente dicendogli, la Toscana è stata una nuova Atene e i toscani sono stati i nostri maestri. Gli si raccomandò per trovare un'occupazione e n’ebbe lusinghiere promesse. Ma il tempo scorreva e il conte ha fretta, sicchè pensa di valersi, oltre che della ballerina, anche di una celebre cantante, l’Astrua, che gli ottenne il posto di segretario dello stesso Voltaire. Stette con lui copiando i suoi lavori e leggendogli la sera il Boccaccio e l'Ariosto – l’uno pienamente con tento dell'altro. “Mon secrétaire», scrive il Voltaire al Thiriot, “est un florentin, très-aimable, tres-bien né, et qui merite, mieux que moi, d'être de l'Académie della Crusca. Fu compagno al filosofo poeta anche nella sua fuga dalla Prussia e nelle sue pe regrinazioni e vicissitudini per la Germania, la Francia e la Svizzera. Ma nper una lettera nella quale scherzava su mad. Denis, si separa da Voltaire, che tuttavia continua a volergli bene e a corrisponder con lui; e sulle raccomandazioni del Voltaire passa al servizio dell'elettor palatino, che lo fece suo bibliotecario e segretario dell'Accademia di Mannheim. Scrive saggi sulla storia della Germania e su quella del Palatinato, ma più ch'altro di mineralogia. È lodato anche un suo volume di Lettres sur les Allemands, pubblicato anonimo a Mannheim nel 1784, cui un altro doveva seguirne sulla letteratura tedesca.E là dove aveva trovato una seconda patria e una onorevole residenza, mori nel 1806. All'Accademia,alla quale forse furono ascritti anche altri Ita liani oltre quelli ricordati qui e più addietro,e cui è da aggiun gere G. B. Morgagni (3), si riferisce questo brano di lettera del (2) Il COLLINI stesso nel suo libro Mon séjour auprès de Voltaire et Lettres inédites que m'écrivit cet homme célèbre,ecc.,Paris,Collin,1807, confessa (pag. 5) la fuga dalla patria e dalla famiglia, m a ne dà per m o tivo una giovanile vaghezza di conoscere il mondo e gli uomini. L'esemplare tipo dell'animale ora conosciuto come Pterodactylus antiquus è stato uno dei primi fossili di pterosauro scoperti e il primo ad essere identificato. Il primo esemplare di Pterodactylus fu descritto dallo scienziato italiano Cosimo Alessandro Collini, nel 1784, sulla base di un scheletro fossile, portato alla luce dai calcari di Solnhofen, di Baviera. Collini fu il curatore della "Naturalienkabinett", o "camera delle meraviglie" (l'antenato del moderno concetto di Museo di Storia Naturale), nel palazzo di Carlo Teodoro, elettore di Baviera, a Mannheim.[17] Il campione era stato affidato alla raccolta, dal conte Friedrich Ferdinand zu Pappenheim, probabilmente intorno al 1780, dopo essere stato recuperato da un calcare litografico nella cava di Eichstätt.[18] La data effettiva della scoperta e l'ingresso del campione nella collezione è sconosciuto. Non è stato menzionato in nessun catalogo della collezione, preso nel 1767 quindi deve essere stato acquistato tra il 1767 e il 1784, anno della descrizione di Collini. Ciò potrebbe rendere il fossile il primissimo pterosauro descritto; Nel 1779 fu descritto una seconda specie chiamata Pterodactylus micronyx (oggi conosciuto come Aurorazhdarcho micronyx) che però era stata inizialmente scambiata per un fossile di crostaceo.[19]   Ricostruzione di Wagler, del 1830, su uno stile di vita acquatico per Pterodactylus Collini, nella sua prima descrizione del campione di Mannheim, concluse che si trattava di un animale volante. In realtà, Collini non riusciva a capire di che tipo di animale si trattasse, ma lo accostò ad uccelli e pipistrelli, per via di alcun affinità anatomiche. Più avanti lo stesso Collini ipotizzò addirittura che potesse trattarsi di un animale acquatico. Tale ipotesi non venne avanzata su rigori scientifici ma su una supposizione di Collini che pensava che le profondità dell'oceano potevano ospitare animali stravaganti.[20][9] Nel 1830, l'idea che gli pterosauri fossero animali marini persisteva ancora in una minoranza di scienziati tra cui lo zoologo tedesco Johann Georg Wagler, che pubblicò nel suo testo intitolato "Anfibi", un articolo che vedeva gli pterosauri come animali marini con ali disegnate come pinne, ispirandosi ai moderni pinguini. Wagler si spinse fino a classificare lo Pterodactylus, insieme ad altri vertebrati acquatici (come plesiosauri, ittiosauri e monotremi), nella classe Gryphi, tra uccelli e mammiferi.[21]   Prima ricostruzione di uno pterosauro al mondo ad opera di Hermann, nel 1800 Fu lo scienziato francese/tedesco Johann Hermann che per primo dichiarò che il lungo quarto dito della mano dello Pterodactylus venisse usato per sostenere una membrana alare. Nel mese di marzo del 1800, Hermann fu allertato dallo scienziato francese George Cuvier dell'esistenza del fossile di Collini, che era stato catturato dagli eserciti di occupazione di Napoleone e inviato alle collezioni francesi a Parigi, come bottino di guerra; in seguito alcuni commissari politici francesi sequestrarono i tesori d'arte e gli oggetti di valore scientifico. Hermann in seguito inviò una lettera a Cuvier, dove vi era scritta la sua interpretazione del fossile (anche se lui non aveva esaminato personalmente), dichiarando che l'animale doveva trattarsi di un mammifero, e inviò anche una bozza di come doveva apparire in vita l'animale. Fu la prima ricostruzione artistica per uno pterosauro al mondo. Hermann disegnò l'animale con una membrana alare che si estendeva dalla fine del quarto dita fino alle caviglie e ricoperto da pelliccia,(all'epoca il fossile non presentava ne segni di membrana alare ne di pelliccia). Hermann nel suo schizzo aggiunse anche una membrana tra il collo ed il polso, come quella presente oggi nei pipistrelli. Cuvier d'accordo con questa interpretazione, e su suggerimento di Hermann, pubblicò questa nuova descrizione nel dicembre del 1800.[9] In uno scritto Cuvier dichiarò che, "Non è possibile mettere in dubbio che il lungo dito servisse a sostenere un membrana che, allungandosi all'estremità anteriore di questo animale, formava una buona ala."[22] Tuttavia, contrariamente a Hermann, Cuvier era convinto che l'animale fosse un rettile.  In realtà l'esemplare non era stato sequestrato dai francesi. Infatti, nel 1802, dopo la morte di Carlo Teodoro, il fossile fu portato a Monaco di Baviera, dove il barone Johann Paul von Carl Moll, aveva ottenuto un'esenzione generale della confisca per le collezioni bavaresi. Cuvier chiese a von Moll il permesso di studiare il fossile, ma fu informato che il pezzo non fu trovato. Nel 1809, Cuvier pubblicò una descrizione un po' più a lunga, in cui l'animale veniva chiamato "Ptero-dactyle" e confutava l'ipotesi di Johann Friedrich Blumenbach, che sosteneva che l'animale fosse un uccello marino.   Ricostruzione inesatta di P. brevirostris, da parte di Von Soemmerring, del 1817 Contrariamente a rapporto di von Moll, il fossile non è mancata; fu oggetto di studio da parte di Samuel Thomas von Sömmerring, che tenne una conferenza pubblica sul fossile il 27 dicembre 1810. Nel mese di gennaio del 1811, von Sömmerring scrisse una lettera al Cuvier deplorando il fatto che era da poco stato informato della richiesta di Cuvier per informazioni. La sua conferenza fu pubblicata nel 1812, e in essa von Sömmerring diede alla creatura il nome di Ornithocephalus antiquus.[23] Qui l'animale fu descritto come un mammifero simile ad un pipistrello ma con caratteristiche da uccello. Cuvier in disaccordo con tale descrizione, lo stesso anno fornì una lunga descrizione nella quale ricordò che l'animale era in realtà un rettile.[24] Nel 1817 fu rinvenuto un secondo esemplare di Pterodactylus, ancora una volta a Solnhofen. Questo esemplare rappresentato da un giovane fu descritto nuovamente da von Soemmerring, come Ornithocephalus brevirostris, per via del muso corto, avendo tuttavia capito che si trattava di un esemplare più giovane (oggi si sa che questo fossile appartiene ad un altro genere di pterosauro, probabilmente un Ctenochasma[3]). Von Sommerring fornì anche uno schizzo dello scheletro[9] che in seguito si rivelò essere sbagliato e impreciso, in quanto von Soemmerring aveva scambiando il metacarpo per le ossa del braccio inferiore, il braccio inferiore per l'omero, il braccio superiore per lo sterno e lo sterno per una scapola.[25] Tuttavia Soemmerring rimase per sempre fedele alla sua idea dello Pterodactylus. Lo avrebbe sempre immaginato come un animale simile ad un pipistrello, anche se a seguito di alcune ricerche nel 1860 ammise che l'animale era un rettile. Tuttavia l'immaginario collettivo dell'animale rimaneva quello di una creatura quadrupede, goffa a terra, ricoperta di pelo, a sangue caldo e con una membrana alare che si attaccava alle caviglie.[26] In epoca moderno (2015) alcuni di questi elementi sono stati confermati, alcuni smentiti, mentre altri rimangono ancora oggi in discussione.  Paleobiologia Classi d'età  Esemplare giovane di P. antiquus Come molti altri pterosauri (in particolare il Rhamphorhynchus), l'aspetto degli esemplari di Pterodactylus varia a seconda dell'età e in base al livello di maturità. Le proporzioni di entrambe le ossa degli arti, le dimensioni e la forma del cranio e le dimensioni e il numero dei denti possono stabilire a quale classe di età appartiene l'animale. In passato queste differenze morfologiche hanno portato a credere che si trattassero di specie distinte con caratteristiche anatomiche differenti. Recenti studi più dettagliati e che utilizzano nuovi metodi per misurare le curve di crescita degli esemplari noti, hanno stabilito che in realtà vi è un'unica specie di Pterodactylus ritenuta valida ossia, P. antiquus.[6]  Il più giovane e immaturo campione di P. antiquus (da alcuni interpretato come facente parte di una seconda specie chiamata Pterodactylus kochi) possiede pochi denti e i pochi che possiede hanno una base relativamente ampia.[4] I denti di altri esemplari di P. antiquus hanno denti più stretti e numerosi (fino a 90).[6]  Tutti i campioni di Pterodactylus possono essere suddivisi in due diverse classi di età. Nella prima classe, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 15 ai 45 millimetri di lunghezza. Nella seconda classe, invece, rientrano gli esemplari i cui crani hanno una lunghezza complessiva che va dai 55 ai 95 millimetri di lunghezza, ma sono ancora immaturi. Questi due primi gruppi di dimensione erano a loro volta classificati come giovani e adulti della specie P. kochi, fino a che un nuovo studio ha dimostrato che anche quelli che si credevano "adulti" erano comunque esemplari immaturi, e probabilmente appartengono ad un genere distinto. Una terza classe è rappresentata da esemplari specie tipo P. antiquus, così come un paio di grandi esemLplari isolati, una volta assegnati a P. kochi che si sovrappongono P. antiquus per dimensioni. Tuttavia, tutti i campioni di questa terza classe mostrano anche segni di immaturità. L'aspetto degli esemplari completamente maturi di Pterodactylus esemplari rimane tuttora sconosciuto, oppure potrebbero essere stati erroneamente classificati come un genere diverso.[4]  Crescita e riproduzione  Bacino fossile di un grande esemplare, riferito alla dubbia specie P. grandipelvis Le classi di crescita degli esemplari di P. antiquus mostrano che questa specie, come il contemporaneo Rhamphorhynchus muensteri, probabilmente allevava i piccoli in determinate stagioni e questi crescevano costantemente durante tutta la vita. Quindi la riproduzione e il conseguente allevamento dei cuccioli avveniva ad intervalli regolari e probabilmente in ogni stagione.[4][27] Molto probabilmente poco dopo la nascita i cuccioli erano già in grado di volare ma dipendevano ancora dai genitori per la nutrizione. Questo modello di crescita è molto simile a quello dei moderni coccodrilli, piuttosto che alla rapida crescita dei moderni uccelli.[4]  Stile di vita Dal confronto tra gli anelli sclerali di P. antiquus con quelli di moderni uccelli e rettili si è scoperto che lo Pterodactylus aveva uno stile di vita diurno. Questo coinciderebbe con la sua nicchia ecologica, che lo vedrebbe come un predatore simile all'odierno gabbiano, evitando inoltre la competizione con altri pterosauri suoi contemporanei che in base agli anelli sclerali sono stati giudicati notturni, come il Ctenochasma e il Rhamphorhynchus.[28]  Paleoecologia Durante la fine del Giurassico, l'Europa era un arcipelago asciutto e tropicale ai margini del mare Tetide. Il calcare fine, in cui gli scheletri di Pterodactylus sono stati ritrovati, è stato formato dalla calcite delle conchiglie e degli organismi marini. Le varie aeree tedesche dove sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus erano lagune situate tra le spiagge e le barriere coralline delle isole europee Giurassiche nel Mare Tetide. I contemporanei di Pterodactylus, includono l'avialae Archaeopteryx lithographica, il compsognatide Compsognathus, svariati pterosauri come Rhamphorhynchus muensteri, Aerodactylus, Ardeadactylus, Aurorazhdarcho, Ctenochasma e Gnathosaurus, il teleosauride Steneosaurus sp., l'ittiosauro Aegirosaurus, e i metriorhynchidi Dakosaurus e Geosaurus. Gli stessi sedimenti in cui sono stati ritrovati gli esemplari di Pterodactylus hanno riportato alla luce anche diversi fossili di animali marini quali pesci, crostacei, echinodermi e molluschi marini, confermando l'habitat costiero di questo pterosauro. L'enorme biodiversità di pterosauri presenti nei Calcari di Solnhofen, indica che quest'ultimi si erano differenziati tra di loro occupando ogni possibili nicchia ecologica disponibile.[29]  Note ^ Fischer von Waldheim, J. G. 1813. Zoognosia tabulis synopticus illustrata, in usum praelectionum Academiae Imperialis Medico-Chirurgicae Mosquenis edita. 3rd edition, volume 1. 466 pages. ^ Schweigert, G., Ammonite biostratigraphy as a tool for dating Upper Jurassic lithographic limestones from South Germany – first results and open questions, in Neues Jahrbuch für Geologie und Paläontologie – Abhandlungen, vol. 245, n. 1, 2007, pp. 117–125, DOI:10.1127/0077-7749/2007/0245-0117.  Bennett, S. 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Modifica su Wikidata (EN) Pterodactylus, su Fossilworks.org. Modifica su Wikidata Controllo di autorità. LCCN (EN) sh94002837 Biologia Portale Biologia Paleontologia Portale Paleontologia Rettili Portale Rettili Categoria: Pterosauri.  Syncretism and Style Hypnerotomachia Poliphili and the Italian Renaissance Garden CMost of the history of Western philosophy and theology from Parmenides through H^el has attempted to resolve the inherent contradic- tions between sensation and cognition, \Tsibih- ty and ideahrt'. However, the paradoxes, antinomies, and incon- gruities that arise in this quest f)erennially inform numerous paradigms that underUe the history of art and ideas. This study— promenade through the landscapes and gardens, paintings and poems that have inspired me—proposes a sketch of the implications of such poh'semic and equivocal conventions as the\- relate to the histor)' of landscape architectiu-e. The origin of modem European landscape architecture vs-as contemp>oraneous with the rediscover)' of the beaut)' of nature in the early Renaissance. In The Civilization of the Renaissance in Italy, Jakob Burckhardt describes this paradigm shift in the perception of the external world, the moment in which the distant Wew, the "land- scape" proper, was first valorized: But the unmistakable proob of a deepening effect of nature on tbe human spirit began with Dante. Not only does he awaken in us by a few \-igorous lines the sense of the morning airs and the trembling light on the distant ocean, or of the giandeur of the stoim-beaten torest, but he makes tbe ascent of k)fty peaks, with the only possible obfect of en^vying the view—the first man, peihaps, since the days of antiquity who did so.' This appreciation of natural beauty, couched in the poetry of the sublime, was further instantiated in the work of Francesco Petrarch (1304-74), often cited as the first humanist, indeed the first "mod- ern" man. His relation to the landscape was intense and manifold, poetic and practical, as he was a gardener whose favorite site of med- itation was his own gardens at Fontaine-de-Vaucluse. He describes them in one of his letters: I made two gardens for myself: one in the shade, appropriate for my studies, which I called my transalpine Parnassus; it slopes down to the river Sorgue, ending on inaccessible rocks which can only be reached by birds. The other is closer to the house, less wild, and situated in the middle of a rapid river. I enter it by a litde bridge leading from a vaulted grotto, where the sun never penetrates; I believe that it resembles that small room where Cicero some- times went to recite; it is an invitation to study, to which I go at noon.^ Two gardens, one for each side of his temperament, inspired either reverie or melancholy; two gardens, one for each extreme of nature, extensive and picturesque or protective and chthonic; two gardens, one leading towards the empirical, the other towards the spiritual. For Petrarch, as for Cicero, his predecessor in literature and garden- ing, the landscape was a major source of inspiration, both literary and empirical; for while these gardens evoked the great sites of clas- sic culture, they also constituted a rudimentary botanical laboratory and collection, where Petrarch experimented with different varieties of plants according to meteorological and astrological conditions, geographic placement, seasonal growTih, and so forth. He also used these gardens to amass collections of rare plants. As Gaetane Lamarche-Vadel demonstrates in Jardins secrets de la Renaissance, such secret gardens, "appertain to the double register of the fictive and the real, the physical and the mystic; they echo with the adam- ic garden, the paradigmatic place and origin from which gardens draw their spiritual energy."^ It is precisely for this reason that the study of gardens necessitates formal, cultural, and psychological analyses: the symbolic significance of any garden is derived from, yet surpasses, its formal characteristics, and can only be grasped in relation to the artistic works that both inspired and were inspired by the site. Petrarch's most celebrated consideration of the landscape is the description of his ascent of Mont Ventoux, recounted in a letter to Dionisio da Borgo San Sepolcro, written in 1336. In this text, he explains the reason for this difficult ascent: "My only motive was the wish to see what so great an elevation had to offer."4 Though inspired by literary motives—specifically, the tale in Livy's History of Rome^zx recounts Philip of Macedon's ascent of Mount Haemus in Thessaly, with its attendant views—the experience shifted from the literary to the sensory, where revelation becomes visual. Indeed, the subsequent history of landscape architecture often reveals mythical tales, literary inspirations, and pictorial models behind the creation of gardens; here, Petrarch's visionis already predisposed to concep- tual density by being couched in myth and history. "At first, owing to the unaccustomed quality of the air and the effect of the great sweep ofviewspread out before me, I stood like one dazed. I beheld the clouds under our feet, and what I had read of Athos and Olympus seemed less incredible as I myself witnessed the same things from a mountain of less fame."^ The force of the poet's vision surpasses all previous literary descriptions. Is it the poet's unique, hyperbolic sensibility, or the inherent magnificence of nature, that is at work here? Or is there a third term that mediates the poetic imagination and the natural world? The letter continues with a detailed appreciation of the mul- tiplicity and uniqueness of the natural world Petrarch witnessed, until the moment he realizes, in a flash of intuition, that the ascent of the body must be accompanied by a concomitant ascent of the soul. Thus, opening a copy of Saint Augustine's Confessions he had with him, he felicitously chanced upon the following passage: "And men go about to wonder at the heights of the mountains, and the mighty waves of the sea, and the wide sweep of the rivers, and the circuit of the ocean, and the revolution of the stars, but themselves they consider not."^ This is the ironic moment of revelation, where experience becomes allegory and visibility becomes a metaphor for spirituality: I dosed the book, angry with myself that I should still be admiring earthly things who might long ago have learned from even the pagan philosophers that nothing is wonderftil but the soul, which, when great itself, finds noth- ing great outside itself. Then, in truth, I was satisfied that I had seen enough of the mountain; I turned my inward eye upon myself, and from that time not a syllable fell from my lips until we reached the bottom again. The three major realms that informed early humanist sensibility were thus interwoven in an allegory of spiritual revelation: inspira- tion from antiquity, sensitivity to nature, and salvation within Christianity. Certain technical, mathematical, and financial consider- ations would be added to these preconditions to localize and system- atize such apperceptions in the creation of the Italian Renaissance garden. The consequent transmigration and intercommunication of symbols and allegories would henceforth enrich all the arts, radical- ly impelling some of them towards their modern forms.^ Within these rubrics, the major influences on the Renaissance transformation of man's relation to nature could be schematized as follows. The theological revolution of Saint Francis of Assisi (1181-226) redeemed nature's state of grace. His "Canticle of Creatures"—indeed, every act of his life—expressed a mystical rela- tion to a cosmos in which all nature was a reflection of God; thus nature itself was the foundation of spiritual values. As Ernst Cassirer explains in The Individual and the Cosmos in Renaissance Phibsophy, a book that will serve as a metaphysical guide to the current study: With his new. Christian ideal of love, Francis of Assisi broke through and rose above that dogmatic and rigid barrier between "nature" and "spirit." Mystical sentiment tries to permeate the entirety of existence; before it, barriers of par- ticularity and individualization dissolve. Love no longer turns only to God, the source and the transcendent origin of being; nor does it remain confined to the relationship between man and man, as an immanent ethical relation- ship. It overflows to all creatures, to the animals and plants, to the sun and the moon, to the elements and the natural forces. In this unscholastic "nature mysticism" we find one of the origins of Western ecological and environmental thought. (Indeed, in 1979 Pope John Paul 11 proclaimed Francis the patron saint of ecologists.) Yet, more immediately, he not only redeemed the state of nature in a postlapsarian world, but praised nature—specifically the picturesque and fertile central Italian landscape of Umbria—with a glorious and beatific lyricism that has inspired those who would transform nature according to human desire and volition into a new form that would become the "humanist" garden. Yet the major paradigm at work in establishing new ways of experiencing and re-creating the landscape did not stem from theo- logical transformations; rather, they arose from the rediscovery of antiquity and the consequent valorization and appropriation of pagan mythology. This is especially the case insofar as such myths express a profound connection to the natural world, as evidenced most notably in Ovid's Metamorphosis, Apuleius's The Golden Ass, Virgil's Eclogues and Georgics, and the writings of Pliny, Cicero, and Horace, with the latter's crucial notion of ut pictura poesis. The rise of a new literary scenarization accounted for the expression of a spe- cific sense of place within nature such that the genius A?a would once again have a voice, as in Dante's Inferno, Boccaccio's Decameron (describing the Villa Palmieri near Florence), Erasmus's Convivium religiosum, and especially in Petrarch, for whom, as Cassirer notes: "The lyrical mood does not see in nature the opposite of physical reality; rather it feels everywhere in nature the traces and the echo of the soul. For Petrarch, landscape becomes the living mirror of the Ego."^° If one were to formulate this sensibility in relation to the his- tory of landscape architecture, it might be said that the new form of garden is no longer delimited by either cloister walls or restricted cosmological symbolism (the latter allegorically corresponding to the medieval hortus conclusus, or closed garden), but rather by the limits of the imagination responding to the very act of human per- ception. Rather than serving as a static allegorical form, the garden reveals the dynamic, creative relation between humanity and nature. The view shifts from the interior (the cloister, the soul) to the exte- rior, encompassing not only the ambient scene, but also distant views; space is no longer treated as metaphoric, but is revealed in its localized and particularized reality. Nature incarnate, in its vast mul- tiplicity, offers sites of pleasure and wonder, terror and awe—prefig- uring the fiiture aesthetic distinctions of the picturesque, the beau- tifiil, and the sublime. Coincident with this new sensibility was the development of a system of pictorial representation—the quattrocento rediscovery and refinement of linear perspective—that both drew upon and informed the multifarious Renaissance modes of appreciating the landscape." The intersection of mathematics, technology, and aes- thetics in perspectival representations constitutes a major structure that articulates the reciprocal influences between landscape, garden, literature, and painting, one that marlcs the subsequent history of landscape architecture. Here, the varied and often incompatible beauties (ancient and modern) of nature and painting interacted and enriched each other's iconographies. Specifically, three works of Leon Battista Alberti (1404-72) codified the intricate interrelations between perspective and vision, pictorial representation and landscape architecture: Delgoverno delta famiglia (c. 1430), a treatise on family life that celebrated the advan- tages of country living, thus instilling a taste for gardens and the landscape; Delia pittura (1436), which codified the system of linear perspective; and De re aedificatoria (1452), which, in establishing "rational" architectural rules based on ancient models (notably Vitruvius), necessarily dealt with the question of gardens and sites, with a particular attention to and fondness for the Italian land- scape.^^ For Alberti, the most important aspect of choosing a build- ing site was a sloping terrain with open perspectives from which the countryside could be seen. Though the view into the garden was protected by enclosures, the slope of the terrain established views of the distant landscape. Furthermore, the garden was conceived in direct relationship with the villa as a sort of prolongation of the architecture, thus bringing the outdoors in, all the while linking the cultivated garden with the wild spaces beyond to establish an archi- tectonic continuity between the natural and the human realms. Such strategies, both structural and narrative, offer a dynamic, com- plex synthesis linking the constructed, geometrized spaces of habita- tions with the non-geometric, organic realms of the natural world. Alberti's text proffers many of the characteristics of the humanist gardens of the Italian Renaissance:'^ the use of perspective in the deployment of objects and space, grottos and the "secret garden," symmetrical plantings, groves, clipped and sculpted plants (topiary and espalier), architectural details, and statues of mytho- logical figures as invocations of ancient culture, surprise effects caused by both perspectival and technical means, and especially the myriad uses of water—fountains, pools, canals, panerres, troughs, water staircases and theaters, hydraulic organs and automata, even artificial rain and water jokes {giochi d'acqua). It was through the use of water that both illusion and motion were introduced into land- scaf)e architecture, creating the sort of instability, surprise, and evanescence that would become central to the baroque sensibility, with its taste for motion, dematerialization, dissimulation, and contradiction.'** This irmiijdng of artifice, theatricality, and nature was well expressed in that epoch by the sixteenth-century philosopher JacofK) Bonfadio, influenced by Petrarch: "I have done much that nature, combined with an, has turned into artifice. From the two has emerged a 'third nature,' to which I can give no name."'' Such a "third nature" might well be a synonym of the garden itself, for how- ever "natural" a garden may be (as in the ideal of the eighteenth-cen- tury EngUsh garden, where the desire to dissimulate all artifice estab- hshed a simulacrum of wild nature), its forms always evince aesthetic, even painterly, paradigms (even true for the notion of "vir- gin" nanire in the North American landscape, as will be explored in a subsequent chapter). Yet this "third nature" is never a purely for- mal artifact: it is always enmeshed in both philosophical and narra- tive systems, as exemplified by Petrarch's appreciation of the land- scape. Henceforth, the history of landscape architecture will entail the intertwining and hybrid histories of poetry, literature, philoso- phy, painting, sculpnire, architecture, surveying, hydrauhcs, and botany. In order to grasp the conceptual and cultural systems that influenced the sensibilities, as well as the forms, that underlie the Italian Renaissance humanist garden, a synopsis of the philosophical trajectory of the Platonic Academy of Florence (c. 1462-94), found- ed by Marsiho Ficino under the auspices of the Medici, is in order. The principal foundational tenets of Renaissance ontology and epis- temology were expressed by Nicholas Cusanus (1401-64) in De docta ignorantia (1440), the initial systematic philosophical study that began to modify the relatively rigid and often dogmatic closure and hairsplitting of medieval scholasticism. According to medieval thought, the closed, ordered, hierarchical universe, that "great chain of being" of ecclesiastic Aristotelianism, was one with a moral and religious systemof judgment and salvation in which the role of epis- temology was a ftmction of man's limited place in that system.'^ Though Cusanus's writings never called the theological foundation of this system into question, they did entail a radical epistemologi- cal shift, insofar as the relation between absolute divinity and finite humanity was no longer taken as dogmatically posited, but was rather analyzed according to human limitations. This revision of the ontological ratio between the absolute and the empirical implies an indeterminable conceptual relation to infinity. Cusanus's key princi- ple—expanding on certain nominalist analyses—is that there exists no possible proportion between the finite and the infinite, thus loos- ening the bond that had held together scholastic theology and logic within a homogeneous system. As a result of this separation of realms (human from divine, relative from absolute infinity), the syl- logistics of speculative theology and metaphysics would henceforth become disciplines distinct from logic and mathematics, prefiguring the materialistic quest for a universal systematization of knowledge that culminated in the ideal of the Cartesian mathesis universalis. The amor Dei intellecttmlis (the intellectual component of the love of God, prefiguring the notion of "Platonic love" that inspired the neoplatonism of the Florentine Academy) established a new mystical theology. Yet, by strictly delimiting such mysticism to its proper the- ological domain—the ultimately unknowable realm of the dens absconditus, the hidden god—the ftiture development of the worldly sciences would not be impeded. Theology and mathematics would henceforth proffer incompatible yet complementary worldviews. Central to this speculation is the principle of the docta ignorantia, a "learned ignorance" based not on passive mystical con- templation but on active mathematical thought, revealing the unknowable nature of divinity, which can only be expressed in con- tradiction and antithesis. This results from the unfathomable nature of God, such that the maximal ontological conditions of existence are constituted by a qualitative, not a quantitative, determination whence the cognitive paradoxes that result from all intellectual attempts to resolve the divine mysteries. All human thought oper- ates according to finite determinations, generating predicable and measurable differences; yet beyond any given determination, an absolute term can always be postulated, even if it is not deter- minable. However, between the finite and the infinite there is no common term, thus no possible predication. This is a metaphysics of maximal contradiction, of complicatio, not explicatio. The infini- ty of the godhead is unpredicable and inexpressible. Whence the necessity of differentiating between the infinite and the indefinite, wherein the mutually exclusive relation between the ideal, uncondi- tioned, indeterminable realm of the divine and the empirical, con- ditioned, determinable realm of the human. Where the axiomatic knowledge of mathematics fails, the limits of comprehensibility end, and the realm of negative theology begins. Knowledge, for Cusanus, was the progression of thought towards its incomprehensible limits, in the attempt to understand the fundamental ontological contradictions of existence. Whence the notion of the coincidentia oppositorum, the coincidence of oppo- sites—the very form of such ignorance—which is the outcome of this new metaphysical speculation, revealing the limits of the ancient philosophical dichotomy of immanence and transcendence, thought and being. The infinity of the godhead is indeterminable yet appar- ent to human knowledge precisely in terms of our "learned igno- rance," which evolves an intuition of what surpasses the limits of human cognition. As Karl Jaspers explains: "Speculative thinking must remain the thinking of the unthinkable, it must preserve an unresolvable tension. The fundamental concept remains paradoxi- cal."'7 Thus the docta ignorantia establishes a worldly, human domain of knowledge, apart from theological speculation, differen- tiating the calculable and operable mathematical infinity from the impenetrable infinity of God. Here, knowledge becomes an active function of the dynamics of attempting to connect the impercepti- ble universal to the sensible particular, with its attendant concrete symbolizations. Not only did this system offer a foundation for modern science and mathematical speculation, but it also estab- lished the grounds for a new, "rationalized" aesthetics, as explained by Cassirer: The De docta ignorantia had begun with the proposition that all knowledge is definable as measurement. Accordingly, it had established as the medium of knowledge the concept of proportion, which contains within it, as a condi- tion, the possibility of measurement. Comparativa est omnis inquisitio, medio proportionis uteris. But proportion is not just a logical-mathematical concept: it is also a basic concept of aesthetics Thus, the speculative-philosophical, the technical-mathematical, and the artistic tendencies of the period converge in the concept of proportion. And this convergence makes the problem of form one of the central problems of Renaissance culture.'^ In the arts, this is most apparent in the relation between theory and practice in Leonardo da Vinci and Leon Battista Alberti, the latter of whom had direct links with Cusanus, utilizing Cusanus's specula- tions in his own work. Yet while Cusanus was mainly preoccupied with mathematical and cosmological issues, the philosophers of the Platonic Academy of Florence were especially concerned with the role of beauty as a spiritual value and so extended his studies into other realms. Following Cusanus, beauty was deemed an objective value determined by measure, proportion, and harmony. Beauty might exist as an intelligible sign of God, but it is gauged according to human proportions, values, and limits. A year before his death, Cosimo de Medici wrote, in a letter to Marsilio Ficino (1433-99), "Yesterday I arrived at my Villa Carreggi, not to cultivate the fields, but my soul. "'9 This sentiment—where inner and outer nature exist in reciprocal symbolic resonance—was fully in accord with Ficinos philosophical temperament, as it was in the Medici's Villa Carreggi in Florence where Ficino founded his famed Academy. Here, the gardens provided a site of retreat. inspiration, meditation, and discourse, while the villa ofifered a ver- itable compendium of the arts, with its library, music room, and gal- leries of artworks. This would suggest not only that nature and its aesthetic simulacrum, the garden, played a major role in Ficino's philosophy, but also that a consideration of his philosophical system might bear upon our understanding of the landscape and develop- ments in landscape architecture of the period. On the basis of an expanded model of the principle of the coincidence of opposites, Ficino demonstrated the central place of man in the universe. In his cosmology, the soul is the privileged midpoint between the intellectual and the sensible world, mediating the higher and lower realms, dynamically embracing the universe through the process of knowing and self-determination. The soul is the means by which the universe reflects upon itself through a dynamic unity, as opposed to the static hierarchy posited by scholas- ticism. Whence the new status of the dignity of man, who is seen (following Plato's tripartite schematization of the soul) to share attributes with both the lower and the higher beings, midway between the cosmic mind and the cosmic soul above, and the realms of nature and of pure, formless matter below. As the terms of this hierarchy are emanations of God (following Plotinus's mystical read- ing of Plato, and hardly distant, either intellectually or geographi- cally, from Saint Francis's nature mysticism), all cosmic zones par- ticipate in, and somehow symbolize, divine creation. All realms of existence are therefore interconnected, and the cohesion of the cos- mos is reflected in the microcosm of human intelligence. As Cassirer writes of a Ficino dialogue between God and the soul: God says: "I fill and penetrate and contain heaven and earth; I fill and am not filled because I am fullness itself. I penetrate and am not penetrated, because I am the power of penetration. I contain and am not contained, because I myself am the faculty of containing." But all these predicates claimed by the divinity are now equally attributable to the human soul}° As such, fact becomes truth, and the world becomes meaningful, through the ^rf of cognition; symbols can be effectively derived from all facts, objects, and events; thought is liberated to become a cre- ative, and not merely reflective, activity. Inspired by the theory of love developed in Plato's Symposium and Phaedrus, Ficino places mystical love (in a manner very differ- ent from that of Saint Francis's more immediately sensual and intu- itive mysticism) at the center of his system, as a cosmological, and not a psychological, principle. Erwin Panofsky elaborates: Love is the motive power which causes God—or rather by which God caus- es Himself—to effuse His essence into the world, and which, inversely, caus- es His creatures to seek reunion with Him. According to Ficino, amor is only another name for that self-reverting current {circuitus spiritualise from God to the world and from the world to God. The loving individual inserts himself into this mystical circuit.^' Whence the much misunderstood notion of ;he highest form of love, "Platonic love," that "divine madness" which is the source of poetic inspiration and genius as introduced by Plato, enriched by Plotinus, Augustine, and the twelfth-century Neoplatonists, and transformed by Ficino. Such love entails a desire guided by cogni- tion, which seeks as its ultimate goal the beauty diffused throughout the universe. The contradictory and oppositional totality of love is symbolized by the two Venuses, celestial and natural, representing sacred and profane love: beauty as supercelestial, intelligible, and immaterial, and beauty as particularized and perceptible in the cor- poreal world.^^ Within this context, three sorts of love are possible: amor divinus (divine love, ruled by the intellect), amor humanus (human love, ruled by all the other faculties of the soul), and amor ferinus (bestial love, which is tantamount to insanity). Love is the factor that mediates the higher and lower worlds, transcendence and immanence, cognition and perception. Cassirer stresses the import of this theory for an incipient humanism: This contradictory nature of Eros constitutes the truly active moment of the Platonic cosmos. A dynamic motif penetrates the static complex of the uni- verse. The world of appearance and the world of love no longer stand simply opposed to each other; rather, the appearance itself "strives" for the idea.^' Love is both psychological and theological, human and divine, con- templative and active, intellectual and passional; it achieves a central epistemological status due to its vast, synthesizing function; it is ontologically all-encompassing precisely because of its profoundly paradoxical nature—a complex scenario that will be dramatized, in a manner crucial to the subsequent history of landscape architecture, in Francesco Colonnas Hypnerotomachia Poliphili, discussed later in this chapter. In this context, the entirety of creation is an emanation of God, therefore the realm of nature is no longer deemed evil, for only nonbeing is evil. Panofsky: Thus the Realm of Nature, so full of vigour and beauty as a manifestation of the "divine influence," when contrasted with the shapelessness and lifelessness of sheer matter, is, at the same time, a place of unending struggle, ugliness and distress, when contrasted with the celestial, let alone the super-celestial world.^ The human soul is the site of the reflection and expression, if not quite the resolution or synthesis, of these universal antinomies and oppositions. The spiritual is present in the natural world, such that, a fortiori, nature offers itself for human expression in terms of what Panofsky terms zpaysage moralise {moraliTjed landscape). As such, the- ological and cosmological symbolism is not at all obviated by the real- ism and perspectivalism of quattrocento art. Quite to the contrary, it offers a supplemental semiotic layer to imagery and allegory, adding the realm of "perspective as symbolic form," as Panofsky stated it, to previous symbolic systems. In fact, within this theological cosmology, all symbols and objects are simultaneously moralized and humanized. This transformation of vision and knowledge holds great promise for the arts, and especially for landscape architecture, insofar as the benevolence of the natural world is now theorized as a modality of divine love, and thus connected to what will later be subsumed under the rubric of the sublime through the human act of contemplation. In this theory of Platonic love, the artists of the Renaissance found a system that expressed their most profound aesthetic con- cerns, notably that the eternal values of beauty and harmony they sought need be expressed through material forms. Thus the artist is necessarily a mediator of the spiritual and the sensible realms. The very nature of artistic creativity, in all its complexity, paradox, and multiplicity, was expressed therein. Cassirer delineates what is aes- thetically at stake: The enigmatic double nature of the artist, his dedication to the world of sen- sible appearance and his constant reaching and striving beyond it, now seemed to be comprehended, and through this comprehension really justified for the first time. The theodicy of the world given by Ficino in his doctrine of Eros had, at the same time, become the true theodicy of art. For the task of the artist, precisely like that of Eros, is always to join things that are sepa- rate and opposed. He seeks the "invisible" in the "visible," the "intelligible" in the "sensible." Although his intuition and his art are determined by his vision of the pure form, he only truly possesses this pure form if he succeeds in realizing it in matter. The artist feels this tension, this polar opposition of the ^5 elements of being more deeply than anyone else. This new metaphysics of art was in great part based upon the notion of the representable order of nature. The subsequent imaging of the world became a function of the profound affinities between mathe- matical research and aesthetic production, insofar as they both share a sense of form, based on the newly representable order of the cos- mos. Cassirer: "For now, the mathematical idea, the a priori' of pro- portion and of harmony, constitutes the common principle of empirical reality and of artistic beauty. "^^ And as Cassirer insists, regarding the primacy of form in the Renaissance poetry of writers such as Dante and Petrarch, such lyricism does not express a preex- istent reality with a standard form, but creates a new inner reality by giving it a new form: "stylistics becomes the model and guide for the theory of categories."^'' This claim may be generalized for the textu- al arts (philosophy, rhetoric, and dialectics) and extrapolated for the visual arts. It was, indeed, a model for the new nature of thought, where style is not a formal effect bounded by the limitations of sheer representation, but rather where representation itself is a creative act. Within this context, the garden would no longer be conceived as merely a microcosmic or Edenic symbol, nor as a theological alle- gory of the body of the Virgin. In a sense, every theory of the micro- cosm is a theory of mimesis, of levels of representation. Henceforth, there would be a reciprocal relationship between the mimetic activ- ity of art and the perception of nature, such that, concurrently, art would attempt to represent nature, and nature would be seen according to the work of art. Consequently, mimesis would play a decreasing metaphysical role in the light of the new theories of human creativity and productivity. Mediating this reciprocity, the garden would be a "third nature," simultaneously patterned upon the idealizations of art and reinventing the way that the landscape was experienced. This aes- thetic was summed up by Giordano Bruno in Eroicifuroi: "Rules are not the source of poetry, but poetry is the source of rules, and there are as many rules as there are real poets. "^^ "Nature" had always been, and would always be, invented. But now, the verity of this perpetual reinvention, its cultural inexorability, was recognized and thematized as a function of artistic creativity. The ultimate extrapolation of this mode of philosophical specula- tion was achieved by Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), a disciple of Ficino who joined the Florentine Academy a quarter of a century after its inception. ^9 Xhe radical aspect of Pico's thought was the reversal of the relation between being and becoming or acting in the cosmic hierarchy, aproblem predicated on the role of freedom. In the scholastic universe, every being, including the human being, had a fixed place in the cosmic hierarchy; the sphere of human voli- tion and cognition was strictly delimited and conditioned. For Ficino, to the contrary, though man's role in the universe was to rec- ognize and celebrate the entirety of creation, human difference and dignity consisted in man's role as a metaphysical mediator between the higher and lower realms. Pico radicalized and potentialized this mediative role by positing the entirety of the cosmic hierarchy as man's proper place. Thus man, endowed with no essential particu- larities, no longer had a fixed place in the cosmic hierarchy: the placement of each person within the cosmos was a function of indi- vidual activity, so that man could degenerate towards the beasts or ascend towards God, according to the value of his acts. Human nature consisted precisely in not having a predefined nature or form. In this proto-existentialist philosophy, man's being is defined as becoming; man's essence is constituted by the unique trajectory of each individual existence. In this system, where existence precedes essence, coincide the roots of both Pascalian anguish and existential optimism; the origins of both a theological anxiety at the eclipse of God and the joys of a radical liberation of the human soul. Though the system still operated within a Christian ethos, it established the preconditions for a secular realm of thought. This openness towards the world implied that human volition and knowledge must traverse the entire cosmos in order to achieve individual spiritual fiilfillment. As Pico wrote, concerning the creation of man, in his Oration on the Dignity ofMan, At last the best of artisans ordained that that creature to whom He had been able to give nothing proper to himself should have joint possession of what- ever had been peculiar to each of the different kinds of being. He therefore took man as a creature of indeterminate nature and, assigning him a place in the middle of the world, addressed him thus: "Neither a fixed abode nor a form that is thine alone nor any function peculiar to thyself have we given thee, Adam, to the end that according to thy longing and according to thy judgment thou mayest have and possess what abode, what form, and what functions thou thyself shalt desire. The nature of all other beings is limited and constrained within the bounds of the laws prescribed by Us. Thou, con- strained by no limits, in accordance with thine own free will, in whose hand We have placed thee, shall ordain for thyself the limits of thy nature. We have set thee at the worlds center that thou mayest from thence more easily observe whatever is in the world. We have made thee neither of heaven nor of earth, neither mortal nor immortal, so that with freedom of choice and with honor, as though the maker and molder of thyself, thou mayest fashion thyself in whatever shape thou shalt prefer. Thou shalt have the power to degenerate into the lower forms of life, which are brutish. Thou shalt have the power, out of thy soul's judgment, to be reborn into the higher forms, which "'° This self-transforming, metamorphosing nature is ever-changing, establishing no fixed form. In the aesthetic realm, Pico's theory of total potentiality and mutability justified a renaissance of artistic cre- ativity, with a newfound juxtaposition and inmixing of forms, styles, and symbols. This metaphysics of action and creativity is at the ori- gin of an aesthetic lineage leading to the baroque and culminating in romanticism. It is interesting to note that Pico's philosophy was dramatized by the Spanish humanist Juan Luis Vives (1492-540) in Fabula de homine (c. 1518), where the full mimetic powers of protean man are acted out on the stage of the Roman gods. After imitating the gamut of natural forms, man achieves a quasi-apotheosis: "The gods were not expecting to see him in more shapes when, behold, he was made into one of their own race, surpassing the nature of man and relying entirely upon a very wise mind Man, just as he had watched the plays with the highest gods, now reclined with them at the banquet."^' But this theatricality did not end with the allegori- cal staging of theology in a mythical setting; Vives also considered the implications of this apotheosis, entailing newfound powers of human creativity in relation to the observation of the natural world, claiming, all that is wanted is a certain power of observation. So he will observe the nature of things in the heavens in cloudy and clear weather, in the plains, in the mountains, in the woods. Hence he will seek out and get to know many things about those who inhabit such spots. Let him have recourse to garden- ers, husbandmen, shepherds and hunters ... for no man can possibly make all observations without help in such a multitude and variety of directions.'^ This protean ontology was not lost on the natural sciences. The specificity of landscape would be determined with increasing preci- sion following the development of the new sciences of geography, astronomy, meteorology, botany, zoology, etcetera; furthermore, the physical sciences would increasingly serve the arts, with all their the- ological and metaphysical symbolism, however archaic or obscure. Already in this epoch, the hortus conclusus, the enclosed clois- ter gardens of the medieval monasteries, gave way to the secret gar- dens of the Renaissance, and later to the more systematically orga- nized botanic gardens, initiated in Venice in the fifteenth and sixteenth centuries, with their increasingly open collections of in- digenous and exotic plants. When the first public botanic garden was created in Padua in 1545, the secret garden gave way to the pub- lic garden. As explained by Gaetane Lamarche-Vadel, The secret garden henceforth became a laboratory of minutious observations of all the states of plants' growth, of their reactions to the seasons, climates, and adoptive soils. Petrarch already gave himself over to such scrupulous experimentations and annotations in his gardens at Vaucluse, The attempts at transplanting pursued a century later accelerated and changed in scale: the '' exchanges were no longer local but intercontinental. Unknown roots from the New World arrived to be planted in the ancient earth of the Old World; new names of plants abounded; exotic herbs, spices, and produce transformed cuisine; old maladies found cures; the eye received novel pleasures. What arrived to incite mystery and wonder slowly gave way to knowledge and order: the notion of the world as a closed microcosm was replaced by the con- cept of an infinite universe, open to sensory observation and increas- ingly rational classification. Each new botanical discovery demand- ed a place on the cosmic great chain of being; as the examples became more and more numerous, and less and less coherent with the previously contrived system of botanic knowledge, the old cate- gories became insufficient to the task, forcing both a new system of classification and ultimately an entirely new conception of the cos- mos (coherent with analogous discoveries in the other sciences, notably those of the great Copernican and Galilean astronomical revolutions). Under the stress of an increasingly heterogeneous empirical field of objects collected, beginning in the fifteenth centu- ry, from the corners of the earth—including all the orders: animal, vegetable, mineral—the old system of classes was subverted and transformed. These objects decorated both cabinets of curiosity and gardens (living, outdoor cabinets of curiosity), radically transform- ing the order of nature—including the aestheticized reordering of nature that is the garden—in a scenario of hybridization beyond any adequately totalizing knowledge. Hybrid species gave rise to hybrid thoughts. However, as this process of demythification was a slow one (evolving over the centuries), each epoch bore a particular ratio of the inmixing of myth and science—a ratio that would remain crucial to all aesthetic representations and transformations of the landscape. Ficino's notion that all of creation is divine and beautiful opened the way for the historicizing of knowledge, which is one of the key tenets of humanist thought, no longer restricted to the Christian limitations of scholastic scholarship. For if all cosmologi- cal levels of the universe participate in divine goodness and beauty, then by extension all historical moments of thought participate, albeit partially, in universal truth. The result was a new syncretism, most immediately effected by Ficino in a reconciliation of Platonic and Aristotelian systems, but also extending to the positive recon- sideration of such thinkers as Plato, Moses, Zoroaster, Hermes Trismegistos, Orpheus, Pythagoras, Virgil, and Plotinus. Further- more, the implications of this intellectual openness and mobility were vast for both philosophical historicism and a theory of natural religion: the fact that consciousness must survey the entirety of the universe implied the necessity of discerning the truth value of every system of thought. Christian or otherwise, insofar as they all partake of a vaster universal truth. Pico's syncretism was even greater than that of Ficino, including not only Ficino's sources but also the Greek, Latin, and Arabic commentators of Aristotle, as well as the Jewish Cabalists. Furthermore, and crucial for modern hermeneu- tics, Pico went beyond the medieval scheme of interpreting scripture at four different levels—literal, allegorical, moral, and anagogical according to a hermeneutic centered on the master narrative of the Bible. Rather, he argued for a multiplicity of meanings to scripture, as heterogeneous and polyvalent as the complexity of the universe to which they pertained. In Pagan Mysteries of the Renaissance, Edgar Wind discusses the implications of Pico's conceptual revolution for art and aesthetics. The notion of the deus absconditus, the hidden God, implies that no single symbolization of God can be adequate, for God is fundamen- tally nonrepresentable. Witness Cusanus's discussion, in De docta ignorantia, of the many names of the pagan gods: All these names are but the unfolding of the one ineffable name, and in so far as the name truly belonging to God is infinite, it embraces innumerable such names derived from particular perfections. Hence the unfolding of the divine name is multiple, and always capable of increase, and each single name is related to the true and ineffable name as the finite is related to the infinite.^'* As Wind suggests, "Poetic pluralism is the necessary corollary to the radical mysticism of the One."^^ This polytheistic, or at least poly- morphic, vision of the deity achieved the reconciliation of theologi- cal opposites in the hidden God, necessitating an application of the intellectual syncretisms of Ficino and Pico. Yet those irreconcilable opposites, w^hich previously could only have been united within God, could now be provisionally reconciled in human conscious- ness. But insofar as this central theological doctrine could only be stated in the form of a paradox, its manifold expressions, whether conceptual, symbolic, pictorial, or ornamental, needed to share the conceptual and ontologicaJ equivocation of its foundation. This would be the source of a new iconographic richness in the arts. Pico was intimately familiar with the ancient pagan mystery religions being rediscovered during his time, as well as with the role of initiation in the acquisition of knowledge; indeed, he had planned to write a book on the subject entitled Poetica theobgia. He discerned the various formal levels of these mysteries—ritualistic, figurative, and magical—all of which were continuously intermin- gled during the Renaissance. Within these systems, truth was always hidden, to be revealed only to the initiated through hieroglyphs, fables, and myths. The dissimulation of truth was a protection against profanation; revelation was thus a function of disguise, dis- simulation, concealment, equivocation, and ambiguity. Wind's analysis of the much-admired Renaissance maxim, ^^- tina lente (make haste slowly), which originated in Aulus Gellius's Nodes Atticae (Attic Nights), is a concrete case in point. This oxy- moron simultaneously sums up, at a poetic level of understanding, the metaphysical principle of divine totalization, the epistemological principle of the limits of human comprehension, and a certain eth- ical principle for regulating one's earthly existence. Here, the meta- physical is reduced to representable (and thus apparently compre- hensible) oxymoronic hieroglyphs or emblems—such as a dolphin around an anchor, a butterfly on a crab, an eagle and a lamb, and countless others—all intended, "to signify the rule of life that ripeness is achieved by a grovi^ih of strength in which quickness and "^*^ steadiness are equally developed. Metaphysics is thus expressed in the realm of popular imagery by reducing philosophy to the emblematic. The result of this reduction of the cognitive to imagery is that while aesthetics always implies a metaphysics, metaphysics is no longer the prime guarantor of aesthetics. This is apparent, for example, in a seminal^'' book in the his- tory of Western gardens, Francesco Colonna's Hypnerotomachia Poliphili (The Strife of Love in a Dream). Here numerous versions oifestina lente are illustrated; each one provides a unique nuance to the idea, specifically attuned to the demands of the narrative. As Wind explains, these emblems in fact serve as part of the initiatory mechanism of the allegory. The plan of the novel, so often quoted and so little read, is to "initiate" the soul into its own secret destiny—the final union of Love and Death, for which Hypneros (the sleeping i,rosfuneraire) served as a poetic image. The way leads through a series of bitter-sweet progressions where the very first steps already foreshadow the ultimate mystery oi Adonia, which is the sacred mar- riage of Pleasure and Pain.^^ The coincidence of opposites is revealed through sundry conjunc- tions, such that not only the marvels and miracles of the world, but also its most commonplace objects, reveal human destiny. Needless to say, if basic imagery is thus manipulated, the most complex forms of expression—the arts, including landscape architecture—^will bear witness to similar metaphysical formations and deformations. These techniques lead to the realm ofwhat, as Cassirer reminds us, Goethe referred to as an "exact sensible fantasy,"^^ where science, nature, and art coalesce in an empirical realm that utilizes its own standards, paradigms, and forms; where abstraction and vision merge; and where fantasy and theory, literature and metaphysics, share a com- mon ground of expression. If poetry and images were but a veil upon the truth, they nev- ertheless offered an alternate entry into the theological system, a means of circumventing the obvious social restrictions of a more the- ological approach. This syncretism was reciprocal: "An element of doctrine was thus imparted to classical myths, and an element of poetry to canonical doctrines. "'^° Thus there obtained a hybridization of elements within imagery; theological connotations were granted to secular figures, and, conversely, sacred scenes evinced secular and contemporary truths. What Wind termed a "transference of types''"^' was in fact more than a stylistic feature of Renaissance art; it estab- lished an epistemological overture that indicated the metaphysical foundations of a major lineage of subsequent art and aesthetics. This syncretism was not lost on the arts. Though earlier hybrid works were evident in both pastoral dramas and mystery plays, the first Gesamtkunstwerk proper, in the contemporary sense of the term, was the opera, developed at the end of the sixteenth century, with the appearance of Peri's Euridice created in Florence in 1600, and Monteverdi's Orfeo created in Mantua in 1607. Monteverdi utilized all the resources of the art, ancient or new. This distinc- tion between old and new, most honored around 1600, held little value for him. Thus on every page one finds archaic connections of tunes, traditional procedures of writing and orchestration, as well as modulations, dissonances, enharmonics, and chromaticisms engendered by tonality, by Greek metrics, and by the rhythmics of declamation. But what pertained uniquely to Monteverdi was his knowledge of gauging, choosing, blending, and ordering all these elements to create a moving and animated work with great lyrical inspiration."*^ Beginning with Orfeo, Monteverdi established a musical synthesis of court airs, madrigals, recitative, canzone, and arioso; this entailed a corresponding scenographic synthesis of the varied arts. As the Cartesian mathesis universalis sought the synthesis of the sciences in a unified theory, so would the opera syncretize the arts on the spatially homogeneous, but stylistically heterogeneous, stage of baroque drama. And yet, structurally speaking, it might be argued that the humanist garden of the Italian Renaissance is the major precursor of the totalizing artwork, insofar as it already served as the ground, synthesis, and scenarization of all the other arts. Hypnerotomachia Poliphili of Francesco Colonna (1433-527) was published in Venice in 1499."^^ The tale consists of the phantas- mic quest of Poliphilus, presented as an initiatory erotic drama couched in the form of a dream, recounting the protagonist's expe- riences and tribulations as he searches for his beloved Polia. Beginning in the anguishing soHtude of a wild, dark, labyrinthine forest, he finally emerges, by invoking divine guidance, into a beau- tiful, sunny landscape of absolute perfection. Here he discovers a world filled with gardens and palaces, containing enigmatic and emblematic monumental sculptures and ruins representing the arts of the ancient cultures of Egypt, Greece, and Rome, such as pyra- mids, obelisks, and temples, all evincing a perfection lost in the con- temporary epoch. The archaic is brought into the service of the arcane. The allegory then thickens as Poliphilus continues his Neoplatonic quest towards love and truth, encountering five girls representing the five senses, a queen symbolizing free will, and final- ly two young women symbolizing reason and volition. After visiting the palace, guided by the latter two women, he is taken to the three palace gardens, which are ultimate expressions of human artifice: gardens of glass, silk, and gold. This passage is worth quoting at length, as the descriptions of gardens in the Hypnerotomachia Poliphili are of inestimable importance in the subsequent history, imaginary and practical, of landscape architecture. When we arrived at the enclosure of orange trees, Logistic said to me: "Poliphilus, you have already seen many singular things, but there are four more no less singular that you must see." Then she led me to the left of the palace, to a beautiful orchard as large in circumference as the entire dwelling where the queen made her residence. Around it, all along the walls, there were parterres planted in cases, intermixing box-trees and cypresses, that is to say a cypress between two box-trees, with trunks and branches of pure gold, and leaves of glass so perfectly imitated that they could have been taken for nat- ural. The box-trees were topped with spheres one foot high, and the cypress- es with points twice as high. There were also plants and flowers imitated in glass, in many colors, forms and types, all resembling natural ones. The planks of the cases were, as an enclosure, surrounded with slides of glass, gild- ed and painted with beautifiil scenes. The borders were two inches wide, trimmed with gold molding on top and bottom, and the corners were cov- ered with small bevels of golden leaves. The garden was enclosed with pro- truding columns made of glass imitating jasper, encircled by plants called bindweed or morning glory with white flowers similar to small bells, all in relief and of the same colored glass modeled after nature. These columns rested against squared and ribbed pillars of gold, sup- porting the arcs of the vaulting made of the same material. Underneath, it was trimmed with glass rhombuses or lozenges, placed between two moldings. Upon the capitals of the protruding columns were placed the architrave, the frieze, and the cornice in glass, figures in jasper, as well as the moldings around it, golden rhombuses with polished and hammered foliage, such that the rhombuses were a third as wide as the thickness of the vaulting. The ground plan and the parterre of the garden were made of compartments composed of knotwork and other graceftil figures, mottled with plants and flowers of glass with the luster of precious stones. For there was nothing nat- ural, yet there existed, nevertheless, an odor that was pleasant, fresh and fit- ting the nature of the plants that were represented, thanks to some compound with which they were rubbed. I long gazed upon this new sort of gardening, and found it to be very strange.^^ The brilliance and genius of this pure artifice invokes Poliphilus's admiration and wonder; the inherent artificiality of mimesis is revealed. While this garden was never imitated in its totality, it established a certain sensibility, and many of its elements have served as models for both details and major elements throughout the his- tory of landscape architecture—as well as in the subsidiary art of pastry making, with its parallel history. Poliphilus's discovery of these artificial wonders continued: "Let us go to the other garden, which is no less delectable than the one which we just showed him." This garden was on the other side of the palace, of the same style and size as the one made of glass, and similar in the disposition of its beds, except that the flowers, trees, and plants were made of silk, the col- ors imitating those of nature. The box-trees and the cypresses were arranged as in the preceding garden, with trunks and branches of gold, and underneath were several simple plants of all types, so truly crafted that nature would have taken them for her own. For the worker had artificially given them their odors, with I know not what suitable compounds, just as in the glass garden. The walls of this garden were made with singular skill, and at incredible cost. They were assembled with pearls of equal size and value, upon which was spread a stalk of ivy with leaves of silk, branches and small creeping runners of pure gold, and the corymbs or raisins of its fruit of precious stones. And, equidistant around the wall were squared pillars, with capitols, architraves, friezes and cornices of the same metal, resting upon it as ornaments. The planks that served as slides were made of silk embroidered with gold thread, depicting hunting and love scenes so surprisingly portrayed that the brush could not have done better. The parterre was covered with green velour resembling a beautiful field at the beginning of the month of April. 45 They then enter a third garden, in which is located a golden trian- gular obelisk, decorated on its three sides: Logistic turned towards me and said: "Celestial harmony consists of these three figures, square, round, and triangular. Know, Poliphilus, that these are ancient Egyptian hieroglyphs, which have a perpetual affinity and conjunc- tion, signifying: 'the divine and infinite trinity, with a single essence.' The square figure is dedicated to the divinity, because it is produced from unity, and is unique and similar in all its parts. The round figure is without end or beginning, as is God. Around its circumference are contained these three hieroglyphs, whose property is attributed to the divine nature. The sun which, by its beautifiil light, creates, conserves, and illuminates all things. The helm or rudder which signifies the wise government of the universal through infi- nite sapience. The third, which is a vase full of fire, gives us to understand a "4° participation of love and charity communicated to us by divine goodness. The Neoplatonic resonances are worth noting. Continuing his quest, Poliphilus is confronted with three doors, representing the major paths of life, leading towards either the glory of God, the plea- sures and wonders of the world, or love. As Poliphilus chooses the last—justifying the text's extreme voluptuousness—he is led to the most perfect garden of all, Cythera, residence of the goddess of Love (and historic site of the Greek cult of Aphrodite): "That region was dedicated to merciful nature, intended for the habitation and dwelling of beatified gods and spirits."47 The description of the gar- dens of Cythera is so complex as to escape precise visualization and defy synopsis, yet it has inspired much of the Western imagination of landscape architecture. Here, the new Renaissance sense of nature combines with the contemporary exigencies of the arts: cosmic symbolism is reflected in architectural detail, the fecund sensuality of nature is circumscribed by the most rigorously geometricized geography, and the beauty of the landscape is accentuated, or even simulated, by the most refined artifice of the artisan's craft. Each aspect of this site inaugurates a type of perfection later to become stereotypical. The island is circular, with crystalline earth, beaches surrounded with ambergris, and its circumference is defined by ordered plantings of cypresses and bilberry bushes trimmed to perfection every day. The island's river has a shore adorned with sand mixed with gold and precious stones, and banks planted with flowers and citrus trees. The island's major divisions are mathemat- ically organized and separated by porphyry enclosures of artificial foliage and knotwork decorations interspersed with marble pilasters; each of these divisions delimits a different sort of planting: oak, fir, shrubs formed into figures representing the powers of Hercules, pine, laurel and small shrubs, apple and pear, cherry, heart-cherry and wild-cherry, plum, peach and apricot, mulberry, fig, pomegran- ate, chestnut, palm, cypress, walnut, hazelnut, almond and pista- chio, jujube, sorb, loquat, dogwood, service, cassia, carob, cedar, ebony, and aloes. In what appears as a prototypical version of Michel Foucault's "Chinese encyclopedia"—where the introduction of fantastic ele- ments shatters empirical taxonomy—the animals to be found there are no less diverse, so as to maintain the Utopian aspect of the site: satyrs, fauns, lions, panthers, snow leopards, giraffes, elephants, griffins, unicorns, stags, wolves, does, gazelles, bulls, horses, and an infinity of other species (excepting only those that are poisonous or ugly). Furthermore, the decorations within the sundry orchards, prairies, and parterres offer nearly the entire gamut of what shall become the standard features of Western landscape architecture: trellises, bowers, altars, decorative bridges, topiary, sculptural and architectural features, and fountains. There are herb gardens con- taining a variety of medicinal plants as vast as that of medieval clois- ter gardens, including absinthe, birthwort, mandragora, fiimitory, devil's milk, sumac, betony, calamint, lovage, St.-John's-wort, night- shade, peony; and also aromatic and edible plants such as lettuce, spinach, sorrel, rocket, caraway, artichokes, chervil, peas, broad beans, purpura, pimpernel, anise, melons, gourds, cucumbers. chicory, watercress, etcetera. The flowers in the prairies, whose description evokes the millefleurs backgrounds of medieval tapestries such as the unicorn cycles, are no less varied, and the parterres, plant- ed with extremely complex, interlaced, and varied patterns of flowers and other plants, have become classic models for subsequent gardens. Finally, there is the veritable "source" and destination of the quest, the mystical fountain ofVenus (which, most tellingly, remains unillustrated, but for a schematic ground plan), with columns made of precious stones, detailed carvings, and zodiacal and mythological symbols. The source of the water could itself be seen as an allegory for the "third nature" that characterizes the art of gardens: The cover of this marvelous fountain was made of a rounded vault like an overturned coupe without a foot, all of a single piece of crystal, whole and massive, without veins, flaws, hairs, kerfs, or any macula whatsoever, purer than the water spouting from the solid, artless, raw, unpolished rock, just as nature made it."** The Italian Renaissance produced copies, however flawed, of certain aspects of these gardens. Henceforth, mathematics and mythology would join within the art of landscape architecture. Yet, however imperfect the imitation, an entire worldview was evident in these gardens. As Gaetane Lamarche-Vadel remarks, The visions freed by the reveries are not always images of paradise lost; they also sometimes prefigure models of a perfection yet to come. The island where Poliphilus ends his journey is one of those: Venus, in concert with mathe- matical reason, conceived the plans for this garden. Fecundity is allied with order, measure, and proportion."*? The metaphysical allegory is always upheld by the most extreme sen- suality and preciosity. Indeed, one of the inscriptions on the foun- tain may serve as an epigraph for the entirety of the Hypneroto- machia Poliphili: "Delectation is like a sparkling dart."^° No synopsis of the Hypnerotomachia Poliphili can satisfy, for it is precisely due to the eccentricity of its quasi-encyclopedic char- acter—through the heterogeneous allusions and evocations of each object, and the symbolic interrelations between these objects—that the nature of this synthesizing, moralizing, and aestheticizing sym- bolic system appears. The heterogeneous enumeration shatters the effects of mimesis, giving rise to art as an activity of the autonomous imagination. Such a pluraUstic mode of Usting and narrative para- taxis operates as a conceptual expansion of horizons, utihzing pre- vious symbols, forms, and taxonomic schemes retrospectively to recreate their classic origins; proleptically, they create a modern aes- thetic.^' Here, a vast syncretism rules the combination of botanic (Egyptian, Cypriot, Greek, Syrian, etc.), architectural (ancient Greek, Roman, Italian, Gothic, monastic, etc.), and textual (Pliny, Virgil, Dioscorides, Theophrastus, etc.) elements, establishing a totality imbued w^ith the most extreme, and fruitful, anachronisms. And yet, it is perfectly coherent with the Neoplatonic metaphysical speculation of the epoch; for all classicism is inherently revisionis- tic, transfiguring ancient forms according to contemporary motives. It is precisely here that we can appreciate the allegorical weight of ruins in landscape architecture: signs of an ideal and ide- alized past now disappeared, symbols of a creative consciousness that recuperates and transforms, indices of an aestheticization that combines and refines. Hypnerotomachia Poliphili thus offers not only specific details and general models—based on a synthesis of the contemporary arts—for the subsequent history of landscape architecture; it also proffers an aesthetic of complexity, contradiction, and paradox that will inspire, both consciously and unconsciously, the most profound garden creations. Its style, plot, and characterizations are complex and heterogeneous; ancient, medieval, and Renaissance objects are contemporaneously juxtaposed and overlaid with both sacred and profane symbols; multiple discourses interweave myth and rational- ism, erotic drama and mundane description, fantasy and utility, nature and geometry; varied, often contradictory, ideals of beauty are interwoven. Furthermore, the metaphoric dimension of artifacts is always apparent, revealing the landscape itself as an emblematic, symbolic, or allegorical space parallel to the mental state of Poliphilus, in 2i psychomachia that organizes the dynamic principle of the narrative, as Gilles Polizzi explains: "Such is the book of Colonna that—in the problematic conjunction of its books and its subjects, science and desire, the Apuleian weave of its mysteries and the experiment with natural hieroglyphs—it opens to a polysemy "^^ that makes it a world-book or a monster-book. Crucial for the present study is the fact that Hypnerotomachia Poliphili stresses the central importance of narrative in establishing the structure and significance of gardens in general. For not only is the garden a reflection of mental states, but its allegorical structure is based upon the active, and not merely mimetic, aspect of vision as a creative, dynamic, mutable process. This pertains to the garden's visible and mathematical forms as well as to its visionary and mytho- logical dimensions. Thus the "objective" geometry and sciences behind these inventions, the "third nature" realized from combining artifice and nature, are instantiated or activated, as it were, by the narrative phantasms of those who created the gardens, and subse- quently by the phantasms of those who enter them. In Hypneroto- machia Poliphili, the garden is literally a dream; the real gardens of the world, conversely, are sites that evoke reverie. The liberated plas- ticity of the imagination—a major consequence of the new meta- physical system elaborated by Cusanus, Ficino, and Pico—corre- sponds to the historic relativity and alterability of truth in its manifold and often contradictory manifestations. For the conditions of the possibility of any work of art include not only the material and spiritual traditions of the period, but also all the conceivable phantasms, misreadings, variants, and heresies—all the paradoxes and paralogisms—of the arcane and often unstated traditions that are foundational of an epoch. Contradiction, complexity, and paradox are fundamental principles in both the genesis and the structure ofWestern landscape architecture. The coherence, formalism, and stylistic closure all too often sought by historians of gardens in fact dissimulates the inco- herence, heterogeneity, and conceptual intricacies that underlie most great gardens. The organic, dynamic, chaotic space of nature is always at odds with the geometric, static, mathematical space of conceptual form. "Worked through by the Demon of Time whether in its human and historical manifestations as narrative, fan- tasy, and destiny, or in its natural manifestations as seasonal change, growth, decay and death—the garden is a fortiori a dynamic, syn- thetic, syncretic entity, escaping all formalist definition. Syncretism and Style 1 Jakob Burckhardt, The Civilization ofthe Renaissance in Italy, vol. 2, trans. S. G. C. Middlemore (i860; New York: Harper & Row, 1975), 294. 2 Francesco Petrarch, Lettres familihes et secrkes (Paris: Bechet, 1816), 99; cited in Gaetane Lamarche-Vadel, Jardins secrets de la Renaissance : Des astres, des simples, et desprodiges (Paris: L'Harmattan, 1997), 48. This book is an excellent study of the secret garden, from the medieval hortiis conclusus through the Italian Renaissance giardino segreto to the jardin hermetique. 3 Lamarche-Vadel,Jardinssecrets,11. 4 Francesco Petrarch, "The Ascent of Mount Ventoux," n.t., in Introduction to Con- temporary Civilization in the U^if (New York: Columbia University Press, 1965), 557. 5 Ibid., 560. 6 Cited in ibid., 562. 7 Petrarch, "Ascent," 562. 8 Twoclassictextsonthetrading,inmixing,andsyncretismofsymbolsare:Jurgis Baltru^aitis, Le moyen dge fantastique: Antiquites et exotismes dans I'art gothique (1955; Paris: Flammarion, 1981); and Rudolf Wittkower, Allegory and the Migration of Symbols (London: Thames and Hudson, 1977). 9 Ernst Cassirer, The Individual and the Cosmos in Renaissance Philosophy, trans. Mario Domandi (1927; Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1972), 52. 10 Ibid., 143. 11 Asthisisprobablythemostanalyzedtopicinarthistory,alonglistofreferences would here be both inadequate and superfluous. As an introductory note, consider several classic texts: John White, The Birth and Rebirth ofPictorial Space (London: Faber & Faber, 1957); Pierre Francastel, La figure et le lieu: L'ordre visuel du Quattrocento {?2ins: Gallimard, 1967); Samuel Y. Edgerton, The Renaissance Rediscovery ofLinear Perspective (New York: Harper & Row, 1975); and Hubert Damisch, L'origine de la perspective {Vaus: Flammarion, 1987). 12 The most recent translation is Leon Battista AJberti, On the Art ofBuilding in Ten Books, trans. Joseph Rykwert, Neil Leach, Robert Tavernow (Cambridge, MA: MIT Press, 1996). 13 Forexample,theVillaLante(Bagnaia),theVillad'Este(Tivoli),theBoboli Gardens of the Palazzo Pitti (Florence), and the various Medici Villas (Rome, Castello, Poggio, Pratolino, and Fiesole), only to name some of the most typical and famous. 14 The literature on the Italian Renaissance garden is vast. For a fine introduction, see Catherine Laroze, Une histoire sensuelle des jardins (Paris: Olivier Orban, 1990), 323—32; Terry Comito, "The Humanist Garden," in Monique Mosser and Georges Teyssot, eds. The Architecture ofWestern Gardens (Cambridge, MA: MIT Press, 1991), 37-45; and John Dixon Hunt, Garden and Grove (Princeton: Princeton University Press, 1986), especially 42-58 ("Ovid in the Garden") and 59-72 ("Garden and Theatre"). Among the many fine illustrated books and guides, very usefiil is Judith Chatfield, A Tour ofItalian Gardens (New York: Rizzoli, 1988). 15 CitedinLionelloPuppi,"NatureandArtificeintheSixteenth-CenturyItalian Garden," in Mosser and Teyssot, Architecture ofWestern Gardens, 53. 16 This section on Cusanus is based on Cassirer, Individual and Cosmos. On the great chain of being, see Arthur O. Lovejoy, The Great Chain ofBeing {\9i6; New York: Harper & Row, i960). 17 KarlJaspers,AnselmandNicholasofCusa,trans.RalphMannheim(NewYork: Harcourt, Brace, Jovanovich, 1966), 35. Needless to say, the present essay presents only the broadest schematization of these complex philosophical issues—^just enough, it is hoped, to situate their interest in relation to the development of the Italian Renaissance garden, and thus to inspire the reader to further investigations. 18 Cassirer, Individual and Cosmos, 51. On the extension of these issues as they relate to aesthetics in the seventeenth-century debates between the Cartesians and the Pascalians, see Allen S. Weiss, Mirrors ofInfinity: The French Formal Garden and 17th-century Metaphysics (New York: Princeton Architectural Press, 1995), 53-77- 19 Cited in Raymond Marcel, Marsile Ficin (Paris: Les Belles Lettres, 1958), 273. 20 Cassirer, Individual and Cosmos, 190-1; see also 69-141. On Ficino, see also Paul Oskar Kristeller, Renaissance Thought and the Arts (Princeton: Princeton University Press, 1980), 89-110, 163-227. 21 ErwinPanofsky,"TheNeoplatonicMovementinFlorenceandNorthItaly,"Studies in Iconology (1939; New York: Harper & Row, 1972), 141. 22 See Panofsky, Studies in Iconology, 129-69. 23 Cassirer,IndividualandCosmos,132. 24 Panofsky, Studies in Iconology, 134. 25 Cassirer, Individual and Cosmos, 135. Panofsky rightly notes that the vast influence of the notion of Neoplatonic love was effected in both direct and indirect manners, much in the manner that psychoanalysis was influential for the history of mod- ernism in the arts, even when inadequately understood. This idea is useful in con- sidering the relations between theoretical systems and artistic production, where partial readings and misreadings in no way obviate the efficacy of "influence" or "affinities." Harold Bloom's The Anxiety ofInfluence {Oxford: Oxford University Press, 1973) remains the most subtle analysis of the role of misprision in artistic cre- ation. In relation to the experience of the Italian garden, John Dixon Hunt, in Garden and Grove {242, n.3), astutely makes a parallel claim, referring to a study by Claudia Lazzaro-Bruno of an allegory of art and nature in the Villa Lante: "Iconographical studies usually consider, as does this, only meanings inscribed in artworks, rarely how such meanings were read by later visitors." The great value of Hunt's book is that it accomplishes both feats. 26 Cassirer, Individual and Cosmos, i65n. 27 Ibid., 160. 28 Cited in Arnold Hauser, The Social History ofArt, vol. 2, trans. Stanley Goodman (1951; New York: Vintage Books, n.d.), 129. 29 See Cassirer, Individual and Cosmos, 83-7, 115-9 and Paul Oskar Kristeller, Eight Philosophers ofthe Italian Renaissance (Stanford, CA: Stanford University Press, 1964), 54-71. 30 Giovanni Pico della Mirandola, Oration on the Dignity ofMan (1486), trans. 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 Elizabeth Livermore Forbes, in Ernst Cassirer, Paul Oskar Kristeller, and John Herman Randall, Jr., eds.. The Renaissance Philosophy ofMan (Chicago: University of Chicago Press, 1948), 224-5. Juan Luis Vives, Tabula de homine (c. 1518), trans. Nancy Lenkeith, in Cassirer, Kristeller, and Randall, Renaissance Phibsophy, 389. Juan Luis Vives, cited in John Hale, The Civilization ofEurope in the Renaissance (New York: Athenaeum, 1994), 510. Lamarche-Vadel, Jardins secrets, 94. On the transformations of epistemology, natural classes, and botanic knowledge, see 79—121 of this work. The locus classicus of the subject remains Michel Foucault, The Order of Things, n.t. (1966; New York: Vintage, 1973). Cited in Edgar Wind, Pagan Mysteries in the Renaissance (1958; New York: Norton, 1968), 2l8. Wind, Pagan Mysteries, 218. Ibid., 99. Perhaps the most familiar contemporary example of this dictum is Mohammed Alls "float like a butterfly, sting like a bee." The erotic poetics of the Hypnerotomachia Poliphili speddcaWy justifies the use of this adjective. Wind, Pagan Mysteries, 104. Cited in Cassirer, Individual and Cosmos, 158. Wind, Pagan Mysteries, 21. Ibid., 25. Maurice Le Roux, cited in Maurice Roche, Monteverdi (Paris: Le Seuil/Solftges, i960), 70-1. Although the identity of the author of Hypnerotomachia Poliphili is not absolutely certain, it is now almost always attributed to Francesco Colonna, a Dominican Friar of the monastery of SS. Giovanni e Paolo in Venice. There is one theory that the book was written by Alberti, which, whatever its veracity, reveals the profound affinities perceived between the two thinkers. Hypnerotomachia Poliphili was pub- lished, with illustrations, in a mixture of Italian, Latin, and Greek, in Venice by Aldus Manutius in 1499. An abbreviated French translation by Jean Martin appeared in Paris in 1546, published by Kerver under the title Discours du songe de Poliphilr, the English translation, entitled The Strife ofLove in a Dreame, appeared in London in 1592; the contemporary Italian edition of Hypnerotomachia Polophili was edited by Giovanni Pozzi and Lucia A. Ciapponi (Padua, 1964). Translations in the current study are by the author, from the recent French edition (based on the 1546 Jean Martin translation), Le Songe de PoliphiU (Paris: Imprimerie Nationale Editions, 1994), edited, prefaced, and transliterated into modern French by Gilles Polizzi. On the influence of this book in France, see Anthony Blunt, "The Hypnerotomachia Pobphili in lyth-Century France," Journal ofthe Warburg Institute 1 (1937): 117-37; this is an important early study flawed, however, by a less-than- rudimentary comprehension of Renaissance philosophies. The importance of the engravings in the Hypnerotomachia Polophili for considerations of the landscape are briefly discussed in a book that is, in its breadth and depth, a model of scholarship on gardens and landscape, Simon Schama, Landscape and Memory (New York: Alfred A. Knopf 1995), 268-79. For an idiosyncratic and su^estive allegorical read- ing, see Alberto Perez-Gomez, Poliphilo, or The Dark Forest Revisited (Cambridge, MA: MIT Press, 1992). 44 Colonna, Songe de Poliphile, 120. 45 Ibid., 125. We find here the origins of Astroturf 46 Ibid., 128. 47 Ibid., 276. 48 Ibid., 325. 49 Lamarche-Vadel, Jardiru secrets, 31. 50 Colonna, Songe de Poliphile, 325. 51 Ontheepistemologicalproblemoflists,seeAllenS.Weiss,"TheErrantText,"in The Aesthetics ofExcess (Albany: State University of New York Press, 1989), 77-87. Such usage evokes the sensual and critical aspects of Rabelais (who was directly influenced by Hypnerotomachia), the phantasmic and nonutilitarian inventions of Raymond Roussel, and the simulacral metaphysics of Jorge Luis Borges. 52 Gilles Polizzi, "Presentation," in Colonna, Songe de Poliphile, xvii. Abram, David. The Spell ofthe Sensuous: Perception and Language in a More- Than- Human World. New York: Pantheon, 1996. Adams, Henry. The Education ofHenry Adams (1907). New York: The Modern Library, 1931. Adams, William Howard. Nature Perfected: Gardens Through History. New York: Abbeville, 1991. Alberti, Leon Battista. On the Art ofBuilding in Ten Books. Trans. 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Grice e Colombe – Aristotele, Galilei, e la stella nuova -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “If you love stars, as any philosopher must – vide Thales! – you LOVE Ludovico who refuted Kepler’s idea that the thing next to the serpentary’s foot was a ‘star,’ never mind ‘nova’!” Noto per essere stato uno strenuo avversario di Galilei.  Non si sa quasi nulla della sua vita, ma restano diverse sue saggi, nelle quali difende la dottrina aristotelica con un particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza logica.  Scrisse un discorso sulla nuova stella apparsa sostenendo che si tratta di una stella non nuova, ma esistente da sempre. Scrisse un discorso Contro il moto della Terra.  Per conciliare le osservazioni di Galilei sulle irregolarità della superficie lunare con la concezione aristotelica della perfetta sfericità dei corpi celesti sostenne che le valli e gli spazi tra i monti della luna sono colmati da un materiale perfetto e invisibile. Contrario all’idrostatica archimedea recuperata da Galileo, nel suo Discorso apologetico, sostenne che il galleggiare o l’affondare dei corpi dipendesse dalla loro forma. Nella conclusione del discorso usa anche una metafora di questa teoria, affermando che le ragioni dell'avversario per essere troppo argute e sottili vanno a fondo senza speranza di ritornare a galla, mentre quelle di Aristotele, per essere di forma larga e quadrata, non possono affondare in nessun modo. Sono rimaste anche lettere tra il Delle Colombe e Galileoi che stimava pochissimo il suo avversario, che aveva soprannominato Pippione. Vari accenni a questo personaggio sono nella corrispondenza tra Galilei e i suoi amici. Dizionario Biografico degli Italiani, Amici e nemici di Galileo, Milano, Bompiani. Aristotelismo.  • H  105  by  Stillman Drake STILLMAN DRAKE     Z'     ■%AS»^        *2     é     tii     DIALOGO   DE CECCO DI RONCHITTI  Da B r v z. e n e .   IN P ERPVOSirO   De La Stella Nvova.   Al Loftrio e Rebelcndo Scgnor Anruogno   Squerengodegneriflemo Calonego de   Paua , so Paròn.   C&n alcune ottave d' Incerte, per la medejlma Stella,  centra Arjlotel^ .     ls3      *9     «3     te     te     te     In Padova,  g£Ì Apprcflb Pietro Paulo Tolzx. M.dc.v.   H ikSk tk^s skfjh «^EsS* «JbJU (?X:§(s P         AL LOSTRIC.   EREBELENDOPÀUO::.   E L S E G N O R   Antuogno fquerergo   'Dennett* fimo Calone*o de Vjua ,       Vedifleo, RebelédoSegnor  Paròn , s'a vee&è on voftro  puouero feruiore,que no fé  me altro , che la boaria , e'1  mefticro de pertegar le cam  pagne, ade-fio, que el la to-  leflfe co* vn Dottore de quiggi da Paua, per  via de desbuta ? no ve pareraela na botta da  ri re ? mo oncaièj e lì Tè vera, "j a mentre  fé conto c'hò fatto con fèquellù, che le mef  fé la vefta, que n'iera foa,per parer elio dot-  tore . L'è vera , que inchinda da tofatto , ci   A 2 me     nuTnfaua el me {naturale a~guardare in cito,  e fi a g'haea gran piafere desfeguranto la boa  ra, le falce, i biron, la chiocca, e'1 carro,con  tutto ; mo gnan per quefto a no ghe n'harae  iTapiofaellare, s'a no v'haeffe fentù vù mil-  le, emilliantabotteadire mona confa , mò  n'altra a ftoperpuofito • E fi de fta Stella  nuoua, que dà tanta fmcrauegia a tutto el  roeflb mondo ; per conto de dire on la fea, a  ghe n'hì , per muò de dire , fatto lotomia j  faellanto, edesbutanto co quanti difea, che  la n'iera in Cielo 5 que fé ben a no ve n'ada-  ui,mendecao a me ve cazzaua in le cofte mi,  efia vefentia,efi(femiga a n'ho vncelibrio  fpelucatiuo,com 5 hà de gì akri)a tegnia mcn  te a zò cha difiui . Tonca mò, per que adef  foagihòfmeffiètutteavno in iti fcartabieg  gi , fé conto cha m'ho mettù el voftro gab-  ban , fe'l parerà bon , a ghe n'harì vù Tha-  nore. ma fé, pre mala defgratia, el ghe foef-  fé qualche fcagarello(cha no'l crezo) que o-  lefle sbregarmelo,el ve toccherae mo anche  a darme alturio,fipiato che l'è voftro . Caro  Paron habbieme per recomadò,cha prieghe  lè pò fempre an rni, Domenedio, que ve da*  ghe vita longa, e fanitè .   Da Paua a l'vhimo de Feueraro, del mille > e fie cento,  ecinque^.   Seruiore della voftra Segnorra   Cecco di Ronchitti,      DIALOGO   Quiggi , che Rafona .  Matthio. Nale.   Ootta de chi me fé 5 mo  que feccura , que brufa-  mento e que fio ? a sè> che  no vuolpiouere mi , bon  ctt aqua . Mo no difegi ,  que a le Vegniefìe l'è a man a manfute  le lagune ? Penfeue^elfe ven ape inchin  da a slarilafofina . <td pojfon ajpiettar  de belo, que i fromintinafcira. i nafcìra  condife zJldafchio . N A. a dio, a dio,  Adatthio. quefaellamento el to ? iejliefl  sì fora de ti an\ MA. ben ve gnu Na-  ie 5 mo caro fretto > a no se mi. a m'anda-  fé a lambì canto el celtbrio, per que no pio  uè mi , que fin parfefire de Ht timpt ?  gtiè pligoloy che gi ardere del Gordon fé   rompa %     rompa , per le pine ? NA. Ver canto de   quello , l'è ongrétn dire y que tant ciòtte  el s'ha veZjU nunole "pìoììolèX^itagr Ò ba  da,e fi gi è torne indrio fenz^a bagnare  el fabbton gnan tanto co harae fatto on  pijfar de rana . <*// evèrtè < que fé l <và  drto così a feron al finimondo mi I p> è e  tutti brusè y le campagne fecebe a muo  noffo \ tanto que a longo andare, nu elbe  Hiame a nopofsonfe lome farla m alarne  tre. MA. Tirate on può fottofla voga-  ra 3 in t* agno muo el gtie pi dvnhora a  fera, da quecrito mo cheU fprociedafo  fccume an ? NA. mo nheto vezju quel  la Stella, chesberlufea la fera \k tn mi-  fi, que laparea nogio de z^ostta) e fi a-  dello la fé <vè la mattina con fé <và a bri*.  fare, que la fa on [pianare belettfèmcì  no t'acuorì^to, che la xè vegnua da fre-  (co ? e que no la s*ha velati a me pi inan%o  d adejfo ? mo tè ella cafon de Hefmera  uegie, e de Hi ficchi ^fegondo.che dtfe ori  \ dottore da Paua. AIA. Cu in feto ti,  que la no shablne me pi ve&ua ? NA,   <*si fen-     % ^fentìf altro dial^o vrió,che lez^ea on  certo slibraT^uolo.efiel dì fé a , que la fé  fornente a desfegurare lomè a gì otto  del me fé d'ottubrwpafsc. E (i quel librai^  zjtolo el l' haea fatto on lettran da Pa-  nai chel contatta , pò afe con fé . MA.  *Doh cancaro a i fcagarieggi da Patta ,  faosfìy per che cjuefììt no l'ha ve&ua ello >  il vuole, che tutti ghecher&a, que me pi  la noghefuppifta ? -Guari mi a n ho mi  *vezM le Toefcarie , e fi leghe xe . NA.  Jidopre conto de quello , el me par pure  aria mi , che la fé a nuoua . AIA. qlA no  dighe a ì incontragio mi^ tè, che 3 1 so rnuò  de fae Ilare ne ben \fe miga elfoejfeper  gramego , NA. ^4 fé confagòn tonca,  que te nuoua. AIA. Sì, mofeando tan-  to lunz^i el no pò faere &g que lafippia ,  per dire, che la xe ella, que no laga pione  re . NA. ^liedio, lim^i , la n'è gnan  fora a la Luna, per quanto dfea quelli- _  braz>z*uoia. À4A. Chi eloquellù , e' ha O]  fatto l ItbraZjZ^uolo ? elo pertegaort^ ? *  NA. Nò, che te Filuonco . <&1A. Lì   Filuo-     Fituorico ? e ha da far e lasoflluorìa col  mefurarc ? No feto , que on z>auattin  no pòfaellar de fibbie ? El he fogna crerc  a gi fmet amatichi^que gi è pertegaore de  t aire,fegondo y che an mi a per t ego le e a  pagne, e fi a pofjò dire, a rafion 3 quanta  le xe longhe 9 e larghete così an iggi. NA.  El dìfea ben aponto quel libraz^T^uolo 9  che ì Smetamaticht ere, que lafippia elta  de bebi ma che i no l'intende . A4 A. mo  per que no l'intendegi? me truognelo, o  me falò l'amore ? NA. Eldtfi, que i Si-   *f^ maghina, chel Cielo fea fiorrotttbele , e  z^enderabele in quato a onpuoco a la hot  taf e mtga elno poeffe gender ar fi, e fior  romper fé tutto in t'vn fio. quefegi mi ?  MA. On faellegt de fiere fon tfmet ama  fichi an ? S'i Ftà lomefulmefurare>quc  ghefa quello a igg* fi'lfuppi? z^enderabi  le, ò nò . Selfoejfean de Polenta,nopo-   m raegi ne pi , ne manco tuorlo definirà ?  mo el tne fa ben da rire , con Hefuò sba-   *~T già fari . NA: Ah te bella , que e Idi-  fi confi de Ha fatta in pur afise luoghi de   quel     quel libra^ZjUolo.sZMÀ. Que vnctu mì> ^*jj  cha ghe faghe mi, fé l'è \oene ? Uga cheH " p " u  s'in caue la vuogia . NA. Eldifea,que  fé lafoejfe sbenderà da nuouo in lo C/c lo,  el boqnerae anche, que rì altrz Stella , o  qualcl) altra corifa fé fo?fje fcorrotta in  so fc ambio liueluondena, h vefinaqueL  la 5 e fi no fé ghe ve negotta de manco .  Ai A. TV parfeche'l faelle con gifmeta  rnatichi ? tamentre l'è tanto fcapu^ZjUa,  cha no poffot afere, mettamofegura>que  onpuoco de Cielo chiue, e n altro puoco li  uè, s'habbi combino a vno^ el s'acuorz^e-  ra elio on el manche ? quando fé fa le nu  noie, e le piozje, onfevèelfegnale , que  le fé a He tolte per mettrele wfembrefmo  digamo de la [Iella, on s'è (chi ano L*agie  re, perche el "vuole, che lafappi incende  ra line elltk? Epos'imaghinelo (la ferae  ben da dire al preue ) que tutte le felle  che xè in Cielo fé pofia vere r el ne pos fi-  bule . Eperz^uontena>> chi me tèn, cha no  pvjfa dire* que trè>o quattro, e ari pi [iel-  le de quelle menore , che no fé <vea,fe xe   B amuc-     cap. 4 .     cap. 4.     amucchìh e sì gi ha fatto Ha bei) a <iran~  de? No porae an efifere ,que la fé foejfe  penderà in Papere, e pò , chefempre pi  lashaejje alz^a ì tamentre a no vubdi^  refie con/e, per que la ne me firefesfion,  no me ri mudatomi-, bafia > que gnan elo  noparlaben . N *d. E fi el 'vuole polche  quefiofea el neruo de la rafon de Stote-  ne . ^MA. Toncafipiando così me fero  el neruojutto el so Zjenderamento.e fcor  rompimento ander a in broetto. NA. S'i  nìeruìe sì debole, la carne fera benfroL  la . Eldife, quefe'lfepoeffe Xepderare  in Cielo de le ftekenuoue, el befognerae y  que da tanti befecoli m qua/ in foejfe fcor  rotta qualcuna de quelle >che fempre me  xe Ha vez^ue : que gì è : a no m arecuor-  do quante : bafagt eparegie\£ fmoghin  manca gnegima, que el lo difettatene .  MA. Pìivh , mo queHa firen%s benfen  l^a penale, chi diambarne ghkndttto* che  Jìa Bella nuoua fea na [iella He Ha ? Ce  ben on fpianXare , mo no na [iella. E fi  mt a thè wchtndamo chiama [itila > per   que     que la in par e, fé ben la rì e, corri e le altre.  NA. One eia torte a ? zZ^lA. Que fé gì  mi ? bafa.che la riè na [iella purpiamen.  e file altre fi elle no fé xè me ftorrotte,per  que vi è [Ielle, e fi el Cnloghe riha debe-  fogne dt f Atti fuo : mo no de quefìa , che  fipìanto vegnua, l'è anche ti deuere,quc  la vaghe via . E per conio de dire , que  no s'ha me ve&uHelle afeorromperfe^ re  [pundime on può. La terra ( che xè me-  noredele [ì elle ) s* eia me flramua tutta  in fona botta ? NA. Mo, copeforinfe  la terrafefeambiafea Ho muo^ riandaf  fangi tutti a fca&z>afaJfo ì <£WA. ^A  cherXo ben de sì. tamentre apuoco,a può  coel fefa,efiporae effere ,che'lfefaeffe  anche de le [ielle, que xè [ielle. Pure > a  domanderae enti era a queliti dal librai  z^uolo, a comuo el sa, que gneguna fella  no fé fa mèfeorrotta de fatto, che per di  re> que nogh'è me fio homo, che fé rihab-  li ado, e (jue el Cha ditto Stoterte $ le me  par noellemi . NA. el dife>cjuefefia [lei T „ rf t x  làfoefje m Cielo>tutta la fluori** fnatu- cap ' r *   C 2 tale     cap. 4-     raleferae na bagia $ E que Statene ten \  que arZjOnz^antofe na Bella in Cielo.no l  porae muouerfe . AIzA* Cancaro, l'ha  bìo torto Bd Bella, a deroinare così la fi-  luorìa de que fioro . s'afoefiè in iggi a fa-  rae e et aria denanz^o al Poe fio mi , e fi a  ghe darae na quarela depujfefsion tmba  t a, e fi a torrae na cedola reale >e per fona  le incontra de ella, per que te casòn, que   f ?&c ni " e ^ Cielo nofemuoue^ tamentre quello Te  manco male^ che el ghe nepancchiie an  di buoni) que cricche* Ino fé muoua.lSlA.   ^j; Mo rì altra, con que re fon (difelo) quei  Cielo de fora xelo da manco de gì altri ?  que elvegniraea ejfer da manco fipian-  dofcorrottibele,e naffan doghe de le (leU  lenuoue , e no in gi altri , eh* è pi baffi .  IAA. Cancabaro, da quello a zi altri, el  gtie defenientia, per conto de macre , pt %  che né dal monte deB.ua a on gran de me  gio ; ep?rz*>ontena elio fipianto sì grande^  el pò haere de le altre Belle da nuouo^mo  nò fi altri , que gì ha afse dcvnaperv-  no>e phfclghe nafajje anche in iggi quàl   che     che flelletta , s'ìmaghinelo , que tutti la  verde defatto f 'o te cottora. NA. Eldi  fé, que per fare el mondo Fptefetto , bo-  gna> che ghefuppì qualconfa incenderà-  bete , e incorrottibele , e fi la no pò e [fere  altro, chel Cielo. <z7l y fA. El Cielo ? per  que mò cosi el Cielo ? E mi a divenne el  Parafo, che xe defora dal Cielo , xe elio  così puro, co 3 ldife 7 Ho dottore. JSfA. La  ghepar na confa imposfibole^que na biel-  la così gran de tifj^e ma poffa de fatto borir  fuor a in tvna preuifta . MA. E a mi  nò. Quando na Vacca fa on Veello, alt»  hora % che te lomenafìi, te maored'vn  ^Agnello que fé a crefsu inchinda in cao .  per que mo? per que la mare delVeello,  don belpeXzjatto, tè maore, que riè na  Piegora . Fa mo tò conto , che Uà Stella  despetto a tutto el Cielo, no ven a ejfere  gnentepì, con farae onLion^ò n jn Lefan  te defletto ala terra, te parfe mò , que  tè nagranfmerauegia ? N<tA. zslAofe  tè così, a comuò calelajn pè de crefcere,  la Bella adejjo? AIA, ^dcherXo.quela     e p. 4.     qjavhe     cap.     cap. 4     maghe dagnora pi in su mix, e que % l para]  che la cale, per que la ne <va lun&i.NA.  Pian, che el libraÌQUolo df>que i primi  di, che la fé vele la crejcè on btlpuocofe  l'andejfe in su , la no ghe porae tntrare $  per que fempre la ferae cala. MA. &4l  l'hora quella dal libraz^z^uolo difea ef  fere fen&a occhiale. Perche mi a se, que  la prima botta eh a la <vitila me par [egra  denijjema , e que fempre la xè cala , per  muo de dire de grand eXz^a. tamentrefie  refon no me per du fé ami >e fi afaello,per  che quellu dal libral^uolo va majfafuo  ra del fentiero, e fi a ora pure tcgnirloin  carezza . NA. Orbentena>fìnti an que-  lla. eldìfe,que no fé pi) z^enderargnente  in lo Cielo, per que {di feto) el befognerae,  che'l ghe foeffe di contragi, e che ino ghe  pò e fere, f piando que tè ria quinta /una  ^t, òfoHantta\ quefegi mi? A1 A Mo  sì ceole . gi è de quelle boi te de S toetere  quefle> edifuo bri^hente ; ch'i ?io sa s'i  feaviui,e fi 1 1 noi fat Ilare de Culo. §A  cher%o,que in Cielo ghe fuppi cosi ben cai   do >     •de, e fé r do, e mogio, e fn?o % corni an chi-  ne mi. per que? no fé ne, eh ci gh'è del fi e f  fo,e del chiarore dei Inferitele dei feuro?  che eggi quìggi ? i né tutti vnfi a l'inco  tragio de l'altro ne no \ mo vuotutà? Ha  [iella ghe poca cffere,e fi no glfiera , e fi  adeffo la ghe xe . ri eh rotfso quejìo ?  moa, l ar uè la boccale fi laga egmrftora  quel , che 7 vuole . E pò elio el fa conto  de desbuta^e confi f net amatichi,e fi \ar  lega de He re fon ? on fita halo catto , que  onmefuraore vaghe Jfelucato sufìenoel  le ? chi ghe l'ha ditto a elio ? NA. Mo  cane aro , el gti arz^onz^e , que fé in Cielo  ghefoeffe terra, aqua, aire^e fuogo elno  fé porae Hrauete con fé fa, franto, che el  doenterae tyejfo, e f curo. AIA. Si fé qui  leminti foejfe della fatta di nuofiri $ mo  gì è pi [prefetti ,fegondo , ch\i fentì na  botta adire al mèparon.que el difea.che  Tianton eldifea. N A.Ei dtfe anche 3 que  a fio muo,el Cielo noporae anar a cerca  <via>fianto , che i lemìnti r oa tutti in sii,  in z>o, mo no attorno . <±7ldzA. E fé mi   a diejfe     cap. 4,     cap. 4 >     Io  di C  nico     eap. 7-     a àiejfe a rincontralo , que ìvaanthe  attorno ? El gh' amanca i sletranique di  pinfon ~y£j <^ /* terra [e <vol\c a cerca,con fa na  ^! pe " muoia da molin . penfate mo ti de gi al*  tri con la va a faellare , tutti sa fretta-  re > NA Eldife pò, que la fi ella xe ape  la Luna, ma de fot toghe-, e che Ime el no  che pò efserfuovo. ^1 A. .L'ha fatto ben  adire* que no gh'èfuogo , per pi re fon.  NA. E così el tèn, qùe'l fipìa air e, quel-  lo, che lecca ci culo (a vuos/idire, el Cie-  lo) de la Luna. <&MA. moa> moa,elpoea  ben dire an quejìasì. NA. E (diftlo) el  u Cielo no pò e fi ere de fuogo,per que fan to  così grande el bruferae tutti gì altri le-  minti . MA. <z5fy'lo me vegna e l morbo ,  che queTiufeanto dottore fe'l fé caejfe la  yeti a^el parerae ri homo, dime oupuc^na  fa! tua fola no bajìeraela a tmpigiare on  paviaro, e pò anche a brufare quanto le-  vitarne fé catta ? NA. <*A cher%o de sì  mi. MA. E fi quante fornafexe atmen  do, le no porae brufare on Cecchin , che  foefje d'oro, per que mò ? feto per quei mo   per     per que loro no fé pò brufarc . e così an*  che fé gì altri lemintipoejfe brufarfe, ba-  Jìerae onpucco de fuogo , f?r e far l'effet-  to-, fenXa tanto co Idi fé elo. NA. Lavhe  va la , quanto de quello 5 mo crito pò ù  fremamèn, chel Cielo fea fuogo? AIA.  oA no dt eh e così mi .Uè che'l dottore ci-  ga alturio fenica perpiiofuo ; e fi el le dife  fenz^a metreghe su volto, gnefale. NA.  aPklo finti ti altra , que la ne miga da  manco no. El difè ì que i fmetamatichi  ha de boni ordigni , e de le re fon freme y  ma i no le sa u onerare^ . ^IA. <*A co-  mito fé ri elo adb elio ? feraelo me fr elo de  la t or dal Bo? aldime mi. fé on fmetama  fico egmra chiueluondena^e fi el fedirà :  Naie, mi a <vub faerte dire quanto gh 'è  per aire da lì a nogara a l'arare; e fi el  lo mefurera co ifuo ordigni fenz^a muo-  uerfe 5 e col l* babbi me furo , e quelite /'-  babbi ditto y an ti te 9 l mefureriefì co'vnfi  lo, b a qualcti altro muò, e [ite cattertefi  que tè così 5 no che r de reto , che Vvouere  ben ifub ordigni ì NA. Alo sì mi , que   C cade ?     cip. r .     p.l     C^>.     tap.f.     cade ? MA. Perche toncaquandoel me  fura na Bella (per muo de dire ) ogiongi  dire y quel no sa fare ? e pò fé 7 falla ,  chel falle de millanta, e de milion de me  giara ? fe'l dteffe donpuoco,confarae a  dire, quattro dea, b na fpana,a taferae.  mo de tanto ? l'è maffagnoca. N A. Se-  topo, querefon de i fmetamatichi^el ven  a contare? MA. T>ì mo. NA. Vnaxè  de tagiar via (di fé lo) on peX^o don cer  cene, e que la Stella, così a no la pofsan  vere, per pi de mezjhora. E n altra de  anarghe fottoapiombm , caminantoghe  al ver fa vinti dìt me gì ari. e fi ti dife.que  le no fa aperpuofìto, fianto> che gì è amo  frare , que la fella fea pi in su de diefe  amegia-y e fan elio di fé, che l'è on belpez*  ZjO pi elta . zZPIA. Cane aro , l'è aguti*-  Zj>o dal cao groffo 5 mofelcrè,floChri-  Bian, que la Bella vaghe pi in su de die-  fe megiarì, e fian quelle refon eldife^ tè  fegnale que le riha da far con elio 5 per-  che tonca mettrele fui so slibr aiuolo, e  pò dir e ^ que le riè a perpuo/ito ì Ste re*   fori     jfo# Ufo fatte (per quanto ì dìfea a Vaua  7^k buoni di) con tra on inasprente di fi-  luorichi de S tot e ne , que althora tegnta  duro, e fremo, che la rìiera pi alta de die  fé amzgta 5 e perz^uontena queliti dalli-  braZj^uolo die a lagarle Ilare > que le no  ghe daea fall ilio . NA. orbentena, ghe  ne pi? diJJ'e que lù, eh e e attratta iporcieg  gi. an, sì> sì. gianduJfa>mo elgh'e on brut  to intrigo de Prealajfe , e de <vere , e de  Luna . que fegimt ? p rifate, che quellù,  che le\ea la diffe 9 e fi la defehiarè p\ de  tre botle.efi gneguno no l'intende. Ad A.  £1 die haerla intriga a polla elio, perpa  vere n homo da 2^0, e da palo, e fi la fera  pò a n altro muo, perche a se ben mt,que  de la Prealajfe el no pò haèr rafon. che  l'è on muo de me furar e per agiere,maffa  feguro. NA. Lagame mo vere sa me rì-  arecuordejfe onpuoco. eldifeprimamen 9  che no fé pò guardare de meXpfuora a na  lì e Ha 5 e que fiaganto così da /unzji , el  nèposfibole e aitar ghe elme%p,masfima-  mentre ,per que t 'è na confa, (ondale que.   e 2 ma.     cap,     *7ldA. c Fafi 9 tafìonpub 9 che te ghe ne  ditto pareggie in fon groppo . chi è quel  lu, che cherZja de poerfmirare de me%o  via a no, ftella,fianto> que l'è tanto grof  fa? che cane ab aro de filatuoriefe vaio  a imaghinare ? gh' in falò de pi belle ? que  Ha fera lacrima. V altra, a comuo e at-  tenevo miegio el mez^o d*vn criuello j  mettantoghe gi voce hi ape > ostarganto^  iTb" d & te on belpitoco? NA. zZkfò, fagan toghe  E b uctc & t' ^ a lttnz>i>per que s'aghe foejje a ve sin, a  no porae gna desfegurarlo que flejfe ben.  MA, Guarda mo toncafe tè el vera 9  que no fé pofa cattar el melo^ de le Ftel*  le \ per che gièlun^i ? %A l'altra . in che  dariflo pifremamen in lo mez^o % con na  occhia Jn quel d*ona ballalo d'on gamie*  ro? NA. CancabxrOi aona balla iper  que co a l'effe giti fi a infdhverfò , la fé-  rae giù fra in tutti . M A>E pure elio el  dt fé a l tn con tr agio . NA. Mo elgh'ar-  ZjOn&e que gi è {al noffro parere) majfa  pècchemneyper cattargheel meZj0.MA.  sì> el dtfe an §uefta ? e quattro tonca, in     )     t on     t'onboccon. dime onpuotì. a comuòpo*  rtfto fallar pi > a dar in mez^o Confondo  da ttnaz^ZjO , o d*on taglerò ? a dighe de  mofìrarlo. NA. Fotta , a por ae fallar  don belpuocopì in f ti fondo da tinaXr  z^o , che in t el tagiero . A4 A . Efielbon  dottore dal libraz^z^uolo dife a l'incontra,  gio . Va modriOy de fa Trealaffe. NA.  Aio no fé podanto fmirare de mtXof r uo*  ra a le. fi elle , no fé pò [aere on le fìppia  ( dif lo) perche no fé ve elluogade drio*  ghe . esPI<*A. Ste mettisfi elto gabban  fu ngraile de la me fiala da manie chel  lo f con d effe tutto ffaertfo e at tarme su  quale elfoeffe? NzA*Poo,tè Qn granfa  re . a fiomenZjerae a dire 3 vno, e du, e  tr)> inchinda > chafoeffe Ime , e quando  heffè ditto , con far a e a dire 9 nuoue> e e ha  veeffe 9 che in su quell'altro ghe foffè el  gabban , a dirae , que l'è fui die fé mi .  no vaia così ? AdoA Mo la no pò efsere  altramen ella , e così anche fi vena far e  in lo CielOifeben quel letr anello non s'in  sa adare . Uè benpìgrofso, che né elto-   raT^Q     cap. tf.     «ap     Cip. 6     razzo de Cremona vè$ che ì dtfie> que l'è  ****• s\grandentfisemo.N<tA. Quando aguar  don in la Luna, el noflro vere fé ghe fic-  ca entro (dtfielo) e perz^uontena ho fé pò  fare la prealafiftLJ . <&dA. Chel me fio  che elio (fqua fio eh a thò ditta) a veefiskn  te Belle de fora , chelfiarae on pia/ere ,  fé lafioejfe così . NA. Pian, e ha novo*  rae fallare, el me par pure , che'l diga ,  que no fé pò vere mela la Luna, negna  mele le He Ile , filanto , che le xe grande %  e'I noflro desfegurameto tira mafifaftret  to , fie ben elfie va pò slargamo . <&14A.  ^yPlade imaginete pure 9 que chiappela  da che cao te vuofi , l'impegola . che me  fa mi quello , fé mtga a no pò fio vere tut  ta la Luna , ne gnan tutta na Bella? no  bafla eh a la vegga on puoco , e cha la me  fkrefegondo quello? NA Aloafìomuò>  te na bagia la que fi a . doh mal drean$  el fie fafiea pò bello , d'haer catto na fpe-  lucation fiottile per fiarghe Bare i fimeta  mattchi . IMA. Seto que le na confia >  che no gtìì me fio penso ? mo per la ma-  re     cap. 6     re ib. T-     ' re di can, que inchinda on Veelo thàfk  pia inanXo yfegondo ch'ha gh'hò fentu a [X.  dire ajfe botte al me paron . E fi el no fé %'"££  riha te gnu tanto in bon . NA. vuotu y ' 1 ;. i  ctì andagamo inanXp ? <^/aA. Sì y di \ 28 ° Fr '  NA. F rello te te fari s fi fcompifso da ri-  fo y Whaisfi fentio vn batibugio , que ghe *•«*•   Xèy de <lA> By Ny Oy ^ figì liti f Ì >afl ^ , 1? »»   talea offerire , che la Prealaffe e bona ,  mo i fwetamatichi no la sa vouerare ;  que flaghe ben . <&14A. Elnodie inten-  dere gnan elio zj> y cheldifi^ . Tirate  on può in qua mo 5 vito Hofalgaretto y  che apèfiofofsà ? NA. Sì mi . MA.  *Uito mo quell'albaray che xe lialuon de-  tta vefin a tar&erz_j ? N<tA. Quale?  la grande , la pigola ? MA. Lapec  chenina . N$A . Sì mi eh a la "veggo .  MqA. Orbentena , guarda mo bender-  to $ qual te pare , che fea a bo da man *  de Ho falgaretto , e de queltalbara ì  NA. Staganto così , el me pare mu que  talbara egnirae a ejfere a bb da man .  M$A» Tirate mo da ft altro lo . NA.   ave-     a njegno . M<tA* F remate chine, e ade/  fi ? N<tA- Mo cane abaro , a jlo muo el  fato aretto farae elio a bo da man , e l' ai-  bara a bo da fuor a . zsllzA. ^rue te fa  mo a ti 3 fé miga te no <vi de meZjOfuora  el falgaro, ne l'albaraf e que danno te  da, -per che te nopuofivere anche elio de  drìo , de tutti du ? N$A. ^Mo gnente ,  per que afmirofegondogi *vri de le fior-  z^e mi, e no figondo a quello, cha no veg*  go . <&dA. Elfi fa così anche in agiere  <ve , e que Ha xè na forte de Prealajfe .  ^Torna mo chiue on a fon mi . NA <±A  ghe fon <vegnu mi . a^kttA. Cjuardanto  de cima via aflo falgaretto.puotuvere  queltalbara , cha te difia , fi ben la ghe  xè per mie ? N<tA. Lagame mo guarda*  re.pùuh$ mono mi. AlzA. Stefuùfl  mo tanto lunl^, che guardanto de cima  fuor a alfalgaretto, te credlsfi definirà-  re derto a mez^alama.e te t o facuorz^tf  fi d'aliar gì vogi 5 qual diritto y che fot fi  fi pi elto de /li du . N<t/1. $A fi ietta cha  ghepenfe on puOco : %A dirae defatto,   que     que t albata foejfe pi baffa> t*l falgaret  io pi etto mi 5 per que el me parerae co-  sì* anche no /tanto elvera. Ad A. Fa ori  può ri altra con fa. va su fi a nogara,cha  fagiere mi . NA. One vuotufare ?  zZl'IA. vaghe , e Po te fenttnefi . NA.  <td gtiandere , fda che te vttò così .  Qt&fA. Pian, chete no te f aghi male .  NA. Ta de mi ; mo a mefongifquafo  fcapogio riongia> e mondò vn z^enuogio.  Ai A. G hefìto ancora ben fremo? N A.  Sì mi. que gtie mo ? ^PIA. Torna a  fmtrare quell'albara , che te guardaci  an chi de [otto . NA* E pò ? <&dA.  S mirato a quella dertamen,puotu vere  ftofalgaretto > co te fafìui flpiato de fot  to ? NA. Mo nò mu efìsafoejfe da lu  Xi. così a telta> a dirae, queelfalgaret  tofoefepì bajfo mi. Ad A. Vie tonca lo*  cha te contere de belo . NA. E l gif è  puocafatga a f aitar z^ofo . Al A. S in-  time mò.per que quando te gì eri ab affo,  elfalgaretto tepareapì elto delialbara\  e ftpianto su la nogara , el te parea a   T> l'in-     'tincontragìo j perXuontena àn queHo  xe ri altro muo de Prealaffe^j . que  Prealaffe ven a dire, con far ae a dire ,  defenientiadeguardamento . Fa moto  conto, che fé t'andiesfìsìt quel moravo,  che xe Ime, elfalgar elio tepareraepì baf  fo dei'albara, eabo da man 5 ettetor-  niesfipo da IV altro lo,elfalgaretto te ve  gnirae a parere pi elto de l* albata. , e &  bo da fuor a. e an. queHo xe ri altro muo  de Prealaffe ^fegondo, che me defchia-  rlna botta el meparon. ttntindito mo?  NA. Pootta, mo Te pi chtar-a % que riè  on gratto da vacche, a me fmerave-  gìo a comuo quelli dal IibraXZjUolo,ri ha  fapio faellay e lome d'ona forte de Prea  laffe > Jipiantoghene tre mi A4 A. Elfa  •rae Ho anmafa , fel , ri keffe fatilo con  fé die . Orbentena ?fa mo to conto, que  fé la He Ha nuoua ,e la Luna ne foeffe  ve sin co èflofalgaretto,a por non, le fisi  le de fora nefarae don bel peXzjOpilim  ZJ> cheriequell'albara. e fi farae popi-  bolo >que no ghe foeffe da ì Spagnaruolt h   ci     cap. y.     e i Toifcbì, ei Ptditani^ deferitemi* de  guardamento ? e pure tutti la *ve in lo  rftèdìerno luògo, api k quelle [ielle, che i  ghe di fé. quel da la baie [Ira > o che ghe  fita del bolzfon : q ne fé gì mi ? NA. A/lo  el tòfaellamento rièbon,perque nepof  Jìbolofaerc quanto la Luna fé a lun\i $  che elio di fé anquellu dal libralz^uolo a  AIA. Nò al so muò de elio , el no fé pò  faere . mo i fmetamatichi chela catta,  beri gì. NA. oA no fé qui d'irte mi ,fe  lome, che the refon da vendere . MA.  Crito mò,chequellu d al libr aiuolo di  rae cosìan e lo ? NA. Se'l lo diefe elfa  raeben 5 tamentre elporae efjere tanto  depinion , queeltegniffe duro . cinque  in vin. Ad A. Che'l tegna pur fremo , e  chel metta a me conto . NsA. ^A no se  miga,a comuòfea Ho posfibole, che'l di-  ga (l'altra, que te fentirè adeffo. ino no Ic,m  dtfelo, che in gnegìm luogo ,fe tome , on  el ghe xè fora dertamhì > e apiombw ,na  fepòfare lafcoridaruola del Sole? a thò  purvezjua mi, eh' al so. MA. Si'O/tu   2) 2 brio,     cap . 6.     IfrOTCII,   «ap. 7-     èrto, che ven (fé i cuorui no ghe magna  gi vogi) el fé por a chiarir e,che, per yuan  to a he fentìt a dire, la fé farà. Aio con  que rafonfaellelo a Ho muo ? NA. La  Luna fé va volz^anto (difelo) e filano  fé pò vere dert amen dome quando la xe  in Z aneto . <&14A. Tornami) adire .  NA. El dife elo , che nofipianto la Ltt  na in Z aneto, no la pò fondere tutto et  Sole . ^MA. c Doh giandujfa , fio può-  uerhomocrhque la Lunafea nafritag  già elio . Con cane arOychefìanto ella reo  da 5 quiggi , che Ha in Zaneto , gtitnpò  "V ere pi de nu ? ghe ne d altre ? NAl  Sì. que vuol dire Grafalta? &WA.  eA comuo , Grajfalia ? NA. El di fé  elio, que l'ina nuuola a muo latte , ve-  sin a la Luna , e que la ne altramen in  Cielo . <£WA. Oò , a tendendo adejjò.  l'è laflrà de %flwa . NA. <*An sì sì, la  fra de Roma . sOMA. Efìeldife 3 cjue  la ni in Cielo ? N$A. <£Mo, no, difelo.  MA. Con cane abaro ghe dijjangi tonca  nù P Hra de Roma, che vuol dire , Hrk     del Par affo, fé la no foefse ti fufof ] NA '.  Cjuarda ti . e sì elfapo delle sbraofarì  contra onFUuorico(eben an divieggi)  che no crea,quelafoeJfe in Cielo , per  che ellodifea Stotene > che la gh'iera .  Ad A. Ofsu andagamo inuerfo e a, que  te fera, in f agno muo a pò fon benfael  larecaminanto sì. NA. Vapurlà.cha  ve gnomi, pooh, el ghe ne que Ut puoche  ancora . el di fé , che la ftella nuoua la  trema>per que la fé va suentolato,quan  do la va a cerca . ^lA. Ghe'lcritotì?  JMA. <*A ghe'l crerat,fe'l noghinfoef  fé paregte delle flette, que va a cerca , e  fi no trema mi. e fi el trema tome quelle*  chexe elle, elte>perque a nopofsonfre-  marle de vifta, che paghe ben. e anque  fi a Ir emanto la de efler li uè . aPkfdd:  Àdò va , che te sì on Rolando . NaA.  Tamentre que, nofapianto queHù, on  la fé a fi a Bella > elnopo gnanfaere co-  muo la flpia incenderà 5 e sì le venaej  fere tutte filatuorie , quelle, che 3 Idi fé a  \flo perpuo/ìto 5 ne vera ? <z?J4A. Ala   el     ni  cap. U     cap. 19.     elle fogna ben > que la fea così. NA.  Orbentena, avuo^cbaft togamo onpuo  dt Fpajfo con gifuo fprenuoBtchi mi i   loren. ^ ^/^. $, q Ue dlfcio ? NzA* El dìft ,   que la Beila durerà afte s afte, /e s'im-  batte j, che L Sole no la desfaghe , elio .  At^sL El poca an dire, que la durerà  inchinda , que elio va a romprela 5 in  t* avno rnub , con la (e a anda via, el pa-  ra tegnir fremo, que te fio eilo>cbel'hà  rotta . N<t4. <z?tfo gbe vegna el mal  drean $ quejìa farae ben de porca ! El   *—*\ di fé po> eh e* l fera abondantia d* agno  confa, e que l'è na Bella de quelle bone.  J\d<zÀ. Inchindamb la va ben , quanto  de quello, mofe la tegmffe mo fremo con  Bi ficchi 9 a que ftjfangi ? crila purea  tomuo. NtA. T>e gihuomini pò? quel  le puoche con fé . M<t4. Con farae a di   ^; re ? NtA. Con far a a dire^ quei doen*  tera inz^egnofi, e facente-^ e quei fé te-  stura a la verite . AisA. Vete> che'l  se fchiano el fyrenuoBìco inelo.no vito  a comno te agnino \ el ne amposfibolo %   chel     cup. li.     chel viua , habbìanto tanto e dibrio da  Xoene^j . N^4. T^e me sbertez^à nero ?  dì pìprefto , que el fprenuoUuo è Ho ve  ro in nìi, que a s'haon tegnu a la veri-  te, fé ben elio voi e a archiaparneght^j .  zTkfo/l. T'irà , che f he vento. iVW.  El dife pò anche * que Ha Bella ca7z, \ -  ra via le giottonarì , le rabbie 5 quf /i-  gi mi ? oJldtA. Sì >Sì , così noJìejfcle  in perorare , le nuollre carte > mo ano  me fmerauegio difuofprenuoHichi,que  tutto el so libr alinolo me pare onfpre  nuoflico mi 5 e que fempre el fraghe a  indiuinare^ . N^4. El dife ben , che  el ghe nha vn altro per le t tra da far C1F '  [lampare^ . zsì4<iA. Che l foghe pre-  flo,per que feanto vesjn Li ^Marefèma-,  e l farà bon da qual confa an etto.ftgon  do, che que fio n ha fatto rire adejjò y que  l'è da Carleuare_j . N-*A. E quelìlt ,  che le&ea diffe , che'l creapurpiamen ,  que el l'haefje fatto flambare per ven-  derlo, e gu agn ar qualche marchetta eU   lo . M$A> Che'l U&re tene* a tfazy   Zjargi,     Lorerc*   cap. f.  6.     sgargi, e fé ghe nauanZjeffe qualchuno,  chellofagbe in fon reuoltclo y e chelfel  caXjZjt, on fé ca%z^è Tofano le Jp tette 3  che l farà ben meffo in conerà . N<tA.  Lagoni a line, àfebn a cà. <vuotu Rare  a cena con mi ? a fin dare ontiera ve .  Alzs4. <$Al so, mo a nopojfo^ue la Afe  nega rri afptetta 5 tamentre a fin def  grati . AV/. $A T>io tonca .  MzA. sA 'Dio .     IL FINE     IIMII     asS a£$5     * 1^/7 >" r» * 1 "- ; <r*        li     u     TU ■   1 JL ■       ■a     ■ Grice: “If I had to choose between Colombe-Aristotle to Galiei-Plato, I chose the former!” -- Colombo. Colombe. Ludovico delle Colombe. Ludovico Colombo. Keywords: the irregular surface of the moon is filled by an invisible substance, the earth does not move, the ‘nuova’ stella is a misnomer: it has always existed; bodies float or sink according to their shape. Aristotle’s reasons never sink because they are square. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colombe” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691918564/in/photolist-2mMLXtT-2mKQAtf

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