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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 3

 

Grice ed Alvarotti – retorica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo. Nacque nell'antica famiglia padovana Speroni degli Alvarotti nel palazzo di famiglia in contrà Sant'Anna. Il padre Bernardino fu archiatra di Leone X, la madre Lucia era esponente dei Contarini. Bambino prodigio negli studi, divenne professore di semiotica a Padova a soli diciotto anni. Dopo pochi anni di insegnamento però decise di approfondire gli studi a Bologna, da Pomponazzi. Alla morte di Pompoazzi, ritornò a Padova dove insegnò per altri tre anni, fino al decesso del padre; dopo di ciò dovette occuparsi attivamente della sua famiglia.  A questo periodo risale la composizione dei dialoghi che verranno pubblicati dall'amico Barbaro con il titolo di Dialogi: sono il “Dialogo d'amore”, “ Della dignità delle donne”; “Del tempo di partorire delle donne” e “Della cura famigliare”; due dialoghi lucianei “Della usura” e “Della Discordia”, seguiti da quello “Delle lingue” e da “Della retorica” e infine quello “Delle laudi del Catajo, villa della S. Beatrice Pia degli Obici e quello Intitolato Panico e Bichi. Questi dialoghi sono le opere più note di Speroni, nonostante siano stati pubblicati a sua insaputa e non siano mai stati riconosciuti, e hanno avuto decine di ristampe nel corso del Cinquecento.  A questo periodo risale anche la composizione del “Dialogo della vita attiva e contemplativa” che non venne però inserito nei Dialogi per motivi tuttora sconosciuti.  Membro dell'Accademia degli Infiammati e amico di Tasso si occupò della revisione della Gerusalemme liberata. Fu autore della Canace, pubblicata a Venezia,  tragedia che darà seguito a un'accesa polemica tra l'autore e Giambattista Giraldi Cinzio.  In seguito intervenne anche nella polemica tra lo stesso Cinzio e Pigna a proposito dell'”Orlando furioso” e del romanzo come genere letterario. Si trasferì a Roma dove divenne amico di Caro. Tornato a Padova compose i “Discorsi Su Alighier”, “Sull'Eneide”; “Sull'Orlando furioso” e il “Dialogo della istoria.” Fu fautore di un classicismo ancor più estremo di quello del vicentino Trissino, cui rimproverava di aver tratto dalla storia e non dalla mitologia il soggetto della sua Sofonisba. Conformemente all'uso greco e, naturalmente, nel pieno rispetto delle unità aristoteliche, si ispirò alle Heroides ovidiane per la Canace.  Fu sepolto nella Cattedrale di Padova negli avelli degli Alvarotti. Nell'andito della porta settentrionale gli venne in seguito eretto un monumento ad opera di Girolamo Campagna.   Sperone Speroni. OOpere di M. Sperone Speroni-degli-Alvarotti tratte da' mss. originali, Marco Forcellini, Venezia, Occhi, Sperone Speroni, in Trattatisti del Cinquecento, Mario Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, Francesco Cammarosano, La vita e le opere di Sperone Speroni, Empoli, Tipografia R. Noccioli; Francesco Bruni, Sperone Speroni e l'Accademia degli Infiammati, in « Filologia e letteratura », Francesco Bruni, Sistemi critici e strutture narrative (Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento), Napoli, Liguori,  Amelia Fano, Notizie storiche sulla famiglia e particolarmente sul padre e sui fratelli di Sperone Speroni degli Alvarotti, in « Atti e memorie dell'Accademia di Padova », Padova, Tipografica G.B. Randi, Amelia Fano, Sperone Speroni, Saggio sulla vita e sulle opere, I, La vita, Padova, Fratelli Drucker, Piero Floriani, I gentiluomini letterati. Il dialogo culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori; Adelin Charles Fiorato, Jean-Louis Fournel, Il “camaleonte” e il “cuoco”. Sperone Speroni e la critica del romanzo, in « Schifanoia », Stefano Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali, Napoli, Vivarium,  Stefano Jossa, Verso il barocco. Sperone Speroni e Borromeo (tra retorica e mistica), in « Aprosiana »,  Mario Pozzi, Le lettere familiari di Sperone Speroni, in « Giornale storico della letteratura italiana » Pozzi, La critica fiorentina fra Bembo e Speroni: Varchi, Lenzoni, Borghini, in M. Pozzi, Ai confini della letteratura. Aspetti e momenti di storia della letteratura italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso, Sperone Speroni, volume monografico di « Filologia veneta », Padova, Editoriale Programma, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Guerrieri Crocetti, Sperone Speroni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sperone Speroni, su sapere, De Agostini.  Luca Piantoni, Sperone Speroni, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Sperone Speroni, su Liber Liber.  Opere di Sperone Speroni, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Sperone Speroni,. Audiolibri di Sperone Speroni, su LibriVox.  Michele Messina, Sperone Speroni, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Keywords: “Dialogo della lingua”--. Speroni degli Alvarotti. Speroni degl’Alvarotti. Alvarotti. Keywords: retorica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alvarotti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691959454/in/photolist-2mUvToR-2mSEtHs-2mRcn9c-2mNzeEc-2mPtp3t-2mKQNCf-2mKbkhx-2mGnP2f

 

Grice ed Amaduzzi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Savignano di Romagna). Filosofo. Grice: “Oddly, I had an occasion to refer to Amaduzzi’s birthplace in my little thing on Caesar crossing the Rubicon!” -- “I love Amaduzzi: he writes about the academy of Paris, and the academy of Berlin, but nothing about the English Acadeemy! He notes that the warrior – against the Trojans, was Echademos – and ‘it is naturally that the first important Accademy was founded in Tuscany, -- since a Tuscan hates a Roman!” –Grice: “Amaduzzi’s hobby was to collect references to ‘accademies,’ – “which are all nonsensical, since only ONE has a ‘rigid’ designation link to EchEdemos!”. Discepolo a Rimini di Giovanni Bianchi (Iano Planco), si trasferì dal 1762 a Roma, dove iniziò la sua attività di ricerca ed erudizione, sia pure tra numerose ristrettezze. Un assestamento nella sua vita si registrerà alla fine degli anni Sessanta del XVIII secolo, come rilevano i diari dei suoi primi "diporti" (gli Odeporici autunnali eruditi), le brevi perlustrazioni compiute nei dintorni della città eterna o comunque entro lo Stato della Chiesa, emblema di un genere letterario di viaggio che mostra chiaramente la sua versatilità di interessi.  Grazie alla protezione del papa Clemente XIV, anch'egli ex allievo di Bianchi, dal 1769 fu professore di lettere greche presso La Sapienza, mentre dal  insegnò al Collegio Urbano. Nel frattempo era anche diventato ispettore della Congregazione di Propaganda Fide, ottenendo da Clemente XIV la carica di soprintendente della relativa stamperia. Con la quale curò la pubblicazione, scrivendone le prefazioni, in particolare di importanti trattati di grammatica di lingue orientali, fra cui l'ebraico, il persiano, l'armeno, il tibetano e perfino il malayalam.  Per i suoi studi ottenne ottima reputazione presso i principali esponenti del panorama culturale settecentesco, entrando in contatto e in corrispondenza, tra gli altri, con Pietro Metastasio, Vincenzo Monti, Carlo Denina, Ippolito Pindemonte, Girolamo Tiraboschi, nonché con Lazzaro Spallanzani.  Fra le sue pubblicazioni spiccano anche dissertazioni di ordine filosofico, che s'innestavano nell'alveo di un illuminismo moderato: infatti, con i «discorsi» su La filosofia alleata della religione e sull'Indole della verità e delle opinioni del 1786 (per i quali fu denunciato all'Inquisizione), i cui temi di fondo erano ispirati al filosofo inglese John Locke, egli cercava di coniugare il sensismo con il cattolicesimo, poiché vedeva nel sensismo un valido approccio alla conoscenza dell'uomo. Vicino alle istanze del giansenismo regalistico, come emerge dalla ultradecennale corrispondenza con Scipione de' Ricci, ebbe parte significativa nella discussione che portò al decreto di soppressione della Compagnia del Gesù.  Si occupa anche di archeologia, curando fra l'altro i “Fragmenta vestigii veteris Romae” -- e la “Raccolta di antichità agrigentine”. In questo ambito s'inscrive l'ampia corrispondenza con l'aquilano Anton Ludovico Antinori. Compose, inoltre, canzoni e rime, e poco prima di morire pubblica anche per la Stamperia del Bodoni a Parma un commentario su Anacreonte.  Fu tra gli accademici dell'Arcadia, con lo pseudonimo di Biante Didimeo.  Opere principali: Dissertazioni – “Dissertazione canonico-filologica sopra il titolo delle instituzioni canoniche De officio archidiaconi, s.e., s.i.l.”; “Donaria duo graece loquentia quorum unum in tabula argentea apud moniales Saxoferratenses S. Clarae, s.e., Roma); “Discorso filosofico sul fine ed utilità dell'Accademie, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “La filosofia alleata della religione. Discorso filosofico-politico, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “Discorso filosofico dell'indole della verità e delle opinioni, dai torchj Pazzini, Siena); “Carteggi Ad virum clarissimum Janum Plancum archiatrum, et patricium Ariminensem epistola, typis J. Rocchii, Lucae); “De veteri inscriptione Ursi Togati ludi pilae vitreae inventoris epistola, apud B. Francesium, Romae); “Epistola ad Iohannem Baptistam Bodonium qua emendatur et suppletur commentarium de Anacreontis genere eiusque bibliotheca, in aedibus Palatinis typis Bodonianis, Parmae). Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, L. Morelli, Leo S. Olschki, Firenze, Lettere familiari, G. Donati, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone); Carteggio, M. F. Turchetti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); “Curatele Leges novellae 5. anecdotae imperatorum Theodosii junioris et Valentiniani, Typ. Zempelianis, Romae); “Alphabetum Brammhanicum seu Indostanum Universitatis Kasi, (a J. Ch. Amadutio editum), Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae); “Alphabetum Hebraicum addito Samaritano et Rabbinico, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum veterum Etruscorum et nonnulla eorundem monumenta, Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae);  Alphabetum Graecum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae Alphabetum grandonico-malabaricum sive samscrudonicum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Tangutanum sive Tibetanum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, apud G. Settarium, Romae); “Catalogus librorum qui ex tipographio sacrae congreg. de propaganda fide variis linguis prodierunt et in eo adhuc asservantur, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Barmanum seu Bomanum regni Avae finitimarumque regionum, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Roma); “Alphabetum Persicum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum Armenum], Sac. Cong. De Propaganda Fide, Romae); “Characterum ethicorum Theophrasti Eresii capita duo hactenus anecdota quae ex cod. ms. Vaticano saeculi 11, Typ. Regia, Parmae); “Alphabetum Aethiopicum sive Gheez et Amhharicum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); Intitolazioni L'Accademia dei Filopatridi di Savignano ha creato nel 1999 il Centro di studi amaduzziani, su proposta di Antonio Montanari, autore di vari testi su Amaduzzi. Tra le principali iniziative del centro:  «Giornate amaduzziane»: una giornata di studi annuale su G. Amaduzzi; «Biblioteca amaduzziana»: la pubblicazione di opere (biografiche e non) su Amaduzzi. Il primo volume è Elogio dell'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi di Isidoro Bianchi, la prima biografia scritta sull'abate savignanese. Note  T. Scappaticci,Gli Odeporici di Amaduzzi, in Fra Lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Cosenza  G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica,  Venezia, Cfr.Metastasio, Opere,  V, Firenze, A. Cappelli, Del carteggio inedito tra Ludovico Antonio Antinori e Giovanni Cristoforo Amaduzzi. Studi archeologici, Tip. Perfilia, Aquila, L. Spallanzani, Diciassette lettere di Lazzaro Spallanzani all'abate Gio. Cristoforo Amaduzzi per la prima volta stampate, Ditta tip. Conti, Faenza, L'espressione è di Antonio Piromalli.  A. Piromalli, La letteratura calabrese,  I, Pellegrini, Cosenza, G.C. Amaduzzi, Raccolta di antichita agrigentine alle quali si uniscono i disegni del tempio di Teseo in Atene e di quello di Pesto il tutto espresso in 53. rami, Zempel, Roma, A. Cappelli, V. Lancetti, Pseudonimia. Ovvero tavole alfabetiche de' nomi finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de' veri, Milano  G. C. Amaduzzi, Odeporici autunnali eruditi, ovvero diario di un viaggiatore curioso ed erudito,  I, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, G. C. Amaduzzi, Rime, G. Donati, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Verucchio, A. Fabi, «Amaduzzi, Giovanni Cristofano», in Dizionario Biografico degli Italiani,  II, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, A. Montanari, Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Jano Planco, Accademia dei Filopatridi, Studi Amaduzziani, III, Viserba di Rimini, A. Montanari, Amaduzzi, illuminista cristiano, «Romagna arte e storia», A. Montanari, Appendice storico-critica in G. C. Amaduzzi, La Filosofia alleata della Religione, rist. an. Il Ponte, Rimini, A. Montanari, Amaduzzi editore a Roma delle Notti di Bertòla. Storia inedita dei Canti clementini, Quaderno, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De' Ricci ed il ‘giansenismo' italiano, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, Olschki, Firenze, T. Scappaticci, Fra lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Pellegrini, Cosenza 2006. M. Trincia Caffiero, Cultura e religione nel '700 italiano: Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione de' Ricci, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Cristofano Amaduzzi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giovanni Cristofano Amaduzzi / Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione) /Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni Cristofano Amaduzzi, Documenti sui fratelli Amaduzzi sul web. Filosofi italiani Professore1740 1792 18 agosto 21 gennaio Savignano sul Rubicone RomaScrittori italiani del XVIII secoloLinguisti italianiPoeti italiani del XVIII secoloOrientalisti italianiAccademici dell'Arcadia.  Giraian Cristofano Amaduzzi di Savignano fu una delle țeste più filosofiche e veramente erudite delsecolotraq scorso. Nacque di Michele Amaduzzi, e di Caterina Gasperoni. La sua famiglia traeva origine da Longiano, com'egli stesso nella pre fazione del libro intitolato DEVOLUTIO AD S. R. E. afferma = Grato enim animo me ab hoc solo (Longiani) ad Sabinianense traductum recordor, quinimirum exeagenteprogpatussim,cujussintab ipso saeculi XIV initio certissima inter vos incolatus monumenta etc. = Giovinetto amò tanto,oltre l'età, lostudioelafatica,cheilpadrene vennefind'alloraa buonesperanze; e però fu posto fraglialunnidel Seminario di Rimini, ove prese gli ordini clericali. Furono sì rapidi i progressi ch'egli fece, da destare ammirazione grande disè.Compiutalacarrieradegli studii,ed ap presa assai bene lingụa Jatina!eloquenza, eragion poetica uscì del Seminario, e fu nel 1955, e sidiede tutto alla filosofia, fidato alla scorta del famoso dottor Gio. Bianchi, il quale della propria casa, aveva fatto una scuola per chi volesse usarne, ricca di biblioteca, dimuseo,digiornali;ediquantoerada luiprivato LONCIANI DI 1...  procurare a bene del pubblico. Nè solo filosofia, ma lingua greca imparò dal Bianchi, e sì bene da uscirne solenne maestro. Gli piacque anche conoscere le leggi, e però si fece ad udire lezioni dell'avvocato Lelio Pasolini che era pubblico professore di giurisprudenza nella stessa città.Nell'anno 1761 l’abbate Amaduzzi non più discepolo, ma amico e fratello del Bianchi si cessò dalla sua scuola, e poco appresso recossi a Roma; efuappuntonelmaggiodel1762. Appena ebbe preso stanzanella metropoli del m o n do cattolico non è a dire come prestamente desse a conoscere di quale ingegnoera fornito,e come entras se nella grazia dei più distinti personaggi che al lora quivi mostravansi. E a ciò gli valse specialmente la benevolenza e la protezione del magnifico Gaetano Fantuzzi, cui non so se la porpora de cardinali desse o ricevesse più splendore: perocchè egli nella sua vita. fututtoinproteggere gliuominidotti,e,fattanerac colta presso di sè,giovarli d'ogni maniera conforti, e quel che più è,senza pompa di fasto in mezzo ad una vitaillibataemodesta.E perchèiomivogliadimol tialtri tacere,non passerò sotto silenzio i cardinali Boschi, Torrigiani, Borgia, Garampi, Doria, Antonelli,Mare foschi,Zelada,Giovanetti,ilcardinaleduca diYorch, einfineilGanganellichefupoiPapagloriosissimo e de gnodi piùlungo pontificato. Che anziquest'ultimol'eb be fra suoi più cari, e levato alla cattedra di Pietro se ne valse in molte e gravi bisogne. E s'egli avesse più a lungo vivuto, all?abaté Amaduzzi non sarebbeforso mancata eminenzadicaricaparial suo ingegno e dal suo'merito. Ma perrendermial'filodella narrazione dirò che, poichè 14Amaduzzi a più tornate 'ebbe letti discorsi profondamente filosofici e nobilissimi in Arca dia,tuttaRoma fupienadellesuelodi.Egli perassecon dare idesiderii de'suoi genitori, che avrianó voluto far di lui un giureconsulto,poichè non erano giunti adaverlo sacerdote,diemano alla giurisprudenza;ma essendo d'animo sehietto, e nemico di cavilli, e d'in sidieforensi,piùchealfôrositenne,ailibridei gius pubblicisti,esimisea svolgereleoperedel Cujaccio, dell'Alciati,del Gottofredo, del Gravina e di somiglianti, sdegnoso di quell'ammasso informedi leggi,di prati  6   che, di consuetudini sotto cui sovente venivano artata mente sepolte la verità e la giustizia. A prova del profitto che egli fe’in questaragione di studii pub blicò prima d'ogni altra cosa nel 1767 le cinque novelle inedite degli imperatori Teodosio juniore, e Valenti niano terzo, (di cui più appresso avremo a riparlare), nella quale opera non so qualpiùsimostriobuon legista, o critico acuto o profondo archeologo. Nè la sciò aparte gli studii teologici,(perocchè a'suoi pia ceva che ei si guadagnasse alcun impiego ecclesiastico) ecome simanifestaper alcunesueerudite disserta zioni, in breve in questa scienza pure entrò molto i n nanzi. Gli fu maestro il celebre P. Marcelli agosti niano; e tanto s'internò nelle dottrine del gran de dottore s. Agostino, che a difesa delle medesime ebbepiùvoltea combattere.Siconobbepurediquel la parte di diritto, che io dirò sacro perché riguar. da la canonizzazione dei Santi, e si esercitò in più cause, essendo promotori dellaFede monsignor Forti prima, e monsignor Pisani dappoi. M a dove più di forza intese fu nella cognizione de'sacri canoni, indispensabile a chi voglia penetrare nelle ecolesiastiche antichità con sicurezza digiudizio. Belledissertazioni,lequalicomprovanoconoscenza som ma che egli aveva dei canoni,lesse egli nell'accade mia che il sullodato cardinal Fantuzzi aveva formata in Roma de'più chiari personaggi, di cui era protet tore come è detto. Non acquetossi a questi studii la mente dell'Amaduzzi,laquale sentiva d'averforzada stendersi a più largo campo, e però si fece ad ap prendere lalingua ebraica e molte altre orientali,e n’eb be amaestriilTeoli,  l'Eva, ilGiorgi, l'Assemani,cime d'uomini,anzidisapere.Non èmaravigliadopoque sto, seappena scorso un'anno dalla sua venuta in Roma, il cardinal Torrigiani con onorevolissima lette ra dell' 11 novembre 1963 raccomandò l' Amaduzzi al principe di Francavilla, a cui spettava provvedere di custode labiblioteca Imperiali; officioche ben con venivagli,echeavrebbeottenuto,selamorte delmar chese Imperiali non avesse rese vane le premure del V ottimo porporato. In questa occasione ebbe pure una raccomandazionedelducadiParma.Intantol'Amaduzzi  7   In questo mezzo essendo accordatalagiubilazio ne aGio.BattistaGautier,professoreche fudilingua greca nell'Archiginnasioromano,Clemente XIV.di moto proprio glinominòsuccessore1'Amaduzzi,ed egli n'ebbe il diploma il 25. giugno del 1769. Il 10. febbrajo dell'anno seguente poi essendo passato di vi ta l'abbate Barcubaldo Bicci, che aveva la direzione della tipografiadiPropaganda,l'Amaduzziconviglietto, della segreteria di Stato fu nominato a quell?uffizio inluogodel defunto.Equìmipiacenotareunabel lissima lode a,lui doyuta, qual è di aver meritato i primi pensieridelsuoprincipe,edi non averli com perati con viltà di adulazione, o tristo mercimonio di corte. Anche,un altra lode si ebbe l’Amaduzzi, e fu del mostrarsigrato alsuo maestro Jano Planco; peroc che si adoperò onde,avesse grado di Archiatro del Pontefice, e gli siaumentasse l'onorario che aveva in patria, e quel che è più rimarchevole scampasse dal 1'umiliazione di soggiacereallefave annualmente; co sadi rilievoassai,perchè troppo spesso avviene, che nei municipii prevalga il privato risentimento dei yo-  8 non si cessando mai dalle sue erudite occupazioni, ac-. cresceva ad un tempo in sapere, ed in fama. E seb bene avesse a sostenere fin dai primi anni la guer ra degl'invidi, e dei tempi, nimicizie perpetue dei buoni ingegni,pure non ristette perquesto. In una lettera al dottor Giovanni Lami scritta li si luglio 1.768 si legge cosi: = Non godono le nostremuse quella tranquillità, che loro invidia l' infelicità dei tempi che corrono. Pure non ostanteio,che mi pre servo per quei tempi più lieti che spero,non inter metto lemieletterarie occupazioni(Nov. Lett.di Firenze1768).Elettonel15.maggiodel1769.a.Pon teficeMassimo LorenzoGanganelli,tuttaRoma,che benediluisiconosceva,seneallegro,e piùchemail'A maduzzi,ilqualeebbeascriverepocoappresso= sotto questopontificatocomincianoarisorgerelelettere=.E perchèquellagranmentecheeraPapa Ganganellivede va che il ravvivare gli studii,e gli uomini, che per quelli hanno grido,ristorare, è opera disavio e buon prin cipea questo sivolse,e cercavamodo diprovvederel'A maduzzi per cui aveva speziale stima, e benevolenza. 1.  tanti al bene del pubblico. Quanto poi studiasse por gersi r i conoscent e a l l' immortal suo benefattore Pontefice lo danno a vedere le opere che egli pubblico, e che vanno sì onorateper lomondo,chenon è permes 80 ignorarle a chi abbia pure attinto a prime labbra glistudiidiantichitàsacrae profana.Lasacracon gregazione diPropaganda volendo dar segno di aggra dimento alle tante fatiche dell'Amaduzzi, gliconferì la cattedra di lingua greca nel collegio Urbano,la qualeera rimastavacante per la morte del celebre. Raffaele Vernazza.Ciò funel:1780 il 27  9 salito, e la grazia dei grandi, bre.Ilgridoincheera,loa parola del vero captivavasi cui egli collasevera avesse per poco posto sì in alto, c h e, se egli vevano, avría posto la mano per piegato alle artidi corte che nome; non letterato che non volesse fortuna.Nonviera accademia trooicapeglidella ne ricercasse,il averloa socio,enon non si onorasse commercio di let;non giornale che non si riputasse tere.coll’Amaduzzi dotti pensieri. Fu ascritto a vanto pubblicare i suoi 6. febbra alla società letteraria de'.Volsci di Velletri Etrusca di Cortona il 5. jo del 1769., all'accademia del 1773, del 1771, alla Fulginea li 29. gennajo aprile col nome diNestore.1 8. a quella dei Forti in Roma del 1774,e ne scrisse a modo delle dodici ta ottobre col nome di Biante Didimeo voleleleggi;all'Arcadia il 7. febbraro 1775; all'accademia dei Placidi di Re del 1775; alla società georgica dei canati1'8. aprile 1779: all'acca Sollevati di Montecchio il 31. ottobre demiarealediScienze,eLetteredi Napoliil5.agosto diVerona il4. giugno del del1779: alla Filarmonica il 7 settem Colombaria diFirenze 1782:alla società degliAffidatidi Pavia il bre del 1785., all'accademia di Dublino li del 1786;alla reale Ibernese 4. giugno anno;alla reale di Scienze 21. novembre dello stesso il30. agostodel 1789. eamolte al eLetteredi Mantova letterarjdi quei giorni. tre.Scriyeva nei migliori giornali Pressocchè tutti gli articoli provegnenti da R o m a senza me d'autore del Lami,le quali furonopoi continuate n o, che leggonsi dal 1760. al 1791. nelle Novel le Letterarie,sono cosa dell’Åmaduzzi. Ebbe anche mole dal Lastri di Palermo,nell'Ef ta mano nelle notizie de’Letterati di novem e n   femeridi letterarie,enell'Antología di Roma,neglian nali ecclesiastici di Firenze. Carteggiava in Italia con tuttiipiùdistinti uominidiqueltempo,fraiquali siami lecito nominare Lami, Bandini, Lastri, Passeri, Olivieri,Mandelli, Vettori,Ferri,Mingarelli,Giovenaz zi,Bianchi,PietroBorghesi,ePasqualeAmati suoi con cittadini. Fuor d'Italia poi aveva corrispondenza di lettere estesa più che mai, come si può vedere da mol ti volumi che esistono manoscritti nella pubblica li brería di Savignano., Chi potesse, dice ildottissimo Isidoro Bianchi in una nota (36) all'elogio ch'egli scris şe dell'Amaduzzi, raccogliere e regalare al pubblico tutte le lettere famigliari, che il nostro Cristofano ha nel corso della vita iscritte a tanti e così dotti amici d'ognirango,d'ognicondizione,siavrebbecertamen te un'opera di moltissimi volumi, che nel merito su pererebbe forse molte altre, che egli ha vivendo rese pubbliche collestampe;un'opera pienadianeddoti interessantissimi, la quale ci presente rebbela più veridica e genuina storia de'più grandiosi fatti e singola ri avvenimenti, che nel giro di non molti anni si 80 no nel nostro secolorapidamente succeduti.Gli ogget ți di politica, e le grandi notizie del giorno formaro no una parte essenziale del suo erudito carteggio. Egli ben conosceva le corti, e i ministri di gabinetto, e di stato, e in particolar modo i principi, ei loro rispetativi interessi.E certo benchè egli nulla ambisse, pure aveva voce in corte,e ilPapa volentieri l'udiva, eglifidavacosed'importanzaassai.Ma poichèquel grande Pontefice ebbe a cedere a fato immaturo, la fortuna si volse contro l'Amaduzzi, il quale dovette sentirne i colpi più avversi eduri a sostenere.Alcuni glidavano tacciadimalfilosofo,altrialtrimentiil'mor devano.Ilmondo parteggiava avarie fazioni,e tutte erano contro l'Amaduzzi, perchè egli non istudiava ad alcuna, anzi combattevale tutte per seguire la verità, Non mancavano forse le gare degl'invidi, e di quegli che volevano fargli scontare a caro prezzo labenevos lenza che aveva goduta di Papa Ganganelli. Nel 1790. usci un libello famoso contro di lui senza data di luo. go, Aveva per titolo Lettera di un viaggiatore istruito, ad un amico di Rama risguardante principalmente la  ! 10   dottrina dell abbate Cristoforo Amaduzzi. Era quel libro una catena di calunnie e d'infamie; non più che sedicipaginesistendeva,ma insedicipagine chiude vaquantopuòlarabbiastemperareinmoltivolumi.Ven devasi inRoma,ma senza luogo enome di stampato re. L'autore non è a richiedere, che si stette e starà sempreocculto:elomerita.L'Amaduzzi,comecchèsu periore fosse alle male arti dell'invidia e della calun nia, pure tenne dell'onor suo rispondere e scolparsi; e dettò uno scritto intitolato Rimostranza al Trono Pontificio,emanifestoalPubblico= Equestofino dal 1790. era in punto per le stampe. M a consigliato dagliamici a presentarne prima il Papa, alloraPio VI, anzichèmandarlo allaluce, eglicondiscese. L'ebbe (1) infattoilPontefice,lolesse,conobbe lacalunnia,eren dendolo con molta benignità all'autore gli fe'travede re, che egli avrebbe punito i calunniatori col trionfo delcalunniato.Ma lavitanonbastòall'Amaduzzi.Sa rebbe assai desiderevole che questa Rimostranza fosse data a luce, perocchè oltre allo scoprire fino al fondo l' animo dell'autore, mostra la condizione dei suoi tempi, e di molte cose incerte rende pienissima fede. Ivi egli parla di sè con libertà di filosofo, e fa il ca rattere suo qual era in fatto, ed i suoi stessi difetti non nasconde. Si confessa amatore della filosofia, non di quella che in barbaro gerga di voci più barbare non dà che frasche, e sofismi, m a di quella nerboruta e vigorosa che prese spirito dal Galilei, da Bacone, da Cartesio, da Newton e dagli altri di tale schiera, i quali, abbattute le vecchie superstizioni e le matte fre nesie, rimisero al suo seggio la ragione,e in quello stesso che la innalzavano la mostrarono più riverente, ed ossequiosa alla Religione.E apertamente dichiara solo quella filosofia piacergli, che è guida e conforto degli uomini, maestra di costumi, e di civiltà, e che nasce dalla carità cristiana, che è la sola per cui la società ha fermezza, e innanzi cui scompare ogni fel lonia ed ogni pubblica sventura.E non disconfessa il suosentirsidisoverchiotrasportatoadireilveronu do e calzante,e l'essere sdegnoso de tristi, e insofa (1) Vedi rimostravza al Trono Pontifieio] ferente di oltraggi.Insomma io non credo che altri possa ritrarre lụimeglio, di quello che egli stesso in quella scrittura si ritrasse. L'abate Francesco Gusta nella sua Vita di:Co stantino, oltre il pụngere sovente ! Amaduzzi, e tal volta inveire contriesso, lo tratteggia come soverchia menteamicodinovità,elomandadelparicolPe reira,colTamburini,colNatali,ecolZola.Ma cheil Gusta parlasse per invidia, e per bassissima vendetta, sitravede in leggendo quella vita; e l'Amaduzzi ben fe? a punirlo collo sprezzo dell'opera, e dell'autore. Egli il 16. maggio del 1791. ottenne di essere giu bilato dalla cattedra di lingua greca nel collegioUre bano, e il decreto n'è molto onorevole. Nel dicem bre dello stesso anno cadde malato, e giudicarono che egli avesse pericolosa ostruzione alla milza, ed al fe gato.Siposeinletto,e arigorosacura;ma ilmale anzi che cessare rincrudì, e lo mise fuori d'ogni spe ranza di riaversi. Anima nobilissima come era,accettò l'annunzio del pericolo suo con serenità di volto, e tranquillità, e adoperò in quello stremo da quel filo sofo cristiano, che per tutta la vita aveva mostrato. Sia qui debita lode ai cardinali Antonelli, Borgia, G a rampi, che luisoccorsero generosamente in ogni gui sa; perocchè egli non aveva modo da sè di sostenere lunghe spese di malattia; non avendo mai voluto far denaro,anche potendolo.Ne glimancarono buoni ami ci in quell'estremità,che ben n'aveva di tali; sebbe ne egli fuor del mondo col cuore solo fidava in Dio, e però presi i conforti della chiesa, dispose delle poche cose sue,etranquillamentepassòil21.gennaro del1792. in età di soli 51. anni. Morendo lego alla patria la sua ricca biblioteca che era il meglio dell'eredità sua; legato preziosissimo specialmente peisuoi scritti,e pel carteggio. Fu pore țato al sepolcro in abito clericale suo principale o r n a mento edecoro,come,egli primadimoriredichiarò; poichè egli aveya ricevuti, come siè detto, gli ordini minori. Tutti i giornali d'Italia piansero laperdita di tantuomo.L'abbateOssuna ex-gesuitamaestrodirettori: pa in Savignano ne inserì un bell'elogio nella gazzetta di Cesena;unaltronemiseilP.Pujatinegliannali eça clesiastici di Firenze.Anche il Mazzuchelli nella sua grand'opera degliScrittoriitalianinefeceun bell'elogio: ma il più ricco di tuttifu letto nella reale accademia delle scienze e belle lettere di Mantova il 29. novembre del 1793. dall'abate don Isidoro Bianchi,con appresso il catalogo delle opere dell'illustretrapassato; catalogo â cui rimetto i miei lettori, perchè penso che di m e glio non si possa fare. Basti sapere che ilnumero delle opere dell'Amaduzzi tra le edite, e quelle che inedite rimangono nella biblioteca savignanese vanno oltre à cento venti, é ve ne ha alcuni di gran mole. Non possoperò quipassarmidall'accennarneuna per oni 1 Amaduzzi si ebbe grandi amarezze, e fu = Lege'snovellaeV.anecdotaeImperatorum Theodosiiju nioris,etValentiniani111.etc.= Intornolaqualeil dotto Bianchi dice così = Ai colti bibliografi non è ignoto, che in tempo che l'abate Amaduzzi era in R o ma occupato per la pubblicazione di quest'opera in signe,inRavennapure sitravagliava dal dott. Anto nio Žirardini per lo stesso oggetto. Or la morte dello stampatore,cheincominciò l'edizione romana,é ledue malattie di quello che la prosegui (vedi Nov. Lett. del Lami del 1766. a col. 822. ) ritardò la medesima più oltre del tempo assegnato nel manifesto, che usci ai 21. di giugno del 1766; é nel quale si promettevä il libro nel prossimo agosto, quando per le suddette c a gioni realmente non uscì che nel 1767. L'edizione in tanto del Zirardini si rese pubblica nello stesso mese di giugno dell'anno sumentovato, e dal Lami ne fu subitoriportato un lungoestratto,chesiè creduto di mano dello stesso Zirardini, o di qualche altro suo intimo amico dimorante in Roma (Gaetano Marini): Un altro breve annuncio della stessa edizione faentina fadatodaigiornalistid'Yverdon (tom.I.1768)av vilendola forse un po'troppo in confronto della roma na.Questoannunziounpo'vibratomisedimoltomal amore il Zirardini, e stuzzicò un letterato romano (it prelodato Marini)molto amicodel medesimo ad inse rire nel tomo 3. del giornale di Pisa un lungo estrat to dell'edizione delle cinque Novelle fatte in Faeriza dal dott.Zirardini, attaccando l'abbate Amaduzzi d'im postore e di plagiario, come se egli nella sua edizione] La cosa era in sè semplicissima. Due dottiquali eranoilZirardini,el'Amaduzziavevano estratta00 pia delle cinqueNovelle quasi inpari tempo;amendue vi ponevano studio intorno per illustrarle;l' uno in sciente l'altro le pubblicava. Or che male è qui? lo avviso che se i giornalisti d'Yverdon avessero con più lode trattata l'edizione faentina non si sarebbe mossa querela alcuna nè dallo Zirardini, nè da alcun altro. M a il Zirardini punto dalle parole dei giornalisti d ' Y verdon, e rinfocato dal Marini, che vedeva forse di mal'occhiosalitoinfama1'Amaduzzi,chealloraa lui non era amico più che d'apparenza (cosa che si pro va benissimo per molti fatti,ma piùper le lettere del Marini al dottissimo pesarese Olivieri le quali nella p u b blica biblioteca di Pesaro si conservano )cominciò a fare lagnanze, ed avventarsi contro l'Amaduzzi.Sebbene sa rebbe piùveroildire, cheilZirardini,chemodestoepaci fico era di natura, si lasciò reggere in tutto dal Marini stesso; il quale si fe' innanzi al pubblico co'suoi scritti a c cusatore dell'Amaduzzi,più presto che buon difenso redelZirardini.Egliè fuordubbiochemolto inge nuamente l'Amaduzzi, nel S, X. della prefazione dopo aver mostrata nel suo vero essere la cosa, diè le più belle lodi che mai al Zirardini, sino a confessare che ove avessepotuto,sisarebbeegliastenuto dalpubblica re l'opera sua, dopo avere conosciuta quella dell'illu stre ravignano. Eccone le parole = Neque hic nunc silentiopraetereundum dum opus hoc nostrum praelo traderetur, has ipsas Novellas ex eodem Othoboniano Codice depromptas faventinisArchiitypisprodiisselu culentissimo commentario illustratas Antonii Zirar dini ravennatis viri consultissimi, qui eundem codi cem insciis nobis ab ipso Ruggerio jampridem obti, nuerat, qui sane longe effusiori doctiorum adnota tionum segete,ulteriorique rerum doctissimarum ap  999 » 14 romana si fosse approfittato dei lumi, e della erudizio ne sparsa nell'edizione faentina. L'abbate Amaduzzi però,cheebbe sempre a cuoreilproprio onore,esem pre si fece un dovere di vendicare igravitorti, che la malignità congiunta all'invidia avesse saputo recare alladi lui onestà,e buona fama,non tardòapubblica re sotto il finto n o m e di Evisio Erotilo la sua apología. 92 99  jypáratu rem perfecit;quod sane sinobis, antequam hanc spartam curandam susciperemus, innotuisset, w cîtrapublicaefidei,quajamobstringebamurinjuriam; eademfortedimittianobispoterat.= (Ginanni t. 2. Memorie storico-critiche degli scrittori ravennati ): Dopo questo io non posso credere per conto alcuno a ciò che francamente il Marini afferma nella sua im. mortaleoperadeipapiridiplomatici.- L'Amaduzzi volle far credere di non aver lettö il libro del giures consulto ravennate,chepur aveva tutto coraggiosamento te espilato و Parole che bene consuonano alle acers bissime che scriveva all'Olivieri, dalle quali si pare, che per buon viso che mostrasse all'Amaduzzi pure vi avesse mal'animo contro.Tanto possono le passioni nel cuore degliuomini piùsapienti,etale èlasciagura perpetua delle lettere italiane! L'Amaduzzi fu uomo pio, caritatevole,generoso; bocca di verità.Cogli amici affabile,con tutti umano; socievole. Consultato dai primi dotti volentieri lorð sinceramente si prestò. Sappiamo infatto che fu inters pellato dal famoso Pasquale Amati per la sua col lezione dei Poeti latini,come si legge nel tomo I. pax gina 6. della prefazione; dal dottorFantini per le an tichità di Sarsina, che ristampò in Faenza nel 1969: in cui si trovano varie aggiunte dell'Amaduzzi; dal Ferri; dal Bianconi,dalcardinalRiminaldi,aiqualidièmoltis sima mano.Faceva volentiericopiaaltruidelsuo vasto sapere, e spesso scrisse per altri donando la fatica e la gloria che ne verrebbe. Grato oltre ogni credere tramandò ai posteri le lodi di quanti a lui premoriro no amici, e benefattori. Se qualcuno a lui caro o sti mato veniva offeso nell'onor letterario o in altro, e gli si levava a difesa, e acerrimamente ripugnava le accuse. Intraprese viaggi per diversi luoghi d'Italia onde meglio erudirsi, visitando biblioteche e codici, e molti ne trasse dalle tenebre.Usava ogni di notare in un libro le cose vedute, o fatte. Amò lapoesía, e giovine dettòversiitaliani,iquali,comecchèritraggano assai del secolo in che visse, sono degni di essere letti. Si piacque oltremodo delle artibelle, e ne rendono fede i'elogioche egliscrisse di RaffaeleMengs, e l'amici xia che lo lego al Winckelman, al Bianconi, al Bottari;  16 'e ai primi artisti di Roma. Non 'cercò, anzi rifiutò ca riche offertegli. Dalle lettere a lui dirette da varii m i nistri sirileva cheegli fuinvitato dalla real corte di Napoli allacarica di CustodedellaBiblioteca regiae delmuseofarnesiano,'edi coadjutoreperpetuo della reáleaccadèmia il 2. settembre del 1780. con onora rio di 300 a 400 ducati, ed altre buone condizioni. Ed essendosene scusato 'fu di nuovo invitato con più vive istanzel'8. gennajo del 1782 con più largheof ferte.Nè unsecondorifiutobastòacessarel'inchieste: poichè il 24. luglio del 1784. gli furono offerti mille d u cati,equelch'egli volesse,solochesirecasseadac cettare l'invito.Altrecariche purericusò,perchèa tutto anteponeva lo starsi fra 'suoi libri in R o m a. La patria accettando ilgeneroso legato fattoglidi oltre 4000 volumi gli ordinò solenniesequie nella chie sa maggiore a spese pubbliche, a cui intervennero il magistrato, e i principali cittadini di ogni ordine. Fu posta sullaporta della chiesa una 'onorevole iscrizione dettatadall'eruditissimoPietroBorghesi,laquale andò pure'alle'stampe.Appresso nell'atrio dellecasedel municipiofuincisala seguente iscrizione scritta dal chiarissimo suoconcittadinocavaliereBartolomeoBor ghesi figlio di Pietro, la quale dice così. Jano · Christophoro · Mich · F · Amadutio Philologo: Eruditissimo Ordo • Sabinianensium Civi. Bene ·Mer. ·Altro onore vole titolo puresarà in breveposto entrolabiblioteca, ovecongrandesennoe gloriadei trapassati, a stimolo dei viventi 'concittadinisono in marmo descritti gli elogidiquantireseroillustrelapa tria dell'Annaduzzi, che fu pur quella del Barbaro, dei Borghesi, degli Amati, è del Perticari. N.B.Ilritrattoèstatorica- miglia Amaduzziin Savignano. mpato da quello esistente nella fa MONTANARI PROF. G. I.DI BAGNACAVALLO = SCRIS. EA est temporis ed acitas, ut cum ftapaul- latim diflolvat, nullaque res fit vel pre¬ tio,velfoliditate,velquocumquealio nomine praeftans, quae eius imperium detreftare (e poffc confidat. Si Roma¬ norummonumentaadaeternitatemcon- ftru&a perpendamus, quae nunc vel diruta, vel male confi- ftentia oculis nofiris obverfiantur, intimo quodam doloie percellimur, & aegre licet, indubie tamen fluxam rerum hu¬ manarum conditionem agnofeimus. Ceterum is eft de animi noftriimmortalitatenobisindituslenius,atqueitaaltede¬ fixus, ut veluti tacite ab eo profe&um intelligamus tum de- fiderium,quotangimur,veterummonumentorumanxieper¬ quirendorum, tum lolertiam, quam in lifdem vel reipfia con¬ fervandis,velinlongiusduraturamateriaexcipiendisimpen¬ dimus. Haec peragentes videmur quodammodo inanimatis re¬ busnoftramtribuereimmortalitatem,qui&eafdempofteritati commendemus,&earumdempraefidiovelutinosipfosadtranf- acftas remotiffimas aetates, ad quas pertinent, transferamus, atque I   II atque ita exiguam nimis vitae noltrae brevitatem vel produ¬ cendo, vel compenfando nobis libentiffime blandiamur. Quae ergo veterum artes, & profeffiones condiderunt, Signa, Pro- tomas, Hermas, Anaglypha, Sarcophagos, Titulos, cetera- quemonumentacolligeretumprimumfategitFrancifcusPe- trarcha, quem Tuae aetatis perpauci, plures fequiorum tem¬ porumimitati,tumMulca,&Villasiifdemlucupletantesa litu,Iquallore, quin& interituprovidilTime vindicarunt.Sed in irritum cefolTet haec ipfa follicitudo, nili typorum etiam accefliffet luccenturiata fedulitas. Quot enim diffracta Mufoa, quot iam Villae labefactatae, & quot vel avulfa, vel rurfus obruta, atque etiam foede difrupta, quae ibidem exfiftebant, monumentavelutiaboculisnollrisaufugerunt1Quarelae¬ tandum nobis elt, eo pervenille humanae mentis acumen, utiplistemporum,&rerumvicilTitudinibusoblittere,&vim inferre non dubitaverit, & curas curis addendo nova excogita¬ veritpraelidia,quibusdiuturniorihuiufmodimonumentorum confervationi prolpiceret. Hmc ergo elf, ut quae in unum col¬ lecta monumenta perierunt, perenniter vivant in eruditorum Voluminibus vel typis aeneis contignata, vel doctis illultrata adnotationibus, quibus nunc autographorum deliderium nobis reparari quodammodo videatur. Quare non aliam ob cauffam, neque etiam abfimili ratione quae olim laudabili providentia Cyriaci, &: Afdrubalis ex Matthaeia gente Procerum, & lovii Marchionum tum in Hortis Caelimontanis, tum in Aedibus ad Circum Flaminium coafta, & collocata fuerunt omnis generis monumenta, nunc primum aereis formis infoulpta, nollris il¬ ludi ationibus ditata, in unum collecta, rite dilpolita, ac tribus comprehenfa Voluminibus preli beneficio in publicam lucem emittuntur.Licetenim,utfuolocomonuimus,&deinceps etiam monebimus, multa eorum a prioribus hilce domiciliis pro-   III profectainceleberrimumilludMufarumSacrarium,Mufeum nempe Clementinum Vaticanum, conceffierint aevo quam lon- giffimo fruitura, tamen non omnia illuc fe receperunt, multa quinimmoproculiamabiere,acmultaetiamindiesfatifcunt. Videt, credo, porro unufquifque, ereomninofuifle, utquae olimfuerittantamonumentorumcongeries,unooculiiftu perluftretur,tumdomi,&foris,tumpraefenti,acfuturo tempore innotefcat. Deliderandum quidem erat, Hortos, & Aedes Matthaeiorum tantis confpicuas monumentis litterato¬ rum obtutibus exhiberi, ne tot aliis, numquam cum iis com¬ parandis, quae hoc beneficium nactaefuerant, veluti quodam¬ modo inferiores & haberentur, & effient • II.Poftquamlitterarum,&veterumfcriptorum,rnonu- mentorumque ftudium adolevit, tum artes ipfae, quibus ab honeftate nomen efi, barbariem a Gothis, Langobardis, ce- terifque feptentrionalibus populis inaufpicato invectam Italia exfulare iulfierunt, homines conformare fe urbanitati, cultui, & magnificentiae Romanorum veluti quadam concertatione facta coeperunt. Inter cetera Romanae magnificentiae opera, quibus luxus impenfius excreverat, &.ipfe Perfarum faftus, & opulentia obfcurata omnium iudicio cenfebatur, Villae pro¬ fecto fuerunt, quibus nihil pulchrius, nihil amoenius, nihil praeftantius&fpatiiamplitudine,&ftruHuraeexcellentia, & aedificii decore, &: operum copia haberi poterat. Exftant nunc etiam Tibure Hadrianeae Villae veltigia, quae fupra re¬ liquas plane excellebat, & ex qua tam infignia & Graecorum, & Aegyptiorum monumenta prodierunt, ut iis Mufeum Ca¬ pitolinumtamquamcimeliisomninolingularibus,omnium- que praefiantiffimis inclaruerit (0. Scatebat porro Tiburtinus ager (i) Pyrrhi Ligorii Defcriptio Villae Tiburtinae Hadriani Caefaris. Romae 1551. in fol. eum Ji- guris • Vide lofephum Roccum Vulpium Vet.Lat. Tom. X. y Sc omnes Tiburtinos Hifloricos, Ioh. Franc. Martium, & Antoninum Regium, tum_, Idyllium Fabii Crucii, inferius citandum - Omnium   IV ager multis aliis privatorum civium fecedibus longe clegan- tiffimis, inter quos omnium deliciarum genere conferta emi¬ nebat Maecenatis Villa, aderantque aliae, quae ad Manlium Vopifcum(0,MunatiumPlancum,SalludiumCrifpum,C. Caffium, Quintilium Varum, Marcum Lepidum, & Cyn¬ thiam Propertii amicam, aliofque pertinebant. Praetereo Ci¬ ceronis Tufculanum (2), quod fuerat antea Syllae, tum For¬ mianum, Cumanum, Puteolanum, & quod omnibus celebrius, porticu, & nemore infigne, atque Academicis quaedionibus facrum, Pompeianum. Celebre & Horatii diverforium in Sa¬ binis (?), Catulli extra Portam Valeriam ad ripam Anienis (4), Senecae in via Nomentana 5), Martialis ibidem C6), & longo laniculi ingo (V, aliorumque. III.Horumigiturimitatiexempla(aeculiXVI.magnates opulentia, luxu, & litteris praedantes fuburbana condere coe¬ perunt amoenidima, quorum primum illud cd, quod in oppido Bagnaiae anno coidxi. inchoatum tandem perfecit Ioh. Franci- fcus Gambara Card., & Viterbiends Eccleliae Epifcopus, cuius fata & Francifcus Marianius (s), & Felicianus Buldus (9) late alienigenarumfrequentiacelebraturhaecVilla,nec caruic praefentia IOSHPFII II. Imp. Pii Felicis Aug. 3 cuius rei memoria marmore infculpta haec Imp. Caef. lofepho. II Petro. Leopoldo. M. Etruriae. Duci Archiducibus. Andriae. Germanis. Fratribus PP. FF. AA Hadrianae. Villae. vedigia In. hoc. fundo, ac. vicinia, confpicua Huius. Villae. Dominus, demondravit Iofephus. Eqiles. de. Fide Aulae. Caefareae. Confiliarius XIII. Kal. Apr. A. MDCCLXIX pro- lianaeVillaeexidimat;tumGregoriumPlacenti- nium de Tafculano Ciceronis 3 nunc Crypta Fer- rata; Romae 1758. (3) Vide Differtazione di Domenico de Sanctis tra oli Arcadi Falcifco Carijliofopra la Villa di Orazio Flacco; Roma pel Salomoni 1761., 8c De- cuoverte de la Maifon de Campagne d'Horaee par PAbbe Bertrand C.ap Martin-Chaupy; d Rome 1769. vol. III. (4) Hendecafyll. XLII. (5) Epiff 104., & 110. (6) Lib. I. Epig. 106. (7) Lib. IV. Fpig. 64. (8) In Parergo de Fpifcop. Viterbien. pojl Dif- fertationem de Etruria Metropoli; Romae 1728. (9) Ifloria della Cittd di Viterbo; in fine del- (2) Vid. Ioh.LucamZuzzcrium(D'unaanti- laCronologiade'Vefcovi;Roma1742.Condito¬ ca Villa [coperta fui dojfo dei Tufalo; Venezia rum nomina hifce Verfibus Petri Magni ibidem (0 Vid. Statium Sifa. Lib. I. 3. 17 47- 9 qui Ruifincllac delicium Jocum fuiffe Tui- exaratis innuuntur: Nec   V profequuntur. Tum prodierunt, ac longe lateque inclaruerunt Horti Tiburtini, quos poft Card. Bartholomaeum Quevam, qui aluliolll. obtinuerat, Card. Hippolytus Eflenfis exftruxit, permagnifico praetorio auxit, & antiquis ftatuis, picturis regiaque prorfus fupelleftile locupletavit. Hi dein in Card. Aloyfium Eflenfem translati funt, quo vita funbto, ex, Hip¬ polytite ftamentaria voluntate, & iudicialifententia, eorumdem usura XII. annorum spatio cedit Sacri Collegii Decano, donec purpura donato Alexandro Eftenfi, eorumdem ius in ipfa familia'inftauratum cft, novafque a legitimis dominis & additiones, & reparationes poftea habuerunt(0. Tiburtinum hoc delicium carminibus celebravit M. Ant. Muretus, ac praedicarunt infuper Libertus Folietius (2), Ioh. Francifcus Martius (s), Antoninus Regius(4), Fabius Crucius W, Ferdinandus Ughellius 05), Francifcus Scottius»), Rodulphinus Ve- Nec placuifle tibi laus ultima3 magne Riari, A quo primus honos 3 nobilitafque loci. Quod fi longa tuae ncvifTct flamina vitae Invida Parca, nihil quod quereremur erat. Saltem magnanimi virtus praeclara Rodulphi Serius ad fuperos hinc abiifTet heros. Nunc j o Dive loci praefes, tibi Gambara poft hos Contigit haud opibus } fed pietate pari. (0TeflesfuntfequentesInfcriptiones’: I. Regios. Eftenfium. Principum Hortos. iinmenfo. Card. Hippolyti Sumptu. praeruptae. rupis Afperrimis. cautibus In. mollilTimi. clivi. penfiles Ambulationes. converfis Ac. terebrati. per. montis. vifcera Duffcis. ex. Anniene. innumeris Fontibus. admirandos. ab. Aloyfio nutius Magnificentiori. forma. conftru&i Et. venuftati. quam. vides Reftituti Anno. Salutis. MDCLXXXV (2) Tyburtinum Hippolyti Card. Ferrarien. ad Flavium Vrfinum Card. ampliff. 3 inter Opera fub- Jiciva Vberti Folieti Genuen. Romae apud Franc. Zanettum 1S’79- j & In 1'om. I. Part. II. Thefaur. antiq. bijtor.ltalic.Ioh.Georg.Graevii.Lugd. Batav. 1704. (2) Hiflor. Tibure. Lib. V. num. 174. Thef.. Graev. Vol. III. pag. 4. (4) Antichitd di Tivoli di Antonino dei Re; Tom. eod. Thef. Graev. (5) Ville di Tivoli deferitte dall'Arc/prete Fa¬ bio Croce di detta Citta; ldilio divifo in due rac- conti 5 nei quali fedelmente Ji narratio non meno le Ville, che anticaraente v'ebbero, e frequenta- rono gl*Imperatori, Re con altri infigniperfonag- Et.Alexandro.Cardinalibus pi,ecelebrivirtuofi,raalamedefimadellaSere- Magna. fplendidi. cultus Acceflione. nobilitatos II. Serenifiimi.Francifci. II. Mutinae. Regii. &c. Ducis Vel. abfentis. munificentia Fontes. ifli. temporis. iniuria. collabentes nijjima Cafa d*EJle &c. 1» Roma per it Mancini 1664. in 8. (6) In additionibus ad Alpbonfum Ciacconium de Fontiff. Rora. 3 S.R.E. Cardd., ad ann. 1539. ubi de Hippolyto Card. Eftenfi. (7) In Itinerario Italiae Lib. III. pag. 631.   nutius(0,IohannesPetroskiusO),IolephusRoccusVulpius (3), Ioh. Andreas Barottius (4), aliique. Picturam vero aeneis typis Romae publicavit Corona Pighius. In hos oculos Ilios potiflimum intendit, & horum exemplo incenius eit Cy- riacusMatthaeius,quodeinluosinCaelimontioexcitaret, quoslatedeferibemus,poftquamceteros,quideinRomae, vel in eius vicinia conditi funt, levi calamo attigerimus. IV7. Fere eodem tempore excitari coepit ab Alexandro Farnefio Card., Paulli III. fatris filio, Caprarolae delicium, infigni praclertim architectura lacobi Barotii a Vignola, St praeclaris Thaddaei, Friderici, St Octaviani fratrum Zucca- riorum, Antoniique Tempeftii picturis celebratiflimum b). Heicetiam laudandinunc veniuntHorti,quiprimumexiuflu Card.IuliiMedicei, qui fuit poflea Clemens VII. P. M., for¬ mam praebente Raphaele Sanctio, conftructi funt ad Clivum Cinnae (nunc Montem Marium dicunt ), picturilque Iulii Ro¬ mani, StIoh.Utinenfisornatifunt,actandeminFarnefiam gentem, quae cultu fplendidiores, St opere ampliores fecit, devenerunt W Recenlenda infuper eft Villa Philonardia, quam EnniusPhilonardiusS.R.E.Card.Tiburefibicomparavit, quaeque nunc fquallet, St rimarum plena undique fatifeit, atque dilabiturb). Quid vero memorem Hortos a Iulio III. extra Portam Flaminiam dein mire exftruStos, a Faufto Sa¬ (1) Defcrizione topografica 3 ed iflorica di Ro¬ ma moderna Tom. II. pag. 925. bae- prarola &c. Opera de' pih celebri Arebitetti 3 di- fegnata da diverfi. Libro in 8$. fol. 3 c mezzi fol. Imper. Parte III. Tum Deferizione 3 e rela- zione iflorica dei nobilijftmo real palazzo di Ca- prarola&c.daLeopoldoSebafliani;Romapergli (2) Trigonometrica Dioecefls, & Agri Tiburti- tii Topograpbia 3 ‘veteribus 1viis 3 'villis 3 ceterifque antiquismonumentisexculta&c.RomaetypisGe¬ nercflSalamoni3pag.XIII. eredideiFerri1741.inS.VideEpigrammaAu¬ ($) Vet. Lat. Tom. X. (4) Memorie Ifloriche de’ Letterati Ferrareft; opera pofluma. In Ferrara nella Stamperia Came- rale 1777. Vol. I. pag. 336. CS) Vide Studio d’Arcbitettura civile fopra va¬ rie Cbiefe, Cappelle di Roma 3 e Palazzo da Ca- relii Urfii Romani de Caprarolae deferiptione ad Card. Farnefium Lib. III. Epigr. 21. pag. 75- utriufque editionis Parmen. 1589. 3 & Bonon. 1594* (6) Nunc Villa Madama vulgo audit \ (7) Vid.‘Iofephum Roccum Vulpium Vet. Lat. Tom. X. Lib. XVIII. Cap. X. pag. 379-   baeio(*)&FrancifcoCommendonio.C2)carminibuslaudatos, tum a Scottio Cd, BoifTardio 3 CiacconioW 3Panvinio (6), aliifque fufe defcriptos? Ii namque a Clemente XIV., & PIO VI. Summis Pontificibus nuper reparati eruditorum o- mnium oculos in fe converterunt, & aeneis formis expreffi, noftnfque illuftrationibus audi in publicam lucem ad Archi- tedonicae artis praefertim adiumentum propediem prodibunt. Laudari vero lure poftulant Horti Medicei in Colle Hortulo- lum exfiflentes, a Card. Ioh. Puccio Politiano inchoati, & dein ab altero, eoque eximio Romanae purpurae ornamen¬ to, tum Magno Etruriae Duce Ferdinando Mediceo multis eruditae vetuftatis praeclaris reliquiis, & exoticarum lingua¬ rum typographia longe celeberrima magnificentiffime ampli¬ ficati. Commemoratio faltem defiderium reparet Hortorum Carpendum, quos in Quirinali olim aedificaverat, atque adeo praeclaris ornamentis infigniverat Rodulphus Pius S. R. E. Card., ut CXXXVI. amplius ftatuae in iis numerarentur, quarumpraeffantioresrecenfetLJlyffesAldrovandiusV)3eas infuper referens, quas & ipfius Palatium in Campo Martio fervabat.Hisiungantur&Hortiilli,quioliminSuburra prope Amphitheatrum Flavium, & Templum Pacis a Card. Lanfranco conditi, Carpenfes dein fadfi funt. Prodierunt & hoc tempore Horti Farnefiani Tranftiberini (8J, aliique Palati- nifV,ubinuncvineae,&;vepres.Necreticendifuntmodo ma¬ to Epigrammatam Lib.I. pag.Sj., fi7.,,33., 138., 144.3 148., i;i., ij6., ij7., 161, (2) Ex Mf. Cod. Epiflolar, Cornelii Muflii Epifc. Bituntini apud CI. Praefulem Stephanum Borgiam a Secretis Sac. Congr. de Propaganda Fide. (3) Itiner. Ital. pag. 483. (4) Topograpbia Vr.bis Romae Tora. I. pag. Jo. & feqq. (3) In vitis Ptmtif., 'ubi de Iulio III. (fi) ln vita Ia/ii III. poli vitas Barth. Platinae. Hortis Carpenfibus legendus Boiflardius loc. cit. pag.46.jScottiusloc.cit.Lib.II.Cap.VII[. pag.476.j Francifcus Swertius Lib. II. Itiner. Italiae 3 Andreas Victorellius, ae Ferdinandus U- ghellius apud Ciacconium in Rodulphi Pii Card. vita3&FloravantesMartinelliusRomaexethni¬ ca facra pag. $y. Vide Portae eCtypum inter o- pera Architectonica Iacobi Barotii a Vignola^ Tab. XXXXV. (8) Vid. Scottium loc. cit. pag. 416., Boif Tardium (7) D elieStatue antiche, cbepertutta Roma, loc.cit.pag.11.,&UrfiumLib.I.epigr.12.pag.52. fiveggono 3 pag. 29J. Vid. fuperius pag. 201. De (9) Vid. Scottium pag. 444.   VIII ma*nificentiffitni Horti Quirinales Card. Guidonis Bentivoh Ferrarienfis, quibus nulli Romae erant arboribus fplendidiores, ut & lilvae lpeciem praeberent, & labyrinthi b).Succedant dein HortiCaelii,qui,defcribenteloh.BaptiftaFonteio-, ad dexteram laniculum habent, ad laevam Vaticanos montes, ante fe Tiberim, SancTi Spiritus Fanum, & Xenodo¬ chium, pojlfe Prata Neroniana, fornaces lateribus exco¬ quendis infimaas, edito in colle,fecundum aedes Cacfias re- fertiffimas ipfis antiquitatibus. Horum Hortorum Inlcripuones multas refert ipfe Fonteius, lulius Iacobonius, cetenque, ac nonnulla eorumdem vetera monumenta iamdiu inde avufa ad augendam Capitolii maieftatem praecipue emigrarunt b. NonnullisantiquitatisexuviisditatiquoqueerantHortiAven¬ tini Maximorum H). Nec fua careat laude Blofianae Villae amoenitas, & Hortorum Coloccianorum apud veteres Sallu ftianosO123) tumobveterummonumentorumcopiam,tumob litteratorum conventum celebritas. Infuper memoretui Augu- ftiniChifiiSuburbanumTranftiberinum,inFarnefiamgentem translatum, magniRaphaelis picturis, multifque antiquitatibus IpedlatiffimumV; 5 Marcelli Ccrvinii Card., & dein Pontificis Max. Villula elegantiffimaV), ac Petri Melinii altera V), in qua Poe- (1) Vid. Scottium pag. 479.} & BoifTardiurrL. pag. 47. (2) DeprifeaGaeftorumgenteLib.Il.Cap.XIII. pag. 154. Vid. Urfium Epigr. 19. Lib. III. pag. 72., ubi de fimulacro Veftae in Hortos O&avii Caefii translato. (3) In Capitolio: Clemens.XI.P.M Romae. de. Dacia. Triumphantis Captivorumq. Numidarum. Regum. Statuas Ex. Hortis. Caefiis Addito. Aegyptiorum. Signorum. ornatu Porticuque. a. fundamentis. excitata Ad. augendam. Capitolii. maieftatem Tranftulit Anno. Salut. M. D. CC. XX "4) Vid. lulium Iacobonium appendice ad Fon- umdeprifeaGaeftorumgenteCap.XIX.pag.229. (5) Vid. Fauftum Sabaeium Lib. 111. Epigram., 525., 524., & 5*5- edic- Romae isj6- (6) Vid. Virum Cl. loh. Francilc. Lancellot-,m in vita Angeli Coloccii praemilta operi, cui ulus:PoefieItaliane,eLatinediMtuifg.'i»' IoColocci&c.hfi.772-PUires''"rcriP‘ionesCo- rcianae migrarunt in Palatium Caid. Carpine!: Le Smetio in Praef. Infer. (7) Suburbanum Aitgitfini Chifi per Blofum illadium. Romae per lacobum Mazocbium Re- jn. Academiae Bibliopolam 1J12. (8) Vid. Sabaeium loc. cit. pag. 568. (9) Vid. Benedi&i Lampridii Cremon. Odem in eliciis Poetar. halor. Tom. I. pag. 1311«   IX Poetas de more familiae coena excipere ipfe folebat. Accedat Villa Lantia in laniculenfi calle fita, quam Iulii Romani ar- chiteftura, & piHurae celebrem praefertim fecerunt. Acci¬ pe nunc & veteres Hortos Vaticanos (0, quibus Hortus Bo- tanicus quinetiam Nicolai V. iufiu olim conditus adnecleba- tur(2),quofqueamoenioresfecithoctemporePiusIV.,ex- flxufto 'ibidem delicio fane elegantiffimo, ufus opere Pyrrhi Ligorii, qui formam dedit, & perficiendam curavit. Huc e- tiam revocanda Villa ampliffima, quam ad Tufculanum aedi¬ ficavit Card. Marcus Siticus Altempfius Pii IV. fbroris filius, quaeMondragonisdiflaeft,quaequedeinfaftaeitCard. ScipionisBurghefii,aquomultaetiamhabuitincrementa. Sed iam properemus ad celebres Hortos Viminales, five Ex- quilinos, quos Sixtus V. condidit, infignibufque ornavit ve¬ terummonumentis,quiproinde&Perettii,&Montaltini dicti funt, quos Aurelius Urfius Romanus (d praefertim car¬ minibus celebravit, quofque dein fuos fecit Ioh. Francifcus Nigronius Genuenfis S. R. E. Cardinalis O. Tum his iungan- turproximitate,&eiufdemPontificisbeneficentia,&aufpi- ciis affines Horti Viminales Martii Frangipanii0), qui nunc adStrotiamgentempertinent;atqueitafinisimponaturprae¬ cipuis, quae tulit ruralia delicia faeculum XVI. IV.Necminoricelebritate,magnificentia,acveterum monumentorum congerie praeftiterunt huiufmodi Suburbana, quae (i) Belvedere vulgo audiunt. Vid. Delie. Poetar, halor. Iani Gruteri Tom. i. pag. 638. (2)Vid.HortiRomanibrevemHiJloriamGeorgu. Bonellii CI. Medicinae Profefloris in Archigymna- fio Romanae Sapientiae ad Tom. I. Horti Botani¬ ci Romani pag. 1. (;) Carminum tib.II. pag.:8. Peretthm, fm Sixti V. Pontif. M. Horti Exquilim, & Lib.IU- Epigr. 24. pag. 73, de Perettina Sixti V. P. M VUlq carmine deferipta, mittit nempe verfus fu- perius indicatos. (4) In inuro Hortor, prope Bafilicam Tiberianam: Sub. praefidio. Deiparae I.F.tit.S.M.in.Ara.Caeli.Card.Nigronus Se. fuos. fuaque. conflituit Die. V. Aug. ann. Domini. MDCCVII (5) In fronte Aedium: Sixto. V. Pont. Max Ob. collata In c‘. fe. beneficia Hortofque. Viminales Au Flos Martius. Frangipanius Grati. animi. ergo b   X quae dein faeculo XVII. exftru&a funt. Tufculum quidem amoe¬ nitate loci multos ad fe rapuit, & ad deliciarum feceffus ibi dem aedificandos invitavit. Talis eft, quem Petrus Aldobran- dinius Clementis VIII. fratris filius regiis prorfus impenfis, & apparatibusexfiruxit0),& cuiabipfograto prospectu nomen inditum est. Eidem etiam accepti referendi funt, qui in Quiri¬ nali colle eius Aedibus iunguntur, & veterum nuptiarum pi¬ cturis, ex Titi thermis addu&is, Horti potiftimum celebrantur. Romae in Ianiculi vertice prope Portam Aureliam delicium fibi comparavit InnocentiusMalvafiaV)AnnonaePraefectus, eumlocum occupans, quemibi Horti Martialis olimobtinuerant (r). Quis vero pro dignitate referat Hortos Pincianos fplendidiftimos, quos condidit Card. Scipio Caffarellius in Burghefiamgentemadfeitus,quoiquetot,actantiselegan- tiorisantiquitatiscimeliis,tum&picturislocupletavit?Manillius, Montelaticus, Leporeus, Brigentius, aliique C) latis fuperque eofdem celebrarunt. Nec iple Paullus V. Burghe- (1) Infcriptlo ibi legitur: Petrus. Aldobrandinius Clem.VIII.Fratris.Filius Redacta. in. poteflatem. Sanftae. Sedis. Ferraria Reipublicae. Cbriftianae. fallite. reflituta Villam. hanc Deducta. ex. Algido. aqua. extruxit Vid. Villa Aldobrandina Ttefculana, & varii il¬ ($) Vid. Epigr. LXIV. Lib. IV: Hinc Jeptem dominos videre montes, Et totam licet aejlimare Romam. litisHortorumi&Fontiumprofpettus;infol.E- pitifingolari.IuRomaperGio.FrancefcoBuagni didit Dominicus Barriere ann. 1647. Tabulis XV., & dicavit Ludovico XIV. Galliarum Regi. (2) Perfecit anno 1604., ut docet Infcriptio, quae fic fe habet: in S. 3 Aufctorem habet Dominicum Montelaticum. Defcrizione della Villa di Borgbefe di Lodovico Leporeo in 4. Vide Apes Urbanas Leonis Allatii pag. 185. Poetica deferiptio Villae Burghefiae vul¬ go Pineianae Andreae Brigentii. Romae 1716. fius. (4) Villa Borgbefe fuori di Porta Pineiana di Giacomo Manilii Romano,hiRomaperLodovico Grignani 1650., in S. Villa Borgbefe fuori di PortaPincianaconPornamenti3chefioffervano nel di lei palazzo, e con le figttre delle Statue In. hoc. Colle. lani. Bifrontis. memoria Et.Martialis.Poetae.Hortis.celebri in8.DeorumConciliuminPinciisBurgbeftanis Suburbanum.hunc.fecefium Domo. clauftro. flatuis. picturis Fonte. aviario. pomario. vinea Inftruftum. ornatum Innocentius. Malvafia. Cam. Apo/t. Clericus Annonae. Praefe£tus. fibi. amicis Animi. caufa. comparavit Anno.Sal. MDCCIIII HortisabEr/.Iob.Lanfrancoimaginibus,mono- crornatibus} & ornamentis exprejfum. Delineavit, & infculpfit Petrus Aquila, fol. IX. imper. Fpi- Jlola Francifci Blancbinii de nobilijjimo hofpite Co¬ mitis de Traufnitz nomen profejjo, & in Villa Pinciana Burgbefiorum Principum excepto die 27. Maii 1716. Romae 1716.   'XI fius, qui Quirinale Mutatorium Pontificum excitavit, Hortos ibidem defiderari, neque eofdem & veterum monumentis-, &. ceteris honeftae voluptatis deliciis carere voluit. Celebres & antiquis monumentis referti funt Horti Ludovifiani, quibus locuscumvetuftisSalluffianisHortiscommunisaliquainparte efi, quique Cardinalem Ludovicum Ludovifium praecipuum auftorem habent. His neftantur Horti alii Ludovifia¬ ni iucundifiimi, quos dein fuos fecit gens nobilillima de Co¬ mitibus, in Tufculo politi. Non elegantia folum, fed etiam Ioh.TomciMarnavitiiBofnenfisEpifcopidefcriptiocelebrem fecit Villam Sacchettiam Oftienfem. Quis omnes recenfeat Barberiniae gentis delicias & in Vaticano ubi olim Horti Neronis, & in Ianiculenli, & in Quirinali colle (ri, & ad Ca- llrum Candulphi etiam magnifice conditas? En Rufina Villa in veitice Tufculi, ubi Tulculanutn Ciceronis aliqui ftatue- runt, ut & fuperiusinnuimus, quam Alexander Rufinus Roma¬ nusMelphienfiumEpifcopusexftruxit.Prodeat&nunclani- culenlis Nobilia Villa, cui nunc Spadiae a gente, quae eam poftea obtinuit, nomen efi, quamque inter Aureliam Portam, & Hortum publicum Botanicum Vincendus Nobilius excita¬ vit ri). Sed Ianiculenfem collem nulla magis confpicuum fecit, quam Pamphilia Villa, cuius pi-oPpedum, delineationem, & praeftantiora monumenta typisaeneisper Ioh. Bapt. Faldam inlcuiptisexhibuitIoh.IacobusRubeus,quiopusinfcribens Principi Ioh. Bapt. Pamphilio perperam Alexandri Algardii C0 Villa Sacchetta OJlienfis cofmograpbicis ta¬ bulis, & notis illuftrata > rujlicanis legibus, officinarumque infcriptionibus adnotata &c. Romae apud Ludov. Gngnanum 16jo.i,; 4. vid. Leonem Allatium in Apib. Vrban. pag. 166. (2) Vid.Tetium in Aedib. Barberin. p.37o& feqq. G)Haecibidemlegiturlnfcriptio: Villa. Nobilia Viator Hic. ubi. Aedes., ad. animos archi- Inter. amoena. exhilarandos A. Vincentio. Nobilio. excitatas Adfpicis Aug. Caesarem. aquae. de. fuo. nomine. vocitatae Ex. Lacu. Alfiatino. milliario. XIV Conceptae Et.in.rranfliberinam.Regionem.perduftae Emiffarium.exftruxifle. ne. fis. nefcius Dixi. abi. felix. &. vale An. Sal. MDCXXXIX b2   XII architecturam fecit, cum ad Ioh. Franc. Grimaldium Bono- nienfem pertineat (0. Exquilinum vero collem tenet, atque ornatVillaAlteria,inquaStatuae,Frotomae,Infcriptiones, & sepulcri Nafonum Picturae nonnullae veteres adfervantur. Iuftinianea Villa, quae extra Portam Flaminiam & veterum ci- meliis, & recenti cultu conlpicua olim erat, nunc omnino fquallet, eiufque ornamenta praecipua iam ad alteram iuxta Lateranum fitam amplificandam proceflerunt (2). Dies me de¬ ficeret, ficeterasminores Villas, Cofiagutiam, Caipineam, Caeferiniam, Urfiniam ad Arcus Neronianos, Gilliam via Portuenfi, Cafaliam in Caelimontio, Gymnafiam in Aventino, Sannefiam via Flaminia, Nariam via Salaria, Cinquiniam viaNomentana,aliaiquefingillatimpercenfere,acdefcribe- re nunc vellem. V. Quare memorentur nunc tandem Villae praeftantiores, quas tulit noltra aetas. Praeftat extra Portam Nomen¬ tanam splendidecx ftructa PatritiaVilla (fi, quamimmortalis memoriae Pontifex Clemens XIV. honeltum oblectamentum capturus quotidie fere adire confueverat. 1 ranitiberinas Aedes Corfiniae gentis, olim Riariae, ubi iam degerat Chrifti- na Succorum Regina, ornatiores facit Viridarium amplum, amoenumque, quod iifdem coniungitur. Fluic proximum elt aliud eiufdem Corfiniae gentis Delicium extra Portam Aure¬ liam,exSimonisSalviiarchitecturaconltructum,lofephiPaf- feriipicturisinfignitum,pomarioauctum,&veterumcolum¬ bariis, quae Petrus Sanctes Bartholius illuftravit W, & quo¬ (0VillaPamphilia3eiufquePalatiumcumfuh Ioannes profpeUibus } Jlatua^ fontes } vivaria, theatra > Card areolae3plantarum3viarumqueordinescumeiuf¬ dem ahfoluta delineatione. Romae formis loh. Ia- cobi de Rubeis in fol. Dicitur haec Villa Re/re- Patritius Anno MDCCXVII fpiro. (4)Vid.Praef.adlibrum,cuititulusde'Sepol- (2) Anno 1715. (5) In fronte Aedium haec leguntur: cri degli antichi; & opus alterum eiufdem poftu- mum editum Parifiis a CU. Viris Caylufio9 & Ma- rietteio 3 quod infcribitur Peintures antiques. rum   XIII rum unum eft libertorum Verginiae gentis, noftra aetate de- te£him('), refertifiimum; quod licet exafto faeculo ortum, no- ftro tamen maxima ex parte eft amplificatum. Ad Portairu. Nomentanam, contra Coflagutiam Villam, novam excitavit ColbertiiaemulusSilviusValentiusGonzagaMantuanus,S. R. E. Cardinalis, Sc fapientiffimi Pontificis Benedicti XIV. a fecretioribus confiliis, quam doctis omnibus patere iubebat, Sc antiquis infcriptionibus, exoticis plantis, pluribufque ex India, & America adveftis cimeliis abunde ditaverat, quae¬ que dein a Card. Prolpero Columna Sciarra comparata Bar- beriniae genti nunc acceflit. Extra eamdern Portam aliam fibi paravit Villam, nonnullis antiquis monumentis ornatam, Car¬ dinalis Hieronymus Columna Aerarii Pontificii Quaeftor, Ca¬ merarius vulgo nuncupatus. SecefTum quoque via Aurelia libi fecit iucundiflimum Card. Iofephus M. Feronius Florentinus, qui primus docuit hortos topiario opere ex malis medicis instruere, ne voluptas, Semagnificentia folo fiimptu,Stfterilitate diftingueretur, quin potius ex ipfo luxu, & oblectamento non mediocris gigneretur proventus. Deliciis, & elegantia fpectatif {imam Villam infuper aedificavit extra Portam Salariam non longe ab Aniene, & ponte Narfetis Flavius Chifius Iunior S.R. E.Cardinalis,quemmoxdirafatiforsperemit.Verumceteris fupereminet,&iamomniummaximefamacelebraturfplen- didiffimaVilla,quamextraPortamSalariamaedificavit,St quotidie etiam amplificat Eminentiffimus S. R. E. Cardinalis Alexander Albanius, qui regio plane cultu, Sc exquifita ele¬ gantia ipfam perfecit. Aegyptiaca, Graeca, Sc Romana eiu- ditae antiquitatis monumenta ubique fe produnt, quorumple¬ raque anecdota typis aeneis expreflit, doctifque illuflravit ex¬ pli¬ co Vid. EphemerideslitterariasFlorentinasCl. O) Vid. Elogio dei Card. Silvio Vale,ni Go«- Ioh.Lamiianni1765.n.21.3 &feqq.coi.jai.j zaga (deiCh.Monfig.ClaudioTodefchi). « &peqq. Roma dalle Jlawpe dei Salomoni 177^*PaS-34*   plicationibus Vir Cl., idemquc infeliciflimus Ioliannes Win- ckelmannius Saxo, olim Nethnicii in Agro Drefdenti Buna- vianae Bibliothecae, quae in Electoralcm pottea migravit, Cu¬ ltos alter, tum Romanae Ecclefiae facra profefTus, Romanarum antiquitatum praefe&ura ornatus, Bibliothecae Vaticanae Scriptor Graecus renunciatus, & Albaniae iplius Bibliothecae curandae praepofitus (0. Cetera, quae ipfe intafta reliquit, eadem plane ratione expofuit Vir alter eruditiffimus Stephanus Raffeius C2); utceterospraeteream,quifparfimipfavelexplanantes, vel laudantes celebratiffimam hanc Villam undique praeftiterunt. Tanto apparatui refpondent & picturae, quae au- btorem habent Antonium Raphaelem Mengfium, cuius prae¬ dantia eo pervenit, ut Urbinatenfis virtuti proxime acceflifie omnium iudicio exiltimetur. Vere quidem dixeris & Gratias, & Mutas heic habere domicilium, ac veterum Confulum, & Au- guftorum tamquam redivivam exfurgere maieftatem. Non igitur mirum, ti fplendiditTimum huius Villae atrium patuerit Ca- moenis Dardani Aluntini, Iotephi II. Caefaris (3), & Herme- lindae Thalaeae, Mariae Antoniae Walburgae Bavarenfis, Sa- xonicae Electricis viduae (4) laudes concinentibus, ipfum- que Augultitlimum Principem, &: Romanorum Imp. electum, Romae degentem, anno cididcclxix. a. d. XIV., & V. Kal. Aprilis & invifentem, & admirantem tantarum rerum copiam, (0Monumentiautlchiineditifpiegati,ei‘tl- lujtrati da G:o. Winckelmann &c. Torni II. Ro¬ ma 1767. in fol. (2) Ricerche fopra uti Apolline della Villa.j dellEmoSig.Card.AlejjandroAlbani.IuRoma 1772. Saggio di ojfervazioni fopra ttn Bafforilisvo della Villa fuddetta (efprimente il voto di Bere¬ nice ) In Roma 1773. Ojfervaziom fopra un altro BafforilievodellameiefmaVillaAlbani(elpri- mente Ercole domatore d’Echidna Scitica ). Dif- fertazione fopra uh fmgolar combattimento efpreffo in Bajforiliem, efflente nelta Villa fuddetta, c cioe Ja monomachia di Mennone con Achille). & prae- Filottete addolorato 3 altro Bafforilievo tiella Vil¬ la JleJfa; in fol. (3) Adunanza tenuta dagli Arcadi per Velezio- ne della Sacra Reni Maefla di Giufeppe II. Re de’ Romani. In Roma 1764.3 cui adne&itur Ta¬ bula aenea exprimens frontem Aedium } & Atrii ornatiHimi. (4) Adunanza tenuta dagli Arcadi nella Villa AlbaniadouorediS.A.R.MariaAntoniaWal- burga di Baviera Elettrice Vedova di Saffonia, fra le Pajlorelle acclamate Ermclinda Talea.• In Roma 1772.XV &praeftantiam,ibidemmirecoaddam,&concinnedilpofi- tam confpexerimus (0. VI. Recenfitis Hortis omnibus, aut faltem celebriori¬ bus,quivelpraeceflerunt,velfubfequutifuntMatthaeianos noftros,reflatmodo,utdeiplispreflius,&latiusdicamus. Locum nunc perpendimus. Iidem fiti funt in ea Pomoerii parte,quamAurelianusintraUrbemcomplexuseft(2),quae¬ que in Regione II. Caelimontana comprehendebatur. Man- flones Albanas antiquitus hunc locum potiflimum tenuifle, cenfueruntBoiflardiusCj),MarlianiusW,&DonatiusD,fed nullam,quaniterentur,rationemattulerunt.Quareincertus, fiNardinio0)credimus,adhuceftharumManfionumlocus, neque nos quidquam etiam hac de re ftatuere aufimus ali¬ bi de iildem loquentes (7). Proxima huic Caelimontii parti fuifle, immo iplam occupafle aliquando Caftra Peregrinorum ab Augufto inftituta, alii cenfuerunt, atque inter ceteros Pan- vinius W, & Vignolius (?), innixi potiflimum veterum infcri- ptionibus,inquibuseorummentio,quaequevelinareaAedi¬ culae Sanctae Mariae in Domnica, vel prope Aedem rotundam S. Stephani inventae funt; ut nunc praeteream, quaeetiamin laudata area erutae fuerunt Benedi&i Aegii Spoletini aetate, quasipfeedidit(IO),quibufqueadduddus&eademCaftraibi¬ dem agnovit, & eos, qui ponunt ad Templum SS. IV. Coro¬ (i) Huius rei accipe monumentum ibidem po- fitum: lofepho. II Pio. Felici. Augufto Quod. has. Aedes. praefentia. fua Maximus. hofpes. impleverit Alexander. Card. Albanus M. P nato- ($) Lib. III. cap. XII. (6) Rom. vet. Lib. III. cap. 7. (7) Append. ad Fragmenta 'vejligii 'veteris Ro¬ mae lob. Petri Bellorii Tab. XXVI. pag. 95. (3) Defer. Vrbis Romae } TheJ\ Antiq. Romau. Graevii Tom. III. pag. 286. (9) lnfcript.felecl. pojl Differt, de Columna Imp. Antonini Pii pag. 183. j e feq. (10) In adnotationibus ad Apollodori Atbenien. (2) Vid. Fabrettium de aquis 3 & aquaeducti¬ busn.45.ad53. Bibliotb.,fivedeDeor.origine&c.Romaeinae¬ (3) Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 34. dibus Antonii Bladi 1555. Vid. apud Gruter. pag. (4) Topograpb. Vrb. Romae Lib. IV. cap. 9. 22. n. 3. & pag. $93. n. 2.3 & 3.   XVI natorum(0, impugnavit.Muripars feptentrionalis, quaHorti Matthaeianicinguntur, licetadvetusMonafterium,dequo mox dicemus, potiflimum fpectct, pertinebat olim ad ductum aquae Claudiae, cuius ibidem divortia erant; pars enim in An- toninianasThermas,utteltanturlitteraeadhucconfpicuae... NTONIANA, magnis laterum tabulis e muro paullulum prominentibus confectae W; pars in Palatium Caefarum tendebat, ut produnt veftigia aquaeductus interdum occurrentia. His adneftitur arcus adhuc exftans ex lapide Tiburtino, fuper c]uo aqua ad Aventinum procedebat, & in quo legitur inlcri- ptio fatis nota (s): P. CORNEUVS. P. r.DOLABELlA C. 1VN1VS. C. F. SILANVS. FLAMEN. MARTIALIS COS LX.S.C FACIVNDVM. CVRAVERVNT. IDEMQVE. PROBAVERVN.T Via, quae ad Clivum Scauri per Curiam Hoftiliam ante Hor¬ tosnoftrosprocedit,eacenfetur,quaolimperTabernolam, antiquaeUrbisvicum,attendebaturinCaeliumU).Prope etiamaderatrotundumTemplumvelFauni(j),velBacchi) velClaudii,aPombaiamVefpafianiImpp.,utaliicenfuerunt, quodnuncNicolaiCirciniani,vulgoPomerancii,&Anto¬ nii Tempeltii picturis, veterum Martyrum diros cruciatus ex- Pri- (1) Inter ceteros Boijfard. Topograpb. Vrb. Rora. Tom. I. pag. His nunc accedit Hora¬ tius Orlandius Ragionamento fopra ut?Ara antica (dedicataaVulcano).Roma1772.art.ult.pag.95. Suppiem-adJVuv.T*hef.Muratoriipag.So.n.5., (2) Vid: Epiftolam Flaminii Vaccae latinitate' fed mutilam, aliique. Fornicis typum habes apud donatam a Montfauconro in Diario Italico Cap. X. pag. 14S. Gudius pag. 81. n. 10. refert tabulas in¬ ventas c regione vineae S. Sixti, «Sc Thermarum Antoninianarum ad radicem Montis Aventini ver- fus regionem dictam Pifcinam publicam 3 in quit, bus haec legebantur: A^VA. CLAVDIA. ANTONIANA. NOVA VIRIAE. ALCESTE. ET. L. VIR1I. ANTIQ FORTVNATI (5) Refert Gruterius pag. 176. n. 2.3 Panvi- nius de Civ. Rora. Cap. XXIV. coi. 217. Tom. I. Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Airtiq. Koman. Tabula XXV. Fig. I. (4) Nardin. Rora, •veter. Lib. IIL cap. V. 3 Bor- richius de antiqua Vrbis facie Cap. IV., Rondi- ninius de SS. Ioh. 3 & Paullo, eoruraq. Bajilica in ‘Drbe Roma vetera monumenta Cap. VI. §. I. pag. 59.3 & 60. (5) In inferiptione hoc loco detefta, quam re¬ fert lulius lacobonius Append. ad Fonteium de prifeaCaejiorumgenteCap.IV.pag.38.3memo¬ ratur AED1CVLA GENIO AGRESTI dicata.primentibus (*), ornatum, duplicique columnarum ordine fu- ftentatumDivoStephanoMartyrifacrumeft(12**).Heicetiam- numconfpicuifuntarcusNeronianiaquaeClaudiae,quibus aquaipfaadPalatinumdeferebatur.ProximaetiameratCu¬ ria Hoftilia, a Tullo Hoflilio III. Romanorum Rege magnifi¬ ce aedificata, cuius adhuc haberi reliquias, hafque cenfendas efle ingentes arcus ex Tiburtino lapide, quibus fuperftat nunc turriscampanaria,longainfuperfubftrudioneinhortumpor- redos, recentiores plures, praeeunte Flavio Blondio 0), Con- fenferunt; idque eo magis, quod ibidem quatuor Pulvinaria marmoiea eruta fuerint, quae dein ad fcalas Aedium Matthaeiarum in Circo Flaminio translata fuerunt, quaeque nos fuo loco(T adduximus. Ceterum Pompeius Ugonius d), alii¬ que aedificium aliquod Caefarum aetate excitatum in hilce ruderibusagnofcendumpotiusexiftimant,quodparumcredi¬ bile videatur pofl tot faeculorum lapfum, poft tot Urbis exci¬ dia, atque poft tot imperii viciftitudines hactenus antiquiflimi aedificii reliquias, annorum edacitatis, & direptionum furoris vidrices,fupereflepotuifie.Montfauconius(5)hacdere_» etiam dubitavit, quod aegre in animum libi induceret, im¬ manemillamaedificiimolem,caftrorummoremunitam,unicam fuifle Curiam; quin potius hinc coniedafie nonnullos refert,exftitiflehoclocoCaftraPeregrinorum.Heicquidem fuifle aedes Sandorum fratrum Iqhannis, & Paulli, in quorum honorem dicata eft proxima Bafilica, ambigi non po- teft; quarum quidem veftigia haberi putat Philippus Rondi- nini- (1) Ecclefiae militantis triumphi) five Deo ama- (3) Romae inflaur. Lib. I. hilium Martyrumg/oriofapro Chrijlifidecerta- (4)Vol.II.horumMonumentor.ClafT.X.Tab. mina ) prout in Ecclefia S. Stephani Rotundi Romae vifuntur depicia, a Vincentio Billy aeneis Tab. expreffa. Romae 1714. (2) Interioris huius Templi profpe&um habes apud Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Antiq. Ro- man. Tab. XXV. Fig. II. ' LXXII. Fig. I., & II., Tab. LXXIII. Fig. I., & II., & Tab. LXXIV. Fig. I., & II. pag. 93., & feqq. Vid. Ficoronium Vejligia di Roma antica Lib. I.,cap. XIV. pag. 87. (5) Eibro de Stationibus Vrbis. (6) Git. Diar. Ital. Gap. X. pag. 148-   XVIII ninius CO in quibufdam arcubus, & ruderibus prope laudatam Bafilicam exfiftentibus, quorum nemo Scriptorum meminit. Sub Hortis noftris vetus aliquod etiam fuille aedificium, arguere licet ex marmore reperto eo loci, quod refert Fabret- tius (2), & in quo habetur fimulacrum Veftae, & artis pilto- riae inffrumenta, modium, spicae, & mola verfatilis, cum hac epigraphe: VESTAE. SACRVM C. PVPIVS. FIRMINVS. ET MVDASENA.TROPH IME VII. Veterum aedificiis. Hortos Matthaeianos ambien¬ tibus, ufque dum recenfitis, accedant Chriftiana Templa, quae iifdem ita adhaerent, ut ipforum pars effe videantur. Nihil amplius dicemus de Templo S. Stephani, & de Balilica SS. lob., & Paulli, quae titulus Pammachii dicitur, cum de his,utpotepaulloremotioribus,fatisiamactumvideripoffit. Omnium quidem proximior Matthaeianis Hortis eft Eccleha S.Mariaein Cyriaca, livein Dominica,quae&in Domni- ca,&in Navicula h)?anaviculamarmorea,caudavotilo¬ cata, quae ante Templum cernitur, dicta eft. Haec navis m- fignita eft roftro apri caput referente, quam ex voto Marti, vel alio Numini politam aliqui putant a milite in Caftris pe¬ regrinis degente. At Ficoronius (4) Cybeli potius dicatamu» fufpicatur, quod aliud viderit anaglyphum, ab ipfo etiam vul¬ gatum b) 5 in Mufeum Veronenfe profectum, ubi navis cernitur, in qua vehitur Dea Cybele, quamque Matrona velata, funis ope, cui adligata eft, extra aquas ad fe trahere dextera manu nititur, hac fubiecta infcriptione: (0 &e SS. Martyribus lobanne 3dr Paullo, Seft.I. n.3. pag.94. eorumqueRafilicainVrbeRoma‘veterarnonumen- (3) VulgoNavicella. MA- ta &c. Romae 1707. Cap. VII. §. I. pag. 69. (2) Ai Tabulam Iliadis poftColumnam Tra- ian.pag.339.3SiInfer. Cap.VIII.n.277.Pag-632. Attulimus&nosTom.III.Clafs.X.Syllog. Infer. (4) Le ve/ligia, e rarita di Roma antica Lib. I.Cap.XIV.pag.90. (5)Ibid.Cap.XXII.pag.148.   MATRI.DEVM.ET.NAVI.SAI.VIAE SALVIAE. VOTO. SVSCEPTO CLAVDIA.SYNTHYCHE D.D Nomen Cyriacae, vel Dominicae Ecclefiae inditum videtur acelebriMatronaRomana,quaeibidemaedeshabuerit('), ut & praedium habuit in Agro Verano. Forte fandae huius Ma¬ tronae imaginem habes in antiqua pidtura ex ipfius Coemeterio ad S. Laurentii extra muros iam eruta, quam Cl. Ioh. Botta- rius 00 ex Arringhio adduxit. Ceterum Sanctae Domnicae no¬ men, & natale Bollandius affert (2) ex Menaeis Graecorum ad d. VIII. Ianuarii; fed haec Virgo Africana, quae floruit fub TheodofioM.ufque adLeonem,&Zenonem Augg.,anoftra differt.VualafridiStrabonisG)fententiam,aDomino,cuicul¬ tus in illa aede redditur, nomen repetentem, quia omnibus ae¬ dibusfacriscommunem,acceterasetiamhuicquidemnonabfi- milesfententiashaudmorabimur.EcclefiahaecaPafchaleI. a fundamentis ampliata, & renovata fuit, cuius exftat ver¬ miculataabfisaduabusporphyreticiscolumnisfuffentataG); quibusacceduntXVIII.infuperexGraecomarmore,nigro, & viridi, columnae aliae nihilo inferiores. Sanctae Balbinae corpus ibidem reconditur, atque heic Sixtum I. per Levitam Laurentium ecclefiae thefauros pauperibus diffribui mandafle, funt qui tradant. Vetuftiflima quidem haberi debet haec Ec- clefia, cuius mentio eft in veteri Defcriptione Regionum Ur¬ iis,editaaMabillonioG),ubiagensdefeptemviisufque.> porta Ajinaria, ftatim fubditur Sancta Alaria Dominica. AdfaeculumfaltemXI.pertinerevideturArchipresbyterRe- ncdillus Diaconus Sanctae Alariae, quae Domnica dicitur, (1) Roma fotterranea Tom. II. Tav. CXXX. pag. 17S. cu- (5)V id. Floravantem Martinellium Roma ex ethnica facra pag. 214. (6) Vetera Analecta pag. 365. fecund. edit. (2) Aci. Santf. lanuar. pag. 4S3. (3)Viet.Franc.VifloriiDiffert.Philolog.pag.$1. Parif.1725. (4) De rebus ecclejiajlic. Cap. VII. c2 XIX   JiX cuius monumentum in Divi Stephani in Monte fitum, & a Doniod) adductumheicfiltimus: HIC. REQVIESCIT. CORPVS. DEVOTVS. XPI FAMVLVS. ARCH1PBR. BENEDICTAS. DIAC. SCI. MA RIF,. QA. DOMICA. Q. OMS. Q. AD. HANC. BASILICA. IN GREDITIS. DIGNEMINI. ORARE. PRO. ME. PECCATORE. AC. P. XPI. NOMEN. OMS. CONIVRANS. VT NVLLVS. HOC. TVMVLO. VIOLARE. AVDEAT. 3 SI. QVIS <0 AVTEM. VIOLARE: P: SVPSERIT: i A. PATRE. ET. FILIO. E. SPS SCI. ANATHEMATE. IM. P.. P. DANATVS. EXISTAT Certe quidem, ut innumeris exemplis o(tendi pofTet, ab VIII. ufque laeculo ad. XI. ufus obtinuit has malas precationes, a Chriftiana pietate, & manfuetudine alienas, & a fola tempo¬ rumbarbarie,&infcitiaquoquomodoexcubitasadhibere(3>; quidquid contra Reinefium (j) Fabrettius M reponat. Cum Benedictus dicatur Diaconus huius Eccleliae, apparet nondum ad Archidiaconum pertinuifie, ut dcin factum videbimus. Iam in noftra Diflercatione in tit. Canonicum de officio Archi- diaconiWadduximusChartamanecdotamannidcccclxxxii., inquamemoratumcernimuslohannemArchidiaconumfum- viac Santiae Apojlolicac Sedis, & praepojitum venerabili Diaconiae Santlae Dei Genitricis Alariae, quae appellatur No- ha;incuiusnimirumArchivohaecipfaChartafervatur. Quarearguerelicet,pofterioritemporehocfactumeffe; nec fane documenta, quae id adltruant, occurrunt faeculo XII. maiora. Commode in Chronico Ricardi Cluniacenfis, quod abanno Chriltidccc. Usquead annum mclxii. pertingit,quod¬ (0 Jnfcrip. antiq. C!afT. XX. n. 71. pag. 539. ex fchedis Nic. Alemanni. que (5) D iffertazione Canonico-Filologica fopra il ti- tolo delle IJlituzioni Canonicbe de Officio Arcbidia¬ coni, recitata dali’Abate Giovanni Criflofano Arna- dtizzi la fera de’ 17. d'Agoflo deiPanno 1767. in (2) Vid. Hieron. Fabrium Ravenna antiqua pag. 116., Mabillonium ile re Diplornat. Lib. II. Cap.VIII.§.XVII.pag.ioi.,ArringhiumRora- RomanelPAccademiadelPEmin.3eRev.Sig.Car¬ fubterran. Lib. IV. Cap. XXVII., aliofque. dinale Gaetano Fantuzzi &c. adnot. $. pag. 57. (3) Syntag. veter. Infcript. Clafl*. XX. n. 440. Tom. XVII. Nova Raccolta d'Qpufcolifcientifici3 (4) Infcript. Cap. II. pag. no. e flologici. In Venezia 1768.   XXi queaMuratoriorelatumeft(0,recenfenturDiaconiaeCardi¬ nalium S.R.E. decem, & odo, quarum princeps Sundae Ala¬ riaeinDomnica,ubiejiArchidiaconus.Huicacceditteftimo- nium Petri Manlii apud Mabillonium (12), ubi legitur: S.Ala¬ ria in Domnica, ubi debet ejje Archidiaconus; & Leonis Ur- bevetaniapud Cl. loh. Lamium (A, ubi haec habentur: S. Ala¬ ria in Domnica, ipfe eji Archidiaconus altorum; quorum primus ad laeculumXII., alter ad XIV. pertinet. At vero hanc Ecclefiam haud Cardinali Archidiacono adfignatam, nili laben- te ipfo faecula XII., credere licet, cum certum fit, triginta, vel viginti ad fummum annos ante eius exitum ipfam Diaco¬ num, non Archidiaconum obtinuiffe. Docet id Bulla Inno¬ centi!II.annimcxlii.apudHarduinium(4),cuifubfcripfitGe- rardus Diaconus Card. S. Alariae in Dominica. Id etiam ad- firueret D. lacobus tit. X. Alariae in Navicella, qui a Bollan- diftisV) recenleturex Marchefiointereos Cardinales,qui interfuerunt canonizationi S.Brunonis Epifcopi Signini, quam Signiae anno mclxxxi. peregit Lucius III. Summus Pontifex, nili critices regulae obliderent, Bollandiflae ipli hanc Cardi¬ nalium recenfionem affumentum iudicarunt, & iure merito; neque enim fi lincera lubnotatio fuiflet, Ecclefia ipfa titulus dicta efiet, quo vocabulo numquam Diaconias appellatas aut antiquitus, aut recenter inveniemus. Quo tempore vero haec effedefieritiurisArchidiaconiCardinalis,incertum;verofi- mile tamen eft, id accidifte, cum, translata Avenionem Apoftolica Sede, Romanae dignitates mutationem aliquam fubierunt, & Gallicos mores induerunt, & ipfa Archidiaconi iurifdiftio, & munus magna ex parte ad Camerarium delata eft. Honorii III. aetate Ecclefiam hanc pertinuifle ad Ec- (1) Antiq. med. aevi Tom. IV. coi. 1113. (4) Concil. Tom. VI. Par. II. coi. 1170. (2) Ord. Roma». XII. n. II. pag. $6y. (j) In Comment. praevio ad A£ta S. Brunonis ($)Delie,erudii.Toni.II.pag.28. Epifc. SigninidieXVIII.Iuliiqum.24.   XXII EcclefiamalteramS.Thomae,StS.MichaelisArchangelide de Formis (de qua mox dicemus ), innuit laudati Pontificis Bullaannimccxvii.,quainterceteraspoffeffiones,quaseidem confirmat,refertabjidam,&inclaujirumEcclefiaeB.vlla- riae in Donnica (0. Parochialem vero curam eidem adnexam etiam fuilPe, docent Litterae Apoftolicae SixtilV. C), quibus Apollonius de Valentinis & Canonicatibus Lateranenfis Eccle- fiae, St S. Mariae in Via lata, St Parochia S. Mariae Navicellae interdicitur. Honor, quo, Archidiaconali dignitate deleta, Eccleliahaecdecidit,integratusquodammodovifuseft,cum Card.IohannesMcdiceusPontifex Max. Leonis X. nominere- nunciatus eft. Ipfe enim inftaurari illam iullit, atque ut id pro dignitate fieret, Raphaelis Sanclii opera ufus eft quoad Ar¬ chitectonicae artis concinnitatem, lulium vero Romanum, St Perinum Bonacurfium Vagae difcipulum pro pibturae or¬ namento adhibuit. Tum eadem obtigit Card. Iulio -Mediceo, Leonis X. patrueli, Archiepifcopo Florentino, Sc S. R. E. Vi- ce-Cancellario, qui poftea fuit Clemens VII., licet & Eccle- fiam S. Clementis, & alteram S. Laurentii in Damafo dein fibi adfeiverit. Eadem Diaconia potitus eft poftea Iohannes Mediceus Cofmi I. Magni Florentiae Ducis filius, qui a_. Pio IV. Cardinalis eft renunciatus, & cuius exftant tres epilholae de ipfius Ecclefiae cultu, Sc famulatu (0, quem appri¬ me (0 Collect. Bullar. Sacrofantlae Bafilicae Va¬ gliare } perche rifeda in la Cbiefa della Navicella ticanae&c.Romae1747.Tom.I.pag.100. aujfiziare,&dipiu3perchefattovederlecofe3 (2) Ex Tom. 96. Regeft. Brev. Sixti IV. pag. 74. in Archivo fecr. Vaticano. CS) LetteredeiCard.G:o.de’Aledicifigitodi Cofano 1. Grati Duca di Tofeana, efiratte da un nifi Roma 1752. Fib. Ili. pag. 505. Lettera ferit- ta dal Poggio 25. Settemb. 1561. al Podefta di Grofleto, a cui dice di voler pariare a M. Porzio Fanuzio Canonico della Navicella 3 che capitava coli j o a Monte Fano. Ivi pag. 506. Lettera ferit- ta dal Poggio 26. Settemb. 1561. al Vefcovo Ce- farino, a cui dice > che manda D. Gio. luo fami- che di prefente occorrono farfi per riparazioni di quelluogo,meloavvifiparticolarmente3acciofi pojfadaropportunoriparo&c.Homandatoper quel medefimo Porzio Fanuzio per aver da lui in- formazione di quel3 che fiara a fiua notizia delle cofe di quella Cbiefa. Ivi pag. 507. Lettera ferit- ta dal Poggio a di detto al Babbi in Roma: Noi mandiamo il prefente D. Gio. nojlro famigliare 3per- cbe rifeda a ujfiziare vella Cbiefa della Navicel¬ la j non volendo noi filia 'fenza un Cappellauo 3 fimo a tanto, cbe fi verranno ritrovando 3 e riordtnan- do   XXIII me curaffie conflat. Huic vita fundo in eamdem fucceffit Cardinalis Ferdinandus Mediceus, marmoribufque ornavit, ac refecit, antequam ampliffima dignitate abdicaret, & Magni Ducis Etruriae, denato Francifco eius fratre, infignia recipe¬ ret.Habuit&Card.CarolusMediceus,cuiusmemoriamar¬ moreaibidemcerniturfuprafacrariiportam.Tandeminitio huius faeculi tenuit etiam ex eadem regia domo Card. Franci- fcus M., de quo nihil eft aliud, quod moneamus. Presbyte¬ rum Beneficiatum, qui Ecclefiae inferviret, facrumque face¬ retdiebusfeffis,PaullusV.inftituit(0,idquemunerispri¬ mus obivit Vir Cl. Leo Allatius, antequam ad maiora fibi viam faceret in Urbe officia. Ex Diaconia in titulum presbytera- lem convertit Benedidus XIII 0);ac tandem Monachis Grae- co-Melchitis Congregationis S. Ioh. Baptiflae in Soairo OrdinisS.BafiliiMagni,poflulanteSacraCongregationedePro¬ paganda Fide, Templum cuftodiendum, & aedes incolendas Benedidus XIV. conceffit. Vili. Huic proxime fuccedit Templum S. Thomae in Caelio, quod& S. Thomae, & S. MichaelisinFormisdi- dumeft,cuiquehofpitaleadnexumerat.DudusaquaeClau¬ diae,quieidemadhaerebant,nomendeFormisinduxe¬ runt G). Ecclefia haec fuit olim Abbatia in Urbe non igno¬ bilis;cumeiusAntiftes,teftePanvinioG),intervigintiAb¬ bates, qui Romano Pontifici celebranti adeffe confueverant, decimus tertius accenferetur. Eamdem pollea Innocentius III. conceffit Fratribus Ordinis Sandifs. Trinitatis Redemptionis captivorum, quam proinde, dum vixit, incolatu, corporis veroexuviispoflobituminfignivitS.IohannesdeMatha, licet dolealtrecofe.Vedrete3cbeabbiaqualcbepo- toprefente30fiarelazionedellaCortediRoma&c. In Roma 1765. Tom. I. Cap. I. pag. 8. fa 3 cbe ci pare impojjibile, cbe non ve ne Jia. (3) Fabrett. de aquis 3 & aquaedtM* DifTert. IX- (1) Vid. Martinellium loc. cit. pag. 215. (4) Lib. de VU• 'Urbis EccleJ'. pag. 142. (2) Vid. Equitem Hieronymum Lunadorium Staco di Jlanza 3fe ve n’’ealcuna pertinente alia Chie-   XXIV licet dein in Hifpanias translatae fuerint. Interea Honorius III. Bullam emifitd), qua Ordinem praedictum commendat, Ec- claliameidemconcetfamfubApoltolicaeSedistutelalufcipit, privilegiis ornat, facras aedes, ac bona quamplurima eidem lubditarecenfet,&confirmat.Quareibidemmemoratfor¬ mam, fcilicet aquae Claudiae ductum, fuper ditia Ecclejia S. Tbomag cum aedificiis, cimitcrio, crucibus, & aliis per¬ tinentiisfuis:montemcumformis,fi?aliisaedificiispojitum interclaufiramClodei(CaftellumnempeaquaeClaudiae, quod forma quadratum, & magna ex parte integrum Fabri¬ cius W vidit), fi? inter duas vias, unam videlicet, qua a praeditia Ecclejia S. Thomae itur ad Colifcum, fi? aliam, qua itur ad SS. lobannem, fi? Vaulum fi?c. Exftat adhuc fupra fores hofpitalis, five coenobii tigillum ex mutivo Or¬ dinis, quem diximus, Redemptionis captivorum, & arcui marmoreo forium haec inferipta leguntur: MAGISTER.1ACOBVS.CVM.FILIO.SVO.COSMATO.FECIT. HOC.OPVS Dein Poncellio EJrfinio Cardinali commendatam Ecclefiam ipfam fuiffe infuper patet, donec Urbano VI. iubente anno mccclxxxvii. menfae capitulari Vaticanae Bafilicae adnexa fuit, ipfaque unio ex Bonifacii IX. Diplomate dat. V. Idus Novem¬ bris confirmata eft. Ceteras Apoltolicas Bullas lohannis XXI., five XXII. 0), Bonifacii IX. O, & Eugenii IV. W iam editas in Bullario Vaticano, & ad hanc Ecclefiam pertinentes fciens praetereo. IX. Defcripfimus locum, quem tenent nunc Horti Mat- thaeiani,tumediticia&vetera,&fubfequentia,quaeipfisob- iacent.Rcftatmodo,utdeeorumaubtore,forma,&prae- ftantia dicamus. Ii fiquidem auctorem habent nobiliffimum, toAnn- '2'7-vii-ColleU. Bullar. SacrofanU. Baftl.Vatie.&c.Romae1747.Tom.I.pag.iod. (2) D efcript. Vrb. Romae cap. 17. & ma¬ (3) Cit.Collecl. fttillar.Bafil.Vatic.Tovn.l.p.28J. (4) Ibid. Tom. II. pag. 31. (5) Ibid. Tom. II. pag. 3y.   XXV &magnificentiflimumVirumCyriacumMatthaeium,Alexan¬ dri filium, Cyriaci nepotem, qui fane avitam gentis fuae am¬ plitudinemho copere explicandam fiulcepifievifusefi. Non noftrumheicefi;,MatthaeiaegentisoriginemaPaparefchia, quae genuit Gregorium, poftea Innocentium II., deducere, quodvifuminprimisefi:OnuphrioPanvinioCO,AlbertoCaf fio G), Felici M. Nerino (3), aliifque; non enim id ipfius vel vetuftati,velnobilitatiacceflionisplurimumfaceret.Monu¬ mentum fiquidem faeculiXIII., quodcontinetSenatuscon- fultumhabituminTemploS.MariaedeCapitolio,quodque ex apographo Perufino edidit Cl. praefui lofephus Garampius nunc apud Aulam Vindobonenfetfi Apofiolicus Nuntius me- ritifiimus G), gentis huius praefiantiam fatis prodit, cum in¬ ter ceteros nobiles Romanos viros recenfeatur etiam ibidem lohannes Matthaei, quemGarampiusipfenoftrisadferibere non dubitat G). Ceteros ex hac gente illufires viros recenfe- re quinetiam non iuvat, quorum monumenta praefertim con- fulere facile quifque poflit apud Cafimirum Romanum, Fran- cifcanae familiae Alumnum, ubi de Templo Aracaelitano G). Quare circa annum mdlxxxi. Villae huius confiruftionem ag- grelfus efi: Cyriacus nofier, & ad annum mdlxxxvi. perfecit, utdocentmonumenta,quaeibidemmarmoreinfculpcnda curavit,quaequenemoadhucedidit.Siquidemfuprapor¬ tam Villae parte interiori haec leguntur: CY- (1)Cod.Mf.dcGenteMatthaeiainBibliothe¬ ria alcultodellaR.ChiaradiRhnino&c.In caFrangipania. Roma175:5- Differt.VIII.pag.244.jefegg. (2)MemorieijlorichedellavitadiS.Silvia&c. (5)Vid.Indicemvoc.Matteipag.52J. Cap.XIII.§.I.pag.89. (6)Memorieijlorichedellacbiefajeconvento (3) Detemplo,& coenobioSS.Bonifaciij& Ale- di $. Maria in Araceli di Roma &c. In Roma i73j5. Cap. IV. pag. 29., Cap. V. pag. 43. 3 44., 394. Ad not. 54. 71.;, & 72. 3 e Cap. XVII. pag. 451. (4) Memorie ecclefiajliche appartenenti all'ijlo- xiihijloricamonumentainAppend.n.VIII.pag.   XXVf Tum inferne: CYRIACVS. MATTHAEIvs. HORTOS GENTILICIOS.CVLTV.AEDIFICIO VETERVM.SIGNORVM.COPIA INLVSTRIORES. ET. AMOENIORES REDDIDIT A. S. M. D. LXXXI CYRIACVS.MATTHAEIVS HORTOS. CAELIMONTANOS A. IACOBO. MATTHAEIO. SOCERO. SVO SIBI. POSTER ISQ__. SVIS. DONO. DATOS. MVLTIS • ORNAMENTIS MAGNIFICENTIVS. EXCVLTOS. SVAE. ET. AMICORVM OBLECTATIONI.DICAVIT M.D.LXXXVI Quae ille praeftiterit, ut ampliffimos undequaque Hortos hof- ce efficeret, prodit etiam epigraphe, quam affixit parieti Aedium ad meridiem, quae ita fe habet: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEX F. CYRIACI.NEP HORTOS.CAELIOS GENTILICIOS. POMARIIS AVIARIIS. NF.MOR1BVS OBELISCO.AEDIFICIIS IAM.INSTRVCTOS AD. MAIOREM. POSTEROR SVORVM.AMICORVMQ_ OBLECTATIONEM VETERIBVS ETIAM.SIGNIS EXORNAVIT Huic etiam infcriptioni confbna eft altera, quam edidit Petrus Leo Cafella (0, quae forte Hortorum domini, & conditoris fuffragium non tulit, cum nullibi ipfam infculptam viderim. En ipfam: CY- (0 Elogia illufirium Artificum;, Epigrammata, Ionis, de Tufcorum origine, & Republica Florett- &foferiptiones,poliLibrumdeprimisItaliaeco-tina,pag.186.edit.Lugdun.1606.   CYRIACVS.MATTHAEIVS.ALEXANDRI.F CYRIACI.N GENIO. CAELIMONTANAE. SALVBRIORIS. AMOENITATIS HORTOS. GENTILICIOS. SIBI. ET. SVIS. AEDIBVS. ET AQVIS. IRRIGVIS. EXCOLVIT. FONTANIS. EXHILARAVIT QVAE. PRO. GRADVVM. CORONA. EX. EPISTYLIIS. ALTE SVBSILIENTES. FLORVM. IN. CIRCIS. FLORVM LVDVNT.LVDICRA TVM. ET. AREAM. ET. AREOLAS TOPIARIIS.SEPSIT.POMARIIS VALLAVIT AMBITVM.MVRO.CINXIT VETVSTEIS.MONVMEN TEIS.SIGNIS.DISPOSITIS ET.MVNIPICENTISSIM A.S.P.Q R INDVLGENTI.A OBELISCO. EXORNAVIT X. Quare Hortos nortros vel hilce infcriptionibus ita iamamplos,excultos,elegantes,&locupletesdefcriptos habes, ut vix nobis, quae infuper adnotentur, relinquantur. Innuemus tamen. Aedes, quae in medio Hortorum adfur- gunt, ex lacobi Ducae architeilura conditas fuilTe, quarum vertibulum porticu ornatur, columnis, lignis, ac protomis infignita; quemadmodum aula, & cetera, quae fequuntur, cubicula undique & lignis, & protomis, & columnis, & ana¬ glyphis, & cippis, & aliis rarirtimis cimeliis, inter quae men- faexviridiporphyreticomarmore,miruminmodumpraecellunt. Porticum enim in primis ornant Statuae ex alaba- rtro Pomonae, & Midae Phrygiae Regis, aliaeque Bacchi, Faunorum,&Caracallae.Tumauladirtinguebaturpraefer- tim Simulacro colofleo M. Aurelii Antonini, & Statua eque- ftri L.Aurelii Commodi, qui Antoninus alter, vel Hadrianus antea cenfebatur, quae dein in Mufeum Clementinum Vaticanumtranslataeft.Inadiacentibuscubiculisreconde¬ batur d2 XXVII   XXVIII batur inter cetera caput Ciceronis, quod nunc in Aedibus adCircumFlaminium,caputalterumIovisSerapidisexba- falte, tum caput Plotinae Traiani uxoris, & Signa Dianae, &.Herculis,Graecifculptorisopera,aliaque,quaeiamVa¬ ticanoMufeo,utinfradicemus,infuperaccefierunt,Fauni cum utre iacentis, & alterius a Satyri pede fpinam extrahen¬ tis,actandemStatuaAmicitiae,opusPetriPaulliOlivem, quamCyriacoMatthaeiodonodederatVirginiusUrlinius, ut patet ex epigraphe, quam exhibet lamella aenea ibidem appoiita: VIRGINIVS. VRSINIVS CYRIACO. MATTHAEIO AMICITIAE.MONVMENTVM STATVERE ILLVSTRIVS. ME. IPSA AMICITIA NON.POTVIT MDCV Aditus ex foribus Hortorum recda ad Aedes ducit per ambu¬ lacrum, utraque parte ornatum urnulis fepulcralibus elegan- tiffimis, ut nufquam tot ullibi fe vidiffe affirmaverit Montfau- coniusb). Aedium vero externus paries meridionalis multis etiamdiffinguiturSignis,acpraefertimImpp.IuliiCaelaris, Octaviani Aug., Cl. Domitii Neronis facrificantis habitu, Liviae Aug. Coniugis, tum etiam Cereris, ac Bacchantum. In medio autem pariete tollitur (lemma Matthaeiae gentis, pileo ornatum, cui haec subscribuntur: HIERONYMO.CARD MATTHAEIO HicenimfuitCard.tituliS.Pancratii,Cyriaci,&Afdruba- lis frater, cui iidem titulum etiam pofuerunt in Templo Ara- caelitano (2^>. Area dein panditur, in qua celebris Urna IX. Mu- (0 Diar. Italie. Cap. X. pag. 148. dal P. F. Cajimiro Romano &c. Cap. V. pag. 72. (2) Vid. Memorie ijloriche della chiefa, e con¬ Vid. aliud monumentum ibid. Cap. XVII. pag. 451. vento di S. Alaria in Araceli di Roma raccolte /•-rr.   XXIX Mufarum proflat, & in cuius medio cernitur Obelifcus Ae¬ gyptius variis infcriptus hieroglyphicis litteris, quas haud mo¬ ramur, cum neque Hermapionis perlonam geramus, qui Obelifcorum inlcriptiones olim interpretatus Auguftum dece¬ pit, neque etiam Kircherium imitari lubeat, qui eamdem_. provinciamornansdecepitfeipfum.CeterumMarchioSci¬ pio MafFeius (0 in ea fuit fententia, ut putaret, fculpturas Obelifcorum nullam fcripturam praefeferre, notafque illas nul¬ liusgeneris efle litteras. Quare id dumtaxat innuemus, Matthaeianum Obelifcumaltumefle XXXVI.palmos,latumvero ad baflm palmos IV. Caret vero litteris, five notis X. a bafi palmis,livequodilledataoperafieftusfuerit,fiveignecafu confumptus. Verumtamen novem primae, quae in cufpide conlpicuaefuntnotaeadquatuorlingulalatera,omninocon¬ veniuntcumiis, quasexhibet Obelifcus, olimIpinaeimpolitus CirciFloraeinvicoPatriciointerViminalemcollem,& Exquilias, nunc in Hortis Mediceis ereftus. Nofter vero ex- ftabatolim ante fores minores Templi Aracaelitani, e quibus in plateam Capitolinam delcendcbatur, five in eius Caeme- terio, ut placet Boiflardio (2), in cuius bafe, tefte lacobo Ma- zochio G), haec legebatur inlcriptio, quam Gruterius (+) ipfe adducit: deo.CAVTE FLAVIVS.ANTISTIANVS V.E.DE.DECEM.PRIMIS PATER.PATRVM TandempetentiCyriacoMatthaeioexSenatusconfultoa.d. III.IdusSeptembrisannimdlxxxii.concefluseftObelifcus,quem fuisin Hortiscollocavit,acdeinduplexmonumentumineius (1) Art. erit, lapid. Lib. I. coi. 3. (3) Epigramm. Vrb. pag. 21. a ter. (2) Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 24. (4) lnfcript. pag. 99. n. 4. ba-   XXX bafe infcripfit, quo fuum gratum animum Populo Romano lar¬ gitori tortaretur, Primum, quod meridiem relpicit, hoc eft: CYRIACVS.MATTHAEIVS OBELIS CVM. HVNC. A. POPVLO ROMANO.SIBI.DATVM.A CAPITOLIO. IN. HORTOS SVOS.CAELIMONTANOS TRANSTVLIT.VT. PVBLICAE ERGA. SE. BENEVOLENTIAE MONVMENTVM. EXSTARET ANNO.M.D. LXXXII Alterum vero boream verfus ita fe habet: S. P. Q_. R CYRIACO.MATTHAEIo OBELISCVM. HVNC. SVMMO CONSENSV.DARI.DECREVIT VT. IIORTORVM. EIVS PVLCIIRITVDO. PVBLICO ETIAM. ORNAMENTO AVGERETVR Huius Obelifci typum non dedimus, quod aere incifus olim non fuerit, neque id nunc Librario luberet, neque nos etiam apprime necertarium cenferemus. Si quis velit eumdem con- fulere,facilecomperietapudMontfauconium0),Iohannem Barbaultium (2), ac Bonaventuram, & Michaelem Overbe- keiosL). Ipfum etiam defcripferunt, ac laudarunt Scottius (A } (0 Antiq. explic. Tom. II. Par. II. Lib. II. Cap. VII. Tab. CXL1I1. n. 5. pag. 332. (2) Les plus beaux Alonumeuts de Rome ancien- tie3 ou Recueil des plus beaux morceaux de Pan¬ tiquite' Romaine qui exijleut encore, dejjines par Monfieur Barbault Peintre ancien Petijtonaire du Roy a Rome 3 & grave eu 12S. plancbes avec leur explication; fol. max. a Rome cbez Boucbard de Pimprhnerie de Komareb 1761. Pl. 30. n. i.p. 47. Ca- O)LesreflesdePancienneRomerecherchez&c. & gravez par feu Bonaventure d'Overbeke &c., imprimesauxdepensdeMicbeld'0-verbeke.Ala Haye cbez Pierre Gojje 1763. Tom. II. Pl. 14. pag. 21. Vide etim Degli avanzi delPantica Ro¬ ma 3 opera pofluma di Bonaventura Overbeke Pit- toreInglefe&e.3accrefciutadaPaoloRolliPa- trizio Todino. Iu Londra 1739. §. JLVIII. pag. 177. (4) Itiner. ltal. Lib. II. Cap. VII. pag. 401.   XXXI Cafimirus Romanus 0), Marangonius, qui fingulos etiam Romanos Obelifcos enumerat 0), tum Ficoronius, Venutius, Titius, ceteriquc, qui Romanas antiquitates, &c magnificen¬ tias defcribendas fumpferunt. Reflat nunc caput coloflale Alexandii Magni, quod plateam hanc ornat parte meridio¬ nali, quoque nullum in Urbe maius. Siquidem a mento ad ladicem capillorum mensura eflfex pedum pariliorum, totum vero caput odio pedum, ut proinde fexagintaquatuor pedibus conflaret eius Statua, fi integra fuperelTet. Sane ca¬ put marmoreum Domitiani in impluvio Aedium Capitolina¬ rumeflquinquepedum,acproindeintegraStatuaquadra¬ ginta dumtaxat pedum fuiflet; nec aliter fuadent pes, & alia membrorum frufla, quae ibidem exllant. Tum in Villa Lu- dovifiaefl'caputcoloflalequatuorcirciterpedum;&inIu- flinianeaextraPortamFlaminiamhabebaturolimcolofluslu- flinianiImp.,neccle’funtinaliisvillis,acaedibusRomae Statuaealiaeproceritatevulgariduplo,auttriplomaiores. Caput vero noflrum, quod Alexandro M. tribuitur, quodque nos fuoloco (Villuftravimus, ex Aventini ruini serutumfuit, ut prodit infcriptio, quae ibidem legitur: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEXANDRI. MAGNI. CAPVT. EX. AVENTINI RVINIS. EFEOSSVM. INIVRIA. TEMPORVM NONNIHIL.CORRVPTVM.ANTIQ_VAE FORMAE. ET. NITORI. RESTITVIT VETVSTATIS.AMATORIBVS SPECTAN DVM. PROPOSVIT Ipfum vero accurate descripflt MontfauconiusW,aflad quem pertineat, incertum elfe afferuit. Hinc Ficoronius M mul- (0 Cit. Memor, ijloricbe della chiefa, e con¬ fino alia pag. 36$. ventodiS.MariainAraceli&c. Cap.V.§.V. (3)Tom.II. ClafT.II.Tab. VII.pag.9.  pag.71. (4) Diar.Ital.Cap.X.pag.148. (2) Delie cofe gentilefchej eprofane trafportate (5) Offervazioni contro il Diario dei P. Mont• ad ufo, ed ornamento delle Cbiefe 3 dalla pag. 555. faucon pag. 3 1.   XXXII multas eidem gemmas, & numifmata obiecit, quibus ex for¬ mae fimilitudine fidem huic etiam monumento conciliaret. Sed contra repofiuit Romualdus Riccobaldius (0, qui Plutar- chifi) teftimoniumurgens,incertamAlexandriM.effigiem etiam tunc temporis exlfitifie contendit, ac magis dubiam fa¬ ciam fuifie deinceps, cum Caracallam lubido incefiit adfcri- bendi fibi Alexandri nomen, praecipiendique quinetiam, ut ipfius vultum quifque fibi pararet, fervaretque. XI. Praeftat vero haec leviter attingere, ut ceteras Hortorum Matthaeiorum partes perluftrando defcribamus. Areola hinc occurrit, cui ab amoeno afipeclu fi) quaefitum nomen eft, & ex qua moenia ab Aureliano producta ufque ad Portam Capenam, & Latinam, & Thermarum Antoniniana- rum ingentia rudera intueri praefertim licet. Statuae, & in- fcriptiones heic ordine difpofitae habebantur, quarum prio¬ res referebant Apollinem Citharoedum, Martem, Mercurium, Dianam, Herculem, Poetam cum cycno, Feminam velatam cum puero, Gladiatorem, & Pudicitiam. Ambulacris hinc in¬ de recurrentibus ad oppofitam partem area altera occurrit, inquapraefertimHermaeconfpiciuntur,quibusPlatonem, Heraclitum, Ariftotelem, Ifocratem, Epicurum, Diogenem, Ariftomachum, Pindarum, Anacreontem, Euripidem, Ari- flophanem, Hefiodum, Apollonium Tyanaeum, Pofidonium, Apuleium, L. Iunium Rufiicum, Archimedem, aliofque re¬ ferre vulgo cenfetur. Quid iuvat conclavia, quae fex prae¬ fertimnumerantur, nemora, topiaria, aliaqueloculamenta fingillatim defcribere, eaque fignis, anaglyphis, aliifque monumentis fere undique diffincla Labyrinthum tamen innue¬ mus,licetvixnuncinveftigandum,ecuiusregioneaffingit co Apologia dei Diario Juddetto Cap.LX.pag.48. (3) Belvedere vulgo audit. (2) In vita Alexand. M. pro XXXIII procera columna porphyretica viridis coloris, quae ob minu- tiffimas, ex quibus coalefcit, materiae partes lingularis merito cenfetur. Nec aliae defunt hinc, & illinc difperfae co¬ lumnae, quarum pleraeque multi aedimandae funt, quaeque XXVII. fummatim numerantur. Nodrum vero non ed fon¬ tes, pomaria, viridaria, ceteralqueHortorumpartesvillicis commendatas defcriptione profequi. Innuemus tamen fub Aedibus haberi hortulum malis aureis confitum, ac fupra eius odium hoc didichon legi: HAVRI. OCVLIS. ET. NARE. LICET. TIBI. VIVA. VOLVPTAS SIC. ALITVR. TANTVM. CARPERE. PARCE. MANV Plures funt in Hortos ingrefius; fed duo infigniores, quorum unum, idque princeps, prope Templum S. Mariae in Do- mnica;alterumveroadCuriamHodiliam,quiconditoris nomen gerit, cum longa linea infcriptum habeatur: HIER. MATTHAEIVS. DVX. IOVII. AN. IVBILAEI. MDCL XII. Habes, quae fuerit Hortorum Matthaeiorum amplitudo, amoenitas, & praedantia. Hinc nil mirum, d advena somnes infui admirationem rapuerint, tumcivesad se ipsos sive describendos, live illudrandos invitaverint. Quare Scottius('),Mabillonius(12345),Montfauconiusb),Addifo- nius (d, Richardius b), aliique inter exteros tum ipfos expen¬ derunt, tum in fuis hodoeporicis praedantioreseorumdem partes defcribere fatagerunt. Inter nodros vero illos potidimum quoquo modo illudrarunt Pinarolius (6), FicoroniusW, Ve- (1) hin. Ital. Lib. II. Cap. VII. pag. 401. (2) Itin. Ital. pag. 88. (3) Dior. Ital. Cap. X. pag. 148. (4) The Works of the right honourable lofeph Addifon EJ'q., Beingh remarks onfeveral parts of Jtaly &c. in the Tears 1701. 3 1702.3 1J03. Du¬ bii» 1735* Vol. III. pag. 16 3. (5) Defcription hiflorique} & critique de Phalle; a Dijon 1766. Tom. VI. Par. II. Cap. 17. pag. 169. (6) Trattato delle cofe piri memorabili di Roma, opera di Gio. P. Piuaroli; Roma 1725. Tom. II. pag. 274., e fegg. (7) Le •vejligia 3 e rarita di Roma antica; Roma 1744. Lib. I. Cap. XIV. pag. 90. 3 e Lib. II. Le Jingolarita di Roma moderna Cap.VIII. pag-68.   XXXIV VenutiusCO, Vafius W, & Titius^); Celebrarunt vero inter Poetas Aurelius Urfius Romanus (4), & Ludovicus Lepo- reus C). Tum monumenta ipfa, quae in illis adfervantur, nacta funt qui & typis exprelTerint, & explanaverint, ut luo loco monuimus. Si Signa lpectes, eorum praeflantiora adducta habes a Paullo Alexandro MafFeio, & Bernardo Mont- fauconio.SiAnaglypha,eorumpleraqueeditaviderelicet apud Sponium, Bellorium, & ipfum JVIontfauconium. Si In- fcriptiones, noftris pleni funt celebres thefauri, live colle¬ ctionesiameditaeab Apiano, Mazochio, Smetio, Urlinio, Gruterio, Reineho, Sponio, Malvafia, Gudio, Donio, Fabrettio, Muratorio, Maffeio,Donatio,aliifque.At,quae lane elt rerum humanarum infelix conditio, ita paucis ab heincannisimmutataeltHortorumnoltrorumfacies,utqui cosintueaturpraeltantioribusmonumentisIpoliatos,atque undique collabentes, dicere fimiliter poffit: Iam fcgcs cjt, ubi 'Troiafuit. Sanenon nullas marmoreas Infcriptiones in Caeliis Hortis exltantes conceflcrat iam Alexander Matthaeius Iovii Dux Cl. Praefuli Raphaeli Fabrettio, ut ipfe grati ani¬ mi caufla faepe commemorat, in fua domelticarum Inlcriptio- num fylloge, & nos quinetiam fuis locis advertimus. Tum ex iis profectum eft in Mufeum Capitolinum, poftulante Bene- diftoXIV.PontificeMax.,marmorAebutianum,iamanobis adductum (D, & antiqui Romani pedis, aliorumque Archite¬ cto- (0Accurata,efuccintadefcrizionetopografi¬ nuovofinoalTannoprefente.InRoma1763.pag. ca, e tjlarica di Roma moderna, opera pofiuma di Ridolfino Venuti &c. Roma 1766. prejfio Carlo Bar- biellini Tom. I. pag. 4. (2) Itinerario iflruttivo divifo in otto fiazioni 3 0 giornaie per ritrovare con facilitd tutte le an- tiche 3 e moderne magnificenze di Roma, di Giu- feppeVafiInRoma1765.11.58.pag.62. (3) Defcrizione delle pitture, fcalture, e ar- cbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dati'Abate Filippo Titi da C.itta di Ca- fielk,conPaggiuntadiquantoeflatofattodi 208., e 475. (4) Carminum Tib. III. Epigr. 32. pag. 74. edit. Parmen.,&Bonon.3ubihaechabentur: ln Hortos Mattbaeiorum: Komae fepultae hinc intueri imaginem, Arcus,theatra,Scimperiivireslicet. Urbis, & Orbis lumina, & miracula. (5) Poefie; ln Roma 1682. pag. 88. Sonetto. (6) Tom.III.ClalT.X.Sect.VI.n.<;.Tab.LXII. Fig. I. pag. 118.   XXXV flonicac artis inftrumentorum forma infculptum; cuius rei memoria exftat in titulo marmoreo, qui ibidem appofitus ell f ^. Sed noftra aetate maximum palTi lunt detrimentum, cum novi Vaticani Mufei condendi neceflitatem peperit erum¬ pens quotidie veterum monumentorum copia, & eorumdem alportationis impediendae providentia. Poftquam igitur San- dlillimus, ac fapientilTimus Pontifex Clemens XIV., quem utpoteprimumlitterariaemeaefortunaeparentem,&publi¬ caetranquillitatis,quafruimur,fundatoremfempergratoani¬ mi fenfu, & laudum praeconiis profequar, Ambulacrum Va¬ ticani Palatii, quo iter eft ad Bibliothecam, veteribus Infcri- ptionibus in clalfes naviter diftinefis V) ornandum fufeepit; tum Chriftianum Mufeum, quod aeternae memoriae Pontifex Benediftus XIV. iam excitaverat, & gemma affabre Iculpta, (i) Editus eft a CI. Praefule Ioh. Bottario in opufculo, cui titulus: Indice delle antichita 3 cbe fi cujiodiscono nel Palazzo di Campidogltc &c. pag. 8., poft Philippi Titii librum de Pi&uris, Scul¬ pturis j & Architecturis Romanis ab eo amplifica¬ tum3 quoddeinfeorfimbisetiameditumfuit: Mo- ('b) Grut. Tom. II. pag. 167 (c) Fabrett. de Aquis, & aquaedu6tib. Differt.II. pag. 73., & 74. n. 129. j & feqq. (2)HucconfluxeruntpraeterMatthaeianas, veteres Infcriptiones domus Porciorum 3 tum plures Paflioneii Eremi apud Camaldulenfes in Tufculo. Ceterum vide varias antiquas Infcriptiones ex iis 3 quae pro hac ingenti colleftione coa6tae fuerunt 3 vel memoratas, vel addu6tas in Epiftola noltra edita in Ephemeridibus litterariis Florentinis anni 1772. n. 10. coi. 14S., & n. feq. coi. 170, um in aliis n. 45. j & feqq- coi. 6yy. 3 & feqq., dein n. 48. coi. 7$S.3 ac tandem n. 1. earumdem Anecdotorum noftrorum. De Feriis Latinis huc addu&is vid. quae adnotavimus hoc I. Vol. Clafs. VII. pag. 73. e2 00 (&) (0 Ephemeridumanni1775.coi.4.3tumn.2.coi.10. Confuleetiam Opufculum, cuititulus: Adlnfcri- ptionemM.luniiPudentishocipjoannoRomae deteffam adverfus anonymi convicia curae pojlerio- Dono.Hieronymi.Principis.Alterii res(CaietaniMelioris).Romae177$.Vid.Ephe¬ Aebutianum merides Romanas eiufdem anni 3 ubi de eadem In- Ex.Matthaeiorum.Villa feriptioneEpiftolaCl.viriMatthiaeZarilliin.XXI. pag. 161. Habes etiam aliquas Infcriptiones Va¬ ticanas editas a CI. Viro Caietano Marinio Tom. IX. 3 & feq. Diarii Pifani litteratorum 3 & in Syl- loge veter. Infer. 3 qua claufimus III. Volumina Marmora. omnia. antiqui. pedis Modulo. infculpta Scriptorumq. teftimoniis. commendata Benedictus. XIV. P. O. M In. Mufeum. Capitol. tranftulit Anno. Pontif. III Dono. Hieronymi. Ducis. Matthaei Capponianum Non. ita. pridem. Via. Aurelia. reper Ex. Aedibus. Capponianis Dono. Alexandri. Gregorii Marchion. Capponii Eiufdem. Mufei. Curatores. perpetui Statilianum In. Ianiculo. alias. effofium Ex. Hortis. Vaticanis Colfutianum. feu. Collotianum Ex. Marii. Delphini. Aedibus (a) Aldrovand. pag. 121.   XXXVI Mofaici ferpentis emblema referente (0, & Carfagnanae fi- gillo(*), testimonio sane luculentissimo antiquae eiufdemfi¬ delitatisergaBeatumPetrum,&RomanamEcclefiam,pro¬ vide ditavit, novique cubiculi elegantifiime picti a temporum noftrorum Apelle, Antonio Raphaele Mengfio, accefiione auxit, ut Papyris omnibus per Bibliothecam, & fecretum Ta¬ bularium olim difperfis, in unum colleblis, aliifque Vibloriae gentiscomparatiscertuslocuseffiet(?);acinfiuperEtrufco- rum Vafculorum, quibus Bibliothecae Vaticanae fcrinia 01- nantur, fupcllecfilem mire amplificavit M; ipfumque tandem aeneorum monumentorum Mufeum a Clemente XIII. fplen- dide exftrucfum, praeter recentia ad fe dono mifia Vindobo- nenfis, Parifienfis, Taurinenfis, Palatinae, aliarumque lega¬ liumfamiliarumaureanumilmata,argenteisnummisquine- tiarn FerettiaeE), & Palfioneiae EI gentis, tum & ballarinii Mufei Wfanerariffimis, Herodis AntipaeE)lingulariaeneo (1) Offervazioni di varia erudizione fopra un carneo antico rapprefentante il ferpente di bronzo, efpojle da Orazio Orlandi Romano &c. In Roma 1773. per Arcangelo Cafaletti. Vide cenfuram_, noftram in Ephmerid. Litter. Romanis eiufdem an¬ ni num. XLI., 8c XLIE (2) Vid. Ephemerides litterar. Florentinas anifl' 1771- n. 12*43- c°l* 194- j & feqq. Articulum nos ipfi fuppeditavimus Donum Cl. Praefulis Ste- phani Borgiae. llluftratum pridem fuerat a Cl. alio Praefule Iofepho Garampio edito opere, cui titulus:IlluflrazionediunanticoSigillodellaGar- fagnana. In Roma 1759. per Niccolb, e Marco Pagitarini. Anonymi Lucenfis cenfuris refponfio nunc paratur. (5)^ rid. in cit. Ephem. Flor. ann. 1771. n. 1. num- gubiui de tribus Vasculis Etruscis encaatice piclis a Clemente XIV• P O. M. in Mufeum Vaticanum inlatis Differtatio. Florentiae 1772. in Typogra- pbia Mouckiana - Ex Mufeo Anfideiano Perufino. Alia plura Vafcula in Vaticanam Bibliothecam mi¬ grarunt ex munere Antonii Raphaclis Mengfii eximiiPi&oris, & Raphaelis Simonettii PatritiiAu- ximatis,CanoniciBafilicaeVaticanae3&SS.D. N. a cubiculo. (5) Vid. articulum noftrum in Ephem. litter. Flor, anni 1771. n. 14. coi. 210. (6) Vid. ibid. n. 31. coi. 482. (7) Nempe Simonis Ballarinii Praefe&i Biblio¬ thecae Barberiniae j & a cubiculo Pontificio, qui obiit V. Idus Martii anni 1772. Hic donavit aliquot rariora, & vetuftiora numifinata Pontificia, feu potius nummos; cetera empta poft eius obitum. coi. 5.3 ubi alter articulus nofter de huiufmodi Papyris. Adde Papyrum alteram dono datam ab Equite Marchione Carlo Mufca Bartio Pifaurenfe, dequaconfuleEpiftolamnoftraminfertamEphe¬ mo3inNummophylacioClementisXIV.P-O.M. meridibus Florent, anni 1775., & praefertim n. 49. coi. 774., & n. 51. coi. 811. Vid. & Praefatio¬ nem noftram ad Fragmentum Papyri faecali V. 3 velVI.&c.inTom.II.Anecdotor.litterar.p.437. (4) Iobannis Bapt. Pajferii Pifaurenfis Nob. Eu- affervato, demonflratur, Cbrijhrm natum ejfe anno VIII- ante aeram vulgarent contra veteres 0- mnes, & recentiores Cbranologos, auBore P Do¬ minico MagnanOrd. Minirn. Presb.&c. Romae 1772. typis Arcbangeli Cafaletti. Vid. 8c Epifsolamnummo, aerae Chriftianae inchoandae documento, Bruti, Sc Numoniae confularis familiae aureis nummis Plancani Mu- fei('),quorumunuspretiofiffimus,alteranecdotus,Titi,Sc Traiani argenteis Graecis nummis rarioribus maximi modulis vigintiduobusinM.Antoniinummislegionibus,&binisine¬ ditis Lucretiae, & Minutiae gentis, a Traiano reftitutis nu- mifmatibus Mufei Zarilliani (2), veterum Beneventi Ducum ab Arigilio ad Georgium Patricium aureis, argenteifque nummis bene multis 0), Etrufci pueri in Tarquinienli agro eruti prae- clariffimohmulacroexaereG),TabulisaeneisOftranorum,& SentinatiumveterumUmbriaepopulorumG),tumpaterisG), fiftrisG), inauribus (s), vitris vetuftilTimis C9), ac ceteris hu- iufmodi monumentis munificentiffime locupletavit; id infuper conlilii cepit, ut novum omnino Muleum in ipfis Innocen- tii VIII. cubiculis, infigni porticu, adytifque ornatiffimum ad excipiendumfigna, protomas, anaglypha, ceteraque mar¬ morea monumenta excitaret. Inlatum fuit quapropter in ipfum, ut primum licuit, Iovis Verofpiae gentis marmoreum Signum praeclarissimum (IO), tum aliud omnino integrum, rarum- ]ara noftram in Ephem. litter. Florent, anni 1771. n. 35. coi. 517*) & feqq. Donavit Henricus San- clementius Monachus Camaldulenlis } nunc Gregorianii Coenobiiad Clivum Scauri Abbas. (1) De his vid. Epiftolae noftrae partem 3 quae eft in Ephem. litter. Florent, anni 1773* n* 47* coi. 745.3 & n. 49. coi. 772.3 & feqq. De nummo Bruti vide etiam 3 quae adnotavimus Tom. II. ho¬ rum Monumentor. ClalT.II. Tab.XII. Fig.I. pag.29. (2) Vid. Epiftolam noftram in cit. Ephcmcrid. ann. 1774- n- 43* c0,‘- 67S. & feq. (3) Vid. camdem ibid. coi.68 1. Donum Cl. Praef. Steph. Borgiae. (4) Vid. articulum noftrum in cit. Ephcmer. anni 1771- n. 49. coi. 774. 3 & Praefationem nostram ad Alphabetum veterum Etruscorum pag. 29. Videndaetiamloh.Bapt.PajferiiPifaur.JVob.Eu- gubini de pueri Etrufci aeneo firnulacro a demen¬ te XIV. P- O. M. in Mufeum Vaticanum inlato Dijfertatio. Romae in Aedibus Palladis 1771* Con- fule tandem 3 quae nos adnotavimus hoc I. Vol. Clalf. X. pag. 108. Donum praeclarifiimi Praefu- Jis Francifci Carrarii Bergomatis} qui etiam pate¬ ras j & numifmata aliquot argentea donavit 3 de quibus vide Epiftolae noftrae partem 3 quae eft ad n. 40. coi. 628. Ephem. Flor. ann. 177 1. (5) Vid. articulum noftrum in laud. Ephem. e- iufdem anni n. 1. coi. 4. Retulit Muratorius Thef. Infer, pag. 563. n. 2. 3 & pag. 164. n. 1. (6) Vid. Epiftolae noftrae partem in Ephem. Flor, ann. 177^. n. 47. coi. 745. Adde pateras Carra- rianas, de quibus fuperius adnot. 4. (7) Vid. ibidem. (8) Vid. eiufdem Epiftolae partem, quae eft ibid. n. 49. coi. 772.3 8c feqq. (9) Vid. Ephemerides litter. Romanas anni 1774. n. VI. pag.41. DonumCl.PraefulisMariiGuar- naccii Volaterrani. (10) Vid. articulum noftrum in Ephem. Flor, an¬ ni 1771. n. 49. coi. 777.3 quaeque adnotavimus hoc   XXXVIII rumque Ottaviani Augufti (0, Meleagri alterum longe cele¬ berrimum Aedium Pighinianarum 0), lunonis, & Narciffi (s) non deterioris artis, & famae gentis Barberiniae, Sardanapali fuo nomine inferipti (4), Paridis Aedium Altempliarum (j), Dianaeftolatae(6),&fervibalneatorisV)HortorumPam- philiorum, Dilcobuli laudatiffimi in agro Romano non ita_» pridem eruti, aliorumque; Tum Borgiae gentis Helvii Perti¬ nacis rariffima Protome (8), aliaque Antinoum referens, Card. I tidetici Marcelli Lantis munus (9), Antifthenis Athenienfis I hilofophi Herma Tiburtinus 0°), Ara Vulcani Hortorum Ca- falium('05BigacircenfisadDiviMarciBalilicamiacens<12), hoc Tom. I. ad Tab. I. pag. 2. Vid. typum apud £q. Paullum Alexand. MafFeium in ColleEtionc ve¬ terum Signorum Romae Tab. CXXXV. pag. 127. (0 Vid. quae adnotavimus hoc Tom. 1. ClalT. VIII. Tab. LXXVL pag. 77. (2) Vid. EpiRolae noftrae fragmentum in Ephcm. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 231., quaeque ad¬ notavimus Tom. III. horum Monument. ClalT. V. lab. XYX. pag. 59. Vid. apud eumdem MafFeium ibid. Tab. CXLI. pag. 131. C$) Laudantur haec Signa ab omnibus Romana¬ Can- Vid. typum Tab. 36. cit. Villae Pamphiliae. (S) Typum aeneum habes apud lof. Roccum Vulpium Vet. Lat. profati. Tom. IV. Cap. VI. Tab. VII. Vid. Fpiftolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1773. n. 34. coi. 551., quae¬ que adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXVI. Fig. II. pag. 42. (9) Meminimus hoc ipfo Vol. ClalT. VIII. Tab. LXXXVIII. pag. SS. (10) Vid. Epiftolam noftram in laud. Ephemer. eiufd. anni num. 45. coi. 715. 3 & n. 47. coi. 742. rumAntiquitatumferiptoribus,alterumveroad¬ OORagiotiamentodiOrazioOrlandiRomam ducitur a Hier. Tetio in Aedib. Barbariniis litt. N. a Cl. Ioh. Winckelmannio Monum. antiq. inedi V°l. F n. 207., Protomen porphyreticam Philip pi Imp., & duos Sarcophagos, de quibus omn bus vide Epiftolae noflrae partem in Hphcin. Flo; ann. 1772. n. 45. coi. 711. (4) Vid. eius typum apud Winckeimanniur loc. cit. Vol. I. n. 163., cuius illuftrationem ha b_s \ ol. II. Par. III. Cap. I. pag. 219. (5) Apud Maffeium cit. Colle#. Tab. CXXIV pag. 116. (6) De Dianae Signo Winckelmannius loc. cit. X° l U' Par’ L CaP- VII. n. III. pag. 27. Vid. t)pum T„b. 5-3. in y t/la Pamphilia, eiufque pa¬ latiocumfuisprofpeclibus,fatuis,fastibus&c. Romae formis Iacobi de Rubeis. (7) De Servi balneatoris Signo, quod Senecae falfo tribuitur, vide eumdem Winckelmannium Jbid. Par. IV. Cap. IX. n. II. Jitt. C. pag. 256. fopra un’Ara antica pojjeduta da Monfig. Antonio Cajali Governatore di Roma. Iu Roma per Ar- cangelo Cafiletti 1772. Vide, quae nos adnota. vimus Tom. III. horum Monument. ClalT. VII. Tab. XXXVII. Fig. II. pag. 73. Adde vas cine¬ rarium elegantilTimuin, quod fimul dono datum cft,&abOrlandioilluftratum.PraecelTeratan¬ tea donum Capitis aenei Balbini Imp., de quo nos in iudicio, quod de hoc Opufculo emifimus in Ephemerid. Roman. anni 1772. n. XXXV. pag. 276., & in Epiftolae fragmento, inferto Epheme¬ rid. Florent, anni 1771. coi. S21. (12) Eius fchema exhibuit Tab.III.fub n.XLVIII. ad Cap. XXIII. coi. 2111. Valerius Chimentcllius illuftrans Marmor Pifanum de honoreBijfelli(Tom. VII. Antiq. Rom. Graevii') qui balnearem feliam putat, & rurfus alferit Cap. XXVII. coi. 2130. Vid., quae adnotavimus Tom. III. ClalT. VIII. Tab. XJLVII. Fig. II. pag. 87.   XXXIX Candelabra BarberiniaCO, Zeladianum C2>, aliaque ad Divae Agnetis extra Portam Nomentanam adfervata OJ, Sarcophagus Veliternus quantivis pretii Sex. Varii Marcelli V), Urna Tudertina (A egregii Etrufci operis, & altera Perufina V) ar¬ canis ethnicorum fculpturis infignita, aliaque permulta, quae fciens praetereo, quaeque iam eruditorum fcriptis lon¬ ge, lateque inclaruerunt. His omnibus accedunt praeftan- tiora Hortorum Matthaeiorum Signa, quorum pleraque fupe- rius etiam pro re nata defignavimus, Cereris nempe Peden¬ tis (7), & ftantis (8), Fauni dormientis (9), & a Satyri pede (pinam extrahentis 0°), armatae Amazonis (‘0, velatae.» Pudicitiae 02), OHaviani facrificands C'3), Traiani Pe¬ dentis ('4), Commodi equo vecti (**), duo Hiftrionum (igil- (1) Vid. Epiflolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 230. Alterius ex his Candelabris fchema habet Winckelmannius loc. cit. Vol. I. n. 30., agitque de eo Vol. II. Par. I. Cap. XII. n. i» pag. 36., & alibi. Vid. adnot. feq. (2) Vid. articulum noftrum in Ephem. Florent, eiud. anni n. 45. coi. 71 5., & feqq. Vid. Opuf- eulum, cui titulus: Difcorfo deW Abate Gaetano MarinifopratreCandelabriacquijlatidalS.P. demente XIV- b> ftfa *77*• PreJF° Aaoftino Piz- zorno. Tab. III. aeneae. Ex Diarii Pifani Tom. III. art. V. pag. 177. (3) Ex V. 3 quae exftabant y IV. in Mufeum Clementinum Vaticanum adfportata, quintum fuo loco reli&um ed:. De his multi Romanarum anti¬ quitatum Scriptores verba faciunt. (4) De hoc Sarcophago s qui a pluribus editus, & illuftratus effc, vide Ephemerides Romanas ann. 1775. n. III. pag. 17. (5) Vid. Epiftolam noftram in Ephem. Flor, an¬ ni 1771- n* 45h coi. 712.3 & feq. De hac Urna verba fecimus etiam in hoc I. Vol. ClalT. X. ad¬ not. ad Tab. CII. pag. 107.3 & Vol. III. ClalT. V.Tab.XXIV.Fig.I.pag.5-7. la corum fculpturis in/ignito 3 in quibus fymbolice fa- cra quaedam revelatae Religionis mvfieria adum¬ brantur 3 & Clementi XIV. P. O. M., ac fapien- tijfimo ad incrementum Mufei Pontificii Vaticani ab Emerico Bologninio Ferufiae, e?* Vmbriae Praefide humillime oblato Coniecturae loh. Bapt. FaJJerii Pifaur. Regiae Academiae Londinenfis 3 Infii- tuti Bononienfis Socii. Romae 1773. apud Benedi- Bum Francefium. (7) Matthaeiana monumenta ad Mufeum Vatica¬ num ornandum comparata innuimus in EpiHolae no- ftrae articulo, inferto Ephem. Flor, anni 1771.0.1- col. 6. Singula vero in his Voluminibus defignavi. mus. Vide ergo Signum Cereris fedentis Tom. I. ClalT. II. Tab. Tab. XXXVI. pag. 21. (8) Vid. ibid. Tab. XXX. pag. 24., & feq., & apud Maffeium Tab. CVIII. coi. 100. (9) Ibid. ClalT. III. Tab. XXXIV. pag. 28. (10) Ibid. Tab. XL. pag. 32. (11) Ibid. ClalT. IV. Tab. TX. pag. 53., apud Maffeium Tab. CIX. pag. 202., 8c apud Montfau- conium Antiq. explic. Tom. IV. Par. I. Tab. XIV. n. 2. pag. 2. (12)Ibid.ClalT.V.Tab.LXII.pag.$6.3 & apud Maffeium Tab. CV1I. pag. 99. (6) Vid. eamdem Epiftolam noftram in cit. Ephem. Flor.n.47.coi.741.3&feqq.3tumea,quae (13)Ibid.ClalT.VIII.Tab.LXXVII.pag.77* innuimus Tom. III. horum Monum. ClalT. II. Tab. XII. Fig. II. pag. 22. Exftant etiam De marmoreo fepulcrali Cinerario Ferufiae effoffo3 arcanis ethni¬ (14) Ibid. Tab. LXXXV. pag. 84. (15) Ibid. Tab. XCIII. pag. 92., & apud Maf¬ feium Tab. CIV. pag. 96. Notae funt Ficoronii ex- po«   XL la (0, ac truncus militis gladio cincti, galeamque pede dex- tero prementis W; tum Protomae Iovis Serapidis G) Sile¬ ni (P, Plotinae W, & L. Veri(6); infuper aenea capita Ne¬ ronis (7), & Treboniam Cg), lymplegma vel Ariae, & Poeti, vel Portiae, & Bruti (9), St animalium collectioni accenfiti Aries arae impolitus P°), Leo, St Aquila PO; praeterea ba- fes pompam Iliacam referentes ('V, & anaglypha Coniuges IfidifacrilicantesC'S), VeturiamalloquentemCoriolanumP4), natale Romuli, St Remi C‘j), & Nymphas fontium praeli- des (l6) exhibentia; ac tandem Cippi, Urnae, & Infcriptio- nes bene multae, quas fuis locis delignare fategimus C17). Cetera vero aliter diftracta, & praefertim Marci Aur. Anto¬ nini praetextati Protomen a Gavino Hamiltonio Anglo comparatam (,s) haud perfequi vacat, quum iam tantus Vatica¬ narum divitiarum fplendor in fui nos modo rapuerit admira¬ tionem. Quare li tantae rerum antiquarum fupcllectili ibi¬ demcoadtaeaddasceleberrima,iamtumibidemadfervata, marmoreaSignaiacentiaCleopatrae,liveNymphaeadfon¬ tem dormientis ('A, Nili C*°), St Tiberis amnium, tum cete- pofhdationes adverbiis Maffeium 3 & Montfauco- (ii) Leo3& Aquila defiderantur in noltra hac nium,quodhocSignumHadrianotribuerint. collectione. (1)Ibid.Claff.X.Tab.XCIX.pag.100.3& (12)Tom.III.Claff.IV.Tab.XXV.Fig.I. apudSponiumMifcell.erud.antiq.Se6t.IX.n.1. (2) Nunc reftauratur 3 ut in integrum Signum evadat. Quare mirum videri non debet apud nos defiderari. (3) Tom. II. Claff. I. Tab. I. Fig. II. pag. 3. (4) Ibid. Tab. VI. Fig. II. pag. 8. (5) Ibid. ClafT. III. Tab. XV. Fig. II. pag. 34. (6) Ibid. Tab. XXIV. Fig. I. pag. 40. (7) Ibid. Tab. XIII. Fig. II. pag. 32. (8) Ibid. Tab. XXXI. Fig. I. pag. 46. Vid. Epi- ftolae noltrae fragmentum in Ephem. Flor. 1771. n. 52. coi. 822. (9) Ibid. Claff. V. Tab. XXXIV. Fig. I. pag.48. (10) Ibid. ClafT. X. Tab. LXIX. pag. 92., & apudMontfauconiumAntiq.explic.Tom.II.Lib. III. Cap. I. n. 2. pag. 49. Tab. IX. n. 1. &II.pag.44. (13) Ibid. Tab. XXIV. pag. 41. (14) Ibid. Claff.VII. Tab.XXXVII.Fig.I. pag.7 r (15) Ibid. Tab. ead. Fig. II. pag. 73* f 16} Ibid. Claff.X.SeCt.I. Tab.LIII. Fig.I.pag.95*. (18) Vid. Tom. II. Claff. III. Tab. XXII. Fig. I. pag. 38. (19)Vid.Ioh.WinckelmanniumTraCtatuprac- liminariadMonumentaantiquaanccdotaCap.IV. pag. XC. Vol. I. (20) Vid. Epiftolam noltramin Ephemeridibus Jit- ter.Florent,anni1775".n.2.coi.22.3&feqq., ubi de huius Statuae reltauratione 3 & lingua per¬ peram crocodilo affi£ta.   XLI ra longe praeclariflima Apollinis Pythii, Laocoontis, Anti¬ noi, Herculis cum Aiace (0, Antinoi, & Veneris, truncus Herculeus, quod opus erat Apollonii Athenienfis, & Michae- lisAngeliBonarotiifpedaculum,actandemvasingenspor¬ phyreticum,larvasfcenicas, arasfacrificiales ab Agrippae Pantheo avedas, aliaque nonnulla, nae tu dixeris, erudite Ledor, praeftantiora quaeque artis miracula heic Graecae, & Roma¬ nae magnificentiae Genio templum parafTe, fibique aeternam afieruifle incolumitatem. Sed quid non infuper Iperandum aPIOVI.Pont.Opt.Max.,cuiusprovidentianuncregimur, & cuius dudu, confilioque, dum Aerario Pontificio praeeflet, tantumopusinchoatum,acperfectumeft?Ipfeenimlibera¬ lium artium amore incenfus iam tantum opus amplificandum regio plane animo, & magnifico fumptu fufcepit, iamque multa plane egregia antiquitatis cimelia, quae in lucem aufpi- cato nunc e terrae finu prodierunt, fedulo conquilivit, atque paravit,quibusauguftumhocMufarumdomiciliumprodigni¬ tate exornet. Huc nimirum confluet Fauni Signum celeberri¬ mum ex rubro Aegyptio marmore, Hermae Bacchandum, & Herculis lane elaboratiflimi, Antifthenis alter haud vulgaris, tumDomitiaeAuguftaenonobviaProtome,olimComitis lofephi Fedii deliciae, ac peritorum omnium admiratio. Huc item migrabit Mularum chorus, &. Graeciae fapientum Her¬ mae, ipforum nominibus*, & lentendis infcripti, aliique ve¬ terum tum Poetarum, tum Philofophorum plane fimiles, quos Tiburtinus ager nuper eduxit!2). Huc etiam procedet Alpafiae Herma alter hoc iplo anno detedus, aliaque e Ca- ftrinoviruderibusfimulerumpentiamonumentaG).Hucle reci- CO quae ex Winckelmannio adnotavimus mus Tom. II. ClafT. VII. Tab. LII.Fig. I. pag. 69. & ad Tom. II. CiaIT. III. Tab. XXV. Fig. I. pag. (3) Vide Epiftolas Caietani Torracae Centum- 41.,&adTom.III.Claff.V.Tab.XXXI.pag.60. cellenfisMediciclariflimirelatasinTom.III.An- (2)VideAnthologiamRomanamTom.I.num. thologiaeRomanaen.XXXIII.p.257.3n.XXXVIIf. XXXIV. pag. 269.3 quaeque nos etiam adnotavi- pag. 297.3 n. XLI. pag. J27., & n. LII. pag. 409. f Vid.   xlii recipient & vas ex bafalte clegantiiTimum in Quirinali effof- fum, & alterum ex alabaftro pretiofiffimum ad Augufti Mau- foleum recens erutum, ceterique ibidem detecti & Livillae Germanici Caefaris filiae (0, & Tiberii Caefaris Drufi Cae¬ laris filii (*), & Caii Caefaris., Tiberiique Caefaris, tum & alterius anonymi, Germanici Caelaris filiorum emortuales ti¬ tuli, & Auguftae domus nova indubia monumenta G). Huc infuper adducentur quatuor lymplegmata, Herculis facinora exprimentia, nempe Geryonem Hilpaniae Regem tricorpo- reum ab ipfo bello fuperatum, Diomedem Thracem quadrigis devictum, tripodem ab Apollinis Sacerdotis manibus vi ere¬ ptum,ScCerberumcanemtricipitemtriplicicatenaadfuperos retractum, quae nimirum inter Oftiae rudera non ita pridem reperta funt. Huc tandem accedet & Protome Perufina Anto¬ nini Caracallae W, & altera Lavinatium Sabinae Hadriani uxo¬ ris, & Anaglyphum bubulum Ocriculanum, & Picena Falarien- fa Monumenta W, & Mufivum Tulculanum Medulae caput referens (*), & alia fexcenta tum ad Hortos Carpentes, tum in Quirinali, tum ad Curiam Innocentianam, tum alibi de¬ tecta,quibusenarrandisdiemperderem.Necdeeruntaltero aeneorum monumentorum Mufco perrara, atque felecta ci- melia,praefertimqueeffolfaexactoannoadAventinumClu- nienfis Senatus confulti aenea tabula, Graecaque numifinata anecdota Tigianis Armeniae Regis cum Eratonis fororis vul¬ tu V), Octaviae Augufii fororis cum anadyomenes Veneris ty- Vid. 8c quae nos adnotavimus noftro Tom. III. ClalT. X. Sefl. XIII. n. 66. pag. 171. (0 Vide Epift. anonymatn CI. Viri Ioh. Ludov. Blanconii} Saxonici Ele&oris a confiliis, &. Romae Oratoris laud. Tom. III. Anthol. Rom. n. LI. p. 401. (2)Vid.EpiftolamalteramciufdemTom.IV. Anthol. Rom. n. I. pag. 2. (S) Vid. Epift. tertiam eiufdem Joc. cit. n.II. p.9. (4) Vid. quae nos adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXX. Fig. II. pag. 46. po (S) Vide Opufculum 3cui titulus:Suile Citta Pi¬ cene Falera 3 e Tignio Dijjertazione epijlolare delP Abute G.ufeppe Colucci ai Signori di Falerone. Fermo 1777. in S. /w*Cap.IV.pag.jS. (7) Vid. Tacitum Annal. Lib. II. initio. Part anter. legitur: BAdAETC. BAC1AE.QN. TITPANHC averfa vero parte: EPATft. BACIAEI2C. T/TPA- NOT.AaEA3>H.   XLIII po CO, Silani Syriae Praefidis poft Quirinum, ubi infcripta an¬ ni nota novum ad coniebtandum aerae Chriftianae principium lumen afferret (2), Titi,& Domitiani cum peculiari Laodicen- fium epocha, Philippi lenioris, iuniorifque in Stecloris urbe pcrcufla, cetera huiulmodi Graecis Coloniis accenlenda. Sed quo me abripit tantarum lautitiarum ingens prorfus, ac mira congeries?Quapropteriamediverticuloinviam. XII1. Singula hulquedum expofiuimus, quae ad Hortos Caelimontanos Matthaeiorum pertinent; nec quidem de Hor¬ tis Palatinis, quae ad ipfos olirn fpefitabant, ac pollea Spa- diae,deinMagnaniaegentisiuribuscefferunt,iuvatquid¬ quamattingereG).NuncverodeeorumAedibusurbanis verba nobis facienda funt. Huius gentis maiores avitas aedes habuerunt in regione Tranfliberina ad pontem Caeftium, qui Infulam Lycaoniam Ianiculo iungit, quae adhuc exftant, qui- bulquefidemconciliantgentilitiafiemmatahincin.deappidta, &iplapontiscufiodiaMatthaeiisDucibusetiamnumconcredi¬ ta,PontificiaSedevacante.Multisinlcriptionibusornatas fiuiIIehasaedes,patetpraelertimexGruterio(4),RcinefioG), Seldenio G), & Kirchmannio(?), qui earum nonnullas, ad¬ dita huius loci defignatione, adducunt. Excitatis aedibus ur¬ banis, Tranftiberinas deferuiffe verofimile eft. Certe quidem tam laxo lolo potiti funt, ut Infulam condiderint, quae ex variis, iifque amplis, & elegantibus domibus coalefcit. De iis fingillatim dicemus, at primum vetera aedificia, quae hunc locumtenuerunt,ceteralqueviciniasperpendemus.Circus Flaminius quidem in regione Urbis nona litus praelertim de¬ (0 Cum epigraphe OkTAOTIA; & averfa par¬ te KftlnN. (2) Cum epigraphe: ANTIOXEliN.Enr. SIAA- NOY. AM. (3) Venuti Roma moderna Tom. 11. pag. 395. (4) Iufcript. Romati. pag. 22. n. 3. > Sc 6.3 pag. fieri- 31. n. 11., pag. 32. n. 12., & pag. 86. n.4., 8c 5. (5) Syntagma Infer, antiquar. Cl. IX. n. 67. pag. SII'j & Claff.XI.n. 105., &feqq.pag.645; (6) De Diis Syris Syntagm. II. Cap. I. pag. 220. (7) De funeribus Romanor. Lib. III. pag. 355'. edit. Lugd. Batav. apud Hackios 1672. f2   XLIV fcribendus venit, quem, fi Feftum, Liviique epitomato- rem (') audiamus, exftruxit Flaminius Cenfor, qui etiam viam Flaminiam Roma Ariminum ufque, five potius ad Rubico¬ nem amnem munivit, vel Flaminius alter antiquior, Plutar- chotefteC),quipopuloRomanocampumlegavitprocer¬ taminibus equeftribus obeundis. Celebratos hoc loco etiam ludos Tauricos Diis inferis facros, vel ludos Apollinares poli: Cannenfem cladem inftitutos vulgo fertur C), ac nundinas quinetiam habitas teftatur Tullius (4). Diu huius Circi reli¬ quiae confervatae funt, & multae adhuc exftant. Flabetur Bulla Caeleftini III. Rom. Pont., qua enumerantur, & con¬ firmantur bona Ecclcfiarum Sanctae Mariae Domnae Roiae, &. S. Laurentii in Caltello aureo, quaeque data elt Laterani annocidcxck.a.d.IV.nonasOctobrisindictioneX.,atque ibidem ita deferibuntur Circi Flaminii veftigia tunc exfilten- tia: Idem Cajiellum aureum cum utilitatibus fuis, videlicet parietibus altis, & antiquis in circuitu pojitis, cum domibus, ocaminatis,eifdemqueparietibusdeforisundiquecopulatis-. Hortum, qui ejl mxta idem Cajiellum cum utilibus fuis, & fuperioribus Criptarum; Populum foras portam iam difti Ca- ficlli a parte Campitelli, & regionis Sanfti Angeli ufque in Burgum61.Cajiellumenimaureummedioaevo,&Pala¬ tium quoque dictus fuit Circus Flaminius, ut cetera etiam vetcia ingentia aedificia a rudioribus infimae latinitatis feri- ptonbus vocata laepe fuerunt. Hinc Ecclefiae Sanfti Lau¬ rentii, quae in eius ambitu comprehendebatur, nomen in ajidlo aureo, tum etiam in Palatinis, corrupte vero Palla- Clm\ ac tandem TM claifura adhaefit, ut inter alios animad¬ vertit Ioh. Vignolius (s). Hoc etiam adnotavit Iacobus Gri- mal- (0 Lib. X. (2) Froblem. 6j. ad A“k• '4' Lib' ' (S) Liv. XXX. 38. Adnot. 5. ad S. Leonis III. Tom. II. Libri Pontificalis.   XLV maldiusO), qui agens de Monafterio S. Laurentii in Palati¬ nis, dicebatur, inquit, in Palatinis propter Circum (Flami¬ nium),quemignarePalatiumvocabant.ItaCircumNero¬ nisPalatiumappellant,&MontemS.Alicbaelishacdecauf- fa Palatiolum. De Ecclelia S. Michaelis in Palatiolo vide FTancifcumM.TurrigiumC)latiusdifferentem.Etiamapud Anaftafium Bibliothecarium in vita S. Petri Palatium Nero- nianum memoratur; quemadmodum in Codice Vaticano <h), ubi quaedam ad Balilicam Sanctorum XII. Apoltolorum fpe- ctantia habentur, Forum Traianum Traiani Palatium dici¬ tur, ac alibi Palatium Antonianum dictae etiam funt Ther¬ mae Caracallae. Quare Templum noftrum S. Lurentii in Pa¬ latinis, ac monafterium noviter reltauravit Hadrianus I., & coniunxitcumaliomonafterioS.Stephaniiuxtaipfumpofi- to, & in Baganda dicto, ibique Monachos ad pfallendum in tituloSanbtiMarciordinavit(4).Necaliudinfuper,quam noftrum putandum forte eft Templum S. Laurentii Palatini, cuius mentio eft in Bulla S. Leonis IX. (V, licet Bullarii Vaticani editores V) ad S. Laurentii in Pifcibus revocaverint, ac de eo dubius haeferit Eques Francifcus Victorius, dum IX. Templa S. Laurentio facra in Urbe recenferetO. Heic etiam fitum erat Templum S. Mariae Domnae Rofae, cuius mentio fupra occurrit, & habetur infuper in Ordine Romano, quod¬ que cum ceteris in conftrubtione Monafterii S. Catharinae de Funariis C) dirutum eft. Andreas Fulvius (?) aetate fua, Clemente fcilicet VII. regnante, exftitiffe etiamnum huius Circi formam, & veterum fedilium figna tradit, atque in (0 In Lib. Mf. de Canonicis Bajtlicae S. Petri Cap. II. (2) Bella Cbiefa di S. Micbele Arcbangelo} e di San Magno Cap. VII. pag. 20. (3) Sub n. 5560. (4) Vid. Florav. Martinellium Roma ex etbnica eius faera pag. 364. (5) Tom. I. Bullar. Baftl. Vatican. pag. 26. (6) Ibid. adnot. (c). (7) Differt. Pbilolog. pag. 85. (8) Ibid. pag. 371., & 374. ($0 Vrbis antiquit. Vid. infer, p. XLVIII. adn. 2.   XLVI eius cavea erectum laudatum Templum S. Catharinae cogno¬ mento dc Funariis, quod ibi ob loci commoditatem, & a- reae longitudinem funes intorqueri confueverint. Eiufdem Circi formam faeculo XVI. depictam, quam tamen multa ex parteingeniumfupplcverit,affertMontfauconius(0exLau¬ ro. 1orro iuxta Fulvii, aliorumque fententiam Circi latitu¬ do fpatium occupavit, quod inter officinas, five apothecas oblcuras, forumque Iudaeorum eft intcriectum. Huiufmodi quidem apothecae olirn iunctae erant non Circo folum Fla¬ minio, fed aliis etiam Circis. Numularium, nummorum fci- licetpermutatorem,veleorumdemaeffimatorem,dcCirco FlaminiohabesinveteriinferiptioneaVignolioadductaW} VitriofficinaminibietiamfuilfedocetMartialis(?)dicens: Accipe dc Circo pocula Flaminio. Habetur Pomarius dc Circo Alaximo ante pulvinar apud Rei- nefiumO,&Sponium0),quinempeinternegotiantesmi¬ nutos, & faTOTTCAas olera vendebat, non autem viridaria cole¬ bat, ut placuit Sponio. Siquidem faepe occurrit in veterum inferiptionibus delignatus locus, ubi opifices officinas fuas aperiebant, ut in noftra Infcriptionum fylloge obfervaVi- mus V). Ad eas autem officinas, cum Card. Dominicus Gy- mnafius exacto faeculo Templum S. Luciae a fundamentis una cum adiunctis aedibus, & monafferio renovaret, efFoffae funt ingentes columnarum fpirae, & fcapi e Tiburtino lapide, ac quadratae eximiae magnitudinis. Quare lutnmus Circus in he- micyclumcurvabaturadplateamMarganamvulgodictamnon longe a Capitolio, ac flectebatur ad Aedem S. Angeli in Fo¬ ro Pifcario; eius autem ima pars, ubi Circi carceres habe- (0 exf/ic. Tom. III. Par. II. Lib. III. Cip. III. Tab. CLIX. pag. 27S. (2) Infcript.felecl.pag.141.poftDiflertat.de Columna I/np. Antonini Pii. ($) Epigraru. 75. Lib. XII. ban- (4) Syntagm. Infcript. antiq. CluIT. XI. n. 7^. C5) MifcelL erud. antiq. Se61. VI. pag. 230. (6) Tom. III. ClaflT. X. Secl. VI. n. 11. pag. 119.3 & leq.   XLVII bantur, pertingebat ad Aedem S. Nicolai ad Calcarias didi, & ad palatium Ducum Caefariniorum. Certe quidem Templum ApollinisCO,quodaliiMulis,velHerculiCudodi(aerumdi¬ xerunt, Circo Flaminio adhaerebat; nec aliud fpatium obti- nuifle, quam quod nunc tenet Aedes S. Nicolai, & adiun- 6lum Collegium Clericorum Rcg. de Somafcha, docent ve- fligia fphaericae parietis, cui adneduntur Ionicae columnae incendio corruptae, & ex veteri marmorato concinne refe- dae, quorum lingula adhuc in Cavaedio eiuldem Collegii confpicua lunt. De Aede altera Neptuno dicata, quae erat 'in Circo Flaminio, & cuius Aedituus erat Abafcantius Aug. Lib. (2), cum nullae fint reliquiae praeter antiquae inlcriptio- nismemoriam,haudpraedatpluribusdilferere.Ceterum condat, in ea fuiffie multa tum Signa, tum Anaglypha, quq- rum nonnulla Neptunum, Thetim, Achillem, Nymphafque marinas delphinis vedas referebant, & tamquam Scopae o- pera praedicabantur (s). Anaglypha quidem nonnulla affixa etiam nunc funt parietibus Aedium Matthaeiarum, Nymphas marinas d), & Pelei, & Thetidis nuptias (s) exprimentia, quae forte ad hoc Templum pertinuerunt, & in hac vicinia erui potuerunt. In iplo Circo Flaminio exditide etiam Si¬ gnum Achillis, Cephidbdori opus, tradit Plinius (6): verum hoc, ceteraque huiulmodi vel abfumplit temporum iniuria, veladhuccelatinvidatellus.QuidmemoreminfuperCirco FlaminiopropinquasAedesMartis,Vulcani,Bellonae,Ca- doris, Pietatis, ipdufque Iovis Statoris, quas Onuphrius Pan- vinius(7)dudiolerecenfuit?QuapropterdedgnataCirciFla¬ (1) Le antichita Romane 3 opera di Glo. Rati- Jla Piraneft; Roma 1756. Tom. I. n. 94. pag. ig. (2) Infcriptionem} quae exdabat in pratis Quin- £tiisinvineaquadam3refertOnuphriusPanvi- nius de Ludis Circenfibus Cap. XVIII. 3 ubi de Circo Flaminio, pag. igg. edit. Parif. ann. 1601. & ex eo etiam ceteri. * minii (3) Plin. JVatural. Hift. Lib. XXXVI. Cap. V. (4) Vid. Tom. III. Claffi II. Tab. XII. Fig. I. pag. 21., & Tab. ead. Fig. II. pag. 22. (5) Ibid.Claff.VIII.Tab.XXXII.pag.61.3 & Tab. XXXIII. pag. 64. (6) Loc. cit. (7) Loc. cit.   XLVIII minii longitudine, a platea nempe Margana ad Aedes Cac- farinias, ccterifque eidem adiacentibus aedificiis, apparet Ae¬ des Matthaeianas id loci nunc tenere, quod media fere pars Circi olim tenere debuerat. Tertis quidem cft Pyrrhus Ligo- rius (0, atque etiam laudatus Panvinius (2), paucos annos an¬ te harum Aedium conrtructionem, multam Circi partem ad¬ huc integram exftitiffe, praefertim eo loci, ubi etiamnum e- rigiturdomusaLudovicoMatthaeioexcitata,dequainfe¬ riuslatiusdicendumerit;cumibidem,utroqueetiamferipto- re afferente, multa marmora effoffa fuerint, ac potiflimum Anaglyphum Circenfibus ludis infignitum, quod non aliud, quam noftrum fuo loco adduclum (s), exiftimamus. Nec il¬ ludpraetereunduminCavaedioMatthaeianaenortraedomus parietibus affixos cerni quatuor arcus femicirculares, foliis, rolifque diftinctos, quorum duo integri adhuc funt, duo vero dimidia fere parte fccti (fragmentis hinc inde fparfis) quof- que fupra Circi Flaminii carccrum fores olim exftitifie exifti- mat CO Librode’CerchirComtnciavaqueflo musMarganiae,ubiinhemicycliformamdefne¬ (il Flaminio ) dalla piazza de' Morgani3 e finiva appunto al fonte di Calcaram, abbracciando tut- tclecafede'Mattel3eflendendofifinoalianuo- *i'a •via Capitolina 3 ripigliando in tutto qtiel giro j/joltealtrecafe.Daqueflolatode'MattelilCir¬ copoebiannifonoeraingranparte inpiedi;la parte piu intiera flava nel fto della cafa di Lo- dovicoMattel3ilqualehacavatounaquantita di tr avertini dei Circo in qttel luogo 3 e tr ovatovi tPali i Ce ui fregio in u» ran pt ina- gliato de' putti 3 che fopra de' carri facevano i giuocbi Circenft, e nella cantitia trovaronfi altri travertim 3 e videft alquauto dei canale 3 per do- ve pajfava /'aequa, la quale ora chiamap it fon¬ te di Calcaram, forfe per la calce, che hi fi macerava. (z) Loc. cit. pag. 129: Porta Carmentalis, fe¬ cundo murorum Vrbis ambita, quos T. Tatias eam Romulo regnans exfiruxit, radicibus Capitolii condita fuit, a qua llaud procul Circus Flaminius erat, ad eam partem vergens, ubi nunc efi Vrbs Roma. Cusus longitudo protendebatur ab area do¬ bat 3 uf'que ad novam viam Capitolinam 3 ubi car¬ ceres>& XIII. ojlia erant: latitudo vero fuit ab AedibusLudoviciMatthaeittfqueadCalcariaefon- tern, ubi efl ojfctna tin:loris ambiens eo circuitu apothecasobfcurasMatthaeiorum3&multasdiver- forumprivatasdomus.CuiusfundamentiseTibur¬ tinolapide,quaeMatthaeiorum,&vicinisaedi¬ busfuppofitafunt,antealiquotanniserutis3mar¬ morea tabula pueros currilia ludrica agitantes in- cifos continens reperta fuit. Adhuc vero exflat an¬ tiquus Circi euripus limpidijftmus tincioris ofpci- nam praeterfluens 3 qui fons Calcariae a vicinis (quae ibidem coquebantur calcis fornacibus ) di¬ citur. Eius Circi arena lateribus minutijpmis tranf- verfe flratis opus tefjellatum fuprapofitum habebat. Vide&Fulvium l.ib.IV. cap.deCircoFlaminio, ubi ait: Longitudo eius Circi ab Aedibus nunc D- PetriMargani3(snS.SalvatoreinPenjiliufque adAedesD.LudoviciMatthaeiiuxtaCalcara- num, ubi caput Circi. (3) Tom. III. CiaIT. VIII. Tab. XLVII. Fig. II pag. 87.   XLIX mat Carolus Blanconius liberalium artium cultor eximius, idemque fcientiffimus, & Ludovici Saxonicae Aulae a confiliis, & komae Oratoris, a quo Circi Caracallae formam, & univerfam illuftrationem praeflolamur, meritiflimus frater; ratus fcilicet hoc loci, vel non longe effodi eofdem iam potuif fe, & dein fedem hanc, atque ufum nactos fuiffe. Quae in- fuper ad hunc Circum flmul pertineat, reflat adhuc decur¬ rens aquae vena, quae habetur in crypta vinaria cuiufdam domus Matthaeianis Aedibus propinquae (0. Abundare enim aquae copia Circum opus erat, fi XXXVI. crocodilorum lpeftaculum ibidem edidit Auguflus (fi. Nec nifi ad Cir¬ cumfpeffaffeverofimileeflaliquamquoqueaquaepartem, quae etiamnum decurrit iuxta proximam, cui ab ulmo no¬ men efl, cloacam. XIV. Iam monuimus Matthaeiorum Infulam in plures difpefci Aedes, quae tamen ad unam, eamdemque gentem olim pertinebant. Antiquiores eae effe videntur, quae me¬ ridionalem plagam, & plateam tefludinum, quod eae fontis crateri infculptae, refpiciunt; in qua nimirum aquae Salo- niae, Gregorio XIII. Romano Pontifice, in Urbem Mutii Matthaeiicurisdedubtaefonscernitur,quatuorvafibus,con- chilioruminflar,exAfricanomarmore,totidemqueaeneis delphinorum fimulacris a Thadaeo Landinio Florentino an¬ nocioidlxxxv. conflatisinfigniterornatus(fi.Haequidem AedesaubloremhabentIacobumMatthaeium,quiproiifdem condendis architectonica opera ufius efl Nanni Bigii, earutn- que parietes diftingui voluit Thadaei Zuccherii pibturis, qui¬ busFuriiCamillifacinoraexprimebantur,licetquaeinfron¬ te erant, obdubta calce paucis ab hinc annis inepte oblittera¬ tae (1)Vid.VenutiumanticaRomaPar.II.Cap. pograpbiaLib.VII.pag.161.ater.edit.Venet. III. pag. 87. 1588., & Andream Fulvium Anticbita di Roma (2) Dio Lib. LV. Lib. V. pag. g21. a ter. Venezia 1588. ($) Vid. Barthol. Marlianium Vrhis Romae To-   L tae iam fuerint, iis, quae funt ad latus, dumtaxat referva- tis. Duo etiam interiora cubicula eiufdem pennicillo exorna¬ ta infuper fuerunt. Ante Templum SS. Valentino, & Seba- ftiano dicatum furgunt Aedes, quas Iacobi Barotii a Vignola opera condidit LVD.MATTHAEIVS. PETR ANT. F1LIVS. LVD. NEPOS ut supra fores flat epigraphe conditorem ciens, quaeque ad Matthaeios Paganicae Duces iam fpeclabant, multifque ve¬ terum monumentis inftru&ae erant. Nec alia, quam quae heic fervabantur Signa, cenfenda funt, quae fub Caefaris AuguftiO), & Aurelii Caefaris (2) nomine in Aedibus Ludovi- ciMatthaeiihaberiait,acetiamediditlacobusMarcuccius; quorum alterum habetur etiam inter Icones a Heronymo Fran- zinio editas (A. Hifce Aedibus aliae adhaerent prope ulmi cloa¬ cam, quae Bartholomaeum Brecciolium architectum agnofcunt. Hincfequunturaliaea LudovicoMatthaeio(fi PhilippoTi¬ tio credimus ) aedificatae anno cididlxiv. ante Divae Luciae Templum,fedabAlexandroMatthaeioexftructac,fiearum foribus infcriptum lemma attendamus, ut revera attendi de¬ bet (A, Bartholomaeo Amannatio, ut nonnullis placet, vel Claudio Lippio, ut alii cenfent, formam aedificii praebente. Earum interiora cubicula Francifci Caftcllii picturis diitin- guuntur. Has vero nunc tenent Caietani Duces, qui fibi iplis compararunt, quemadmodum & Nigronios, & Duratios, & Serbellonios dominos pro divertis temporibus eaedem an¬ tea agnoverant W. (0 Antiquar. Statuar. Vrbis Romae Libri IIT. Romae 1623. j edidit lacobus Marchuccius in fol. Lib. III. Tab. 93. (2) Ibid. Tab. 94. (3) Icones Statuar, antiquar. Vrbis Romae Hie- ronymi Franzini Bibliopolae ad* Signum Fontis 0- pera. Romae 15S9. in 12. XV. Ve- (4) Q uare h°c Joco corre&a volumus} quae a Titio decepti temere diximus Tom. III. CIa(T. VIII. Tab. XLVII. Fig. I. pag. 87. (5) Vid. Defcrizione delle pitture, fculture 3 e arcbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dalPAbate Filippo Titi &c. pag. 86. fino a 90.5 tum etiam Itinerario ijlruttiuo divifoinot- to   LI XV. Verum non id nos nunc agimus, ut has veluti appendices Aedium Matthaeiarum defcribamus; Potiori namque iure ad fe nos avocant, quae R magnificentiores, & fplendidiores firnt iuxta dextrum latus Ecclefiae, & Mo- naflerii S. Catharinae de Funariis, quaeque Afdrubalem Mat- thaeium Cyriaci fratrem auCtorem habent. Id docet infcri- ptio in cavaedio exfiftens, quae ita fe habet: ASDRVBAL.MATTHAEIVS.MARCHIO.IOVII VETERVM.SIGNIS.TAMQVAM.SPOLIIS EX. ANTIQVITATE.OMNIVM.VICTRICE.DETRACTIS DOMVM. ORNAVIT. ET. PRISCAE. VIRTVTIS. INCITAM EN TVM POSTERIS.RELIQVIT. ANNO.DOMINI.cioiacxvi Carolus Madernius architectonicum opus rexit, & interiora cubiculafuispennicillisexornarunt Francifcus Albanius, Iohannes Lanfranchius, & Dominicus Zampierius. Pictae vero tabulae etiam exftant hinc inde difpofitae, quae Cafparis Caelii, Chriftophori Roncallii, Iacobi Trigae, Caroli Sara- cenii, Hieronymi Mutianii, Michaelis Angeli Morigii, Gui- donis Renii, Ioh. Francifci Barbierii, Petri Paulli Gobbii, Petri Berettinii, Michaelis Angeli Bonarotii, Valentini Galli, aliorumque opera praedicantur. Alt nulla res & celebriores, &praeftantioresfecithasAedes,quamveterummonumen¬ torum undique difperforum praeclara congeries. In cavae¬ dionamque,fcalis,acperiltylioligna,protomae,anagly¬ pha, cippi, aliaque huiufmodi occurrunt, quae fummatim innuere fat erit. Cavaedium habet praefertim Signa Apolli¬ nis Sagittarii, & Herculis, tum Romanorum Impp. Iulii Cae- faris,Caligulae,Claudii,Neronis,Domitiani,aliaqueGla¬ diatorum. Inter Anaglypha fpectandum praecipue venit fa- crificium Capitolinum, & Militum Praetorianorum feditio. Hinc to Jiazioni, o olornate per ritrovare con facilita tna &c. di Giufeppe Vafi n. 195. pag. 198. tutte le anticbe 3 e moderne magnificenze di Ro- §2   LII Hinc fi exitum quaeras verfus Divae Catharinae Templum, habebis Nymphas marinas a delphinis, ac tritonibus ve- btas, Bacchi, & Ariadnae nuptias, & Mulas defundo Poe¬ tae famulantes, quas marmore infculptas cernas. Si vero me¬ ridiem verfus egredi lubeat, occurrent Amores Deorum vi¬ ctores, Polyphemus, Se Galathea, Sphinx fcopulo iniidens, & Oedipum aenigma folventem aufcultans (0, tum Bacchi, & Herculis uterque thronus marmoreis tabulis expreffi. Si ad porticumretrocedas,&ibidemconditas,&DeumMithram, & Hylam a Nymphis raptum anaglyptico opere exhiberi in¬ tueberis. Si fcalas albendas, Bacchans occurret, dein Fortu¬ na, tum Iuppiter Signis expreffi; hinc parietes ornatos con- fpicies Anaglyphis referentibus utramque venationem Com¬ modi, & Philippi Impp., ac Pelei, & Thetidis nuptias; ac tandem ipfos fcalarum gradus identidem di/tinctos offendes pulvinaribus, quae quaternario numero inventa ad Curiam Hoftiliam & fuperius, & fuo loco monuimus. lam ventum ad periftylium, quod aulam refpicit, atque heic pedem figens fuper aulae poftes cerne viri incogniti Protomem, tum leor- fim Aefculapii Signum ad laevam, quod medium habent co¬ lumnaeduaemarmoreae,quibusCybelisduoSigillafuper- ftant, tum aliae fimiles e regione aditant duo pariter Cybelis Sigillafuftinentes.Hincduaealiaecolumnaeadpoftesdif- pofitae, totidemque contra itantes capitulis caniftriformibus initructae; tum iacens inferne ante Aefculapii Signum Sar¬ cophagus vindemiali opere infignitus, ac muris appicta Ana- glypha, quae referunt tabulam Heliacam, Priami occifionem, & lacrificium taurile lovi, & quatuor anni tempeftates. Ex hoc loco Ipectare licet cavaedii parietibus inhaerentia hinc inde cetera praeclara Anaglypha, quae nimirum rurfus ex- hi- (0 Hoc Anaglyphum ab operis noftris omiflum eft, caruitque aeneo typo j quo ipfum Le&oribus nothis exhiberemus.   LIII hibentPelei,&Thetidisnuptias,&Proferpinaeraptum, tum Venerem concha veftam, pompam Iliacam, aliam Bachicam,Orpheumcantumulcentemanimantia,Meleagri, & Atalantae fabulam, Bacchi, & Ariadnae nuptias, facrifi- cium Iovi, & lunoni, Antilochum Patrocli mortem Achilli nunciantem,tabulamvotivamAefculapio,Hygiae,Fortunae, hx. Baccho, aliaque bene multa, quibus Icientes parcimus. Quare etiam memorare lingillatim negligemus plures praecipue cippos, aliaque marmorea monumenta, quae in ambulacro fubdiali, quo cavaedium veluti bipartitum cernitur, adlervan- tur.Aefculapii,&Hygiae,aliaqueiacentiaSileni,Flumi¬ nis,acSomniSignaheicIparlimdifpolitatantumindicafie litfatis.Sicelebrem, aclingularemprorfus M. Tullii Ciceronis Protomen innuerimus in Aedium pinacotheca exlillen- tem,nileritreliqui,quodexponamus;liquideminteriora cubiculaomnicarentantiquitatisornamento. XVI.Nequeetiamhaecipfatamegregiavetullatismo¬ numenta&illuftratoribus,&laudatoribuscaruerunt.Videas liquidem praeftantiora Anaglypha adducta a Sponio, Mont- fauconio,Bellorio,Aleandrio,Spenceio,Winckelmannio, aliilque; multalque veteres Inlcriptiones fere ab iis omnibus editas, qui eas in unum collegerunt, quolque fuperius cita¬ vimus, cum de Hortorum Caeliorum monumentis fermonem haberemus. Nec tacuerunt exteri Scriptores, noltrique etiam Topographi, praefertimque Ficoronius (0, Venutius 0>, Va- lius (s), & Titius (4) coadtam heic tantam & monumentorum, & elegantiarum congeriem.Atdelideranduminfuper erat, has Aedes, utpote quae 1'eorlim ab Hortis Muleum re¬ ferantlocupletiffimum,illuftratore,actantaefupelleftilisedi¬ tore haud carere. Iam porro hanc lortem tulerant & lulti- (0 Lefingolarita diRoma moderna Cap.VILp.65. (3) Loc. cit. n. 193. pag. 198. (2) Roma moderna Tom. II. pag. 358. (4) Loc. cit. pag. 86., e 461. nia-   LIV nianearum Aedium Tablinum (0, & Mufeum gentis Odefcal- chiae (*), & Antiquitates, ac ornamenta alia Aedium Barberi- niarum(s),necqualemcumqueetiamdefideraveratdefcri- ptionem ipfum Strotianae domus Mufeum U); quibus nunc baudinferioreseruntAedesMatthaeianae,eilqueadnexa venerandae vetuffatis cimelia. XVII. Aff utinam & Horti, & Aedes Matthaeiorum, eifque adiuncta monumenta eum nacla fuiffent illuftratorem, & editorem, qui eorumdem praedandae, ac dignitati par eflet. Si exiguum quidem ingenium nofixum, cui eadem concredita, perpendatur, dolendum inprimis elt eorumdem exornationem, promulgationemque nobis potiffimum obtigifie, tumineaincidifle tempora, inquibus variisdidrahebamur itudiis, & occupationibus longe quidem inter fe diflitis, ut edita interim per nos opera latis offendunt. His acceffe- runt multarum morarum interiecfa impedimenta, obquaenobis in medio veluti curfu didentis tum mentis alacritas, tum piopofiti noflri unitas, quae ab affdua fyffematis, & metho¬ diiecoidatione,&exfecutionependet,identidemminui, tuibaiiquevidebatur.FluxeruntiamXlf., &ampliusanni, ex quibus hanc provinciam lufcepimus, quam quidem per hoc tempus tot vicibus & affumpfimus, & intermifimus, ut faepeiamexantlatoslaboresinffaurare,&.multosmoxinir¬ ritum ceffuros abfumere cogeremur. Non hoc tamen noffra culpa factum quis credat, quibus operis ardor, & fedulitas (0 Galleria Giufliniaua dei Marcbefe Vincett- z° GiuftMani Par. I. Tavole CL1I., e Par. II. Taveh CLXV'11. iSji. infol. (2)M armi, Statue, Carnei, ed altro efflenti ”'&n Appartamenti, e Galleria delPEccmo Sig. D. Livio Odefcalcbi Daca di Bracciano, Nipote d’lnmcenzo PP. XI. in fol.,70z, (Trafponati gran parte in Aranquez ). Hinc prodiit Mufeum Odefcalcbum,fveThefaurusantiquarumGemma¬ rum 6-c. Accejferunt aerea Deorum, ac Dearum fit idola3 marmorea item anaglypha, mouumentaque alia plura &c. (Illuftratore Henrico BrulaeiOj & Ni- °olao Galeottio) Tom. II. Romae 1751. in fol. (3) Dominici Panaroli Mufeum Rarberinum. Ro¬ mae 1656. in 4. Hieronymi Tetii Aedes Rarberi- nae ad Quirinalem. Romae typis Mafcardi 1642. in fol. A pag. 197. incipit recenfio veterum Pro- tomarum, & Signorum ufqne ad pag. 220. (4) Defcrizionc dei Mufeo Strozzi 3 di Gio. M. Crefcimbeni3fraleProfedegliArcadi.   LV fit maxime ia deliciis, quofque properatio ad finem tam¬ quam ex naturae incitamento urgeat vel in ipfa rerum au- fpicatione.Nonhinctamenexcufationempeterenobismens eft aut ofcitantiae, aut negligentiae noftrae; fied id potifli- mum nunc monitum voluimus, ut diverforum temporum, quibus noftrae per univerfum opus difleminatae aflertiones refpondent,quaeomninoneceflariaeftet,ratiohaberetur• Quare Lebtorum noftrorum humanitate confifi non aliud nunc exponerefatagemus,quamtotiusnoftrioperistexturam,vel profpectum, quem quidem paucis expediemus. XVIII. Illuftrandae ingenti huic veterum monumento¬ rum colledtioni manum iam admoverat Rodulphinus Venu- tius Patritius, &. Academicus Etrufcus Cortonenlis, Nicolai Marcelli Marchionis, & Philippi Praepofiti Liburnenfis Vi¬ rorumCll.frater,BenvenutiIofephiMarchionis,acubiculo Petri Leopoldi Magni Ducis Etruriae, Socii, & Amici noftriobfuamvirtutem,acfuavitatemfpectatiliimipatruus, Romanarum antiquitatum Praefes, ac Vir denique multis e- ruditis,doctitqueeditisVoluminibuslongenotiftimus.At vix opus hoc aggreftus fuerat, cum ecce mors ipfum peremit a.d.III.Kal.Aprilisannicididcclxiii.,necultraprimiVo¬ luminis Tabularum, quae Statuas comprehendunt, illuftrationem procellit. Fadtum interim eft, ut onus in nos conla¬ tum fuerit adornandae quartae Bellorianae editionis Vejiigii veteris Romae, & fex Tabularum anecdotarum elaborandae Appendicis (0; quae licet ab imperita, ac iuvenili prorfus manu profectae tunc forent, cum tamen aliquod approba¬ tionis fuffragium a doctis viris obtinuiftent, in caufla fuerunt, cur oculi in nos conficerentur, & digni, qui in Venutiani ope- (i) Haec omnia paraverat etiam ante nos Ioh. Bapt. Piranefius initio Tom. I. Antiq. Roman. uf- que ab anno 1756., fed ut Opus omne abfolveret, & una ederet univerfum, priorumVoluminum pu- blicationein retardavit, & noftrae editioni tempo- ris principatum reliquit.   LVI operiscomplementumfuccederemus,infuperhaberemur. Qual'e ipiius apographum, quod & emandatum, & aliqua e- tiam fui parte reformatum fuerat a Contuccio, olim Kircheriani Mufei Praefecto, & deletae Loyolitarum Societatis Alumno, mox vita functo, traditum nobis fuit, quod antequam iterum expendei emus, umveilos archetypos monumentorum, quae tum in Hortis Caelimontanis, tum in Aedibus urbanis iVlat- thaeioi um adfervabantur, fingillatim invifendos, ac pene con¬ trectandosanobiseflecenfuimus.Verumutideafedulitate, acfeiefecuiitateabfolveremus,quaenosvelabofcitantia,vel ab ingenii licentia immunes faceret, focios nobis adiunximus Ioh. Baptiflam Vicecomitem Romanarum Antiquitatum Prae- hdem meritiflimum, eumdemque doctiflimum, atque ipflus filium Ennium Quirinum vix ex ephebis egreflum, ob miram vetcus eruditionis peritiam, qua inter cetera difciplinarum ornamenta praecellebat, plurimi aeftimandum, nunc vero in dies & fcientia, & fama magis inclarcfccntcm, & PII Vi. P. O. M. a fecretiori cubiculo, qui mihi fcilicet praefto effent, quaeque forent vel adnotanda, vel conftabilienda, difcuffis fententiis, 6t omnibus naviter expenfis, una mecum decer¬ nerent. Multa fane Venutius ftatuerat, multaque etiam pu¬ blica voce invaluerant, quae typis exprefla iam apud vulgum fidem omnem obtinuerant. At nos veritatis unice folliciti, & fymbola omnia, & vultuum lineamenta iuxta critices re¬ gulas, & ope ceterorum monumentorum expendentes, mul¬ ta immutanda, atque aliter exponenda cenfuimus. Hinc fa¬ cium eft, ut multae Statuarum illuflrationes, quas i. Volu¬ men compleCti debebat, expunctae fuerint, eilque noftras subrogandas curaverimus. Hinc etiam faftum, ut ceteras live infciiptiones,fivenomenclaturas,quasnonnullisTabulis, ex quibus reliqua Volumina compingi debebant, iam ipfe adle-   LVII adleverat, eidem etiam cenfurae, ac reformationi fubiecerimus. Quid hac in re a nobis geftum fuerit, fupervacaneum erit nunc exponere, cum haec quidem illufirationes, & adnotationes no- ftras legentibus patere facile poffint. Ac fane multa etiam ex Venutii explicationibus fuperflua, vel nimis nota amputavi¬ mus, Graecum textum adduftis ex Latina verfione Graecorum Scriptorum locis adiunximus, & omnia in eum ordinem, quem nobis propofuimus, accurate redegimus. Nec etiam minorem infumpfimus diligentiam, ut Scalptorum erratis, quae commode licebat, medicina aliqua per nos fieret.• Mul¬ tae fane fabulae non omnino eleganter caelatae occurrunt, quumnonomnesvelimmutare,velexpolireinnoftraefiet poteftate. Ceterum id faltem curavimus, ut Caesarum, ceterorumque imagines fatis cognitae ad veram vultus, quae in autographo haberetur, formam redigerentur, ceteraque omnia fuis prototypis apprime refponderent. Nec alia fane poftopusaScalptoribusomninoabfolutum,antequamnos hanc provinciam fufciperemus, follicitudo nobis relinque¬ batur. XIX. Sed iam qui ordo a nobis fervatus fuerit, innuamus. Numina quidem praecedere aequum erat, tum ut Divinitati, quae his etiam indiciis a gentilitate petitis adfiruatur, inprimislitaremus,tumutveterumethnicorum,quorum monumenta tractamus, facro inhaereremus fyftemati. Quare Numinaipfa,quaeStatuisexpreffahabebamus,cumaliama¬ iorum gentium, eademque felecta, insignia, & eximia cenferentur, alia vero minorum gentium, eademque adfcriptitia, minufcularia, & putatitiadicerentur,infuasclafiesdi-* ftribuerefiuduimus,utproindefuuscuiquehonorolimetiam redditus fervaretur. Hinc Caeleftes Deos primae Claffi ad- fignavimus, Terreftres fecundae, Silveftres tertiae, Semideos, h five   LVIIl five Indigetes quartae, ac quintae demum Deas Virtutes. Tum DiiseorumMiniftros,&Sacerdotesfubiunximus,quibusin Clafle fexta factus eft locus. Sacerdotibus fuccedunt Magi- ftratus, ac proinde ex temporum ratione Confules feptimam Claflemobtinuerunt.HisfubnectunturImperatoresRoma¬ ni, quibus Claflis obtava occupanda obtigit. Barbari Reges nonnifi pone eorumdem domitores collocandi erant, atque hinc Clafle nona ipfos comprehendi opus fuit. Decima Mi- fcellanea continet; undecima Statuas iacentes. Atque haec eit totius I. Voluminis, quod CVI. Tabulis conflat, difpoll- tio.Nonabfimilirationefecundumdigeftumeft,quodXC. Tabulas continet, quodque in Protomis, Hermis, Clypcis, & nonnullis Anaglyphis fimplicioribus referendis verfatur. Hinc Protomarum Deos exprimentium Claflls prima; tum Protoma- rum Heroas, & Viros illuftres praefeferentium Claflis fecunda; dein earumdem Imperatores, & Auguftas repraefentantium Claflis tertia; ac tandem Imperatores Germanicos faeculi XV., Si XVI. exhibentium Claflis quarta. Sequitur Claflis quinta, quae Capita incognita; fexta, quae Hermas, feu Terminos; septima, quae imagines quadratis, & rotundis figuris inclufas; obtava, quae Anaglypha cum variis homi¬ num, & mulierum imaginibus; nona, quae figuras anagly¬ pticaslingulares;decima,quaetrophaea,pulvinaria,capitula, bales, truncos, & candelabra; ac tandem duodecima, quaelarvasfcenicas,&ceteramonumentamifccllacontinet. Sed iam tertium Volumen procedit, quod Anaglypha, Sarco¬ phagos, Cippos, & Infcriptiones compleblitur, ac ex Tabulis aeneis LXXIV. coalefcit. Ordo Claflium etiam in hoc ipfo Volumine lervatus eft, ut proinde prima comprehendat Deo¬ rum imagines; fecunda Fabulas ad Deos pertinentes; tertia Bacchanalia; quarta Monumenta Aegyptiaca; quinta Mo- numen-   LIX numenta Graeca ante bellum Troianum; fexta eadem poft ipfum bellum; feptima Monumenta Romana hiftorica; odta- va ritus, mores, & artes veterum; nona Sarcophagos, & Urnas fepulcrales; ac decima tandem veteres Infcriptiones, quaeinfuperordine,quemGruterius,ceteriqueinvexerunt, difpofitae a nobis lunt, ac proinde in XIV. SeHiones di- geftae confpiciuntur. Eaedem GCCXXXII. plus minus numerantur, & earum fere omnes ab aliis editae iam fuerant. Neque nos eas dumtaxat, quas in Hortis, & Aedibus Matthaeiorum deprehendimus, proferre fluduimus, fed infuper eas omnes huc revocavimus, quas olim ibidem exftitilTe vel nosipficognoveramus,velexearumdemcolledoribusconflabat; ne in hac noflra Monumentorum congerie quidquam deeffet,quodolim&celebres, &praellantesHortosnoftros potiffimum effecerat. Indices etiam Infcriptionibus fubieci- mus,quorumprimusScaligerexemplarpropofuitinGrute- riano thefauro. His tandem fubiunximus generalem etiam omniumpotiorum,quaeIII.hifceVoluminibuscontinentur, rerumIndicem,cuiuspraefidio,quodcumqueopuseffet,a LeHoribus nollris inveniri poffet. XX. Haec elt univerfa Operis noffri compages. An ve¬ rofingulaprodignitatepraeftiterimus,nonnoffrumeftiudi- care. Id tantum affirmare poffumus, omnes tum animi, tum fedulitatis nervos nos intendifle, ne vel aliquam muneris noffri partem neglexiffie, vel a ratione, ac luce, quae pecu¬ liares habentur faeculi XVIII. dotes, ac notae, quaeque fin- gulas facultates attingere aequum eft, quidquam abfonum admiffife videremur. Quapropter id nobis propofuimus, ne inreplerumquedubia,&ancipitivelfomnia,velcommen¬ ta in fcenam produceremus. Qui enim vel natura duce, vel cogitandi arte magiftra veritatem confeHari, & rerum eviden-   LX tiae infidere didicit, aegre fane fertur vel ad incerta, vel ad cerebrofa. Saepe igitur contenti fuimus varias Antiquario¬ rum fententias proferre, & intactum fimul argumentum re¬ linquere,nevideremurnovamtantumopinionemincete¬ rarum acervum inducere, vel coniedturas conieduris addere. Quid enim infuper congefia vel vacillans opinio, vel levis coniectura, aut etiam audax paradoxum litterarum incre¬ mentoconducit?Pabulishilcequidemfuaviflimisfruantur, quibus in rc quaque leviffima libi plaudere, etymologiis ab- firufiora quaeque definire, remotiorum aetatum aenigmata folvere,fequiorumtemporumruditatesingerere,nugarum feries oftentare, umbras pro corporibus amplexari, carbones pro unionibus vendere (qui elt antiquariae facultatis abutus longeeliminandus)volupeelt.Noscerte,quianimicaulla, & ultro delatae occupationis occalione, huiufmodi ftudio va¬ cavimus, haud fane operae noltrae poenituit, qui nimirum folidas hiftoriae, chronologiae, veterum linguarum, ar¬ tium, ac rituum utilitates unice lpeckantes aliquam videmur & noftris notionibus, & famae quinetiam accelfionem fecii- fe,tumampliflimaehuiusUrbis,veterumelegantiarumundi¬ que feracillimae, incolatum gratiorem nobis, & iucundiorem praeftitific. Quare ab omni ingenii licentia, quae vel verita¬ tis criterio adverfaretur, vel quae nullo tum rationis, tum auctoritatis valido fundamento niteretur, femper abhorrere nobis folemne fuit; ac quidquid, vel omnibus tacentibus, vel omni deficiente exemplo, a nobis proferendum fuit, nonnifi modefte, & fere cum trepidatione propofuimus. Rati infu¬ per ex monumentorum inter fe collatione, quae vel rerum affinitate,velquacumquealiarationelibiinvicemrefpon- derent, veram plerumque prodire pofle fignificationem, vel receptis fcriptorum fententiis maius etiam polle robur accedere,   LXI dere, id praefertim curavimus, ut quae fimilia ia ceteris Mu- feis, & in iplis Antiquariorum libris exftant monumenta, tamquam conflantis, & indubiae veritatis vadimonia propo¬ neremus.Nihilenimmagisvaletadiudiciumderealiqua tum ob vetuftatem, tum ob obfcuritatem incerta quoquo modoiufte,re&equeferendum,quamconflansmonumento¬ rum conformatio, & eorumdem accurata comparatio. Haec fuit inftituti noftri ratio, cuius fane ope fi quid dignum hac luce elicimus, iri totum veritatis, & certitudinis, quam gerimus, notioni acceptumeftreferendum;finminus,haud fateri nos pudebit, impares nos huiufmodi Audio fuifie, quod aliorumgratia,nonnoftromarteexcoluifleingenueprofi- tentes aliquam faltem veniam hoc iplo nomine confecuturos confidimus. Qui legis, feliciter vale. INDEX TABULARUM Quae m hoc. Statuarum Volumine continentur. CLASSIS I. Chiae continet deos caelestes. Tab. I. Iuppiter. pag. i. Tab. II. Apollo Citharoedus, pag. 3. Tab.III. Apollo Citharoedus, pag. ead. Tab. IV. Apollo. pag. 4. Tab. V. Apollo Pythius, pag. 5. Tab. VI. Apollo Sagittarius. pag. ead. Tab VII. Apollo, pag. (5. Tab- VIII. Apollo, pag. 7. Tab. IX. Apollo, & Marsyas. pag. 8. Tab. X. Mars. pag. ead. Tab. XI. Mercurius. pag. 9. Tab. XII. Bacchus. pag. 10. Tab. XIII. Bacchus asino insidens, pag.ead. Tab. XIV. Bacchus,pag.u. Tab. XV. Amor. pag. 12. Tab. XVI. Amor cum Herculis symbolis. pag. ead. Tab XVII. Amor canens. pag. 13. Tab. XVIII. Venus, pag. 14. Tab. XIX. Amicitia, pag. 15. Tab. XX. Minerva. pag. ead. CLASSIS II. Quae continet DEOS TERRESTRES. Tab. XXI. Cybele, pag. 17. Tab. XXII. Cybele, pag. 18. Tab. XXIII. Cybele, pag. 19. Tab. XXIV. Cybele, pag. ead. Tab. XXV. Ceres. pag. 20. Tab. XXVI. Ceres, pag. ead. Tab. XXVII. Ceres, pag. 21. Tab. XXVIII. Ceres, pag. 2$. Tab. XXIX. Ceres. pag. 24. Tab.XXX.Ceres.pag.ead. Tab. XXXI. Ceres, pag. 25. Tab. XXXII. Urania, pag. 26. CLASSIS III. Quae continet DEOS SILVESTRES. Tab. XXXIII. Faunus, pag. 27. Tab. XXXIV. Faunus. pag. 28. Tab. XXXV. Faunus, pag. 29. Tab. XXXVI. Faunus, pag. ead. Tab- XXXVII. Faunus, pag. 30. Tab XXXVIII.Faunus,pag.32. Tab. XXXIX. Faunus. pag. ead. Tab. XL. Faunus, & Satyrus, pag. ead. Tab. XLI- Silenus, pag. $3. Tab. XLII. Silenus. pag. $4. Tab. XLIII. Silenus, pag.' ead. Tab. XLIV. Diana, pag. 35. Tab. XLV. Diana, pag. 36. Tab. XLVI. Diana, pag 37. Tab. XLVJI. Flora, pag. ead. Tab. XLVIII. Pomona, pag. 38. Tab.XLIX,Pomona,pag.39. Tab. L. Pomona, pag. ead. Tab. LI. Nais. pag. 40. CLASSIS IV. Quae continet DEOS INDIGETES. Tab. LII. Hercules, pag. 41. Tab. L111. Hercules, pag. 42. Tab-LIV. Hercules, pag. 43. Tab LV. Bellerophon, pag. 44. Tab. LVI. Aefculapius» pag. 47. Tab. LVII. Aefculapius. pagt 49. Tab. LVIH. Hygia, pag. ead. Tab.LIX.Hygia,pag.ji. Tab. LX. Amazon. pag. 53. CLASSIS V. Quae continet VIRTUTES DEAS. Tab. LXI. Pudicitia. pag. 56» Tab. LXII. Pudicitia, pag. ead. Tab. LX III. Fortuna, pag. 58. Tab. LXIV. Fortuna, pag, 59. Tab.LXV.Abundantia.pag.60. CLASSIS VI. Quae continet DEORUM SACERDOTES ET MINISTROS. Tab.LXVI.Camilluspuer.pag.62. Tab. LXVII. Bacchans. pag. 63. Tab.LXVIII.Bacchans.pag.6j. Tab. LXIX. Bacchans. pag. ead, Tab. LXX. Bacchans. pag. 66. Tab.   Tab. LXXI. Sacerdos Cereris facrificans. pag. 67. CLASSIS VII. Quae continet LXIII Tab.XCIII. L. Aurelius Commodus. pag.ead. Tab. XCIV. M. Aur. BaRianus Antoninus Caracalla. pag. 94. Tab.XCV.P.LiciniusGallienus,pag.95. CONSULES. CLASSISIX. Quae continet Tab. LXXII. L. lanius Brutus, pag. 69. Tab. LXX1II. ConfuI. pag. 71. CLASSIS VIII. Quae continet IMPERATORES ETAUGUSTAS. REGES BARBAROS. Tab. XCVI. Mida Rex Phrygiae, pag.96. Tab. XCVII. Ptolemaeus Rex Aegypti.p.97. Tab. LXXIV. C. Julius Caefar. pag. 74. Tab. LXXV. C. Iulins Caefar. pag. 75. Tab. LXXVI. Octavianus AuguRus. pag.76. Tab LXXVII. Octavianus AuguRus. pag 77. TabLXXVIII.OctavianusAuguRus•pag.78. Tab.C*Gladiator,pag.102. Tab LXXIX. Livia. pag, 79. Tab. LXXX. Caius Caligula, pag. 80. Tab. LXXXI. Tiberius Claudius, pag 81. Tab.LXXXII. Claudius Domitius Nero. p.82. TabLXXXIII.ClaudiusDomitiusNero.p83. Tab. LXXXIV. Flavius Domitianus. pag.Sq. Tab. LXXXV. Nerva Traianus Ulpius. p.ead. Tab. LXXXVI. Marciana AuguRa. pag. 85. Tab. LXXXVII. Sabina AuguRa. pag. 86. Tab. LXXXVIII. Antinous, pag. 87. Tab. LXXXIX. Antoninus Pius. pag. 89. Tab. XC. M. Aurelius Antoninus. pag. 90. Tab. XCI. Annia FauRina* pag. 91. Tab. XCII- L. Aurelius Commodus. pag. 92. Tab. CI. Gladiator, pag. 104. Tab. CII Femina velata cum puero. p. ead. Tab. CIII. Femina Rolata. pag. 109. CLASSIS XI. Qitae continet STATUAS IACENTES. Tab. CIV. Fig. 1. Silenus, pag. 111. Tab. ead. Fig. 11. Flumen. pag. 11 2. Tab. CV. Fig. 1., Sc 11. Amores quiefeen- tes. pag. 11 3. Tab.CVI.Fig.i., 11., & m. Somni, & Mortis Genii, pag. 114. ERRATA CORRIGE. pag.xxxii.referre. pag. 42. TAB. XLIII. pag. 45 Florentia. ibid. SebaRianus Blanchius. pag. 63. Franc. Ant. Gorium. P?g- 79- ibid. not. 2. cap. 102. pag. 88. Tubere. pag. 107. coi. 1. quos Etrufcis in ma¬ nibus funt. ibid. Enomao • ibid. coi. 2. onorabant. pag. 109. PALLIATA. referri. TAB. LIII. Florentiae. Iofephus Blanchius. Ant. Franc. Gorium. ferre. cap. 101. Tibure. qui Etrufcis in manibus funt, Oenomao. honorabant. STOLATA. Curatore: Fragmenta vestigiis veteris Romae --  A D O N E A. Adonidis mmen apud Ouidiutn. AEDIS HERCVLIS MVSARVM AEDIS. lOVIS InporticihusOBauU. Injiaurau ah Hadriano * AEDIS. IVNONIS. In porticihus OBauU* Aedes Palladis inforo T^erua* AEDES-OPIS 62 Aedes Telluris in forel^erud* 'vide Templum* Aedium Paiamatummagnifcentia • Aedes Romanomm nohilium, Aid infacris Aedihus* f Atnhulatio circa celUih^ 6.Aedium • A M P H I T H E A T R V M. AnemoneflosapudGuidium, ' Apollo Sandalarius • AQVEDVCTIVM. AquaduBus Ajud Claudia i AquaduBus Aqua Mania reflimti a Tratano 3 9,ah Alexandro Seuero, ArcusfeulanusadPorticumOBauia• Arcus Germanico»& Drufo • AREA.APOLLINIS cumara. a r e a. VALERIANA. *2 \ rCVS.MAXIMVS AREA. MERCVRII cumara« AREA. POLL VCIS |69 Traiani. ■ 40 CauediuminAedihus* 3t Area cumar4in Quirinali« 47 AlexanderSeuerusinfatirauit - 35 AqueduBus AquaMartia* 40 4^ 9.io Armamentaria.Ij. s> AniariumDomitiorum• ihid* Atrium in Aedihus. 61 ATRIVM. LIBERtATIS. s 1SJ AulaAdonidis• ihtd. AulaRegiainTheatro. 47 39 3* 20 57 57 BALINEVM. AMPELIDIS. BALNWM. CAESARIS. 47 BALNEVM. SVRAE* 31 Ba l n e a. coTiNi. B ^9 < 23 57 balneaadJolemexpofta0 J BalneaVirorum,acMulierum• ihid* 77 BASILICA. AEMILI. 27 48 Basilica.LiGiNii. }9 15 tT BASILICA. VVLPIA. 79 IZ c Capitolium. 20 40 CASTRA. MISENATIVM; * H 10 CaftraPeregrina, 1$ *69 CaflellumAquaManiacumtrofh*tii 39 \ Ciceronislocusillufratus• AREA.RADICARIA. 4S\fIRCVS.FLAMINIVS 7t ^7 Cir^   Circi CISTER.NAE. Cijierthe TUiand* CLIVVr.yTcTORIAE Clajfiarij dimijji honejia mijjtone ac ciuitate donati • ihid* 7 i ihid» 19 1 5 j S7 5 HORREA: CANDELARIA. 40 HORREA. LOLLIANA 4 Horrea puhlica > priuata ad uarm vfus• 6 HORTI. CELONIAE. FABIAE 44 Horti Gallieni, HORTI. PALLANTIANI 40 ^• I Columnatio in Uterihmfionte &fo(lico Column<&contraantas i O5 j DOMVS. CORNIFICIA *'— ^ Cornuafcena CVRIA.IVLIA D DELVBRVM. I^INERBA E, Capu 6j INTELLVRE 57 In Tellure locus extra Templutn Dicta Domitiani.* 47 27 51 Liciniana Baflica. Lollianiful Seuero. Lollianustyui, tP*GentianusConful 1 6 6 Dipteros columnatio duplex^ DOMVS. CILONIS Domus (lelU Confulis Domus interior 5 Domus Romanorumnohilium. "T. E 4S 44 l^cclefiafmB<e MarU Ae^yptiaca oUmTemplumfortune njirilis. 5.MarUinPorticuolimlunonis• 9 S* T^icolai olim louis • ibid, MACELLVM; 49 24.S,StephaniadTiherimolimMatuu &4 Macellum l^leronis • MAVSOLEVM. AVGVSTI MONVMENTA. MARIANA Muri Vrhis inflauratl al Arcadia CST* Honorio. N N A V A L E M Piummus Alexandri Seueri cum Cajiello Aft<e MartU* T^ummus T^eronis, O ilidl 85 39 Euripus in Circo Ealius Clio, eiufijue muniafu l Seuero fapi^ium in porticilus. Eons Lolltanus. Gallieni Ba(tlica,& Horti in Effuilijs GRAECOSTASIS. Gyn<eceum • n HECATONSTYLVM.33. Hecatonftylum in Hojlilium feu \^uriamffojliliam corrupts 8 1 j G 10 6 i r MVTATORIVM. 47 IJ 20' 40 49 77 5 35 Orilejlra in Teatro» ^In Amphitheatro, Palatium Licinianum • Perypteros* 47 5 S7 LAVACRVM.AGRIPPINAE 23 35 Telluris cumBaJfo. LVDVS.MAGNVS M *_ Marci Aprippto magnificentia 6 Per^   ^erijlylia duplicia in JeMus* TiBura amiqua infants • Vimcothem. Pifcim* Pltn^ locus illufiratus. Porta Trigemtm ante Claudiufn i P O M g VS. AEMILIA. 5* t 6 6i ^3 9 fundator Jmperij cognominatus • I c h n o g r a p h i a m V t h i s i n i e mp l o P L c h - muli iocauit ihidi & I, 19 • 5* 19 ibid. i o z j ^orticus Metelli cum duabus Jedtbus» i o PORTICVS * OCTAVIAE. E t HE- 9.10 Porttcus^pBduU i Ionicaeiufque ornamentA • Porticus Pompeii flecatonjlylon i Porticus nohiles atiobilibuspiBurii 16 SVBVRA. 17 SVMI.GHORAGII 35 *9 5 10 S 70 1 1.2.19 6 $ 45 cogmminau • Porticusjimplex. Pronaon Pfeudodijneros. R templvm.c6ncori5ia^ 39 F ortun* wirilis. 24 Matuu. ibid. R E G lA. 53 Romuli templum injtauratum a Stipt* SiUtro i Rom* ^ejligiumfeu knographia ScenaTheatrii Septa Agrippina • 65 ibid. a 5 ibid* $ SEPTAaVLlA. 43.44 SEPTA^ TRIGABJA Septorum reliquU inVialata t Sepulcrurn DOmitiorUm. ^Sepvikrurrt. GNi DOMITII w 45 CALVIN! 61 Sepukfum PhitomeUfeu Lufcini* • 61 SEVERI. ET. ANTONINL AVG. )Sf.N. 19 SeptitHiusSeuerUsKejiitutorVrUs & Rom*. i.2«i9 VlA.jTOVA 70 ibid* S 3 (jillknii 45 61 !Septi:^onium. -v.. StdtUa Apollinis in Vaiicdno. Statu* in nieflibulo*fact adium Staiud celkires in Thottnis. Staiudt tV piBur* tfoffe adArcum SERAPAEVM • 69 Stattia Apollinis Sandalarij » Vide tab. X V U T raiani. Fheatrum Bilbii THEAtRVM.MARCELLI - THEAfRVM/POMPEH Theatri Pompeij reliqitU ad Cdmputn Flord in*dibulV rftiotumi Thernid (iatuis exornatd. T hermd hyemdles i Troph*a Ttdiani iiulgo ^ar^ in in Capitolio i Traianus inflaurauti AqudduBus Aqu* Marti*. Veflibula Regalia. Vefligiumfeu Ichnographia Vrbis J 5 VICVS.$ANDALARIVSIoannis Cristophori Amadutii. Giovanni Cristofano Amaduzzi. Amaduzzi. Keywords: Filopatridi, i filopatridi.  Alfabeto etrusco, alphabetum etruscorum, alphabetum veterum etruscorum, grandonico-malabaricum sive samscrudonicum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amaduzzi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692077665/in/photolist-2mUuQG8-2mKRpLn/

 

Grice ed Ambrogio – SEBASTIANE – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I like the Italian philosopher, Ambrogio – he was born, of course, in Germany! And he never wrote in Italian! But the fact that he got all his inspiration not so much from God but from Cicerone’s Liber II De Officiis, makes him an ineludible step in Lit. Hum. at Oxford!” -- Grice: I prefer the spelling “Ambrogio,” or if not “Aurelio Ambrosius”To call him Ambrosisus is like calling me Gree.” Grice: “Not to be confused with Ambrose and his orchestrasweet!”on altruism. known as Ambrose of Milan. Roman church leader and theologian. While bishop of Milan, he not only led the struggle against the Arian heresy and its political manifestations, but offered new models for preaching, for Scriptural exegesis, and for hymnody. His works also contributed to medieval Latin philosophy. Ambrose’s appropriation of Neoplatonic doctrines was noteworthy in itself, and it worked powerfully on and through Augustine. Ambrose’s commentary on the account of creation in Genesis, his Hexaemeron, preserved for medieval readers many pieces of ancient natural history and even some elements of physical explanation. Perhaps most importantly, Ambrose engaged ancient philosophical ethics in the search for moral lessons that marks his exegesis of Scripture; he also reworked Cicero’s De officiis as a treatise on the virtues and duties of Christian living. ambrogio: Sant'Ambrogio  Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai cercando altri significati, vedi Sant'Ambrogio (disambigua). Nota disambigua.svg Disambiguazione"Ambrogio da Milano" rimanda qui. Se stai cercando lo scultore e architetto italiano, vedi Ambrogio Barocci. Sant'Ambrogio di Milano AmbroseOfMilanMosaico di Sant'Ambrogio di Milano nel sacello di San Vittore (378 ca.) annesso alla Basilica del Santo, probabile ritratto del vescovo.   Vescovo e Dottore della Chiesa    NascitaAugusta Treverorum (Treviri), forse 339-340 MorteMilano, 397 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleBasilica di Sant'Ambrogio, Milano Ricorrenza4 aprile (vetero-cattolici) 7 dicembre (cattolici) 7 dicembre (ortodossi) Attributiapi, scudscio, bastone pastorale e gabbiano Patrono diMilano, Alassio, prefetti, Lombardia, Rozzano, Monserrato, Buccheri, Cerami, Vigevano, Castel del Rio, Sant'Ambrogio di Torino, vescovi, Omegna, Carate Brianza, Caslino d’Erba Manuale Aurelio Ambrogio vescovo della Chiesa cattolica AmbroseGiuLungaraTemplate-Bishop.svg   Incarichi ricopertiVescovo di Milano   Natoincerto 339-340 a Treviri Ordinato presbitero? Consacrato vescovo7 dicembre 374 Deceduto4 aprile 397 a Milano   Manuale Aurelio Ambrogio (in latino: Aurelius Ambrosius), meglio conosciuto come sant'Ambrogio (Augusta Treverorum, incerto 339-340Milano, 4 aprile 397) funzionario, vescovo, teologo e santo romano, una delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi dottori della Chiesa d'Occidente, insieme a san Girolamo, sant'Agostino e san Gregorio I papa.  Conosciuto anche come Ambrogio di Treviri, per il luogo di nascita, o più comunemente come Ambrogio di Milano, la città di cui assieme a san Carlo Borromeo e san Galdino è patrono e della quale fu vescovo dal 374 fino alla morte, nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne conserva le spoglie.   Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano 1.3Episcopato 1.3.1Gli impegni pastorali 1.3.2Politica ecclesiastica 1.3.3Rapporti con la corte imperiale 2Pensiero e opere 2.1Esegesi 2.2Morale e ascetismo 2.3Società e politica 2.4Antigiudaismo 2.4.1L'episodio di Callinicum 2.5Mariologia 3Milano e il rito ambrosiano 4Sant'Ambrogio e il canto liturgico 5Leggende su Sant'Ambrogio 6Opere 6.1Oratorie (esegetiche) 6.2Morali (ascetiche) 6.3Dogmatiche (sistematiche) 6.4Catechetiche 6.5Epistolario 6.6Innografia 6.7Altro 7Curiosità 8Note 9 10 11Altri progetti 12 Biografia Gioventù  Altare di Sant'Ambrogio, 824-859 ca., Ambrogio ordinato vescovo Aurelio Ambrogio nacque ad Augusta Treverorum (l'odierna Treviri, nella Renania-Palatinato, in Germania), nella Gallia Belgica, dove il padre esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie, intorno al 339 circa da un'illustre famiglia romana di rango senatoriale, la gens Aurelia, cui la famiglia materna apparteneva inoltre al ramo dei Simmaci (era dunque un cugino dell'oratore Quinto Aurelio Simmaco).  La famiglia di Ambrogio risultava convertita al cristianesimo già da alcune generazioni (egli stesso soleva citare con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che «ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») e stesso una sua sorella ed un suo fratello, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa Liberio nel 353) e Satiro di Milano, vennero poi venerati come santi.  Destinato alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua prematura morte frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali studi del trivium e del quadrivium (imparò il greco e studiò diritto, letteratura e retorica), partecipando poi attivamente alla vita pubblica dell'Urbe.  Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano Dopo cinque anni di avvocatura esercitati presso Sirmio  (l'odierna Sremska Mitrovica, in Serbia), nella Pannonia Inferiore, nel 370 fu incaricato quale governatore dell'Italia Annonaria per la provincia romana Aemilia et Liguria, con sede a Milano, dove divenne una figura di rilievo nella corte dell'imperatore Valentiniano I. La sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due fazioni.  Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, il delicato equilibrio tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa, dove all'improvviso si sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì quella unanime della folla radunata nella chiesa. I milanesi volevano un cattolico come nuovo vescovo. Ambrogio però rifiutò decisamente l'incarico, sentendosi impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane all'epoca, egli non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato studi di teologia.  Paolino racconta che, al fine di dissuadere il popolo di Milano dal farlo nominare vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare la buona fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e invitando in casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non recedeva nella sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne ritrovato, il popolo decise di risolvere la questione appellandosi all'autorità dell'imperatore Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu allora che accettò l'incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio nei suoi confronti, e decise di farsi battezzare: nel giro di sette giorni ricevette il battesimo nel battistero di Santo Stefano alle Fonti a Milano e, il 7 dicembre 374, venne ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli scriverà poco prima della morte:  «Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l'ordinazione fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami.»  Nonostante, come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza dai tribunali e dalle insegne dell'amministrazione al sacerdozio», dopo la nomina a vescovo, Ambrogio prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad approfonditi studi biblici e teologici.  Episcopato  Ambrogio con le insegne episcopali Gli impegni pastorali Quando divenne vescovo (nel 374), adottò uno stile di vita ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi possedimenti terrieri (eccetto il necessario per la sorella Marcellina).  Uomo di grande carità, tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza tregua per il bene dei cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio, Sant'Ambrogio non esitò a spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla vendita per il riscatto di prigionieri. Di fronte alle critiche mosse dagli ariani per il suo gesto, egli rispose che «è molto meglio per il Signore salvare delle anime che dell'oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò le Chiese. [...] I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce valore per via dell'oro ciò che non si compra con l'oro» (De officiis, II, 28, 136-138)  La sua sapienza nella predicazione e il suo prestigio furono determinanti per la conversione nel 386 al cristianesimo di Sant'Agostino, di fede manichea, che era venuto a Milano per insegnare retorica.  Ambrogio fece costruire varie basiliche, di cui quattro ai lati della città, quasi a formare un quadrato protettivo, probabilmente pensando alla forma di una croce. Esse corrispondono alle attuali basilica di San Nazaro (sul decumano, presso la Porta Romana, allora era la Basilica Apostolorum), alla basilica di San Simpliciano, detta Basilica Virginum, ossia basilica delle vergini (sulla parte opposta), alla basilica di Sant'Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata originariamente Basilica Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del santo) e alla basilica di San Dionigi (Basilica Prophetarum).  Il ritrovamento dei corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo stesso Ambrogio, che ne attribuisce il merito ad un presagio, per il quale egli fece scavare la terra davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi Nabore e Felice. Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo un rito importato dalla Chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la traslazione, si racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di nome Severoriacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte del vescovo di Milano diede grande contributo alla causa dei cattolici nei confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo, e negavano la validità dell'operato di Ambrogio, di fede cattolica.  Ambrogio fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali riforme nel culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia cristiana, e ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni questo antico canto.  Politica ecclesiastica L'importanza della sede occupata da Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la sua personale attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte attività di politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e teologia in cui combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo; fu inoltre sostenitore del primato d'onore del vescovo di Roma, contro altri vescovi (tra i quali Palladio) che lo ritenevano pari a loro.  Si mostrò in prima linea nella lotta all'arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a Milano e nella corte imperiale. Si scontrò per questo motivo con l'imperatrice Giustina, di fede ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa dell'imperatore Graziano che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici e, con l'editto di Tessalonica, dichiarò il cristianesimo religione di Stato. Il momento di massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di Graziano, gli ariani chiesero insistentemente con l'appoggio della corte imperiale una basilica per praticare il loro culto. L'opposizione di Ambrogio fu energica tanto che rimase famoso l'episodio in cui, assieme ai fedeli cattolici, "occupò" la basilica destinata agli ariani finché l'altra parte fu costretta a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che Ambrogio introdusse l'usanza del canto antifonale e della preghiera cantata in forma di inno, con lo scopo di non fare addormentare i fedeli che occupavano la basilica. Fu inoltre determinante per la vittoria di Ambrogio nella controversia con gli ariani il ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e Protaso, che avvenne proprio nel 386 sotto la guida del vescovo di Milano, il quale guadagnò in questo modo il consenso di gran parte dei fedeli della città.  Fu infine forte avversario del paganesimo "ufficiale" romano, che dimostrava in quegli anni gli ultimi segni di vitalità; per questo motivo si scontrò con il suo stesso cugino, il senatore Quinto Aurelio Simmaco, che chiedeva il ripristino dell'altare e della statua della dea Vittoria rimossi dalla Curia romana, sede del Senato, in seguito a un editto di Graziano nel 382.  Rapporti con la corte imperiale  Sant'Ambrogio rifiuta l'ingresso in chiesa all'imperatore, nel dipinto di Van Dyck. Molto probabilmente questo episodio non avvenne mai: Ambrogio preferì non arrivare allo scontro pubblico con l'imperatore, ma lo redarguì in privato. Il potere politico e quello religioso al tempo erano strettamente legati: in particolare l'imperatore, a cominciare daCostantino, possedeva una certa autorità all'interno della Chiesa, nella quale il primato petrino non era pienamente assodato e riconosciuto. A questo si aggiunsero la posizione di Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale, e la sua precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo portarono più volte a intervenire incisivamente nelle vicende politiche, ad avere stretti rapporti con gli ambienti della corte e dell'aristocrazia romana, e talvolta a ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli imperatori.  In particolare, nonostante il convinto lealismo verso l'impero Romano e l'influenza nella vita politica dell'impero, i suoi rapporti con le istituzioni non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di difendere la causa della Chiesa e dell'ortodossia religiosa. Gli storici bizantini gli accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία), schiettezza e verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a partire dal suo rapporto epistolare con l'imperatore Teodosio.  Essendo Ambrogio precettore dell'imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del Cristianesimo. Egli predicava all'imperatore di rendere grazie a Dio per le vittorie dell'esercito e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco, che chiedeva il ripristino dell'altare alla dea Vittoria fatto rimuovere dalla Curia romana  Chiese poi a Graziano di indire il concilio di Aquileia nel settembre del 381 per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei vari concili ecumenici ed anche secondo l'opinione del Papa e dei vescovi ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l'arianesimo.  Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 388, dopo che un gruppo di cristiani aveva incendiato la sinagoga della città di Callinico, l'imperatore decise di punire i responsabili e di obbligare il vescovo, accusato di aver istigato i distruttori, a ricostruire il tempio a suo spese. Ambrogio, informato della vicenda, si scagliò contro questo provvedimento, minacciando di sospendere l'attività religiosa, tanto da indurre l'imperatore a revocare le misure.  Nel 390 criticò aspramente l'imperatore, che aveva ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state assassinate migliaia di persone, attirate nell'arena con il pretesto di una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell'accaduto, evitò diplomaticamente una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il pretesto di una malattia evitò l'incontro pubblico con Teodosio) ma, per via epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica» all'imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi cristiano, pena il rifiuto di celebrare i sacri riti in sua presenza («Non oso offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio ammise pubblicamente l'eccesso e nella notte Natale di quell'anno, venne riammesso ai sacramenti.  Dopo questo episodio la politica religiosa dell'imperatore si irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti (noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l'editto di Tessalonica: venne interdetto l'accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di qualsiasi forma di culto, compresa l'adorazione delle statue; furono inoltre inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli, l'immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.  Nel 393 Milano fu coinvolta nella lotta per il potere tra l'imperatore Teodosio I e l'usurpatore Flavio Eugenio. In aprile Eugenio varcò le Alpi e puntò alla conquista della città, in quanto capitale d'Occidente. Ambrogio partì e andò ritirarsi a Bologna. Durante un soggiorno temporaneo a Faenza scrisse una lettera ad Eugenio. Poi accettò l'invito della comunità di Firenze, ove rimase per circa un anno. La guerra per il controllo dell'impero fu vinta da Teodosio. Nell'autunno del 394 Ambrogio fece ritorno a Milano.  Alla sua morte, per sua stessa volontà, fu sepolto all'interno della basilica che tuttora porta il suo nome, fra le spogli dei martiri Gervasio e Protasio. Le sue spoglie, rinvenute sotto l'altare nel 1864, furono trasferite in un'urna di argento e cristallo posta nella cripta della basilica.  Pensiero e opere  Rilievo gotico raffigurante Ambrogio. Tra gli attributi del santo c'è il miele, simbolo della dolcezza delle prediche e degli scritti Fortemente legata all'attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che quindi mantengono un tono simile al parlato.  Per il suo stile dolce e misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare.  Esegesi Oltre la metà dei suoi scritti è dedicata all'esegesi biblica, che egli affronta seguendo un'interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro (in particolare per quanto riguarda l'Antico Testamento): ad esempio, ama ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad affascinare Sant'Agostino e a risultare determinante per la sua conversione (come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24).  Secondo Gérard Nauroy, «per Ambrogio l'esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un metodo o un genere: [...] ormai egli "parla la Bibbia", non più con la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso sintetico, eminentemente allusivo, "misterico" come la Parola stessa». Per Ambrogio la lettura e l'approfondimento della conoscenza biblica costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana:  «Bevi dunque tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. [...] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora, quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e nelle energie dell'anima»  (Ambrogio, Commento al Salmo I, 33) Tra le opere esegetiche spiccano l'esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio evangelii secundum Lucam) e l'Exameron (dal greco "sei giorni"). Quest'ultima opera, ispirata ampiamente all'omonimo Exameron di Basilio di Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell'uomo. Anche in questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e dalle proprietà delle piante; in questo senso l'uomo appare ad Ambrogio necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo biologico e fisico, ma anche morale e spirituale.  Morale e ascetismo Un altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico, tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma destinato a tutti i fedeli. L'opera ricalca l'omonimo scritto di Cicerone, che si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende il titolo (indirizzando l'opera ai suoi "figli" in senso spirituale, cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre libri, dedicati all'honestum, all'utile e al loro contrasto risolto nell'identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l'indipendenza dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale, come egli spiega fin dall'inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita, noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo: la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino, ora assume un significato più interiore e spirituale), l'umiltà, l'attenzione verso i poveri, gli schiavi, le donne.  Altre cinque opere sono dedicate alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De virginitate, De institutione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Girolamo, senza tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità è ritenuta l'unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna: «Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per sposarsi, di essere messa all'asta come una sorta di schiavo da vendere, perché la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63).  Società e politica  Ambrogio assolve Teodosio dopo l'episodio di Tessalonica Nel confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i valori civili della romanità con l'intento di dare ad essi nuovo significato all'interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l'istituzione repubblicana (di cui l'antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia:  «Che c'è di più bello del fatto che la fatica e l'onore comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l'esercizio di un ufficio proprio di un'antica repubblica, quale conviene in uno stato libero.»  (Esamerone, VIII, 15, 51) Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell'autorità, intesi come servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la sottomissione dell'imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall'episodio di Tessalonica:  «Per quale motivo [ebbero] "una cosa santa sul morso" se non perché frenasse l'arroganza degli imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero "una cosa santa sul morso"!»  (In morte di Teodosio, 50) Di fronte al dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di non pochi imperatori romani, Ambrog io vide nel cristianesimo una possibilità per "redimere" il potere imperiale e renderlo giusto e clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le istituzione imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli imperatori, noi per gli stessi imperatori chiediamo pace a Cristo», Lettera 73 a Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla morale cristiana.  Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale era sempre più accentuato il divario tra ricchi e poveri; alla sperequazione economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth:  «La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? [...] Tu [ricco] non dai del tuo al povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi.»  (Naboth, 1,2; 12, 53) Antigiudaismo Magnifying glass icon mgx2.svg Antisemitismo § Antigiudaismo teologico. Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele come popolo eletto: da qui la grande presenza dell'Antico Testamento nel rito ambrosiano, le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia ebraica, la conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era comune nel cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di mostrare l'originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non aveva riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l'indipendenza e le prerogative della Chiesa nascente.  Ad esempio, nell'Expositio Evangelii secundum Lucam (4, 34), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo invaso dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c'è fra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio», Ambrogio critica aspramente l'incredulità della gente circostante:  «Chi è colui che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei giudei che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo, simulata la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente interiore? Ebbene: era nella sinagoga l'uomo che aveva lo spirito immondo; perché lo Spirito Santo lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal luogo da cui Cristo era uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non come ostinata, ma come opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura superiore professa il Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua malvagità [del demonio] e l'ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio] spandé tra la folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi, colui che i demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro! Quello tenta il Signore con le parole, essi con l'agire: egli dice "Buttati!" (Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo] buttino.»  L'episodio di Callinicum Le cronache storiche riportano un episodio che può essere considerato rivelatore dell'atteggiamento di Ambrogio nei riguardi degli ebrei. Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate, in Asia, l'attuale al-Raqqa), una folla di cristiani diede l'assalto alla sinagoga e la bruciò. Il governatore romano condannò l'accaduto e, per mantenere l'ordine pubblico, dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a spese del vescovo. L'imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto deciso dal suo funzionario.  Ambrogio si oppose alla decisione dell'imperatore e gli scrisse una lettera (Epistulae variae 40) per convincerlo a ritirare l'ingiunzione di ricostruire la sinagoga a spese del vescovo: «Il luogo che ospita l'incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? Il patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso ai templi degli increduli?... Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga:Tempio dell'empietà ricostruito col bottino dei cristiani -... Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi...»  Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae variae 40,11):  «Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque è più importante, l'idea di disciplina [mantenimento dell'ordine pubblico] o il motivo della religione?»  Nell'epistola Ambrogio si attribuì la responsabilità dell'incendio: «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga, sì, sono stato io che ho dato l'incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato»  Ambrogio si spinse ad affermare che quell'incendio non era affatto un delitto e che se lui non aveva ancora dato l'ordine di bruciare la sinagoga di Milano era solo per pigrizia e che bruciare le sinagoghe era altresì un atto glorioso.  Ambrogio non volle salire sull'altare finché l'imperatore non abolì il decreto imperiale riguardante la ricostruzione della sinagoga a spese del vescovo. Secondo la visione del vescovo, nella questione della religione l'unico foro competente da consultare doveva essere la Chiesa cattolica la quale, grazie ad Ambrogio, divenne la religione statale e dominante. In questa impresa lo scopo era quello di avvalorare l'indipendenza della Chiesa dallo Stato, affermando anche la superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di una legge superiore alla quale tutti devono sottostare.  Mariologia Sebbene non si possa parlare di una mariologia vera e propria (intesa come pensiero sistematico), sono numerosi nell'opera di Ambrogio i riferimenti a Maria: spesso, quando si presenta l'occasione, egli si rifà alla sua figura e al suo esempio.  La sua venerazione per Maria nasce soprattutto dal ruolo attribuitole nella storia della salvezza. Maria è infatti madre di Cristo, e dunque modello per tutti i credenti che, come lei, sono chiamati a "generare" Cristo:  «Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì creduto e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. «Beata tu che hai creduto». Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne comprende le operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio: se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo»  (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19. 24-26) Ambrogio difende strenuamente la verginità di Maria, soprattutto in relazione al mistero di Cristo: egli infatti, proprio perché nato da vergine, non ha contratto il peccato originale. Maria è anche la prima donna a cogliere i "frutti" della venuta di Cristo:  «Non c’è affatto da stupirsi che il Signore, accingendosi a redimere il mondo, abbia iniziato la sua opera proprio da Maria: se per mezzo di lei Dio preparava la salvezza a tutti gli uomini, ella doveva essere la prima a cogliere dal Figlio il frutto della salvezza»  (Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 17) Maria è inoltre modello di virtù morali e cristiane, in primo luogo per le vergini («Nella vita di Maria risplende la bellezza della sua castità e della sua esemplare virtù») ma anche per tutti i fedeli; di lei vengono esaltate la sincerità (la verginità «di mente»), l'umiltà, la prudenza, la laboriosità, l'ascesi.  Milano e il rito ambrosiano  Sant'Ambrogio con in mano il flagello contro i nemici di Milano, in un bassorilievo quattrocentesco Magnifying glass icon mgx2.svg Rito ambrosiano. L'operato di Sant'Ambrogio a Milano ha lasciato segni profondi nella diocesi della città.  Già nel settembre del 600 papa Gregorio Magno parlò del neoeletto vescovo di Milano, Deodato, non tanto come successore, bensì come "vicario" di sant'Ambrogio (equiparandolo quasi ad un secondo "vescovo di Roma"). Nell'anno 881 invece papa Giovanni VIII definì per la prima volta la diocesi "ambrosiana", termine che è rimasto ancora oggi per identificare non solo la Chiesa di Milano, ma talvolta anche la stessa città.  L'eredità di Ambrogio è delineata principalmente a partire dalla sua attività pastorale: la predicazione della Parola di Dio coniugata alla dottrina della Chiesa cattolica, l'attenzione ai problemi della giustizia sociale, l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani, la denuncia degli errori nella vita civile e politica.  L'operato di Ambrogio lasciò un segno profondo in particolare sulla liturgia. Egli introdusse nella Chiesa occidentale molti elementi tratti dalle liturgie orientali, in particolare canti e inni. Si attribuisce ad Ambrogio l'inno Te Deum laudamus, ma la questione è controversa e negata anche da Luigi Biraghi. Le riforme liturgiche furono mantenute nella diocesi di Milano anche dai successori e costituirono il nucleo del Rito ambrosiano, sopravvissuto all'uniformazione dei riti e alla costituzione dell'unico rito romano voluta da papa Gregorio I e dal Concilio di Trento.  In dialetto milanese Ambrogio viene chiamato sant Ambroeus (grafia classica) o sant Ambrös (entrambi pronunciati "sant'ambrœs").   Sant'Ambrogio affrescato da Masolino, Battistero Castiglione Olona Alla sua figura è ispirato anche il premio Ambrogino d'oro, che è il nome non ufficiale con cui sono comunemente chiamate le onorificenze conferite dal comune di Milano.  Sant'Ambrogio e il canto liturgico  Michael Pacher, Sant'Ambrogio, Monaco, Alte Pinakothek Con il termine di ambrosiano non si definisce solo il rito della Chiesa Cattolica che fa riferimento al santo, ma anche un preciso modo di cantare durante la liturgia. Esso viene indicato con il nome di canto ambrosiano. Esso è caratterizzato dal canto di inni, cioè di nuove composizioni poetiche in versi, che vengono cantate da tutti i partecipanti al rito.  A differenza di quanto avveniva per i salmi, solitamente cantati da un solista o da un gruppo di coristi, essi vengono invece cantati da tutti i partecipanti, in cori alternati, normalmente tra donne e uomini, ma in altri casi tra giovani e anziani o anche tra fanciulli e adulti. Alcuni di questi inni sono stati sicuramente composti da Ambrogio. La certezza viene dal fatto che a menzionarli è sant'Agostino, che fu discepolo di Sant'Ambrogio.  Essi sono:  Aeterne rerum conditor (cf. Retractionum I,21); Iam surgit hora tertia (cf. De natura et gratia 63,74); Deus creator omnium (ricordato nelle Confessioni e citato complessivamente ben cinque volte dal vescovo di Ippona); Intende qui regis Israel (cf. Sermo 372 4,3). Attraverso la liturgia della Chiesa cattolica in generale e di quella ambrosiana in particolare, sono giunti fino a noi una moltitudine di inni in stile ambrosiano. I ricercatori hanno cercato di trovare dei criteri per indicare quelli che, con più certezza, sono stati composti da Ambrogio. Nel 1862 Luigi Biraghi ne indicava tre: la conformità degli inni con l'indole letteraria di Ambrogio, con il suo vocabolario e con il suo stile. Con questi criteri egli arrivò a selezionare diciotto inni:  Splendor paternae gloriae (nell'aurora) Iam surgit hora tertia (per l'ora di terza domenicale) Nunc sancte nobis Spiritus (per l'ora di terza feriale) Rector potens verax Deus (per l'ora di sesta) Rerum, Deus, tenax vigor (per l'ora di nona) Deus creator omnium (per l'ora dell'accensione) Iesu, corona virginum (inno della verginità) Intende qui regis Israel (per il Natale del Signore) Inluminans Altissimus (per le Epifanie del Signore) Agnes beatae virginis (per sant'Agnese) Hic est dies verus Dei (per la Pasqua) Victor, Nabor, Felix, pii (per i santi Vittore, Nabore e Felice) Grates tibi, Iesu, novas (per i santi Gervasio e Protasio) Apostolorum passio (per i santi Pietro e Paolo) Apostolorum supparem (per san Lorenzo) Amore Christi nobilis (per san Giovanni Evangelista) Aeterna Christi munera (per i santi martiri) Aeterne rerum conditor (al canto del gallo) Gli autori dell'edizione delle opere poetiche di Ambrogio in un volume stampato nel 1994, che ha portato a compimento l'Opera Omnia, in latino e in italiano, del vescovo di Milano, hanno ridotto questo numero certo a tredici canti, escludendo quelli per le ore minori, per i martiri e della verginità. L'esclusione va ascritta alla metrica di questi testi. Ambrogio aveva una predilezione per il numero otto. I suoi inni sono tutti di otto strofe con versi ottosillabici. Egli vedeva in questo numero la risurrezione di Cristo, la novità cristiana e la vita eterna (octava dies, l'ottavo giorno della settimana, cioè il nuovo giorno, in cui inizia l'era del Cristo). Per questi studiosi appare improbabile che egli sia venuto meno a questa preferenza e quindi quelli di due o di quattro strofe non vengono attribuiti al vescovo milanese.  Per questi storici inoltre non vi è motivo di dubitare che l'autore della melodia sia lo stesso Ambrogio dato che per loro natura questi inni nascono consostanziati alla musica. Il Migliavacca nota come Ambrogio possedesse una conoscenza musicale approfondita. Le sue opere rivelano, oltre a una perfetta conoscenza scolastica, anche una particolare propensione musicale. Egli parla dell'arte musicale con cognizione tecnica e non solo con estetica raffinatezza come il suo discepolo Agostino.  Leggende su Sant'Ambrogio  Spoglie mortali di Ambrogio e Gervasio, rivestite dei paramenti liturgici, nella cripta della Basilica di Sant'Ambrogio a Milano. Su Sant'Ambrogio vi sono numerose leggende miracolistiche:  Mentre Ambrogio infante dormiva nella sua culla posta temporaneamente nell'atrio del Pretorio, uno sciame di api si posò improvvisamente sulla sua bocca, dalla quale e nella quale esse entravano ed uscivano liberamente. Dopodiché lo sciame si levò in volo salendo in alto e perdendosi alla vista degli astanti. Il padre, impressionato da tutto ciò, avrebbe esclamato: «Se questo mio figlio vivrà, diverrà sicuramente un grand'uomo!». Ambrogio, camminando per Milano, avrebbe trovato un fabbro che non riusciva a piegare il morso di un cavallo: in quel morso Ambrogio riconobbe uno dei chiodi con cui venne crocifisso Cristo. Dopo vari passaggi, un "chiodo della crocifissione" è tuttora appeso nel Duomo di Milano, a grande altezza, sopra l'altare maggiore. Nella piazza davanti alla basilica di Sant'Ambrogio a Milano è presente una colonna, comunemente detta "la colonna del diavolo". Si tratta di una colonna di epoca romana, qui trasportata da altro luogo, che presenta due fori, oggetto di una leggenda secondo la quale la colonna fu testimone di una lotta tra Sant'Ambrogio ed il demonio. Il maligno, cercando di trafiggere il santo con le corna, finì invece per conficcarle nella colonna. Dopo aver tentato a lungo di divincolarsi, il demonio riuscì a liberarsi e, spaventato, fuggì. La tradizione popolare vuole che i fori odorino di zolfo e che appoggiando l'orecchio alla pietra si possano sentire i suoni dell'inferno. In realtà questa colonna veniva usata per l'incoronazione degli imperatori germanici. A Parabiago, Ambrogio sarebbe apparso il 21 febbraio 1339, durante la celebre battaglia: a dorso di un cavallo e sguainando una spada, mise paura alla Compagnia di San Giorgio capitanata da Lodrisio Visconti, permettendo alle truppe milanesi del fratello Luchino e del nipote Azzone di vincere. A ricordo di tale leggenda fu edificata a Parabiago la Chiesa di Sant'Ambrogio della Vittoria e a Milano, su un portone bronzeo del Duomo, gli è stata dedicata una formella. Opere: “Divi Ambrosii Episcopi Mediolanensis Omnia Opera”; “Oratorie (esegetiche)” “Exameron”; “De paradiso”; “De Cain et Abel”; “De Noe”; “De Abraham”; “De Isaac et anima”; “De bono mortis”; “De Iacob et vita beata”; “De Ioseph”; “De patriarchis”; “De fuga saeculi”; “De interpellatione Iob et David Apologia”; “David”; “De Helia et ieiunio”; “De Tobia”; “De Nabuthae historia; “Explanatio in XII Psalmos Davidicos”; “Expositio in Psalmum CXVIII”; “Expositio in Lucam De excessu fratris; “Satyri libri duo”; “De obitu Valentiniani consolation”; “De obitu Theodosii oratio Morali (ascetiche); “De virginibus” o “Ad Marcellinam sororem libri tres De viduis; “De perpetua virginitate Sanctae Mariae”; “Adhortatio virginitatis o Exhortatio virginitatis”; “De officiis ministrorum Dogmatiche (sistematiche): “De fide ad Gratianum Augustum libri quinque; “De Spiritu Sancto ad Gratianum Augustum; “De incarnationis dominicae sacramento; “De paenitentia Catechetiche; “De sacramentis libri sex; “De mysteriis De sacramento regenerationis sive de philosophia; “Explanatio Symboli ad initiandos Epistolario: “Epistulae Innografia Hymni Altro Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis”. Tituli Curiosità S.Ambrogio essendo patrono delle api, rappresenta al meglio l'operosità non solo quella risaputa dei milanesi, di cui è patrono festeggiato il 7 dicembre, ma di tutti coloro che si impegnano nel lavoro, con combattività, spirito di sacrificio e di spirito di abnegazione. Inoltre S.Ambrogio ha come secondo simbolo il gabbiano che è legato alla sensazione di libertà e spazio immenso. Il gabbiano trova l'equilibrio e si alimenta di ciò che trova nel rispetto della sua natura di predatore e onnivoro che non si tira indietro a nulla per la propria sopravvivenza. Per le suddette simbologie, e per tutte le altre che sia le api che i gabbiani rappresentano, S.Ambrogio è ormai considerato da tempo il protettore delle startup innovative che vedono in S.Ambrogio, guida sicura con la sua famosa frase di valore eterno: "Voi pensate che i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi" Note  lastampa/vatican-insider/it//10/02/news/milano-studi-confermano-l-identita-di-sant-ambrogio-e-di-due-martiri-1.34049446 Johan Leemans, Peter Van Nuffelen e Shawn W. J. Keough, Episcopal Elections in Late Antiquity, Walter de Gruyter, 28 luglio,  978-3-11-026860-7.  Ambrogio, Exorthatio virginitatis, 12, 82  Robert Wilken, "The Spirit of Early Christian Thought" (Yale University Press: New Haven, 2003),  218.  Michael Walsh, ed. "Butler's Lives of the Saints" (HarperCollins Publishers: New York, 1991),  407.  Paolino, Vita di Ambrogio, 6  Basilica Vetus e Battistero di Santo Stefano alle fonti, su adottaunaguglia.duomomilano. 18 marzo.  Paolino, Vita di Ambrogio, 7-8  Indro Montanelli, Storia di Roma, Rizzoli, 1957  Ambrogio, Lettera fuori coll. 14 ai Vercellesi, 65  Ambrogio, De officiis, I, 1, 4  Giacomo Biffi, Relazione al Meeting di Rimini, 29-08-1997  C. Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a Milano, op. cit.,  169-170  Graziano avrebbe voluto convocare un concilio numeroso, ma Ambrogio lo esortò a convocare un numero limitato di vescovi, affermando che per appurare la verità ne bastavano pochi e che non era il caso di incomodarne troppi, facendo loro affrontare un viaggio faticoso (Neil B. McLynn, Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, University of California Press, 1994.  124–5.).  Codex Theodosianus, 16.10.10  Codex Theodosianus, 16.7.4  Codex Theodosianus, 16.10.12.1  Guida della Basilica di S. Ambrogio: note storiche sulla Basilica ambrosiana, Ferdinando Reggiori, Ernesto Brivio, Nuove Edizioni Duomo, 198686.  Gérard Nauroy, L'Ecriture dans la pastorale d'Ambroise de Milan, in Le monde latin antique et la Bible. J. Fontaine e C. Pietri, Parigi 1985. Citato in Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo delle origini e i primi sviluppi della fede a Milano, op. cit.  Per un'ampia descrizione dell'episodio: Antonietta Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa del IV secolo, La Sapienza Editrice, Roma, 1990, pag. 3 e segg.; Thomas J. Craughwell, Santi per ogni occasione, Gribaudi, 2003, pag.49; Lucio De Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano, Tempi moderni, pag.120; Giovanni De Bonfils, Roma e gli ebrei, Cacucci, 2002, pag. 186; Mariateresa Amabile, Nefaria Secta. La normativa imperiale ‘de Iudaeis’ tra repressione, protezione, controllo, I, Jovene, Napoli,.James Hastings, Encyclopedia of Religion and Ethics, Kessinger Publishing, 2003, pag. 374  Walter Peruzzi, Il cattolicesimo reale, Odradek, Roma, 2008  Ambrogio, De virginibus, 2, 6-18, citato in L. Gambero, Testi mariani del primo millennio, Città Nuova, 1990  Rito Ambrosiano: la centralità dell'opera di Sant'Ambrogio per la Chiesa di Milano  Jacopo da Varazze, Leggenda Aurea, LVII. Un episodio analogo è riferito anche a Santa Rita da Cascia, vedi: Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Ed. Rizzoli, Milano, 1993,  88-17-84233-8, pag. 816  Per una narrazione della leggenda e della costruzione della chiesa si veda: Don Gerolamo Raffaelli, La vera historia della Vittoria qual ebbe Azio Visconti nell'anno della comune salute 1339 nel dì XXI febbr. in Parabiago contro Lodrisio V Limonti, Milano, anno MDCIX Don Claudio Cavalleri, Racconto istorico della celebre Vittoria ottenuta da Luchino Visconti princ. di Milano per la miracolosa apparizione di Santo Ambrogio, seguita il dì 21 febbr. l'anno 1339 in Parabiago, e dedicata al March. D. Giambattista Morigia G. Richino Malerba, Milano, 1745 Alessandro Giulini, La Chiesa e l'Abbazia Cistercense di S. Ambrogio della Vittoria in Parabiago, Archivio Storico Lombardo, 1923, pagina 144  Ponzio di Cartagine, Vita di Cipriano; vita di Ambrogio; vita di Agostino / Ponzio, Paolino, Possidio, Città Nuova, Milano, 1977 Tutte le opere di sant'Ambrogio, Ed. bilingue a cura della Biblioteca Ambrosiana, Roma: Città nuova. Angelo Paredi, Ambrogio, FIR MilanoStoriaSec. IV-V Hoepli collana Collezione Hoepli Angelo Ronzi, Sant'Ambrogio e Teodosio: studio storico-filosofico, Visentini editore, Venezia. Enrico Cattaneo, Terra di Sant'Ambrogio: la Chiesa milanese nel primo millennio; Annamaria Ambrosioni, Maria Pia Alberzoni, Alfredo Lucioni, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1989. Vita di sant'Ambrogio: La prima biografia del patrono di Milano di Paolino di Milano, Marco Maria Navoni, Edizioni San Paolo, 1996.  978-88-215-3306-8 Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo, Edizioni San Paolo, Cinisello B. 1996.  88-215-3303-4 Luciano Vaccaro, Giuseppe Chiesi, Fabrizio Panzera, Terre del Ticino. Diocesi di Lugano, Editrice La Scuola, Brescia 2003m, 5, 128, 202, 224, 225, 248, 259nota, 280, 286, 287, 442. Giorgio La Piana, Ambrogio in  Enciclopedia Biografica Universale, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 2006, 434-442. Dario Fo, Sant'Ambrogio e l'invenzione di Milano Einaudi Torino 2009 978-88-06-19486-4. Raffaele Passarella, Ambrogio e la medicina. Le parole e i concetti, LED Edizioni Universitarie, Milano 2009 978-88-7916-421-4 Cesare Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a Milano., Busto Arsizio, Nomos Edizioni.  978-88-88145-46-4 Franco Cardini, 7 dicembre 374. Ambrogio vescovo di Milano, in I giorni di Milano, Roma-Bari, 21-40. Sant'Ambrogio, in San Carlo Borromeo, I Santi di Milano, Milano,  978-88-97618-03-4 Patrick Boucheron e Stéphane Gioanni, La memoria di Ambrogio di Milano. Usi politici di una autorità patristica in Italia (secc. V-XVIII), Paris-Roma, Publications de la Sorbonne-École française de Rome,  (Histoire ancienne et médiévale, 133CEF, 503), 631 p.,  978-2-7283-1131-6  Sant'Ambrogio, [Opere], apud inclytam Basileam, [Johann Froben], 1527.  Sant AmbroeusTra storia e leggenda, Meravigli edizioni (in collaborazione con Circolo Filologico Milanese), Milano,   Satiro di Milano Santa Marcellina Agostino di Ippona Basilica di Sant'Ambrogio Patristica Diocesi di Milano Rito ambrosiano Paolino di Milano Chiesa dei Santi Ambrogio e Theodulo Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Sant'Ambrogio Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Sant'Ambrogio Collabora a Wikiquote Citazionio su Sant'Ambrogio Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Sant'Ambrogio  Sant'Ambrogio, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sant'Ambrogio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sant'Ambrogio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Sant'Ambrogio, su sapere, De Agostini.  (IT, DE, FR) Sant'Ambrogio, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. 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Cathechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Sant'Ambrogio in occasione dell'udienza generale del 24 ottobre 2007 PredecessoreVescovo di MilanoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Aussenzio374-397San Simpliciano SoresiniV D M Padri e dottori della Chiesa cattolica V D M Ambrogio di Milano Antica Roma  Antica Roma Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Milano  Milano Categorie: Funzionari romaniVescovi romani del IV secoloTeologi romani 397 4 aprile Treviri MilanoAmbrogio di MilanoSanti romani del IV secoloCorrispondenti di Quinto Aurelio SimmacoDottori della Chiesa cattolicaPadri della ChiesaSanti per nomeScrittori cristiani antichiScrittori romaniTeologi cristianiVescovi e arcivescovi di MilanoSanti della Chiesa ortodossa. 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IL DIRITTO ROMANO Fu sopratutto col pacifico apostolato della scienza e della virtù,chequeigrandi uomini,cuilaChiesagiustamentesaluta suoi padri,illuminaronoevinsero ilmondo pagano.Allo scetti cismo, frutto di astruse teorie filosofiche, che distruggevano senza edificare, essi opposero le verità cattoliche, profonde e s u blimi pei sapienti, chiare e popolari per la moltitudine,pratiche per tutti;alla spaventosa depravazione prodotta e mantenuta da una religione tutta materia e sensi,essi risposero coll'introdurre della sfibrata e morente società romana una moltitudine di uomini e di donne, i quali invece delle sterili declamazioni di Cicerone e di Seneca,offrivano sé stessi,ad esempio di Gesù Cristo, ostie viventi di sacrificio per la Chiesa e per l'umanità. I secolo IV segna appunto il massimo furore di quelle in cruente battaglie. S. Atanasio, S. Basilio, i due S. Gregorii, S.Girolamo,S.Agostino,S.Giovanni Grisostomodaunaparte; S. Antonio e le migliaja di monaci e di sante vergini dall'al tra.Nel mezzo del secolo poi e nel mezzo dell'Occidente com pare il grande Arcivescovo di Milano,S. Ambrogio,che rac coglie la penna di S. Atanasio per trasmetterla a S. Agostino, e colla voce, cogli scritti e cogli esempi propri e della santa sua sorella Marcellina popola, non ideserti,ma le corrotte città latine di una legione di angeli terreni. Sublime missione al certo,ma non unica,a cui laDivina Provvidenza destinava il figlio del Prefetto delle Gallie, allora che inconsapevole de'suoi destini,giungeva in Milano nel l'anno 373,per esercitarvi qual Consolare l'autorità del Vicario d'Italia nella Liguria ed Emilia.Infatti nel congedare il suo giovine amico,Petronio Probo Prefetto del pretorio e cristiano, gli aveva detto:ricordatevi,mio figlio, di operarenon da giu dice,ma davescovo(1).L'opulentoesaggiosenatoreromano con quelle parole manifestava, senza comprenderne la forza profetica, il vizio radicale ed il maggior pericolo dell'impero romano,e quale avrebbe dovuto esserne ilrimedio:la cristia nizzazione cioè veraceed intera del governo e delle leggi. 437  (1)Paulin,in vit.Amb.n.5.  A quest'opera tuttavia richiedevasi non un greco od un barbaro,ma un nobile romane discendente dall'antica razza conquistatrice;era conveniente non un uomo di guerra ne un colto letterato,ma un giurisperito,che dalla magistratura dell'impero terreno passasse alla magistratura dell'impero spi rituale.Tal fu Ambrogio,allorché nel 374 per mezzo di un prodigio fu eletto Vescovo di Milano. SealcunofossestatoalloraammessodaDio leggerenel futuro avrebbe ravvisato nel Consolare romano fuggente l'o noreela responsabilitàdiVescovo,ilsecondo fraiquattro Dottori della Chiesa, che sono rappresentati sostenere la cat tedra di S. Pietro in Vaticano; ma insieme avrebbe meravi gliato contemplando da lungi la nuova società cristiana succe dere all'impero pagano,e S. Ambrogio,che formata la mente ed il cuore del grande Teodosio, ne congiunge la destra a tra verso isecoli con quella di Carlo Magno. Si; è evidente che S. Ambrogio ritorna fra noi appunto nel momento del maggior bisogno della Chiesa e della società, quando il paganesimo redivivo ha consumato ormai presso tutte le nazioni cristiane l'apostasia dello Stato dalla Chiesa e va lentamente scristianizzando tutti i codici e tutte le leggi dei popoli civili.Non è pertanto meraviglia se dalla scoperta delle reliquie santambrosiane la setta anti-cristiana intraveda una minaccia misteriosa a quelle che essa chiama le gloriose conquiste dell'umanilà; mentre il popolo veramente e sincera mente cattolico si commove ed esulta, come all'arrivo di uno sperimentato e valente capitano.  Nondimeno chi fu che sospettasse in que'giorni questa importantissima missione religiosa ecivile del nuovo Ve scovo di Milano? Gli uomini invero sono istrumenti e spet tatori quasi sempre inconscii,dellemeraviglie di Dio.Ben po chi giungono a sorprenderne la mano onnipotente e miseri cordiosa, allorchè in mezzo alle angoscie dei secoli più trava gliati, quando lutto sembra avviarsi a rovina,getta silenziosa ed inosservata la semente, che fruttificherà a suo tempo pace e prosperità alle generazioni venture.Furono isecoli cristiani che riconobbero la lontana,ma efficace opera di S. Ambrogio; ed è perciò con un trasalimento di gioja che noi, dopo quin dici secoli, da quel 74, in cui Dio lo dono alla Chiesa ed alla società, vediamo risvegliarsi l'eroe delle battaglie contro il paganesimo ed affacciarsi dalla sua tomba a riguardare le il lusioni, le convulsioni ed i terrori di questo secolo XIX, per errori e pericoli sociali tanto simile al secolo IV. Alla domanda perciò che ispontanea si presenta alla mente di ognuno,in questi giorni,in cui collo spirito della Chiesa, che è spirito di preghiera, ci prepariamo ad onorare gli avanzi mortali del gran Santo, gran Dottore e grande cittadino del secolo IV,vale a dire: perché ritorna ora fra noi S. Ambrogio? non si può chiedere una risposta intera ed adeguata che ai secoli avvenire.Essi ci mostreranno e spiegheranno laragione provvidenziale, per cui le reliquie del santo Arcivescovo e dei due martiri milanesi riapparvero in questi anni e non prima. Noi frattanto dal passato cercheremo di pronosticare il futuro; e dalla influenza tutta santa e civilizzatrice, che il C o n solare romano eletto Vescovo esercitò sul governo, sulle leggi e sulla società del secolo IV,ciconforteremo a sperare che in modo eguale e maggiore vorrà ora farci sentire la potenza di sua intercessione presso Dio in pro della tribolata e perico Jonte società moderna; speranza e consolazioni ben giuste,poi che nella Chiesa Cattolica anche le ossa dei santi profetano.  I. La divisione scientifica del Diritto in pubblico e privato era conosciuta,se non di nome,certo di fatto,anche nel l'anticoGiureRomano;eilprimo era fontedelsecondo,il quale sisvolgeva e modificava mano mano che si svolgevano e modificavano le istituzioni politiche. Un popolo eminenlemente guerriero e conquistatore,come era quello formato dai primi compagni e discendenti di Romolo, non poteva a meno di dare alla propria legislazione un impronta semplice,ma fiera e di spotica, spesse volte in aperta contraddizione co'diritti di na tura. Per essa la patria era tutto, l'individuo nulla, la famiglia un mezzo perdarguerrierialcampo,uominiprudentialforo lodata perció la madre dei Gracchi, che invece dei giojelli m u liebri fa pompa de'suoi figli, futuri tribuni della plebe; poi chèessaconciòrappresentavaladonnaromana,qualelavo leva il ferreo diritto repubblicano. Quella patria infatti, per cui tutti e tutto si doveva sagrificare, non era che l'interesse e l'ambizione di poche famiglie patrizie discendenti dall'antica razza conquistatrice: all'infuori dei senatori e cavalieri non si conoscevacheplebe,efuoridiRoma tuttoilmondo,secondo il diritto pubblico romano, non era abitato che da vinti o da nemici.Di qui nacque e si perpetuò dai primi tempi di Roma quell'antagonismo fra senato e plebe, che fu causa non ultima della caduta dellarepubblicaedell'intronizzazione del dispotismo cesareo;diqui anche quella lotta continua con tutte le nazioni confinanti coll'impero, lotta che fini colla inondazione dei barbari. L'aspettocaratteristicoperò dell'anticoDirittoRomano come di tutte le primitive legislazioni, è l'unione indissolubile dello Stato colla Religione.Essa presiede a tutti gli atti pubblici e privati; non si intima guerra ne si concede pace senza i feciali egliaruspici;senzaauspicj nonsiradunanoassemblee;nonsi stringono trattati che sotto la protezione degli dei, e la stessa proprietà privata è sotto la salvaguardia degli dei penati, cui i primi romani non si dimenticavano mai di salutare all'ingresso dellecase.La religione latina d'altra parteera essenzialmente nazionale,e si informava a quello spirito di famiglia, che appare l'anima ditutte leistituzioni romane;essa perciò rimaneva in carnatacollarepubblica,poichéRoma derivavadaglideiein taccar la religione era intaccare Roma,ed essendo Roma il mondo,era un dichiararsi nemici del genere umano.Più tardi, all'avvenimento dell'impero,Augusto uni ilsommo pontificato alla soprema potenza civile e militare e collocò l'altare della Vittoria nel senato,come testimonio e simbolo dell'eterna al leanza fra lo Stato ed il paganesimo. Laonde,quandoaltempo dell'abbrutito Tiberio,alcunipe scatori di Galilea predicarono una nuova religione, che diceva doversi obbedienza prima a Dio che a Cesare - essere glidei nazionaliidoliedemonii nostrapatriailcielo la terra luogo non di piaceri ma di prova - gli uomini senza distin zione di sesso edi città,siailromano che ilgreco,ilbarbaro, "loschiavo,tuttifratelli- figlidiun comun padreIddio- idegradati nipoti diCincinnato siscossero,come all'annuncio di un nemico alle porte,che minacciasse di rovesciare l'antica maestà di Roma.Il cristianesimoinfatti non era un semplice culto religioso, una delle mille superstizioni che dall'oriente si importavano alla capitale colle spoglie delle vinte nazioni e che il fiero politeismo romano riceveva come arra di pace e difusionedeipopoliassoggettati;ilcristianesimoeraun in tero sistema teorico e pratico, che abbracciava tutto l'uomo e siimponeva a tutte le questioni sociali,esigendo un'intera ri voluzione di idee, di costumi e di leggi, un cambiamento ra dicale nel diritto pubblico e privato dell'impero.Appena pro mulgata questa nuova dottrina aveva trovati assecli ferventi ed indomabili in ogni classe e condizione dell'impero; accolto sopratutto con trasporto fra quegli esseri, quanto spregiati al trettanto numerosi, quali erano nella società romana ledonne e gli schiavi (1).Non ci meravigliamo pertanto che la giuri sprudenza e la politica romana si trovassero bentosto nella nece s s i t à d i r i s o l v e r e u n q u e s i t o, il q u a l e i n v o l g e v a l e s o r t i d e l l ' i m pero e dell'umanità. Se l'impero accoglieva il cristianesimo, questo che trasformava le donne ed i fanciulli in eroi, avrebbe salvato l'impero dallo sfascelo all'interno, all'esterno dai barbari, mansuefattidalvangelo;ma loStatoconciòcessavadiessere ilsupremo Iddio;laChiesa assumeva con esso le parti dim a dre; lo schiavo, il vinto, la donna dovevano esser rispettati; s'umiliava l'orgoglio;cadevano Venere e Mercurio;regnava Cristo. Se per contrario volevasi sostenere l'onnipotenza dello Stato, la divinità degli imperatori, l'eternità di Roma, la nuova religione si doveva far sparire dalla faccia della terra.Da Ne rone a Massenzio gli imperanti romani si decisero per questa seconda politica e ne affidarono la cura al carnefice; il quale per tre secoli stancò uomini e belve, e non riesci che a ren dere più splendido il trionfo del cristianesimo. Costantino cambiò sistema e dopo aver bandito tolleranza,dichiarossi per ilnuovo culto;seguitodalfiglioCostaozo,chefattosiperò da protettore giudice e padrone della Chiesa, divenne il triste modellodituttiipersecutorifinoadoggi.Sopragiunse Giu liano,col quale ilpaganesimo, domato ma non spento, tentò fe roce, sebbene effimera, riscossa. Quando Ambrogio entrò Consolare a Milano,regnava Va lentiniano I, successo al buon Gioviano. Scelto dall'esercito l'imperatore era prode guerriero;accorse al Reno e all'onda sanguinosa dei barbari, che scrosciava e trasbordava dalle frontiere, oppose, per allora, un argine di ferro.  Tuttavia se la spada valeva coi nemici non giovava per le questioni interne, nè per arrestare la decomposizione sociale di quell'immane gigante,cui ilcristianesimo tentava invano di risanguare con forti e pratiche dottrine di virtù e sagrificio. La fede operava al certo nel segreto delle coscienze una im portantissimarivoluzionemorale;ma nonostanteglisforzidi Costantino, il mondo amministrativo si era tenuto in disparte dalla influenza e dalle istituzioni cristiane.Infatti sotto Valen tiniano, già confessor della fede avanti all'Apostata, il governo continuava colle massime e coi costumi dell'antica Roma pa gana;l'imperatore proseguiva a chiamarsi divino ed eterno; (1)Lactant.,Instit.lib. V,cap.18.   aveva assunto i titoli e le insegne di pontefice massimo; m a n teneva ai sacerdoti degli idoli privilegi e sovvenzioni a carico dell'erario; mentre l'altare della Vittoria eretto nel mezzo del senato,attestava la politica incerta ed equivoca del regnante cristiano.Idue elementi opposti edinconciliabilierano invero tuttora di fronte e disponevano di forze eguali; più popo lareediffuso,massimeinoriente,ilcristianesimo;più po tente per ricchezze ed aderenze,in ispecie in occidente e fra le famiglie aristocratiche, il paganesimo, considerato da esse come simbolo e palladio dell'antica gloria romana. Valenti niano I reputò pertanto abilità politica il mettere lo Stato nel mezzo, come neutrale e paciere fra le due nemiche correnti. Enorme fallo politico, che si ripete continuamente ogni volta che nella società scendono in campo ad aperta battaglia i due eterni nemici, la materia e lo spirito, l'errore e la verità, la città degli uomini e la città di Dio ! Dall'errore nasce l'errore:un governo che esita e teme decidersi fra il cristianesimo e le superstizioni gentilesche, per quanto spiritualizzate dal neoplatonismo,fra Cristo e Satana,un tal governo non può reggersi che con una serie di ripieghi, so v e n t e c o n t r a d d i t t o r i i; p e r e s s o il p r i n c i p e c r i s t i a n o n o n p o r t e r à che colpi troppo prudenti a quelle antiche istituzioni pagane, che rimanevano sempre incarnate nel diritto civile dell'impero. Quante questioni giuridiche, di cui ilprogresso introdotto dal cristianesimoreclamavauna prontaeradicalesoluzione,re stavano perciòsenza una risposta.Eppure necessitàstringeva, se l'impero voleva salvarsi ! La società era tuttora divisa fra una minoranza di opu lenti, che si chiamavano liberi e cittadini,ed una immensa maggioranza di uomini, cui il cristianesimo diceva fratelli dei superbi padroni,ma che la Roma conquistatrice aveva classificati fra gli utensili d'agricoltura ed industria e fra gli oggetti di commercio (1); gli schiavi reclamavano in nome della natura e della religione idiritti dell'uomo e del cristiano. Un'altra schiavitù legale era stata recentemente introdotta dal fisco rapace,che in nome della divinitàdiRoma,padrona del mondo,non solospogliava ma distruggeva;icoloni ed icu riali protestavano,io nome di una assennata economia politica, per un mutamento radicale nei principii che regolavano sia la proprietà,che l'esazione delle imposte. Il padre verso ifigli,  (1)Ulpian.Inst.I,tit.8.   il padrone verso gli schiavi, e perfino il creditore verso il d e bitore,anchedopolesaggiecostituzioni diCostantino,con servavano diritti, che si assomigliavano troppo a quelli che la ferrea mano dei decemviri aveva scolpiti nel bronzo;la carità cristiana, la quale ne andava sbandendo dai costumi l'atroce e s e r c i z i o, e s i g e v a c h e il l e g i s l a t o r e s c i o g l i e s s e i s u d d i t i d a q u e l l e pastoje dell'antico servaggio,con cui ilgiudice per rispetto ad una formulistica e sacrilega legalità conculcava l'equità e la g i u s t i z i a. C h e p i ù; il m a t r i m o n i o f o n d a m e n t o d e l l a s o c i e t à e la donna che ne è il cuore, erano sempre 'all'arbitrio di una legislazione,che sanzionava,col divorzio e colla tutela perpetua, una incredibile corruzione di costumi, massimo fra i pericoli dell'impero;or bene le vergini e martiri cristiane volevano,che un sesso santificato dalla Vergine madre di Dio, fosse ricollo cato nel posto assegnatogli dal Creatore e che il matrimonio, pei cristiani elevato a Sacramento, fosse anche pei pagani cosa seria e rispettata. Queste ed altre questioni,che travagliavano lasocietà ro mana nelSecoloIV,sisarannoessepresentateallavastae profonda intelligenza ed al cuore nobile e passionato del gio vine Consolare, in quel primo giorno che in Milano prese pos sesso dell'importante sua carica? Le parole e le gesta del m a gistrato divenuto Vescovo dimostrano, che S. Ambrogio le aveva comprese, e già risolte in quella, che tutte le compen diava:la cristianizzazione del governo e del diritto romano. S. Ambrogio vi si adoperò con quel tatto pratico carat- teristico dellaRoma conquistatrice del mondo,che ora è pas sato nella Roma capitale del cattolicismo.Cauto,prudente e piuttosto lento,l'antico romano taceva, meditava ed operava a colpo sicuro; non guidandosi a vivaci teorie più o meno ulo pistiche esso studiava ed aspettava, non preveniva gli avveni menti;e perciò mentre le colte e filosofiche repubbliche greche sparivano fra l'olezzo dei fiori ed il canto dei loro inimitabili poeti,il tardo romano si impossessava dell'universo. Questa impronta si ravvisa negli scritti e più nelle opere del grande Metropolita di Milano; perchè se ilcuore ardente di Vescovo cattolico lo moveva a parlare al suo popolo,a scrivere lettere e volumi, a portarsi alla corte e trattar cogli imperatori, la severa prudenza del magistrato romano gli dava quella calma e quella saggezza, onde isuoi detti ricevevansi come oracoli.   Suo primo atto fu volgersi a Valentiniano I, la cui indole buona ma violenta era stata esasperata da malattie e da cor tigiani e satelliti sanguinarii, per cui si riempiva l'occidente di gemiti e di lamenti.Cosa disse Ambrogio all'imperatore dagli storici contemporanei non ci è riferito; ma la risposta del so vrano e più il mutamento totale di sua politica dopo quel col loquio,ci dimostrano la prima vittoria sul dispotismo cesareo, Valentiniano lodò la franca indipendenza del vescovo e ne volle pe'suoi peccati conveniente rimedio (1).Cosa inaudita e fin allora creduta impossibile!La divinità imperiale, cui la legisla zione romana,anche dell'età classica,asseriva sciolta dalle leggi (princeps solulus a legibus),anzi legge vivente, e libero senza ombra di ritegno a dichiarar lecito ciò che jeri era illecitoed ingiusto (2), il dio di R o m a, riconosce d'aver errato; ed i s u d diti,senza essere costretti,come era d'uso,a sgozzare e poi celebrar l'apoteosi dell'imperatore,possono ormai fargliperve nireleloroquerelepermezzodei Vescovi,rappresentanti la co mune madre, la S. Chiesa. Se ad alcuno però non piace questo progresso,perché introdottodaVescoviepreti,riservipure l'ammirazione per Ulpiano e Paolo, fra i più grandi giurecon sulti al certo dell'epoca degli Antonini,iquali celebravano la clemenzaelasaggezza diquelmostrochesichiamavaComodo! Un altro passo tuttavia rimaneva a fare: non solo la per sona,ma la stessa dignità imperiale doveva ripudiare official m e n t e il c u l t o n a z i o n a l e d i R o m a. U n a c e r i m o n i a r i d i c o l a e r a stata introdotta da Augusto e ripetevasi infallantemente ogni volta era assunto un nuovo principe all'impero;lo stesso Co stantino non aveva osato di rinunciarvi.L'offerta però del ti t o l o e d e l l e i n s e g n e d i p o n t e f i c e m a s s i m o, c h e il s e n a t o f a c e v a all'imperatore,inchiudeva un gravissimo significato, poichè era la conferma di quel vecchio diritto pagano e teocratico, del quale igiureconsulti non ardivano acora distruggere l'autorità tante volte secolare e che isenatori,in parte ancora idolatri, facevano studiosamente rivivere appena se ne presentasse l'oc casione.Rigettare quelle insegne era dunque sconfessare l'as soluta sovranità dello Stato sopra i beni, sulla vita e, ciò che più importa ai despoti,sulle anime e sulle coscienze dei sud diti. Quale fra i moderni vantatori di liberalismo in simile circostanza ascolterebbe la voce della ragione e della fede, par  444 S. AMBROGIO E IL DIRITTO ROMANO (1) Theodor. Hist. Eccl. Lib. IV,c. VI. (2) Digest. Const. Lib. I, tit. 4.   lante per bocca di Ambrogio? Lo stato attuale d'Europa ce ne è testimonio.Ben diversamente pensava però quel caro figlio s p i r i t u a l e d i A m b r o g i o, c o m e e s s o c h i a m a v a il g i o v a n e G r a z i a n o, il primo che alla deputazione del senato rispose:sè essere cristiano. Ottenuta questa seconda vittoria,se ne richiedeva una terza, perché il cristianesimo potesse lusingarsi di vedere ilgoverno dei Cesari informatodisue caritatevolidottrine.Ragion logica voleva che l'ara della Vittoria,simbolo delle antiche superstizioni, s g o m b r a s s e il s e n a t o, m o l t o p i ù o r a c h e l ' i m p e r a t o r e, a s s o c i a t o s i Teodosio,avevavintiiGoti,invirtùnondiGiovemadiGesù Cristo.Ilregalealunno d'Ambrogio,che primadipartirper la guerra, gli aveva chiesti consigli ed istruzione a conferma della propria fede, mostrossi coerente. Un mattino adunque i senatori entrando nella Curia,stupirono vedendo scomparsa l'ara e la statua d'oro,tolte quella notte per ordine sovrano (1). Il colpo inaspettato commosse la fazione pagana fino nell'ultime fibre: molti senatori tuttora partitanti per i vieti riti di N u m a edeiFabii,siradunarono inquietieminacciosiperstendere una querela all'imperatore.Ma ai fianchi di Graziano vegliava Ambrogio,chegli parlòinnome deglialtrisenatori,delPonte fiMilaniaso,dellasedecristiana.Invanopertanto ladeputazione instò; il giovine principe si dichiarò irremovibile e neppur volle ammetterla all'udienza. Graziano era allora nel fiore dell'età,nell'auge della gloria, gioconda speranza della Chiesa e dell'impero: e invece per uno di que'misteriosi decreti della Divina Provvidenza,che scon certano tutti gli umani ragionamenti e non lasciano luogo che all'umiltà ed alla adorazione, l'imperatore viddesi abbandonato dalle sue truppe e cadde vittima di infame tradimento.Il pa ganesimo erasi vendicato; e risorgevano le speranze degli ido l a t r i, i q u a l i r a p p r e s e n t a t i d a A u r e l i o S i m m a c o P r e f e t t o d i R o m a e ricco sfondato, credettero di approfittarsi delle circostanze e del favore della corte, per fare pressione sull'animo sbigot titodel fanciulloValentinianoIedellasuperba,ma insieme d e b o l e, G i u s t i n a. S t a t i s t a e l e t t e r a t o, f i l o s o f o e s c r i t t o r e, il d i scepolo d'Ausonio esauri tutte le risorse del brillante suo in gegno e stese una supplica,vero capolavoro di rettorica; se natore poi e pootefice, e caro al popolo,cui non lasciava m a n carepanéecircesi,impiegò perilpoliteismo,alquale esso  (1) Baanard, Vita di S. Ambrogio, pag. 128.   stesso non prestava più credenza, tutta l'influenza della per sona e degli impieghi; e si riteneva sicuro della riuscita. In fattigià stavasi preparando il decreto che ristabiliva l'ara della Vittoria,allorchèS.Ambrogio sopragiunse dalleGallie,ove alla corte dell'usurpatore Massimo aveva, con finezza di diplo matico consumato ed intrepidezza di vescovo cattolico,patro cinata e vinta la causa del pupillo imperiale. Benchè un rigoroso segreto presiedesse alla congiura dei senatori pagani ed ai consigli del Concistoro imperiale,geloso dell'influenza del Vescovo di Milano, tuttavia esso ne penetrò le macchinazioni; e presa la penna scrisse, non più all'Eterno, I n v i n c i b i l e, G e r m a n i c o, P a r t i c o e c c., m a a l f e l i c i s s i m o e c r i s t i a nissimo imperatore Valentiniano I I. In quella magnifica lettera, incui isentimenti più elevatideiDottore e Ponteficecattolico si alternano e vestono la forma della più commovente tene rezza paterna, si trova già completamente tracciata la nuova politica cristiana, che fa i principi non padroni dei popoli, sib bene ministri di Dio e suoi luogotenenti sulla terra. Valenti niano perciò ode ricordarsi, che come tutti gli altri suoi sud diti, egli stesso è soggetto al Re dei Re; che un altro potere è sorto nell'impero a regolare le coscienze,al quale pertanto, c i o è a i V e s c o v i, s p e t t a il g i u d i z i o i n m a t e r i a r e l i g i o s a: i n c a s o contrario,come indegno della professione cristiana,venendo l'imperatore alla chiesa,vi avrebbe trovato Ambrogio alla porta ad impedirgliene l'ingresso. Bisogno cedere:S.Ambrogio ebbe lasupplicadiSimmaco e riprese la penna. In quel giorno il profondo giurista, il de stro avvocato,ilsaggio magistrato rivisse nello scritto del V e s c o v o e d e l s a n t o. Il M e t r o p o l i t a m i l a n e s e n o n b a d a a c o n tendere coll'avversario in lenocinio di eleganze irreprensibil mente classiche: esso mira alla sostanza: perciò non allegorie, non scappatoje, non esitazioni,non dottrine incerte e,dirò, fosforescenti,tutto è massiccio;gli argomenti procedono ser rati, come le legioni romane, e la verità che appare evidente, abbatte, frantuma e disperde perfin la polvere degli annientati sofismi pagani.Simmaco s'appoggiava a tre argomenti:Roma disonorata per l'abbandono degli dei;le vestali reclamanti;la patria sfortunata e pericolante per la nuova politica cristiana degli imperatori.S. Ambrogio prende questi tre sofismi,li spoglia delle vesti affascinanti, li osserva, li analizza e li trova non altroche un accozzo difrasireboanti,vuotedisenso.Che parla Simmaco della dea Vittoria? La vittoria è un nome astratto: esso si realizza nel numero e nel valore delle legioni romane:Scipionevinse sfondandolefittecoortidiAnnibale, non ardendo incenso alla statua di Giove. Chiedono i pagani privilegiedentrateperisacerdotidegliidoli?Dunque con fessano che senza essi non possono reggersi: ma noi, dice S.Ambrogio,crescemmo fra leingiurie,le miserie,lemapnaje; e d e i n o s t r i b e n i f a c c i a m o il t e s o r o d e i p o v e r i. L e v e s t a l i? O h ! quante immunità,privilegi ed entrate per sette fanciulle pro fessanti continenza temporanea fra il lusso e gli onori; il cri stianesimo invece ne presenta migliaja e migliaja, che si conse crarono a perpetua verginità nel nascondimento e nelle pri vazioni. Volete privilegi ed entrate alle vostre vergini? Le a b biano in misura eguale anche la moltitudine quasi innumerabile delle cristiane:non è secondo giustizia l'accordar preferenze: otutte,onessuna.Ilcristianesimocagione deidisastri del l'impero e della recente carestia d'Italia? I cristiani nemici della patria? — Avanti all'antica e sempre calunnia nuova il discendente degli Ambrogii, che aveva testė salvato l'Italia e l'imperatore, credė di imporre silenzio all'indegnazione del suo cuore romano: esso rispose con fina ironia, riscontrando le allegazioni enfatiche ed immaginarie di Simmaco colla reale prosperità di quell'anno, quale presentavasi agli occhi di tutti. Era un seppellire l'elegante declamazione sotto il peso della più terribile delle confutazioni, un meritato ridicolo. Ciò falto, S. Ambrogio non si arresta a riguardare il prostrato nemico e piglia l'offensiva.Allo scetticismo pagano confessatoda Sim maco,e che supplicava per una tolleranza,non solo pratica ma teorica,dituttiiculti,essocontraponelachiaraevidenza della fede e le forti convinzioni dei cristiani,Ritorce poi l'ar gomento; richiama la gloriosa ed ancor recente memoria di quel tempo,in cui ipagani non ammettevano l'indifferenza dello Stato per ogni culto,ma perseguitavano e massacravano; fa osservare che non è giusto imporre ai senatori cristiani i riti pagani e conclude dichiarando,che la natura stessa vuole ilprogresso:essere ormaitempo,che letenebre cedano,al sole,l'errore allaverità.La causa fu vinta:quel soffioche già spirò dal cenacolo nelgiorno di Pentecoste,portò via l'ultimo avanzo del paganesimo officiale, il quale invano una terza volta sipresenterà a Teodosio.L'alleanza secolare fra l'impero romano e l'idolatria è rotta; non solo, m a sono abbandonate le illusioni di una politica anfibia e contraddittoria, che voleva separato lo S t a t o d a l l a C h i e s a, il c o r p o d a l l ' a n i m a s o n g e t t a t e; d a q u e l p u n t o    le basi del nuovo Diritto Pubblico della Chiesa e delle genti cristiane. Graziano infatti, continuando l'opera di Costantino, aveva dall'anno 379 al 382 pubblicati varii decreti, sia in favore della Chiesa che contro gli eretici e manichei e contro gli apostati recidivi al paganesimo:ci giunsero nelle raccolte di leggi c o m pilatepiùtardipercomando diTeodosioilgiovine,econo sciuta sotto il nome di Codice Teodosiano.Frattanto Teodosio il Grande promulgava in Costantinopoli (anno 380) quella sua memorabile costituzione, in cui dichiarava la fede cristiana religione dell'impero, e fra le varie sette che ne disputavano il nome, osservava, intender esso quella sola, la quale profes. sata ed insegnatadalPontefice Romano,allora Damaso,aveva con sé le note caratteristiche ed esclusive della verità. Qual rivoluzione nei principii legali e nelle massime di governodelDirittoromano!Ma nonbastavachel'imperatore facesse decreti,esso stesso doveva conformare le proprie azioni alle dottrine, che andavano informando la nuova legislazione. Se pertanto Giustina vuol favorire i suoi ariani e intima sia loro ceduto un tempio dei cattolici, S. Ambrogio si offre pronto a donare all'imperatore le proprie sostanze private, a sacrifi care lavita stessa,non mai ilpatrimonio della Chiesa.Se anche il grande Teodosio, illuso da una fantasmagoria di tolleranza religiosa, patrocinata ardentemente dall'indifferentismo ed i m moralità dei cortigiani, vorrà costringere il vescovo di Callinico a rifabbricare la distrutta sinagoga degli Ebrei, vedrà giun gersi una lettera rispettosissima, ma conquidente del Vescovo di Milano,nella quale l'equità,la giustizia, la fede cristiana ed anche i dettami di una saggia politica impongono a Teodosio direvocareilmalconcepitodecreto.Teodosiosimostra esi tante;ma Ambrogio insisteevince.Evincerà finoal punto di persuaderlo a promulgare una legge, con che il troppo vio lento principe impone agli altri giudici,e prima a sè stesso, di soprasedere ventiquattro ore dall'esecuzione d'ogni sentenza capitale; non solo, ma in abito da penitente lo vedremo con fessare ed espiare in faccia alla Chiesa ed all'impero le fatali conseguenze della impetuosa sua ira contro i Tessalonicesi. Magnanimo principe, degno dell'ammirazione di tutta la posterità! Esso fu grande quando sul campo di battaglia tre volte sgomino le legioni degli usurpatori e due volte ruppe e disperse le immense orde dei barbari; ma fu più grande allor chè nel vestibolo della Basilica milanese riconobbe, esser nessuno,fuorché Dio,padrone della vita degli uomini.Circadue centoquarant'anni prima un altro imperatore romano,sommo unicamente perlibidiniécrudeltà,avevaespressoildesiderio che il senato e Roma stessa avesse una sola testa,onde poterla spiccare d'an colpo.A quell'imperatore,cui Seneca fu maestro, if sénato e l'impero si prostravano e ne placavano la divina cle menza con statue e sacrificii. Ora un altro principe grande per'mente, per cuore e per braccio, è in ginocchio avanti ad un Vescovo Cattolico, domandando penitenza per esser troppo trascorso nell'esercizio della giustizia contro alcunisudditi. Chisceglieremo,Teodosio oNerone?A chidovrà ascriversi il cambiamento totale nei principii che reggevano l'impero? I fattirivelanoilloroautore:seipregiudiziimoderni impedi scono a'molte intelligenze di leggerne il nome,è solo, come osserva uno scrittore francese (1) di principii esso stesso tut. t'altro che cattolici, perchè il cristianesimo è troppo poco stu diato e'meno compreso. S.Ambrogio,come tuttiglialtripadridellaChiesa,si occupava delle questioni sociali e politiche per lo più solo in direttamente: la sua cura cotidiana, il pensiero della sua vita era la santificazione del suo gregge; e le sue azioni e i suoi scritti tendevano unicamente a questo scopo.Ilsuo stesso libro degli Officii, quell'opera scritta ad imitazione di Cicerone, la quale,come rappresentante dei secoli cristiani,sebbene segni unqualcheregressonelleforme,locompensaconunimmenso progresso,nelle idee non mira che ad offrire al suo clero saggi precetti di santa vita.Ma si può egli sanar l'anima senza gio varealcorpo?Ecco pertantoS.Ambrogio,por professando osservanza dei canoni,che intimavano a pruti e vescovi una operosa residenza fra il popolo (2), togliersi da Milano, c o m parire alla corte, intraprendere disastrosi viaggi,ogni volta lo richiedeva la necessità della cosa pubblica. Teodosio gli affida i suoi due figli; e quando il grande Arcivescovo stava per entrare nell'eternità,Stilicone,ilreggente dell'impero,lo mando a scongiurare, che volesse pregar Dio per un po'd'altri anni, poiché l'Italia, lui morendo, pericolava (3).  III. (1) Il signor Cousin citato da Troplong, De l'influence du christianisme sur le Droit civil des Romains, pag. 368. 29 (2)Epist.LXXXV,n.2. (3)Paulin, Vit.Ambros.n.45. Scuola Catt.Anno II.Vol.III.Quad.XVII. Non è perciò meraviglia, se negli scritti e più nelle azioni del Consolare romano divenuto Vescovo cattolico troviamo, sebbene quasi per incidente e per lo più solo in germe, accen nate e risolte le principali questioni di diritto, la cui completa trasformazione doveva esser l'opera dei secoli avvenire. La clemenza di Teodosio verso i vinti, gli sforzi di lui per siste mare l'esazionedelleimposte,cuiibarbari,glierroridell'impero e più l'interna corruzione dei costumi rendevano intollerabili, dimostrano che l'influenza di S. Ambrogio si stendeva dovunque eravi un ministero di carità da esercitare (1).Irrompono iGoti, mettono a ferro ed a fuoco l'Illirico e ne conducono gli abi tanti inservitù?S.Ambrogio spogliatosidituttoperredimerli, spezza e vende ivasi preziosi della Chiesa:essendochè più preziose, dicealsuopopolo,sonoleanimeredentedaCristo,chenon l'oro e l'argento consecrati al culto divino.Era lo scioglimento pratico per mezzo della carità di quella questione della schia vitù,cui Ulpiano e Pomponio dicevano di assoluto diritto delle genti (2) e che la nuova religione professante la fratellanza universale degli uomini, voleva sbandita dalla terra.Il cristia nesimo infatti ogni volta che vedea aperto ilcampo all'azione, viene attuando gradualmente l'affrancamento degli schiavi,con quella prudenza però che prepara prima la libertà delle anime e delle intelligenze, avanti di procedere alla liberazione dei corpi;poichè questa,se troppo repentina ed ispirata solo da passioni politiche,riesce in pratica egualmente fatale agli schiavi stessi ed alle nazioni che la compiono:gli Stati Uniti d'Ame rica ne vanno ora facendo l'esperienza. Era tuttavia principalmente nell'udienza episcopale,che S. Ambrogio rivelava nelle sue sentenze ilmagistrato cristiano e santo. Costantino, approvando ciò che di fatti già trovava nei costumi cristiani, donò alle decisioni dei Vescovi il medesimo valore giuridico,che ilsenso pratico degli antichi romani aveva ottenuto agli editti del pretore. Con ciò lo stretto diritto civile consecratodalleleggidelleXIITavole,ilqualegià ritiravasi davanti al diritto di natura più ampiamente propugnato dai giureconsulti dell'età classica, cessava totalmente, o meglio si trasformava in quel codice,cui S. Agostino chiamava divina (1 ) P a r e c c h i e l e t t e r e d e l s a n t o v e r s a n o s u g l i o f f i c i i, c h e e i s o v e n t e a s s o m e vasi di intercedere presso l'imperatore per le vittime delle enormità fiscali.  (2)... quae potestas (servorum)juris gentiumest;(Ulpian,Insl.I, tit.8)e Pomponio conchiudeva che chi cadeva nelle mani del nemico gli re stava per diritto delle genti suo schiavo.(Tit.49. V. ff.De captivis).  mente emanato per bocca dei principi (1); e che fatto pubbli care da Giustiniano, mentre l'impero d’occidente era distrutto e quello d'oriente minacciato,conserva all'antica Roma la gloria di dominare eternamente,se non coll'armi,col migliore primato delle leggi. Di fianco al diritto civile romano nasceva il diritto ca nonico. La proprietà è resa universale: non vi sono più distinzioni di res mancipi o nec mancipi, di dominio quiritario o per pre scrizione; non si possiede più secondo S. Ambrogio, in forza della cittadinanza romana, la quale comunichi il diritto di proprietà proveniente dalle conquiste;la fonte d'ogni diritto è Dio, di cui tutti gli uomini sono figli; e che unico padrone della terra, ne dà l'uso a chi legittimamente lo acquista (2). Scompajono egualmente le legillimae nuptiae come contra posto alle justae nuptiae ed al concubinato legale:non si parla più né di confarreazione, né di co -emptio, nè di usus per aqui stare alla donna idiritti matronali e la successione,come figlia al m a r i t o: n o n v i è p e i c r i s t i a n i c h e il m a t r i m o n i o S a c r a m e n t o d e l l a NuovaLegge,simbolodell'unionediGesùCristocollaChiesa:la legge ecclesiastica de determina gli impedimenti,ne prescrive i riti; ed il marito e la moglie si trovano eguali nell'obbligo di vicendevole fedeltà ed amore e nella santa emulazione del bene.«Nessuno,predicava S.Ambrogio,silusinghiappoggian dosi alle leggi umane... non è lecito al marito ciò che non è permesso alla donna (3).» Per misurare ilprogresso introdotto dal cristianesimo,bisogna ricordare ciò che scriveva Tertulliano: * al giorno d'oggi chi si sposa ha già concepito il progetto d i r i p u d i a r s i e il d i v o r z i o è c o m e u n f r u t t o d e l m a t r i m o n i o (4 ). ” La lettera(LX)delsantoarcivescovoscrittaadun talPe tronio ci introduce a contemplare ilsegreto lavoro della Chiesa costituente gli impedimenti dirimenti, per la sempre maggior santificazione della società matrimoniale,cui invano avevan tentato di mettere in onore le Leggi Giulie e Pappia Poppea. S. Ambrogio infatti dissuade con parole severe l'amico dal progetto di contrarre colla nipote:cosa contraria,egli dice, alla legge divina (5). Si crede anzi che la costituzione civile (1) Leges Romanorum divinitus per ora principum emanarunt,cit.dell'Oza- ' nam.Ilquinto secolo,vol.1,pag.188. (5) L'impedimento di consanguineità in linea collaterale è di natura eccle siaslica:S. Ambrogio parla dellelogge divina considerata nelle sae dedazioni.  (2)De Nabuthe Jezraelita,cap.I,III,etalibipassim. (3)D:Abraham.Lib.I,n.26. (4) Apolog. $ 6.   pubblicata da Teodosio il grande circa ilmatrimonio fra i con giunti(1),glifosseispiratadalsantosuo amico,consigliere e padre spirituale.Isuccessori del grande imperatore spaven tati dall'opposizione che l'impudicizia pubblica recava all'ese cuzione di simili leggi,si mostrarono incerti e indietreggiarono; ma l'impulsoeradatoeilcristianesimo,trionfandodell'immo ralità,si impose poi pienamente anche alla legislazione. Il diritto di vita e di morte, che le leggi delle XII Tavole concedevano al padre sul figlio, era già stato abolito durante ilperiodo,in cui la filosofia stoica,piegandoalsoffio spi rato dal Golgota, moderò tutta l'antica giurisprudenza (2). Costantino arrivò a decretare la pena del parricidio contro il genitore che uccidesse il proprio figlio. M a quanto cammino rimaneva tuttora a fare anche in questa materia per giungere a stabilire un pieno accordo colle imprescrittibili leggi di na tura!Nonsoloilpadre conservava,comegiudicedomestico, ildiritto diinfliggere pene,benché moderate alfiglio;ma esse stesso dettava al magistrato lasentenza, che nei casi più gravi era reclamata dalla disciplina paterna (3).Arroge che l'esere dazionedimorava intattafralesuemani,senzachelacrea zione,fattadaCostantino,delpeculio quasi-castrensee laparte concessa nella eredità della madre, bastasse a sottrarre ilfiglio di famiglia ad una autorità, che, sebben giusta, dee avere essa pure i proprii confini. Che più? Perseverava ancora il barbaro diritto nei padri di vendere i propri figli: S. Girolamo (4) ci ha conservati i lamenti di una misera vedova,cui ilmarito per supplire all'ingordigia del fisco, dovette vendere i tro figliuoli; S. Ambrogio stesso flagellando l'atroce crudeltà de gliusuraj,introduceunpoveropadreche«usandodellaau toritàconferitaglidallalegge,ma negataglidallanatura» per pagare l'usurajo, da cui ebbe il pane, conduce all'asta i proprii figli; e con sanguinosa ironia esclama: « o miei figli, pagate le spese della mia gola, soddisfate il prezzo della mense paterna. Voi divenite il mio riscallo eil vostro servaggio ricom pėra la libertà mia (5). » Quai diritti, buon Dio, e quali ese crabili cause li facevano esercitare! Ben a ragione S. Ambrogio prosegue,narrando,chein uncaso simile,all'usurajo,ilquale (1)Leg.5,C. Deincestisnuptiis. (2) Troplong, op. cit. pag.264. (3) Lec. 3. C. lust. de patria potest. (4) In vito Paphnutii (5)De Tobia,cap.VIII,n.20.  voleva approfittarsi della legge ed ostava ai funerali di un cre ditoreimpotente,avevaordinato:siprendessein casailca davere in garanzia del proprio debito; e ve lo fece traspor tare dal popolo. Con simile legislazione però chi avrebbe osato farsi mediatore per riconciliare coll'inflessibile autorità pa terna un figlio, il quale aveva ardito menare in isposa una donzella, non trasceltagli dal padre? Il diritto romano riguar dava taleatto,comeunattentatocontro natura;poichéla nuora, secondo la legge, diveniva figlia del capo di casa. Ma lacaritàcristianasilasciaguidare da istintidivini:fra Je lettere di S. Ambrogio, la 83.a è appunto diretta a un tal Si sinnio,onde persuaderlo non solo a perdonare ma a ricevere incasaun talfiglioeduna talnuora;eviriusci.Sublime cat tolicità della Chiesa ! Dopo undici secoli circa, fu riproposta ai padri del Concilio di Trento la scabrosa questione del matri monio contratto dai figli di famiglia senza il consenso del pa dre: e lo spirito del santo vescovo di Milano ricomparve nella prudentissimarisoluzionedelSinodoEcumenico.Quella lettera a Sisinnio invero rivela in S. Ambrogio un tatto pratico squi sito:ma insieme qual profonda conoscenza del cuore umano, quanta delicatezza e soavità di sentimenti in quel grande av vezzo a moderar l'animo degli imperanti e a stringer le redini dello Stato;il miele,giusta l'enigma di Sansone,gocciava di nuovo dalla bocca del leone. Le leggi che regolavano le successioni richiedevano pari menti importantimodificazioni.L'antica legislazione era il ca polavoro dell'aristocrazia; esaminando quella ferrea catena di eredi suoi, agnatizii, gentilizii, in fine alla quale non manca vano mai le spalancate fauci del fisco, non si può a meno di ammirare con un senso di sacro terrore quel vigore di con cetto, quella intrepida inflessibilità di logica, con cui per con s e r v a r e i b e n i e d i s a c r i f i z i i n e l l e f a m i g l i e, il l e g i s l a t o r e r o m a n o non indietreggiava davanti alle più inique violazioni dei di ritti di natura. L'equità pretoria vi aveva già portato al certo qualche cambiamento coll'editto:unde liberi;ma ohime!di qnanto poco accontentavasi la sapienza di Cajo e degli altri giureconsulti della setta stoica (1)! Prima però cheGiustiniano si preparasse una imperitura e giusta gloria con quelle leggi sulle successioni, che ancora (!) A a e j u r i s i n i q u i t a t e s e d i c t o p r a e t o r i s e m e n d a t a e s u n t. (C a p. I I I. C o m. 2 5 ). Troplong,op.cit.pag.323.    C h e p i ù? s c r i v e n d o al g i u d i c e S t u d i o (X X X ), il q u a l e lo a v e v a consultato sul modo di comportarsi,quando dovesse pronun ciar sentenze capitali, il prudente ed amoroso vescovo gli in culca con ogni maniera di ragioni l'esercizio dalla clemenza, che deve giungere, esso dice, fin dove vi è giusta speranza di emenda del reo. Lungi però dalle moderne utopie, le quali in nalzando a principio l'abolizione della pena capitale per qual siasi grande malfattore, riescono in pratica a disarmare e con danpare gli innocenti,il santo giurista pone per base la giustizia della pena di morte e raccomanda all'amico la custodia delle leggi, « poichè mentre si leme la spada dei giudici, si reprime e non si stimola il furore dei delilli (3). » La stessa procedura criminale è lucidamente delineata nelle duelettere(VeVI)aSiagriovescovo di Verona.S.Ambro gio lo rimprovera d'aver troppo superficialmente ricevuto l'ac cusa contro la vergine Indicia; gli fa osservare che nel suo processo trascurò quasi tutti gli argomenti che potevano far prova giuridica in favore dell'accusata; mentre illegalmente aveva avuto ricorso a testimoniaoze ed atti quanto obbrobriosi altrettanto insufficienti; e gli descrive il modo da sè tenuto per riveder quella causa e cassarne l'ingiusta sentenza.Leggendo quelle lettere scritte nel secolo IV,l'animosicompiace riscon trando i medesimi principii tracciati dal nostro santo, seguirsi 11)Ep.LXXXII cit.n.3. (2 ) C o n f. L i b. V I. c a p. I V. (3)Ep.XXX cit.n.9.VediancheBagnard,op.cit.pag.140eseg. al presente sono la base di tutti i codici moderni, S. Ainbro gio l'aveva non solo preceduto, ma superato con un giudizio, la cui equità sembra oltrepassare i confini di una soverchia condiscendenza.Nella letteradifatti (LXXXII)al Vescovo Mar cello, pel cui testamento eransi fratello e sorella a lui appellati, il santo ci descrive collocate di fronte le due opposte influenze, che si disputavano allora ilcampo delle leggi. La procedura ci vile avanti al magistrato ci appare da una parte irta di inter minabili acontroversie,azioni,recriminazionimolteplici,istanze, cavilli da curiale (1); » la procedura canonica del vescovo dal l'altra tien l'occhio alla giustizia e non alle forme legali, e la stessa giustizia tempera e corregge colla carità. Cosi S. A m b r o gio applicava al diritto civile quella sua massima,che come ci attesta S. Agostino (2), soleva ripetere al suo popolo: la let tera uccide, ma lo spirito vivifica. tuttora dalla S. Congregazione del Concilio,quando trattansi certe questioni, le quali come quella giudicata da S. Ambro gio, richiedono la più dilicata prudenza. Di tal modo l'influenza del Consolare romano si stese su tutti irami della scienza e pratica legale,donando loro.la vitael'amore,che provengono dallacroce diGesù Cristo. Non ci sarà perciò lecito di conchiudere,che il sommo Arcive scovo il quale nelle immense occupazioni del suo apostolato quasi mondiale, trovò tempo e mezzi da gettare le basi di un intera ristaurazione del diritto pubblico e privato, deve essere salutato,come la personificazione del genio cristiano nella se conda metà del secolo IV? S. Ambrogio infatti ben diverso dai grandi uomini volgari dell'epoca moderna, non studiò gli er rori ed ipregiudizii dell'età in cui visse se non per combat terli:gli avvenimenti stessi più fortunosi non lo scossero: non segui ma trascinossi dietro uomini ed istituzioni, informan doli del suo spirito di forza e di carità":esso pertanto è a tutto rigor di storia,l'uomo del suo tempo. Ritorna quest'anno il quindicesimo centenario, da che il Consolare fu eletto e consecrato Vescovo di Milano.L'impero romano,di cui S.Ambrogio avanti di chiuder gli occhi alla vita vidde le prime strette di morte,è sparito;ed ibarbari che lo distrussero,avendo prestato orecchio più docileallelezioni la sciate dal santo,crearono le nazioni cristiane.A qual punto però siamo noialpresente?Lasocietàprogredisceoretrocede? Immense innovazionionoranoalcertolospiritoumano,che in questi ultimi tempi percorse e scrutò tutti i regni della n a tura, sorprendendone preziosi segreti:esso obbligo il fuoco a servire alle sue industrie, lo aggiogó al carro e traverso la terra;diede leggi al fulmine e lo costrinse a trasmettere ad immense distanze il proprio pensiero.Tuttavia nonostante que ste meraviglie, quale è il diritto pubblico e privato d'Europa e del mondo in quest'anno 1874? D i a m o u n o s g u a r d o i n g i r o: il D i o - s t a t o b a r i a l z a t o o v u n que i suoi altari e non vi è governo che non gli abbruci in censo e sacrifichi vittime: e quali vittime ! Sono diverse le forme sotto cui si presenta ilredivivo paganesimo;ma è in forza deimedesimi principii,che essoristaural'anticabattaglia, sperando che il maggior progresso delle scienze fisiche e la maggior forza che ne proviene ai governi,gli daranno di po  IV.   ter questa volta abbattere l'indipendenza della Chiesa, ri durla a servaggio e prepararla alla morte.Dietro al diritto pubblico vien necessariamente trasformandosi il diritto privato; il matrimonio, qual fu consacrato e reso indissolubile dalla fede cristiana, l'istruzione della gioventù, che deve sottrarsi all'er rore,l'inviolabilità della proprietà sia privata che collettiva, e cento altre conquiste dei secoli cristiani vanno ritirandosi in faccia ad altre conquiste, per antifrasi dette moderne.Si grida progresso: ma basta gridarlo? Frattanto le popolazioni moyon lamenti,simili a quelli che si udivano nel secolo IV,reclamando contro isempre crescenti balzelli;una febbre di ricchezzadi vora gli uomini creati pel cielo; e nello sfondo di un non lon tano orizzonte vediamo avanzarsi il Comunismo, ultima fase del paganesimo,ilquale viene a prender possesso del mondo in nome della logica e della Giustizia di Dio. È in questi frangenti che ilvecchio campione del secolo IV si scosse nella tomba de'suoi quindici secoli e volle rivedere lasuaMilano. Non spetta certamente all'umana ignoranza di indovinare i d i s e g n i m i s t e r i o s i d e l l ' a l t i s s i m o: E s s o c e li m a n i f e s t e r à c o m e e quando crederà meglio.Ma è egli possibile che questo gi gante di santità ritorni fra noi senza una missione degna di sua grandezza? Il consolante dogma dell'intercessione dei santi ci dà diritto alle più soavi speranze; poiché la S. Chiesa,e que sta nostra in ispecie,è la vigna già lavorata da S. Ambrogio; e la sua visita perciò non può portare che frutti di benedizione e di pace alla Chiesa ed alla società.Ambrogio. Keywords: Sebastiane; Ambrose and his orchestra, male virgin, virgo, satyr, his brother satyr, san Sebastiano l’eroe romano, l’eroe stoico – cicerone – uffizi – diritto romano – normativa dell’impero, sebastiane, vita di sebastiane, nato a Milano – Derek Jarman, Sebastiane – lingua latina -- --  Refs.: Luigi Speranza, “Ambrogio e Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790040402/in/dateposted-public/

 

Grice ed Ambrosoli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo. Grice: “I like Ambrosoli: ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno, invece, le dottrine e le scuole.’ But then he dedicates his life to Cattaneo – whose ‘patria’ informs his philosophy, as it does in Mazzini and in each philosopher Ambrosoli provided an exegesis for! At Oxford we call such a ‘philosophical historian’!” -- Il Prof. Luigi Antonio Ambrosoli (Varese), filosofo. È stato uno dei protagonisti della storiografia italiana del secondo Novecento. Allievo di Federico Chabod negli anni della Seconda guerra mondiale, si dedicò per tutta la vita alla ricerca storica, coniugandola con un costante impegno civile per la sua Varese.  Laureato in Filosofia all'Università degli Studi di Milano, fu dapprima docente di scuola secondaria, poi preside di scuola secondaria; successivamente fu ordinario di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Ferrara, quindi presso l'Università degli Studi di Padova e infine preside della Facoltà di Magistero presso l'Università degli Studi di Verona, dove fu anche direttore dell'istituto di storia.  I suoi studi si orientarono particolarmente alla storia del Risorgimento e, nell'ambito di questa, all'opera di Carlo Cattaneo, con esiti unanimemente apprezzati sia per il rigore filologico che per l'acume interpretativo e la ricerca storiografica. Parallelamente contribuì alla ricostruzione della storia dei movimenti e dei partiti politici, con saggi dedicati al movimento cattolico e al movimento operaio e socialista.  Grande fu il suo contributo allo studio del sistema educativo e delle istituzioni scolastiche nell'Italia del XIX e XX secolo, con apporti interpretativi che ancor oggi sono il riferimento per gli studiosi del settore.  Collaborò a "Il Ponte" di Piero Calamandrei, "Belfagor" di Luigi Russo, "Nuova Antologia", "Mondo Operaio", "L'Avanti!", "Critica storica", "Storia in Lombardia". Fu anche fervido sostenitore della nascita dell'Università degli Studi dell'Insubria.  Altre Opere: “Varese e il Risorgimento”; “Il primo movimento democratico in Italia” Roma, Edizioni 5 Lune); “La formazione di Carlo Cattaneo, Milano-Napoli, Ricciardi); “Né aderire né sabotare 1915-1918, Milano, Edizioni Avanti!); “La Federazione nazionale scuole medie dalle origini al 1925, Firenze, La Nuova Italia, 1967 (premio Friuli-Venezia Giulia 1969 per un'opera di storia sociale) I periodici operai e socialisti di Varese dal 1860 al 1926.  e storia, Milano, Sugarco); “Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze, Vallecchi); “La scuola in Italia, dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1982 La scuola alla Costituente, Brescia, Calzari Trebeschi-Paideia); “Educazione e società tra rivoluzione e restaurazione, Verona, Libreria universitaria editrice); “Giuseppe Mazzini, una vita per l'unità d'Italia, Manduria, Piero Lacaita Editore); “Carlo Cattaneo e il federalismo, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1999 Varese. Storia millenaria, Varese, Editore Macchione, 2002 Ha curato per l'editore Mondadori i tre volumi degli scritti dal 1848 al 1853 di Carlo Cattaneo (1967 e 1974) e per l'editore Bollati-Boringhieri i due volumi degli scritti del «Politecnico» dal 1839 al 1844 (1989). Onorificenze Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana «Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri» — 2 giugno 1984 Note  Luigi Ambrosoli, ricerca storica e impegno civile, su va.camcom. 16 luglio.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato, su quirinale. Filosofia Storia  Storia Categorie: Insegnanti italiani del XX secoloStorici italiani Professore1919 2002 15 luglio 20 maggio Varese VareseFilosofi italiani del XX secolo. Ambrosoli. Keywords: ambrosoli – cattaneo – Mazzini – insurrezione milanese – filosofia romana – filosofia italiana – filosofia di varese – ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno invece le dottrine e le scuole.” Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ambrosoli” --. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715421827/in/photolist-2mT5MZr-2mS3srj-2mMV4aV/

 

Grice ed Amico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cosenza). Filosofo. Grice: “I like Amico; at the time when a philosopher’s duty was to watch the stars, he noticed that instruments are unnecessary given Aristotle’s conception of concentric orbits – His treatise was highly popular in Padova; therefore, he was killed – I cannot imagine the same thing happen to Ayer at Oxford after the success of his “Language, Truth, and Logic””! Insigne studioso di astronomia, brillante nella conoscenza del latino, del greco e dell'ebraico, abbracciò la scuola di pensiero dell'aristotelismo padovano del XVI secolo. Fu autore dell'operetta  “De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis” (Venezia, Pattavino e Roffinelli). Frequenta lo studium dei domenicani e Padova sotto Vincenzo Maggi, Passeri e Delfino. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell'opera, che fosse cosentino di nascita. Del filone del peripatismo padovano. Membro dell'accademia di Cosenza. Amico fu il primo a mettere in discussione il modello peripatetico tolemaico. L’assassinio d’Amico e provocato dall'invidia della sua filosofia – impicato da un anonimo che compose l'epitaffio: «IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est [ammazzatto da sicario ignoto per invidia delle sue lettere e virtù. --Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11). Assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accerta che e scomparsa una borsa contenente le carte con rivoluzionarie osservazioni. Subito dopo, l’Inquisizione istitusce un processo postumo per eresia contro lui. Dell'Amico fa menzione Telesio nella sua orazione in morte, ed il filosofo cosentino Aquino che lo define "così grande filosofo”. Cosenza gli dedica, inaugurandolo, il Planetario della città che sorge a 224 metri s.l.m. nel quartiere Gergeri del capoluogo bruzio.  Note  Amico, Giovanni Battista, su Consortium of European Research Libraries,//thesaurus.cerl.org/. 16 febbraio.  amico, giovan battista: d', su OPAC  Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac. Ioannis Baptistae Amici Cosentini de Motibus corporum coelestiu iuxta principia peripatetica sine eccentricis & epicyclis, su OPAC  Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac..Francesco Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. Concetta Bianca, DELFINO (Dolfin), Federico, su Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Italiana Treccani. Elda Martellozzo Forin, Padova. Istituto per la Storia, Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini Padova, Antenore. 15 febbraio.  Per il testo originale dell'epitaffio si veda Lorenz Schrader, Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, Lucius Transylvanus, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie raccolte Luigi Accattatis, Cosenza, Tip. Municipale, Giovan Battista Amico, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Coriolano Martirano, L'arco di Ulisse. Vita ed opera di Giovanni Battista Amici, Bruttium et scientia, Laruffa, Francesco Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. 15 febbraio. Luigi Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, A. Forni, 1977,  902. 15 febbraio. Mario Di Bono, Le sfere omocentriche di Giovan Battista Amico nell'astronomia del Cinquecento, Centro di Studio sulla Storia della tecnica. Franco Piperno, Da Eudosso di Cnido a Giovan Battista D'Amico da Cosenza, su Università della Calabria, progetto "Divulgare la Scienza Moderna attraverso l'antichità",//lcs.unical/.Noel Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Giovanni Battista Amico's homocentric spheres, su Journal for the History of Astronomy,http://articles.adsabs.harvard.edu/. Astronomi e gli scienziati calabresi del XVI-XVII secoloV CENTENARIO NASCITA DI G. BATTISTA D'AMICO, in Provincia di Cosenza,//provincia.cs, Filosofi italiani Professore Cosenza Padova Accademia cosentina. Ioannes Baptista Amicus Cosentinus. Giovan Battista d’Amico. Giovan Battista Amici. Giovan Battista Amico. d’Amico. Amico. L’incipit del nostro “Amico”. Gli anni ’30 del XVI secolo costituiscono una profonda frattura in fisica tra il “prima” e il “dopo”. Gli studi condotti nei due millenni precedenti vanno in direzione del geocentrismo, da Galileo in poi la fisica procede verso soluzioni differenti e l’individuazione del sistema eliocentrico ne e lo snodo fondamentale. Ma fino a quel momento, tutto ciò che costituisce “il prima” parte da Eudosso, Aristotele e Tolomeo. Purbach tenta la fusione tra Aristotele e Tolomeo. Osservando il cielo, si accorge degli errori contenuti nella Tavola di Toomeo. Decide quindi di recarsi in Italia, per consultare direttamente i manoscritti antichi nell’arduo tentativo di re-digere della nuova tavola e più affidabili di quella di Tolomeo, allora d’uso comune in tutta Italia. Purbach insegna a Padova. Prima affina la capacità di calcolo computando una tavola dei seni per ogni minuto primo, quindi redige “Theoricae novae planetarium”. Dal punto di vista tecnico, il testo contiene l’innovazione di svuotare una sfera omocentrica e di aumentare lo spazio in modo tale da far posto agli eccentrici e agli epicicli di Tolomeo. Mette a punto le sue nuove tavola, completandone il controllo attraverso la discussione con i peripatetici veneti ed il confronto con i manoscritti antichi raccolti nelle biblioteche italiane. Ma qualche settimana prima di lasciare Vienna per Venezia, muore. Purbach tenta la fusione tra il sistema del modo omocentrico e quello matematico dell’epi-ciclo. Dopo di lui, vi e Amico, un cosentino, che rilevera l’impresa.  Pochi anni prima la pubblicazione del capolavoro di Copernico, sia assiste a una fioritura di testi dati alle stampe ove le speculazioni sulla sfera omocentrica sono sempre e ancora in primo piano. Il campo della fisica sono ancora troppo giovani per avere strumentazioni sofisticate e la fisica viene dedotta, assumendo, forse presuntuosamente, il carattere di verità. Ma qualcosa si muove. La fisica e la strumentazione progrediscono e gli filosofi stanno procedendo in un processo senza soluzione di continuità che culminerà nel metodo. Nella diatriba si inserisce Fracastoro. Voi certamente non ignorate che coloro che si professano filosofi hanno sempre trovato grandi difficoltà nel rendere ragione dei moti apparenti che presenta la fisica. Infatti si offrono loro due vie per spiegarli: l’una procede mediante l’aiuto di quell’orbita che e detta omo-centrica, l’altra per mezzo di quella che e chiamata eccentrica. Ciascuna di queste due vie ha i suoi rischi, ciascuna ha i suoi scogli. Chi che fa uso dell’orbita omocentrica non arriva a spiegare il fenomeno. Chi che fa uso dell’eccentrica sembra, per la verità, spiegarlo meglio, ma l’opinione che si formano di questi corpi divini è indegna e, per così dire, empia. Essi attribuiscono loro delle situazioni e delle figure che non convengono alla natura dei cieli. Sappiamo che Eudosso e Callippo, i quali tra gli antichi hanno tentato di spiegare i fenomeni per mezzo dell’orbita omo-centricha, sono stati ingannati più volte in conseguenza di questa difficoltà. Ipparco è  uno dei primi che preferirono ammettere l’orbita eccentrica piuttosto che restare ingannati dai fenomeni. Tolomeo lo ha seguito e, subito dopo, quasi tutti gli astronomi sono stati trascinati da Tolomeo nella stessa direzione. Ma contro questi astronomi o, almeno, contro l’ipotesi degli eccentrici di cui facevano uso, la filosofia tutta intera ha sollevato continue proteste. Ma che dico la filosofia? È piuttosto la natura e le stesse orbite celesti che hanno protestato senza tregua. Finora non è stato possibile rintracciare un solo filosofo che acconsentisse ad affermare l’esistenza di queste sfere mostruose in mezzo a corpi divini e perfetti”114. Ci si accorge, con decisione, l’ambito della scienza entro il quale si muovo scienziati, astronomi, astrologi e medici del tempo. La conoscenza maggiore dei classici ha portato una sorta di involuzione del pensiero, rientrato nell’ottica di quanto già affermato in passato, senza apportare grandi e significative migliorie. Da questo punto, invece, pur rientrando nella materia nota a tutti, sarà proprio il giovane cosentino a dare una ventata di innovazione in senso ovviamente relativo.  114 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis 1535, presentazione. Amico è un filosofo cosentino ucciso in Padova. Della sua biografia si conosce veramente poco: agli esigui dati certi si contrappongono notizie fantasiose e di provenienza dubbia. Tra i primi a dare informazioni sulla sua vita c’è Barrio. Vede la luce il suo poderoso lavoro sulla storia delle città della Calabria, rigorosamente scritto in latino, alle stampe del De antiquitate et situ Calabriae. Il risultato non soddisfa lo stesso autore, il quale decide di emendare quella versione, ma la morte impedisce la prosecuzione di revisione dell’opera. Quattromani inserisce nell’opera postille esplicative. Per arrivare alla pubblicazione definitiva bisogna attendere sino a quando Aceti, dopo un lungo e laborioso lavoro completa l’elaborato con aggiunte e note. Di Amico si legge una sorta di epitaffio nel capitolo dedicato a gl’uomini di Cosenza eccelsi per santità, dottrina e dignità. Per una disamina riguardo le informazioni frutto più di fantasia di qualche erudito locale che di sostanza di fonti cfr. Dalena, Firenze. Thomae Aceti, Accademici Consentini, et Vaticanae Basilicae clerici beneficiati in Gabrielis Barrii Francicani De Antiquitate & situ Calabriae Libros Quinque, Nunc primum ex autographo restitutos ac per Capita distributos, Prolegomeni, Additiones, & Notae. Quibus accesserunt animadversiones Sartorii Quattrimani Patricii Consentini, Romae, ex Typographia S. Michaelis ad Ripam Sumtibus Hieronymi Mainardi, come cita il frontespizio di una delle copie in possesso della Biblioteca Civica di Cosenza (Fondo Salfi). “Vi fu anche Amico, che descrisse i moti dei corpi celesti secondo i precetti dei peripatetici, cosa invano tentata per tanti secoli dagli antichissimi filosofi e se non fosse stato colpito da morte immatura avrebbe affrontato fatiche maggiori. Aceti, nelle note, aggiunge l’epigrafe di Padova, addirittura meno lapidaria del conciso inciso di Barrio. A Padova si legge di lui nel monumento delle epigrafi d’Italia: A Amico, cosentino, il quale, avendo percorso felicemente le discipline tutte di tutte le arti liberali con mirabile ingegno, solerte operosità, incredibile passione,  ucciso da sicario ignoto. Ucciso, come si ritiene, dalla invidia delle lettere e della virtù. Le virtù che ad altri portarono premi e vita perenne, per costui solo furono causa di uccisione. Andreotti, nella sua Storia dei Cosentini, cita il nostro nell’elenco dei componenti dell’Accademia telesiana, presieduta dal grande filosofo bruzio. Vi fiore Amico, nato in Cosenza – educato a Padova – conoscitore sveltissimo della filosofia e della fisica.  fScrisse costui seguendo la teorica peripatetica, “De motu corporum coelestium”, descrivendo tutti i movimenti de’ corpi celesti senza ricorrere, secondo che narra l’Aquino nel discorso su Telesio, per spiegarli a quel movimento eccentrico ed all’epi-ciclo inventato da Tolemeo, quando vuole conciliare la sua opinione della solidità de’ cieli co’ moti de’ corpi celesti. Morì egli in Padova, ucciso --  e non appartenne alla citata Accademia, che nell’epoca in cui per affari di famiglia dimora un anno in Cosenza. La sua opera va così intitolata – Ioannis Baptistae Amici – De Motu Corporum coelestium”. La notizia ricalca, con qualche elemento in più, quelle già incontrate nell’opera del Barrio. Pochi dunque i ragguagli che si possono ricavare. Abbastanza poco è noto sulla sua genesi. Nato a Cosenza, morto a Padova, dove ha studiato, esperto nelle lingue colte, specializzato in metafisica e fisica, ucciso da mano ignota, proprio per la sua capacità filosofica. Capacità, questa che lo hanno portato  a essere membro della appena sorta accademia. Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, aggiunte e note di Aceti, osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma, trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Brenner, Cosenza, presieduta dal ben più noto filosofo Telesio, “illustre cosentino”. La sua presenza in Accademia è quasi casuale, essendo rientrato nella città Bruzia solo quell’anno per affari di famiglia. Al rientro nelle Venezie, trova la morte. Quali informazioni possiamo estrapolare e spremere dalle fonti è veramente poca roba. Il gentilizio è di origine incerta. Il cognome è variamente declinator: Amico, Amici o d’Amico, in quanto nel latino medievale, nel titolo di un testo di utilizza il genitivo per quanto concerne il cognome dell’autore. Pertanto si presume che ‘Amici’ sia genitivo di ‘Amico’, mentre ‘Amici’ sia la mera ripetizione, e “d’Amico” la traduzione italiana *del caso genitive* latino. Per questo motivo, in questa sede si utilizza la forma più semplice. La famiglia ha una sua importanza nel contesto della “città libera” di Cosenza,  potendo permettersi, sia pur con enormi sacrifici, il mantenimento di un proprio membro agli studi in una città, di fama e retaggio culturale ottimi, ma così lontana. I sacrifici si posso ben immaginare, mancando, nella crescita di Amico, il padre, essendo prematuramente morto prima della sua nascita. L’assenza del capo famiglia, nel contesto del XVI secolo, società di fatto a carattere patriarcale, non ha sicuramente giovato nell’ambito dell’economia familiare, essendo assente proprio il fulcro stesso dell’istituzione. Ciò nonostante si può supporre un sicuro benessere, in quanto, anche in assenza del padre, un giovane rampollo di famiglia di ottimati puo permettersi gli studi lontani da casa. Nulla si conosce riguardo la sua formazione cosentina. Di certo, grazie a qualche insegnante, nel corso degli studi del trivio, conosce filosofia. L’ambiente, dopotutto, è quello emerso dal retaggio glorioso della Mégale Hellàs, ove gli studi della filosofia, della scienza, della medicina e dell’astronomia erano, per così dire, all’ “avanguardia”. E anche dopo lo iato medievale. L. Piovan, Amico, Telesio, Doria: documenti e postille, in “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”. Dreyer, Boquet e Taton utilizzano la forma ‘Amici’, ma è presente anche la forma ‘De’ Amici’. È a tutti noto che la città di Cosenza non sube mai vassallaggi tipici dell’infeudazione.  --  nuovi impulsi e ritorni agli antichi studi erano senza dubbio all’attenzione della koiné culturale cosentina. Ne è esempio lo stesso Barrio. Nella sua monumentale opera, i riferimenti storici sono in primo piano, così anche è per Fiore e Marafioti, nonché per lo stesso Quattromani. Una ricostruzione culturale ‘amiciana’, estremamente verosimile si deve a Piperno. Le arti del trivio, grammatica, retorica e dialettica, portati a termine nella città brettia gli avevano assicurato la conoscenza attiva e passiva delle tre lingue sapienziali, aramaico, greco e latino. Dopo tutto questo, era partito alla volta del Veneto, di Padova in particolare, per completare, in quello prestigioo studio à, gli studi delle arti del quadrivio, geometria, aritmetica, astronomia e musica, in vista di intraprendere poi, presumibilmente, un curriculum filosofico. In quei tempi l’astronomia era insegnata in funzione della astrologia e questa a sua volta svolgeva un ruolo ancillare a fronte della medicina, arte che pratica la diagnostica delle malattie e ritma l’attività di cura secondo il variare delle configurazioni degli astri nel cielo notturno; insomma la medicina era profondamente intrecciata con il sapere astronomico in una sorta di ‘astroiatria’”. Sono conosciuti però i maestri con i quali Amico ebbe modo di formarsi. È egli stesso a dichiararlo, nella dedica a Ridolfi, introduzione alla sua opera. Questi sono tutti nomi che fanno parte del gotha scientifico-culturale dell’ambiente universitario patavino e non solo. Tra i maestri Amico annovera Delfino, Passeri, e Madio. Delfino è il più celebre insegnante di astronomia e matematica. Tra i suoi allievi, divenuti a loro volta famosi, si ricordano, oltre a Telesio e Amico, Contarini, Piccolomini e Fracastoro. Passeri ricopriva, in quel lasso di tempo, la cattedra di filosofia naturale, è stato l’autore di un commento al “De anima”. A lui si deve l’introduzione di Amico agli aspetti più esoterici e raffinati dell’Aristotele autentico. Sull’ambiente culturale cosentino del periodo cfr. L. De Rose, Cosenza “faro splendidissimo di cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Barrio, in G. Masi, Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli, ICSAIC, Pellegrini Editore, Cosenza. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., -- greco; mentre il Madio o Maggi, che a sua volta aveva scritto un commento alla “Poetica”, e già divenuto l’interprete più autorevole della tradizine peripatetica, a lui, ritenuto il “massimo rappresentante peripatetico” si rivolge il Telesio per un giudizio sulla propria opera. Quando Amico arriva a Padova, la sua vita si dipana in due diverse settrici: da un lato la vita universitaria, con i suoi lustri, gli studi i professori, dall’altro la realtà quotidiana, fatta di privazioni (di affetti, di soldi), di solitudine. Non avendo fonti documentate che diano certezze a qualunque ipotesi passibile di verosimiglianza, si deve necessariamente concentrare l’attenzione sul percorso di studi dell’Amico, percorso, forse, neanche compiuto sino in fondo, non essendo stata reperita in alcun modo una pergamena a suo nome. La opera di Amico si incastona nell’ambiente padovano, ricco di stimoli e personaggi, dimenticata dopo la prematura scomparsa dell’autore, che tanta parte avrebbe avuto nella genesi della scienza moderna.  L’Università patavina vive, ormai da tempo, la rifioritura della corrente peripatetica sia per quanto concerne l’astronomia che per le altre scienze della natura – in questo, Padova e il Veneto si contrappongono a Firenze e alla Toscana dove è affermata, senza cesura, una adesione esclusiva al platonismo pitagorizzante. Certo, altre città in Europa, coi loro Atenei, hanno già imboccato la strada che riporta ad Aristotele. Si pensi, ad 122 Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit., p. 53. 123 K. M. Pataturk, Opere inedite perché non stampate, né scritte e neppure pensate, Valle Giulia, Roma. Piperno annota tristi particolari di un immaginario quotidiano padovano del giovane cosentino, ricostruito da Pataturk, non credibile e privo di fonti documentarie. L’autore, il più autorevole tra gli storici ponterandoti dell’astronomia [Pataturk n.d.A.], afferma che Amico, durante i lunghi e umidi inverni patavini, usasse lasciar dormire in casa, accanto a sé, sul letto, schiena contro schiena, il suo cane, un massiccio pastore della Sila Grande, che aveva condotto con sé dalle Calabrie – come per proteggersi dalla emarginazione anomica che, ieri come oggi, s’accompagna alla miseria di studente fuori sede squattrinato, in terra veneta. Il particolare può apparire irrilevante, anzi fatuo; e trattandosi di una fonte incerta perché irreperibile conviene lasciarlo cadere. Noi abbiamo scelto di farne uso, perché questa confidenza tra il filosofo ed il cane e considerata una prova per avvalorare una leggenda metropolitana che identifica il cosentino con il castigliano Ruy Faleiro, l’astronomo che, su richiesta del vicentino Pigafetta, aveva sciolto l’enigma del giorno perduto dai marinai della spedizione di Magellano”. Cfr. F. Piperno, Le imprese di Pigafetta, www. UNICAL/ variazioni sul tempo. Il nome di Amico (e in alcuna declinazione) non appare negli Acta Graduum Academicorum Gymnasii Patavicini. Index nominum cum aliis actibus praemissis, a cura di Elda Martellozzo Forin, Antenore, Padova. M. Di Bono, Le sfere omocentriche... -- esempio, a Basilea, Norimberga, Praga, Cracovia e la stessa Parigi. Ma, sebbene questi centri culturali abbiano conseguito risultati ragguardevoli e anche maggiori, nessuno di essi può “stare a confronto, sul piano della varietà di approcci, alla comprensione di Aristotele che si manifesta a Padova e nel Veneto”127. L’Ateneo patavino è campo fertile per l’educazione di astronomi (astrologi), medici e filosofi naturali, nella limitrofa Venezia sorgono, dopo la scoperta della stampa, gli impianti artigianali per l’editoria, che permette a tutti coloro che sono in grado di leggere e ovviamente alle persone istruite “di entrare in contatto diretto tanto con il pensiero dei classici quanto con l’elaborazione teoretica allo stato nascente dei contemporanei – non a caso, sarà nella città lagunare che verranno pubblicate, nel biennio 1536-37, le prime due edizioni dell’Opusculum, malgrado che il suo giovane autore fosse, a tutti gli effetti, un perfetto sconosciuto”128. Il ventiquattrenne cosentino approfitta del particolare contesto storico e, convinto dagli amici Cipriano Pallavicini e Giovan Battista Aurio, quasi certamente a proprie spese, presenta il suo lavoro ai tipografi Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli, i quali, appunto, lo propongono in carta stampata. La ristampa del volumetto, con aggiunte e correzioni, è tangibile prova dell’interesse che suscita l’argomento e di come è stato affrontato dal giovane autore. La Repubblica marinara di Venezia interpreta così il ruolo di collegamento tra le grandi civiltà mediterranee, latina, bizantina e araba; divenendo, per dirla con De Bono, il centro di riferimento obbligato tanto per i commerci librari quanto per i saperi astronomici. Schimitt, L’aristotelismo nel Veneto e le origini della scienza moderna, in L. Olivieri, “Aristotelismo veneto e scienza moderna”, Antenore, Padova. Piperno, Ioannis Baptistae Amici.... Piovan, Giovanni Battista Amico. L’autore documenta come il filosofo cosentino Bernardino Telesio, a Padova nel 1538, si assunse l’onere dell’eredità debitoria di Giovan Battista Amico, saldando una pendenza di venti scudi veneti a favore di un certo Giovanni Battista Doria, d’origine genovese e ritenuto per pregiudizio dedito all’usura. L’entità della somma è tale da supporre che Amico abbia impiegato i venti scudi per pagare il tipografo veneziano che aveva stampato il suo Opusculum. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche.... Resta insuperato il citato lavoro di Braudel riguardo l’importanza della Serenissima quale coacervo di culture, orientale, mediterranea e del Nord Europa.  91  Limitandoci qui solo ai testi d’astronomia editi a Venezia o nel Veneto, vi sono molte editiones principes degli autori dell’antichità: Arato, Manilio, Aristarco, Proclo, Macrobio, Igino, Marziano Cappella e così via. L’Almagesto di Tolomeo viene stampato, una prima volta nel 1515, recuperando dall’epoca medievale, una vecchia traduzione dall’arabo in latino a cura di Gerardo da Cremona; una seconda volta nel 1528, sempre nella traduzione latina ma questa volta, ormai in pieno Rinascimento, dall’originale greco, per opera di Luca Gaurico. L’editoria veneta degli inizi del secolo XVI non trascura certo le opere astronomiche più recenti o contemporanee: vedono infatti la luce i testi di Alcabizio, Purbach, Bate di Malines, Sacrobosco, Regiomontano e così via131. L’aristotelismo veneto non è una nicchia per accademici, ma una sorta di ideologia filosofica che impregna di sé tanto la comunità dei colti quanto l’attività produttiva. Si ricordi che a Venezia esisteva allora un artigianato altamente qualificato che costruiva le lenti per i presbiti, usando le leggi dell’ottica geometrica riformulate dai peripatetici arabi. Questa trasversalità rende l’Ateneo patavino una tappa prestigiosa per i curricula dei più grandi filosofi naturali che insegnano astronomia; e di conseguenza a Padova convergeranno molti tra i più dotati studenti di astrologia, matematica e medicina, non solo dall’Italia ma da tutta Europa. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit.. L’astronomia del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et epicicli di Amico Un anno dopo la stampa de Gli omocentrici di Fracastoro132, Giovan Battista Amico pubblica il suo opuscolo su medesimo tema. Che i due astronomi siano debitori alle teorie di Eudosso è lo stesso astronomo cosentino a dichiararlo nei suoi scritti: “Tra gli antichi alcuni si sono sforzati di unire l’astrologia alla filosofia naturale, altri, al contrario, hanno cercato di separare queste due scienze. Infatti, Eudosso, Callippo e Aristotele hanno cercato di ricondurre tutti i movimenti non uniformi, che i corpi celesti ci presentano, a dei collegamenti tra le orbite omocentriche riconoscibili in natura; Tolomeo, all’opposto, e coloro che hanno seguito il suo metodo hanno voluto, andando contro la natura delle cose, ridurle ad eccentrici ed epicicli”. “Gli astronomi attribuiscono i fenomeni che percepiamo, quando osserviamo i corpi superiori, agli eccentrici e a quelle sferette che vengono chiamate epicicli. Ma la loro riduzione di tutti questi effetti a tali cause è pessima. D’altra parte, non ci si deve meravigliare se hanno errato in tale riduzione, poiché, come afferma Aristotele nel primo libro degli Analitici Secondi, ogni soluzione diventa difficile allorché coloro che hanno la pretesa di averla trovata fanno uso di principi falsi. Dunque, se la natura non conosce né eccentrici né epicicli, secondo la giusta espressione di Averroè, sarà bene che anche noi rifiutiamo tali orbite. Noi lo faremo tanto più volentieri in quanto gli astronomi attribuiscono agli epicicli e agli eccentrici certi movimenti che chiamano inclinazioni, riflessioni o deviazioni, che non possono convenire in alcun modo, almeno a mio parere, alla quinta essenza”133. “In quest’opera, forse, non si troverà nulla di completo, ma riterrò di aver fatto abbastanza se riuscirò a eccitare gli spiriti più illustri al desiderio di rendere più chiara questa spiegazione” (Ep. ad card. Nicolaum Rodulphum). 132 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis 1535. 133 Giovanni Battista D’Amico, De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentris et epicicli, Venetiis 1536, cap. 1 e cap. Frontespizio dell’esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Prima edizione del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et epicyclis di G.B. D’Amico, Venezia 1536 94  Nella dedica al Cardinale, il cosentino Amico avverte, con umiltà, l’intento dei suoi studi, confessando, in pratica, la gratitudine che deve a chi lo ha preceduto: i classici greci e latini e i trasmettitori arabi. Nei primi sei capitoli dell’opuscolo, secondo la tradizione, egli compone un breve excursus delle dottrine astronomiche di Eudosso, Callippo e Aristotele, concludendo che l’osservazione millenaria della volta celeste non autorizza a pensare che la natura sia costretta a muoversi per epicicli ed eccentrici. Dal settimo capitolo inizia a declinare le proprie teorie riguardo l’assetto cosmico. Amici, per primo, opera un vero e proprio pensiero critico riguardo le teorie antiche, e sebbene rimanga entro lo stretto cerchio di esse, promuove nuove formulazioni. Il cosentino dimostra dapprima che se vi sono due sfere omocentriche contigue i rispettivi assi perpendicolari tra di loro e se i poli della sfera esterna si muovono da una parte e dall’altra rispetto alla posizione media; se accade tutto questo, allora si vede facilmente che la sfera interna ora accelera ora ritarda. Subito dopo osserva che se i poli delle due sfere formano, più in generale, un angolo di n° gradi e l’uno ruota in verso contrario rispetto all’altro con velocità doppia, allora il movimento complessivo sarà una oscillazione su un arco di 4n° (Fig. 33) – in questo calcolo così elegante il nostro giovane Amico rivela quanto il suo talento debba, nella sua formazione accademica,alla geometria alessandrina rielaborata dagli arabi134.  134 F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 95   Fig. 33 Introdotta questa innovazione nel sistema eudossiano, il giovane astronomo può concludere che sono sufficienti quattro sfere per ricostruire i movimenti apparenti del Sole; mentre per i sei pianeti – la Luna secondo la tradizione viene considerata tale — ne occorrono di più. 96  Si evidenzia pertanto una aggiunta di sfere che renda possibile la “salvezza dei fenomeni”, a discapito di un complicazione che già è palese ai tempi di Aristotele, che comporta un numero di sfere aumentato a ottantanove, come risulta evidente nella tabella (3) seguente: Tabella 3 EUDOSSO Saturno 4 Giove 4 Marte 4 Venere 4 Mercurio 4 Sole 3 Luna 3 CALLIPPO 4 4 4 +1 =5 4 +1 =5 4 +1 =5 3 +2 =5 3 +2 =5 ARISTOTELE AMICO 4 +3 =7 16 4 +3 =7 16 5 +4 =9 16 5 +4 =9 13 5 +4 =9 13 5 +4 =9 4 5 55 89 11 26 33 Di conseguenza, il subito solleva una obiezione decisiva alla teoria tolemaica: la Luna di certo non si muove su un epiciclo giacché, se così fosse, non potrebbe mostrare, osservata dalla Terra, la stessa faccia, come invece a noi tutti capita di costatare — secondo la fisica aristotelica un corpo che compia una rivoluzione attorno ad un centro deve rivolgere a quest’ultimo sempre il medesimo lato (Fig. 34). cosentino passa ad esaminare nel dettaglio l’orbita lunare; e 97   Fig. 34 Formulata così l’obiezione, il giovane astronomo si affretta a generalizzarne la portata: anche gli altri pianeti non possono muoversi su epicicli dal momento che i pianeti, corpi intrisi di divina perfezione, devono dipanare i loro percorsi in forme perfettamente analoghe e altrettanto pregne della succitata perfezione sublime. Quattro sfere vengono quindi assegnate a ogni pianeta, in grado di svolgere il ruolo previsto, nella teoria tolemaica, per gli epicicli. La sfera più esterna, detta d’accesso, ha i suoi poli nel piano dell’orbita planetaria e si muove da Nord a Sud con la stessa 98  velocità con la quale si muoverebbe il corrispondente epiciclo tolemaico. La sfera successiva, più interna, presenta dei poli che distano da quelli della prima di un quarto del diametro dell’epiciclo. Codesta sfera adiacente si muove in direzione contraria alla prima ma a velocità doppia. La terza sfera, ancora più interna, detta di recesso, i cui poli giacciono sull’orbita planetaria, si muove da Sud a Nord. Infine, la quarta sfera, la più interna, ha il suo asse a perpendicolo rispetto al piano dell’orbita planetaria e ospita, incastonato, il pianeta su un suo cerchio massimo. La composizione dei diversi movimenti delle quattro sfere dà luogo, di solito, al moto progressivo annuale del pianeta, da Ovest verso Est; come, di tanto in tanto a quello retrogrado, da Est verso Ovest. Solo la Luna, per via della alta velocità della sua quarta sfera, presenterà unicamente il moto progressivo,sia pure appesantito, di tempo in tempo, da un certo ritardo (Fig. 35). Fig. 35.  99  Dopo avere così ricostruito qualitativamente, senza l’uso degli epicicli, tanto la regressione dei pianeti quanto il ritardo della Luna, il giovane astronomo affronta il problema ben più intricato di dar conto della variazioni della durata del moto regressivo planetario e del ritardo lunare. Questo insoluto è risolto con l’attribuzione a ogni pianeta di altre tre sfere poste tra la sfera d’accesso e quella di recesso già introdotte, in modo che venga opportunamente variato l’arco percorso durante il moto retrogrado. Inoltre, per prevenire lo spostamento della posizione planetaria verso latitudine più alte di quelle osservate, introduce altre tre sfere – portando così a dieci il numero totale di sfere per pianeta; e come se ancora non bastasse, per la Luna aggiunge una undicesima sfera destinata a spiegare il moto ciclico della linea dei nodi lunari, l’antico Saros dei babilonesi che si ripete ogni diciotto anni circa135. Malgrado l’evidente complessità del sistema del mondo così costruito, il cosentino si rende perfettamente conto che dieci sfere a pianeta non sono ancora sufficienti a dar conto di tutti i movimenti celesti reperiti lungo i millenni dagli astronomi; e aggiunge così altre sfere, portando alla fine a sedici quelle relative a Saturno, Giove e Marte, mentre per Venere e Mercurio ne basteranno, si fa per dire, solo tredici. L’astronomo inoltre ritiene, non certo a torto, che per procedere a d una previsione numerica, attraverso il suo sistema del mondo, delle posizioni e dei movimenti dei corpi celesti occorre fissare con maggiore precisioni le inclinazioni reciproche degli assi delle diverse sfere; e per far questo si richiedono ulteriori minuziose osservazioni dei sei pianeti e del Sole. Quanto alle stelle fisse, quelle incastonate nell’ottava sfera, bisogna che quest’ultima, oltre alla rotazione diurna sia affetta anche da un altro movimento, chiamato trepidazione, che ricostruisca la lenta precessione degli equinozi – il che, secondo la fisica aristotelica, può avvenire solo dall’esterno ovvero deve esistere una nona sfera che trasmette all’ottava il moto che emana dal motore immobile (Fig. 36). Fig. 36. Si noti che Amico non confronta la sua teoria con le osservazioni astronomiche più recenti, bensì ne fa di sue e si tratta di osservazioni del tutto innovative. Il suo programma è quello di ritrovare tutti i risultati dell’astronomia tolemaica usando il sistema omocentrico piuttosto che gli eccentrici e gli epicicli. Non si pone il problema della correttezza sperimentale delle misure ereditate dalla tradizione medievale. Inoltre l’astronomo cosentino non si rende affatto conto che il suo sistema, pur intendendo fare salva la fisica peripatetica, in realtà le va decisamente contro. La capacità che ha il sistema omocentrico di ricostruire, sommando moti circolari, il movimento rettilineo dei pianeti nella fase di retrogradazione, testimonia che tra cerchio 101  e retta non v’è quella differenza cosmologica affermata dalla fisica peripatetica, secondo cui nel senso che il cerchio appartiene alla perfezione del mondo sopralunare mentre la retta è partecipe del mondo sub lunare, della imperfezione terrestre137. Bisogna aggiungere ancora che l’Amico è del tutto consapevole delle obiezioni alle quali va incontro il sistema omocentrico. La prima si riferisce al fenomeno della variazione del diametro e della luminosità apparente dei sette pianeti; per esempio, la Luna si mostra più grande in quadratura che alle sizigie, il Sole ha dimensioni maggiori d’inverno che in estate, Marte presenta una luminosità variabile con la posizione sulla fascia zodiacale. Questi fenomeni, infatti, sembravano indicare che la distanza Terra- Pianeta fosse variabile; e questo era una obiezione fatale al sistema omocentrico, che richiede appunto una simmetria sferica ovvero la conservazione della distanza. Amici si confronta con questa questione e la risolve spiegando come il fenomeno sia dovuto alla contingenza che l’etere frapposto. tra la Terra ed il Pianeta osservato, non ha una densità uniforme. È necessario indagare questa spiegazione in dettaglio, giacché, malgrado si sia rivelata erronea, contiene un tratto essenziale della nuova fisica, quella basata sull’esperimento e non sull’esperienza. Amici, a Padova ha confidenza con gli artigiani degli opifici i veneziani – dove si lavorano le lenti per correggere miopia e presbiopia – e sa che un oggetto guardato attraverso la lente appare più grande in ragione diretta allo spessore della lente stessa. Egli, quindi generalizza la verità di questo esperimento all’universo nella sua interezza, ponendo alla teoria basi di “ottica empirica”. Di conseguenza i pianeti osservati dalla terra, malgrado si tengano sempre alla stessa distanza, ci appaiono più grandi quando, lungo lo zodiaco, si trovano in un punto nel quale l’etere è più denso. Analogamente la Luna si mostrerà più grande alle quadrature piuttosto che alle sizigie perché in queste ultime il suo forte splendore dirada l’etere che la circonda, sicché noi la vediamo come attraverso una lente più sottile che alle quadrature. L’altra obiezione è più di senso comune ma non per questo meno significativa. Il sistema omocentrico, rivisitato da Amici, resta notevolmente macchinoso. Esso, come mostrato nella tabella numero 3, richiede un numero di sfere nettamente superiore tanto di quello aristotelico quanto dei deferenti tanto degli epicicli tolemaici. Il giovane astronomo, però, rigetta l’obiezione affermando che egli cerca di ricostruire il cosmo così come realmente è, riproducendolo per similitudine su scala ridotta; ed è meno interessato ad un modello che rende sì più facile i alcoli ma comporta movimenti fisicamente inammissibili. Altrimenti detto, il cosentino, pur destreggiandosi assai bene con la geometria solida, si riconosce nella schiera degli “astronomi philosophi” intenti a conoscere la realtà del mondo e non in quella degli “astronomi matematici” indaffarati a formulare previsioni astronomiche quando non astrologiche, sulla base del computo. L’Opusculum si presenta come un trattato moderno, nel senso che il criterio di verità è assicurato dalla corrispondenza tra realtà fenomenica e proposizioni della teoria, e non già, come nella teologia medievale, tra fenomeni e parole della Sacra Scrittura o, andando ancora più a ritroso nel tempo, l’interdipendenza tra teorie scientifiche e filosofico/religiose del mondo antico. Nel mondo amiciano e del secolo della Rinascita Dio è una ipotesi di cui si può fare a meno, e non si trova nell’opuscolo una benché minima citazione biblica. La separazione tra scienza e fede, così tipica della modernità, afferma Piperno, è stata già totalmente interiorizzata dall’astronomo cosentino. L’Opusculum di Amici, come già detto, aveva vissuto una stampa e una ristampa a Venezia,  poi, presso lo stesso editore. E ancora una terza, postuma, questa volta a Parigi, a cura di Guillaume Postel, un intellettuale cosmopolita qualche po’ enigmatico, in bilico tra profezie millenaristiche e rigore scientifico – miscela non insolita per l’epoca. Tre edizioni di rilievo europeo nel giro di pochi anni e poi uno stato di latenza, quasi catalettico. Ssi pensi che il suo libro non sarà citato nella letteratura astronomica fino a quando Dreyer, nella sua classica storia della cosmologia, gli render. -- Amico non scompare del tutto dalle fonti letterarie. Il suo nome, assieme a una sintesi dell’Opusculum appare in molti testi di storia locale quando si ricomincia ad occuparsi di lui in quanto astronomo: cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., -- onore, dedicando all’astronomo nato a Cosenza un intero paragrafo, volto alla rivalutazione della figura e dell’opera di Amici. La ragione del lungo silenzio che avvolge per secoli il nome dell’astronomo cosentino è dovuta al trionfo della fisica di Galileo in Italia. Infatti, appena solo cinque anni dopo l’assassinio di Amico, usce dai torchi di una tipografia di Norimberga, il “De Revolutionibus” di Copernico, canonico della cattedrale di Frauenburg, ben più noto con il nome latinizzato. La diffusione del De Revolutionibus e capillare in tutta Italia, e le copie del libro saranno rieditate all’infinito è in atto la pacifica rivoluzione scientifica, meglio nota come rivoluzione copernicana o di galileo. L’elaborazione dela fisica subisce uno spiazzamento; lo scontro per l’egemonia teoretica non avverrà più tra peripatetici e tolemaici, bensì tra questi ultimi ed i copernicani. Prima si confrontavano due sistemi del modo, entrambi geo-centrici e geo-statici, che si riferivano alla stessa fisica. Oa la competizione va svolgendosi tra il sistema geo-centrico argomentato con la fisica aristotelica e quello elio-centrico bisognoso di una nuova fisica. In questo quadro, Amico sembra avere imboccato la giusta strada ma in direzione sbagliata. In effetti, il filosofo cosentino ha posto la domanda decisiva per risolvere la crisi che agli inizi del XVI secolo attanaglia il sapere astronomico: come riunificare l’aritmetica di Euclide con la filosofia naturale o astronomia. La questione è quella giusta. Ma la risposta – massaggiare il cuore ormai esausto d’ Aristotele – s’è rivelata troppo macchinosa; e dunque erronea. Dreyer, A History of astronomy..., cit. Oltre a questo testo che descrive a grandi linee il sistema amiciano, va ricordato l’articolo di Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Amico’s Homo-Centric Spheres, in “Journal of Astronomy”,  e ancora l’importante saggio di Di Bono e i lavori di F. Piperno, qui ampiamente citati. Nato a Thorn, sulle rive della Vistola, terra incognita contesa tra l’Ordine dei Cavalieri Teutonici e il Regno di Polonia; anche lui, come Amico, giunto a Padova, per studiare astronomia e medicina. Mi piace ricordare che ben diciotto secoli prima Aristarco di Samo ha messo in atto la teoria elio-centrica. Copernico, anche lui, si è mosso, in qualche modo, guardando indietro: con l’abissale differenza che i tempi sono ormai maturi. Sulle accuse di empietà mosse ad Aristarco cfr. L. De Rose, Le ragioni dell’etica nei confronti della scienza. Tre esempi in epoca antica, in F. Garritano, E. Sergio, Scienza ed etica, «Ou. Riflessioni e provocazioni». Eppure, sarà proprio quella ricomposizione, cercata e non trovata da Amico, a dar luogo alla scienza moderna e quindi alla modernità tout-court – poco più di mezzo secolo dopo, per opera dei Galilei, toscano tutt’altro che aristotelico, piuttosto intriso di neo platonismo. -- Giovan Battista, astronomo talentato, è morto giovanissimo, ucciso forse senza una ragione, prima di poter portare a compimento il suo destino, forse perché “caro agli Dei”, come vuole la sapienza antica. Non è dato sapere quale sarebbe stata l’evoluzione del pensiero di Amico, il suo destino intellettuale, il suo karma scientifico, se fosse vissuto abbastanza, soltanto pochi anni ancora, da imbattersi nel De Revolutionibus di Copernico. Le cose non sono andate così; e un giovane dal destino incompiuto, ma dall’indiscutibile intelligenza ha potuto solo tentare di dare un senso a teorie che valgono solo dal punto di vista dell’osservatore. Questo è un mondo antico, come direbbe Leopardi spazzato via a guisa di una mera illusione dalla rivoluzione astronomica prima e dalla mentalità moderna dopo. F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 146 G. Leopardi, Storia dell’Astronomia, in F. Piperno (a cura di), Arcavacata, Centro Editoriale UNICAL, 2001, p. 18. 105. Keywords: planteario di Cosenza, pianeta, de motibus corporis coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis – motti de’ corpori celesti giusta i principi peripatetici senza eccentrici ma con epicicli”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amico” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791085483/in/dateposted-public/

 

Grice ed Amidei – il leviatano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Peccioli). Filosofo. Grice: “I like Amidei; he knew Beccaria well, and thinks, with H. L. A. Hart, that debtors should not necessariliy go to jail, to which Beccaria famously responded: ‘depends on what you mean by necessarily should’” --  Cosimo Amidei (Peccioli), filosofo. Frontespizio del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori di Cosimo Amidei, ed. Harlem (Paris), 1771. Non si sa quasi nulla sulla biografia di Cosimo Amidei. Figlio del dotore in giurisprudenza Domenico Amidei di Peccioli (Pisa), si laureò in Giurisprudenza all'Pisa probabilmente nel 1746. Per le modeste condizioni della famiglia nel 1739 aveva chiesto di essere ammesso al Collegio di Sapienza, e aveva ottenuto un posto gratuito il 1º novembre 1741,. Stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro, Amidei era un magistrato fiorentino, "notaro criminale".  Fra le poche cose certe vi è quella che conobbe personalmente Cesare Beccaria, di cui era un ammiratore e con cui fu in corrispondenza fin dal 1766. Altre opere: “Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori”; "La Chiesa, e la Repubblica dentro i loro limiti. Concordia discors” -- dell'origine della potestà ecclesiastica -- degli oggetti sopra de' quali si reggira la postestà ecclesiastica -- dell'origine della potestà politica -- del sovrano -- delle conseguenze -- delle cause della forza della potestà ecclesiastica ne' governi temporali. de' limiti del sovrano o potestà politica -- dell'immunità, privilegj ed esenzioni de' beni ecclesiastici -- de' priviolegij ed esenzione personali degli ecclesiastici -- dell'asilo -- del matrimonio -- del celibato -- delle professioni religiose -- del giuramento -- de' benefizj ecclesiastici -- della scomunica -- della proibizione de' libri -- della religione, e della politica. “De' mezzi per diminuire i mendichi.” L'Amidei è noto soprattutto quale autore del "Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori" (1770). Ispirata direttamente dal paragrafo XXXIV del "Dei delitti e delle pene" del Beccaria, l'opera è considerata una delle più importanti espressioni del riformismo e dell'umanitarismo settecentesco. L'opuscolo ebbe immediatamente successo: fu recensito con favore dalle "Novelle letterarie" di Firenze, e dal "Journal encyclopédique"; l'anno seguente ebbe una seconda edizione, con osservazioni di Giambattista Vasco, uscita a Milano presso lo stampatore Galeazzi, e ancora una edizione in testo bilingue italianofrancese. Il testo di Amidei influì certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del ministro Francesco Maria Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma occorre ricordare come un'analoga riforma venisse promulgata anche in Russia). Nella concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana dell'illuminismo giuridico-politico toscano di quegli anni, l'opera di Amidei si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani (rarissimi ancora nel pensiero illuministico toscano) dai quali Amidei ottiene la giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori. Una nuova edizione dell'opera, apparsa in Firenze nel 1783, è una prova dell'esistenza in vita di Cosimo Amidei nel 1783; dopo di allora, infatti, non si hanno più notizie biografiche certe su di lui.  La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti All'Amidei è attribuita anche un'opera edita poco prima il Discorso sopra la carcere de' debitori, "La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti". L'opera, pubblicata anonima nel 1768, è stata attribuita a Cosimo Amidei a partire dal 1770, anno di pubblicazione del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori. Finora mancano però elementi sicuri per confermare tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di biblioteche e di cui non v'è notizia neppure nel "Dizionario di opere anonime e pseudonime" di Gaetano Melzi. L'opera uscì anonima e senza indicazione del luogo dell'edizione; dovrebbe trattarsi di Pavia o di Firenze. Molti contemporanei ritennero che fosse Napoli, identificando probabilmente l'edizione originale con una edizione ampliata, con falsa indicazione di luogo Amsterdam, sequestrata presso lo stampatore Campo di Napoli; si tratterebbe in realtà di una ristampa contraffatta dello scritto apparsa nella città partenopea prima che fosse posta in vendita l'edizione proveniente da Firenze, e che venne sequestrata per la "sediziosa proposizione" dell'origine popolare della sovranità. Al suo apparire, infatti, per alcuni spunti contrattualistici rousseauiani, l'opera richiamò l'attenzione dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicissitudini di cui fu oggetto sono ritenute importanti per ricostruire la fortuna di Jean-Jacques Rousseau in Italia. A Roma, autore dell'opera fu ritenuto il Beccaria, e nel clima di irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769.  De' mezzi per diminuire i mendichi Anche quest'opera, pubblicata anonima nel 1771 senza indicazione di luogo, ma probabilmente a Firenze, è solo attribuita a Cosimo Amidei; ma l'attribuzione risale già ai contemporanei,. L'autore sostiene, in base a una concezione fisiocratica, che il grave problema possa essere risolto solo per mezzo di una riforma fiscale.  Note  Società storica pisana, Bollettino storico pisano 1965300.  Società storica pisana, Bollettino storico pisano 1932517.  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770) Milano 1911,  194-195  C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, E. Landry, Milano 1910289. Landry segnala quattro lettere dell'Amidei al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano. Beccaria, B. 231).  Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770) Milano 1911210  Novelle letterarie, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s.  Journal encyclopédique, 1º giugno 1770314  "Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori", Harlem, et se vend a Paris: chez Molini libraire rue de la Harpe, vis-a-vis la rue de la Parcheminerie, 1771.  F. Venturi, Settecento riformatore, 2., Torino, Einaudi, 1976237-249  Archivo General de Símancas, Estado Legajo 6102, lettera di Bernardo Tanucci al marchese Domenico Grimaldi Portici 13 dicembre 1768, f. 157 v. Savio, "Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti del sec. XVIII", in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958),  12 n. 2, 31 ss.  vedi lettera citata del Tanucci al Grimaldi  Marco Lastri, Bibliotheca georgica, ossia Catalogo ragionato degli scrittori di agricoltura, veterinaria, agrimensura, meteorologia, economia pubblica, caccia, pesca ecc. spettanti all'Italia, Firenze, 178745  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III 17661797, Milano 1911.  M. Rosa, AMIDEI, Cosimo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Cosimo Amidei Collabora a Wikiquote Citazionio su Cosimo Amidei Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Cosimo Amidei  Opere di Cosimo Amidei, su Liber Liber.  Opere di Cosimo Amidei, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  V D M Illuministi italiani Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XVIII secoloFilosofi italiani ProfessorePeccioli FirenzeIlluministiAmidei. AMUCO: not found.  AMIDEI, Cosimo. - Magistrato fiorentino, "notaro criminale", stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro; dati biografici di lui sono pressoché inesistenti, allo stato attuale della ricerca, se si esclude la notizia di suoi rapporti con il Beccaria (che l'A. conobbe personalmente e del quale fu ammiratore), desumibile da un gruppo di lettere dell'A., del 1766-68, e qualche rapido cenno nella ricordata corrispondenza dei Veri.  L'A. è noto quale autore del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori, s. l. [ma Modena] 1770, che, ispirato direttamente dal paragrafo XXXIV del Dei delitti e delle pene, fu recensito con favore dalle Novelle letterarie di Firenze, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s., e dal Journal encyclopédique, 1 giugno 1770, p. 314.  L'opuscolo è un'interessante espressione del riformismo e dell'umanitarismo settecentesco: esso nella concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana (partecipe in questo del diffuso antiromanesimo del tempo) si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani, rarissimi ancora nel pensiero giuridico-politico toscano di quegli anni, ed anzi proprio dal pensiero di Rousseau ricava la giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori (pp. 22-23 dell'ediz. del 1783).  Non sfuggi ai contemporanei questo contenuto sociale dello scritto di là dall'aspetto giuridico della questione tanto che "persona illuminata" venne richiesta di note al Discorso dell'Amidei. Apparve cosi, presso lo stampatore Galeazzi di Milano, una seconda edizione dell'opuscolo, con osservazioni di Giambattista Vasco che ripropose le sue già note concezioni economico-sociali: Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori accresciuto di note critiche dall'autore de' Contadini, s. n. t. (cfr. recensione in Europa letteraria, I, 1, 1 sett. 1770, p. 101).  L'anno seguente esso fu edito ancora in testo bilingue, italiano e francese, Harlem et Paris 1771; ed influi certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del ministro Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma sarà da ricordare qui come anche in Russia venisse promulgata un'analoga riforma).  Nel 1783 a Firenze lo stesso A. curò una nuova edizione dell'opuscolo, con aggiunte riguardanti "un nuovo progetto di riforma della Legislazione":l'esigenza di riforma nel campo della procedura penale si articola in un discorso più ampio, di carattere amministrativo ed economico-sociale (sul diritto di proprietà). Nelle critiche rivolte ai già aboliti sistemi dell'Abbondanza e della Grascia, e nella polemica contro le primogeniture e i fidecommessi, già colpiti dalla legge del 1747, dei quali viene reclamata la totale soppressione, è introdotto ancora, a difesa di un libero sistema di economia, il motivo umanitario-egualitario che informa tutto lo scritto (v. partic. p. 58). Il Giornale enciclopedico di Milano, 1783, t IV, parte letter., 24 Ott., n. 17, p. 138, sottolineò il significato dell'opera dell'A., che resta a conferma dell'eco profonda, in Italia e in Europa, di uno degli aspetti del pensiero del Beccaria.  All'A. è attribuita un'opera di poco precedente il Discorso, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, s. l. [ma Firenze] 1768; 2 ediz. ampliata, Amsterdam [Firenze?] 1783. Finora mancano però dementi sicuri per confermare una tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di biblioteche (e di cui non v'è notizia neppure nel Melzi, Diz. di opere anonime e pseudonime).  L'opera, particolarmente importante nell'ambito della pubblicistica giurisdizionalistica del tempo (cfr. Passerin), contiene chiari spunti contrattualistici rousseauiani, che l'autore non sviluppa però in senso antiassolutistico: l'interesse è proiettato invece sui "diritti della Sovranità [che] non si perdono per il non uso, per essere originalmente ne' Popoli", sui diritti dei principi circa sacra e sui limiti che la potestà civile può e deve porre ai privilegi, alle immunità e alle esenzioni della potestà ecclesiastica. Ma gli spunti rousseauiani, pur moderati ed elaborati - e talvolta avversari, come nelle pagine riguardanti il rafforzamento del vincolo sociale operato dal cristianesimo, pp. 135, 151-152 - emergono evidenti, tra l'altro, laddove si discute dei limiti al potere assoluto e si giustifica, in nome dell'uguaglianza fra I sudditi, l'operato del duca di Parma contro Roma (pp. 51-56), e soprattutto laddove si polemizza contro il sistema dei concordati tra autorità statale e S. Sede (pp. 71-80) e contro il diritto di asilo ecclesiastico (pp. 80-86). Un breve cenno, infine, al problema della tolleranza religiosa non ha gran rilievo nell'insieme delle argomentazioni, legate in gran parte, nonostante le suggestioni del nuovo pensiero di cui si èdetto, a orientamenti tradizionali. La seconda edizione accentua, in alcuni nuovi capitoli, la polemica circa il carattere civile, del contratto matrimoniale e quella contro gli ordini monastici.  Al suo apparire l'opera richiamò, per gli spunti rousseauiani, l'attenzione dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicende di cui fu oggetto costituiscono una pagina notevole della fortuna di Rousseau in Italia. A Napoli, per la "sediziosa proposizione" dell'origine popolare della sovranità (cfr. lettera dì B. Tanucci) venne sequestrata presso lo stampatore D. Campo una ristampa clandestina dello scritto (proveniente da Firenze) prima che fosse posta in vendita (11 dic. 1768); a Roma fu ritenuto autore dell'opera il Beccaria e nel clima di massimo irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche, che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769. preoccupazione e la diffidenza per itemi rousseauiani dello scritto vennero ancora espresse, a proposito dell'edizione del 1783, da Scipione de' Ricci in una lettera indirizzata al granduca Pietro Leopoldo (cfr. Passerin).  Fonti e Bibl.: Archivo Generai de Siniancas, Estado Legajo 6102, lettera di B. Tanucci al marchese Grimaldi, Portici 13 dic. 1768, f. 157 v. (indica Firenze come luogo di stampa dell'opera; ma molti contemporanei, cfr. Savio, considerarono napoletana l'ediz. del 1768, identificandola con la ristampa); C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, a cura di E. Landry, Milano 1910, p. 289 (segnala quattro lettere dell'A. al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano, Beccaria, B. 231); Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di F. Novati e E. Greppi, III (ag. 1769-sett. 1770), Milano 1911, pp. 194-195, 210; Fr. H. Reusch, Der Index der verbotenen Biicher, II, Bonn 1885, p. 934; E. Passerin, La politica dei giansenisti in Italia nell'ultimo Settecento, in Quaderni di cultura e storia sociale III (1954), pp. 269-270; F. Venturi, G. Vasco in Lombardia, in Atti d. Ace. d. Scienze di Torino, classe di scienze mor. stor. e filol., XCI (1956-57), pp. 41 ss. e nota; Illuministi italiani, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, pp. 25 (riporta un passo di lettera dell'A. al Beccaria, da Firenze 6 luglio 1767, riguardante la traduzione del Morellet del Dei delitti e delle pene),1044; P. Savio, Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti del sec.XVIII, in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958), pp. 12 n. 2, 31 ss. Cosimo Amidei. Amidei. Keywords: il leviatano; amidei — implicatura sovrana — implicatura intersoggetiva — implicatura sovresoggetiva — implicatura sovre-umana — implicatura sovrepersonale — hobbes — primo disegno — leviatano — carteggio con Verri — carteggio con beccaria (paragrafo XXXIV — la strada verso l’utopia giuridizzionalistica — la chiesa — the high church of england — Gianni abolisce la carcerazione per debiti — tacitoRefs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amidei” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790009852/in/dateposted-public/

 

Grice ed Anceschi – senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Anceschi; he plays with the idea of dialogue as a mirror (specchio) of ego and alter or ego and tu – I like that. He is the Italian equivalent of John Holloway, I suppose.” Si laurea sotto Banfi, ricopre l'insegnamento di Estetica nella Facoltà di Lettere e filosofia a Bologna. L'interesse per la letteratura e le arti figurative si accompagnò sempre a quello per la filosofia moderna anti-dommatica. Dopo la pubblicazione della sua tesi di laurea  autonomia naturale, heteronomia artistica. “Autonomia ed eteronomia dell'arte” edita da Sansoni, le sue ricerche sulla figura e il modello letterario antidealistici trovarono voce negli interventi pubblicati su “Orfeo”e su “Corrente di vita giovanile” -- riviste da lui stesso promosse.  Sensibile ai nuovi orientamenti culturali, si schierò a favore dell'ermetismo e della neo-avanguardia, affiancando all'attività di teorico quella di critico militante: pubblicò i Saggi di poetica e poesia. Con una scheda sullo Swedenborg e cura le antologie Lirici nuovi, Linea lombarda. Sei poeti e Lirica del Novecento. Della voce “ermetismo” fu autore nell'Enciclopedia del Novecento. Concentratosi sui modelli culturali dimenticati dal Neoidealismo, si dedica ai temi del Barocco, dando alle stampe Del Barocco e altre prove Barocco e Novecento. Con alcune prospettive metodologiche.  Non abbandona mai gli studi filosofici: “I presupposti storici e teorici dell'estetica kantiana”; “Hume e i presupposti empirici dell'estetica kantiana”; “Burke e l'estetica dell'empirismo inglese”; “Da Bacone a Kant. Saggi di estetica”. In particolare in “Progetto di una sistematica dell’estetica e dell'arte” delinea una teoria estetica intesa come fenomenologia della forma naturale e artistica. Sui principi della fenomenologia critica basò tutte le successive ricerche.  Fonda “Il Verri” di cui fu direttore, mentre diresse per Paravia la collana La tradizione del nuovo e Studi di estetica, che raccoglie i risultati delle ricerche filosofiche che egli condusse insieme con i suoi allievi. Per il suo impegno nel tener vivo il fermento culturale di questi anni, gli sarà assegnata a Mestre la prima edizione del prestigioso premio "Amelia" alla "tavola" di Dino Boscarato. Centrali sono i temi della poetica (“Poetiche del Novecento in Italia”; “Le poetiche del Barocco, 1963) e delle istituzioni letterarie (Le istituzioni della poesia”; “Da Ungaretti a D'Annunzio”, Che cosa è la poesia?”. Altre saggi: “Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica fenomenologica”; e Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica”. Riceve dai Lincei il Feltrinelli per la Critica letteraria.  Presidente dell'Ente bolognese manifestazioni artistiche, dell'Accademia delle Scienze e dell'Accademia Clementina di Bologna, socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei di Roma, donò la sua biblioteca (circa 30.000 stampati) e il suo archivio personale (oltre 18.000 lettere e migliaia di autografi) al Comune di Bologna; sono attualmente conservati presso la Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio.  Premi Amelia 1965-2005, a cura della "Tavola all'Amelia", prefazione di Sergio Perosa, Venezia-Mestre, 2006,  18-21. Lo stesso anno il premio è assegnato anche "per le arti figurative", a Virgilio Guidi.  Premi Feltrinelli 1950-, su lincei. 17 novembre.  Università degli studi di Bologna, Annuario dell'anno accademico 1995-1996 e 1996-1997, Bologna, Compositori, 1998,  863–865.  Il Verri Giuseppe Pontiggia Salvatore Quasimodo Alessandro Montevecchi  Luciano Anceschi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Luciano Anceschi,.  Fondo Luciano AnceschiBiblioteca dell'Archiginnasio di Bologna Approfondimento, su ibc.regione.emilia-romagna. 22 marzo 2005 5 maggio 2001). Studi di estetica, su unibo. 18 gennaio  15 gennaio ). V D M Vincitori del Premio Feltrinelli Filosofia Filosofo del XX secoloCritici letterari italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1911 1995 20 febbraio 2 maggio Milano BolognaVincitori del Premio FeltrinelliAccademici dei LinceiAutori del Gruppo 63BibliofiliDirettori di periodici italianiFondatori di riviste italianePremiati con l'Archiginnasio d'oroProfessori dell'Università commerciale Luigi BocconiProfessori dell'BolognaStudenti dell'Università degli Studi di Milano. Sembra proprio che studiare una nozione letteraria voglia dire rendersi conto di ciò che essa ha voluto significare; studiare l'ermetismo vorrà dire vedere come l'ermetismo stesso, in quanto movimento letterario e culturale, ha inteso presentarsi per se stesso nell'attenzione ai motivi di coerenza, ma anche alle interne variazioni e differenze. Qualche considerazione va fatta, per altro, in limine intorno al nome. È noto: l'uso della nozione di ermetismo è frequente nel discorso della cultura per indicare quei movimenti, quelle manifestazioni, quelle situazioni del pensiero e della letteratura, in cui maniere oscure, ardue, chiuse e di comunicazione non diretta esigono, per esser partecipate, e anche solo intese, il possesso di una chiave che pochi sono in grado di adoperare. Il termine ha un'origine storica abbastanza ben definita e che istituisce subito il destino dei suoi significati. Dal nome di  Ermes Trismegisto si disse ‛ermetica' una dottrina di tarda età ellenistica in cui motivi oscuramente mistici di sincretismo filosofico-religioso si fusero con ipotesi di fantastica alchimia, in un tessuto linguistico segreto, ricco di allusioni, di difficile partecipazione. Si consideri anche che a Ermes Trismegisto si attribuisce l'aver chiuso (si disse, appunto, ‛ermeticamente') un'ampolla di vetro mediante la fusione dei bordi delle aperture. Oscurità, chiusura, tono di rivelazione sacra, un insieme di difficili connessioni tra mistica e alchimia, una presentazione immaginosa e immediata di oggetti intellettuali e riflessivi: ecco alcuni caratteri degli scrittori che per primi furono detti ‛ermetici'; ed ermetici, poi, vennero chiamati talora quei movimenti di pensiero occulti, misteriosofici, iniziatici, che spesso si posero in antitesi al pensiero dominante nel secolo, che costituiscono una ormai ben definibile tradizione secolare, continua, e che talora affiorano nella cultura essoterica con singolari sollecitazioni e insorgenze. Con intenzioni inizialmente screditanti, ma il nome venne poi accettato da molti scrittori, ermetismo si disse anche una tendenza della letteratura italiana tra le due guerre, che, venuta dopo l'esperienza dei crepuscolari e gli esperimenti dei futuristi, si distinse nettamente dal rondismo, come corrente dell'ultimo gusto neoclassico, e da ogni genere di ritornante realismo; ed è ciò di cui qui dobbiamo parlare. Ci sono opinioni molto diverse su questo movimento. C'è chi, in una ben definita prospettiva letteraria militante, vede in esso il momento più alto della poesia e del pensiero poetico del secolo nel nostro paese; e c'è chi, movendo da un particolare orizzonte sistematico, accusa la ricerca ermetica di ‛perdita della immediatezza' fino a vedervi intellettualismo e, al limite, una distrazione di giochi verbali; c'è anche chi, secondo un'ispirazione fortemente ideologica, vede in essa un pericoloso e condannabile momento di evasione rispetto al dovere della partecipazione e dell'impegno. Solo un'indagine diretta e particolare potrà definire  il diritto e il torto di considerazioni come queste; e, tuttavia, è difficile disconoscere che si trattò di un movimento influente, complesso, articolato in diverse disposizioni dottrinali e di poetica, con varie stratificazioni di momenti interni secondo una tradizione breve e intensa. Il movimento ebbe vita difficile negli anni in cui si manifestò, trovò una sua forza contro molti oppositori e reali resistenze, giunse fino ad operare sul costume e a cadere in un nuovo Kitsch, si dissolse alla fine della  seconda guerra mondiale, ma lasciò un'impronta viva, e anche un impulso nella cultura della poesia e della critica che, da un lato, è continuato per anni nel lavoro degli epigoni, e che, dall'altro, ha condizionato indubbiamente i modi in cui si manifestarono i movimenti che seguirono. Quanto alle strutture della poesia, forse è riduttivo il considerare l'ermetismo solo come una tendenza della letteratura italiana contemporanea, che, riallacciandosi alle correnti simboliste non soltanto francesi, anzi europee, intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio che in tanto vale in quanto riesce a esprimere l'intuizione lirica nella sua originaria purezza, escluso l'intervento di preoccupazioni didattiche, moralistiche, dottrinali e speculative in una volontà attentamente coltivata e resolutamente diretta al risalto di momenti di intensità e di innocenza; ma è anche riduttivo parlare dell'ermetismo solo come dell'espressione di una rivolta in cui si concreta l'appello orfico-cristiano, religioso, metafisico, negatore della storia, di una storia che si appiattisce di fronte all'assoluto, libero dalle strutture rettoriche, e inteso a propositi soprattutto di rinnovazione radicale dell'uomo. Ritorneremo su queste differenze di pronunzia e sul loro significato; ma, a questo punto, occorrerà ormai rendersi conto e giustificare l'uso della nozione di ermetismo nel contesto della situazione letteraria italiana tra le due guerre e nella individuazione del significato interno del movimento. L'ermetismo va considerato come un movimento europeo o italiano, o puramente ‛fiorentino'? Certo, ci furono aspetti, e li considereremo, della poesia e della poetica d' Europa che si potrebbero dire ermetici o che hanno avuto rapporti con ciò che diciamo ermetismo, anche tali che senza di essi l'ermetismo non sarebbe stato possibile. Uno dei connotati dell'ermetismo è certo quello di aver tenuto aperti i rapporti - se pure in modo limitato secondo una lettura pregiudicata - con l'Europa in tempi difficili; ma una situazione, un movimento di cultura che si siano collocati sotto quel nome si ebbero solo in Italia; trovarono caratteri particolari e individuati; determinarono una singolare, e un poco astratta, cultura della poesia per certi aspetti di rara intensità e inquietudine. Il tentativo di ridurre il movimento solo al gruppo dei ‛fiorentini' dà nel sofistico, o nel riduttivo; non è certo facile tagliar con il coltello una situazione tanto compatta quanto varia; molti fatti si diedero contemporaneamente nella convergenza di letture e di interessi comuni; il ‛gruppo fiorentino' fu certo autonomo per suoi caratteri, ma nella misura in cui portò certi motivi di una generazione nuova in un contesto comune. In realtà, nella prima generazione ermetica in Italia la prima voce fu quella di  Giuseppe Ungaretti. Anceschi. Anceschi. Keywords: senso, ermetismo ed implicatura, grado d’ermetismo dell’implicatura, l’impossibilita dell’implicatura ermetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Anceschi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711981920/in/photolist-2mUvE1t-2mU8kpn-2mQiU3r-2mMR3uj-2mMBqBb-2mJLMNt-E4u3XA/

 

Grice ed Andrea – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravello). Filosofo. Grice: “I like Andrea, in more than one way!  Andrea made me realise how naïve Russell is with his ‘logical atomism;’ back in Naples, the Accademia degli Investiganti took thing really seriously. D’Andrea, a lawyer, like Hart, -- his claim to fmae is having written an ‘apologia in difesa,’ which I would abbreviate as just ‘in difesa’ of atomism – but my favourite is his unpublication, “Degl’atomi e degl’atomisti”!” Grice: “In Naples, unlike Oxford – cf. Locke and Boyle – it was understood that if you are an atomist you are, therefore, a libertine!” --  Da una ricca famiglia, studia a Napoli. Funzionario del viceré, il duca d'Arcos, a Chieti nel giustizierato dell'Abruzzo citeriore.  Frequenta villa Colonna, dove si illustrano i fondamenti dell’atomismo. Fondatore del salotto degl’InVESTIGanti alla sua villa Iambrenghi a Candela. Difende strenuamente l’atomismo nella “Apologia in difesa degl’atomisti” e nella “Risposta a favore di Capoa”. Avvocato primario del Regno di Napoli, viaggia e partecipa alla vita intellettuale e agli studi in molti salotti filosofici italiani. Cortese, I ricordi di un filosofo napoletano del Seicento, Napoli, L. Lubrano e C., Dogana della mena delle pecore in Puglia Regno di Napoli. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Accademia della Crusca. Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza il rinnovamento culturale del Seicento a Napoli (in occasione del rinvenimento di un manoscritto sconosciuto degli "Avvertimenti ai nipoti") di Stefano Capone, sito della Biblioteca di Foggia, Salottieri. Nacque a Ravello (presso Amalfi), dove la madre si era ritirata in seguito a difficoltà economiche, il 24 febbr. 1625 da Diego, avvocato in Napoli, di buoni natali ma d'incerta fortuna, e da Lucrezia Coppola, del seggio nobile di Montagna. L'infanzia non fu felice, per le "gravissime ristrettezze" della famiglia (Avvertimenti ai nipoti, p. 60), né soddisfacenti gli studi, cui venne avviato fin troppo precocemente. Compiuti sette anni, infatti, fu condotto a Napoli per apprendere la grammatica; a nove fu collocato presso la scuola oratoriana dei gerolamini, ma già ad undici frequentava lezioni di legge, addottorandosi poi nel marzo 1641, appena entrato nel diciassettesimo anno di età.  Egli stesso doveva sottolineare più tardi, nei suoi celebri Avvertimenti, i gravilimiti di quell'affrettata educazione. Nello scritto - che è insieme una sorta di testamento, una autobiografia e il richiamo a un modello di cultura e di comportamenti valido per tutto il ceto forense - ripercorreva le tappe della sua formazione, descrivendola come un lineare progresso dalla "grossa ignoranza", cui sembrava condannarlo l'arretratezza dell'insegnamento e delle professioni giuridiche alle quali il padre l'aveva avviato, verso l'incontro con le correnti di pensiero europee, la conquista delle nuove scienze e una concezione elevata del ruolo dei giuristi nella società. In questo itinerario intellettuale e civile, ben più dei suoi "direttori", di cui lamentava anzi il "mancamento", avevano inciso altre esperienze, personali o comunque estranee ai percorsi tradizionali. Per primo il rapporto con Giovanni Andrea Di Paolo, il solo in città capace d'illustrare le dottrine giuridiche con gli strumenti filologici e sistematici della scuola culta (ibid., pp.86 s.); poi l'impegno, durato oltre un anno dopo la laurea, per "studiar le materie continue e pei loro principi", abbandonando l'impostazione praticistica dominante, che riduceva la giurisprudenza ad un mero esercizio mnemonico o alla lettura disordinata dei decisionisti (ibid., p. 116).  Completata così autonomamente la propria preparazione, cominciò a seguire il padre nel foro e presentò di lì a poco due allegazioni, l'una per la principessa di Casalmaggiore, l'altra per il principe di Pietraelcina, che gli procurarono una certa notorietà ed alle quali rivendicava il merito di aver introdotto nei tribunali napoletani "il nome di Cujacio e degli altri eruditi", insieme con "l'uso di disputare gli articoli secondo i veri principi della giurisprudenza" (ibid., p. 118).  Frattanto a Napoli, avvicinandosi la metà del secolo, con i profondi sconvolgimenti sociali e politici che la segnarono, si definivano le linee di un'iniziativa culturale, promossa da ambienti diversi, sia umanistici, sia tecnico-scientifici, che non restò senza conseguenze sul pensiero civile, né trovò indifferenti, o soltanto passivi, i giuristi e i forensi. Ministri e scrittori di cose legali se ne fecero anzi protagonisti, cogliendovi con prontezza gli elementi di novità che potevano dare consistenza e respiro a un discorso critico sul Mezzogiorno spagnolo.  Di tali sviluppi il D. fu testimone attento, interprete informatissimo, in breve tempo autorevole sostenitore. Grazie ai consigli di Ottavio Di Felice, "un vecchio assai erudito e molto affezionato della nostra casa" (ibid.,p. 119),colmò le proprie lacune nella conoscenza delle "buone lettere"; ammesso poi a frequentare l'accademia di Camillo Colonna, dove s'illustrava una nuova filosofia "non gran fatto molto dissimile da quella che oggi chiamano atomista", vi apprese a respingere il conformismo della dominante cultura ecclesiastica ed il tenace scolasticismo che la caratterizzava (ibid., pp. 120 s.). Fu l'incontro più fertile della sua giovinezza ed egli stesso ne ribadì spesso il rapporto di continuità con le successive esperienze. Le discussioni di casa Colonna costituirono, infatti, il segnale d'avvio di un rinnovamento intellettuale a Napoli, presto dispiegatosi con l'arrivo da Roma di Tommaso Cornelio e l'azione intrapresa da talune accademie, che spostarono energicamente l'accento dai temi letterari o eruditi a quelli scientifici e sperimentali.  Superato, con la guida di Camillo Colonna, il limite di una scarsa dimestichezza con l'arte retorica, tenne intanto con unanime applauso un solenne discorso nella Congregazione degli avvocati di S. Ivone, istituita dai teatini ai SS. Apostoli, e poco dopo, il 10 giugno 1646,la difese in Collaterale, alla presenza del viceré duca d'Arcos, contro la pretesa dei gesuiti di fondarne una nuova. Con questa arringa (Pro Congregatione Sancti Ivonis, edita dal Comparato) egli guadagnò la causa e il favore del viceré, che lo nominò ad interim fiscale di Chieti, dove si recò alla fine dello stesso anno.  Il periodo trascorso in Abruzzo, mentre a Napoli e in tutto il Regno avevano luogo gravi sommosse, dette luogo a dicerie malevole sul suo conto, che lo tormentarono per tutta la vita. Un tardo episodio del febbraio 1682, quando il principe Antonio di Sangro l'oltraggiò in pieno tribunale con l'epiteto di "Masaniello", provocando persino un duello tra il proprio campione, Cesare Mormile, e un nipote del D., Antonio della Marra, lo indusse a scrivere una lunga Relazione de' servizii fatti... nella provincia di Abbruzzo Citra(s.n. t., ma Napoli 1682), per replicare alle insinuazioni di aver parteggiato allora per i popolari e per rivendicare invece il proprio lealismo alle istituzioni regie, sola garanzia di stabilità e di arbitraggio tra i ceti, e gli atti compiuti a difesa dell'ordine sociale e giuridico esistente, ivi compreso quello feudale, che era parte integrante della realtà politica dello Stato.  Tuttavia le "seconde rivoluzioni", che portarono a Napoli alla proclamazione della repubblica nell'ottobre 1647 ed impressero al moto un carattere indipendentistico in un quadro politico più complesso e convulso, lo posero ai margini del conflitto abruzzese, sicché dopo due mesi trascorsi nel convento degli scolopi di Chieti, dove ebbe modo di leggere Cicerone e Campanella, pervenuta infine l'attesa nomina del nuovo fiscale e concluso l'affitto dell'arrendamento del sale nell'estate 1648,partì nel settembre per Napoli, che raggiunse in novembre, dopo un breve passaggio da Roma.  Qui non solo riprese l'esercizio dell'avvocatura, con crescente successo di prestigio e di entrate, ma si adoperò soprattutto per un rinnovamento scientifico e culturale, di cui non a torto il Giannone lo considerò protagonista e promotore principale (Istoria civile, lib. XXXVII, cap. 5; e lib. XXXVIII, cap. 4).Egli stesso sottolineò in seguito efficacemente, in una pagina giustamente famosa (Avvertimenti, pp. 124 s.), il significato della svolta verificatasi a Napoli allora; l'importanza centrale ch'ebbe la diffusione delle opere di Cartesio; il ruolo essenziale di Tommaso Cornelio nel porre gli studiosi napoletani a contatto con il pensiero europeo; l'ostilità che le nuove dottrine incontravano presso i circoli tradizionalisti e la protezione ad esse accordata da taluni aristocratici; infine il proposito che animava i moderni di modificare l'assetto delle professioni, in particolare giuridiche, attraverso un confronto più intenso con le varie scienze.  Il momento era favorevole ad un'iniziativa dei gruppi intellettuali. L'opera di restaurazione, condotta dal viceré di Oñate secondo un disegno assolutistico volto a consolidare l'autorità delle istituzioni regie, prospettava un rinnovato compromesso tra monarchia e ceti privilegiati, deprimeva le aspirazioni della nobiltà più riottosa, maturate nei trascorsi disordini, offriva spazi nuovi e maggiori di presenza politica e di affermazione sociale ai forensi ed ai magistrati. Il D. affiancò prontamente l'azione del viceré e dalla sua paterna cura per il "ristoramento" degli studi ottenne un avanzamento universitario per Gian Camillo Cacace e l'attribuzione a Tommaso Cornelio, nel 1653, della cattedra ripristinata di matematica. Nel frattempo svolgeva una parte considerevole nella breve rinascita degli Oziosi, tra i quali recitò diverse orazioni, in particolare a favore della "novella maniera di filosofare" e per un rapporto più stretto della giurisprudenza con "tutte le altre scienze" (ibid.,p. 125).  La grande peste del 1656, lacerando drammaticamente la vita della città, pose fine d'un colpo agli esperimenti e alle iniziative che si conducevano a Napoli e che vennero poi ripresi, dopo il flagello, con lentezza e difficoltà. Rientrandovi dopo il periodo del "contagio", trascorso nei feudi del principe di Cassano, il D. dovette rinunciare per qualche tempo agli ambiziosi progetti di politica culturale, cui ritornò solo dopo alcuni anni impiegati nell'esercizio dell'attività forense per una clientela sempre più consistente ed altolocata. Si pose infatti in primo piano nelle vicende intellettuali della capitale a partire dal 1663, quando con numerosi scienziati, medici, filosofi, come Tommaso Cornelio, Lucantonio Porzio, Leonardo Di Capua, Giovanni Caramuel e molti altri, dette vita, al primo nucleo degli Investiganti, che prese a riunirsi in casa di Andrea Concublet, marchese di Arena.  Gli orientamenti dell'Accademia sono noti, così come la molteplicità ed eterogeneità dei motivi che vi si agitavano: dal probabilismo allo sperimentalismo, allo storicismo. Altrettanto celebre è l'episodio che ne riassunse simbolicamente il programma e gli inizi: la visita compiuta nell'ottobre 1664, sotto la guida del D., da oltre cinquanta accademici, tra cui numerosi nobili e prelati di rango, al cratere di Agnano, per controllare la fondatezza degli antichi miti, raccogliere materiali da sottoporre all'indagine chimica, far esperimento diretto delle caratteristiche naturali del sito. Tra gli Investiganti il D. ebbe infatti un ruolo cospicuo. Preziosa cerniera tra i novatori e il mecenatismo di una parte almeno della maggiore aristocrazia, non pose nulla in istampa direttamente legato a quell'esperienza, ma di alcune opere fu consigliere ascoltato, di altre fu promotore o dedicatario, intervenne infine sui temi che si dibattevano non soltanto come suggeritore o patrono di opere e di iniziative, o come veicolo d'idee, d'interessi e di libri. Agli argomenti centrali del nuovo sapere - l'atomismo, le leggi del moto, il rapporto tra elementi fisici ed "incorporei" e, sullo sfondo, tra metafisica ed esperienza - dedicò in vecchiaia alcuni lavori, quando l'Accademia era da tempo ormai spenta, ma non cessate le dispute da essa animate, né l'eco che avevano suscitato negli ambienti napoletani, messi in fermento dalle energiche controffensive dei gruppi conservatori.  Nei manoscritti filosofici del D. - affidati, come altre sue opere, a una tradizione testuale non sempre chiarita - possono riconoscersi oggi tre lavori distinti. Il primo è un'Apologiain difesa degli atomisti (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; esemplare mutilo con correz. autografe), databile al 1685 e prodotto perciò in un periodo difficile nella biografia dell'autore e in una fase particolarmente vivace della dialettica politica e culturale napoletana. Il secondo, la Risposta a favore del sig. Lionardo di Capoa contro le lettere apologetiche del p. De Benedictis gesuita, tradizionalmente assegnato al 1697, ma elaborato a partire dal 1695, risale anch'esso a un momento cruciale, coincidente con la disputa sul S. Uffizio e la conclusione del processo contro gli "ateisti" (l'esemplare migliore è quello della Bibl. naz. di Napoli, ms. I D 4, alle cui cc. 286-317 corrisponde il frammento autografo della Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; da segnalare anche la copia della Bibl. Angelica di Roma, ms. 1340, fatta eseguire per il card. Passionei dal pronipote del D., Giulio Cesare, nel 1752). Vi è inoltre una seconda stesura della Risposta, preparata tra il 1697 e il 1698 (se ne conoscono due diverse redazioni: Napoli, Bibl. naz., ms. IX A 66; e ms. Brancacc. I C 8).  Scritti di replica o di polemica contro il profilarsi, in momenti di acuto conflitto, anche politico, di una rivincita della cultura "dei chiostri" sulle istanze del sapere moderno, le opere del D. non disegnavano un compiuto sistema, né seguivano fonti univoche d'ispirazione. Adombravano una sorta di filosofia del particolare e del concreto, che si nutriva di salde radici umanistiche e galileiane, proprie della tradizione napoletana, innestandovi gli insegnamenti di Cartesio e Gassendi, talvolta di Spinoza e di altri ancora, secondo un'impostazione che può apparire eclettica o incline al frammento, ma che rispondeva piuttosto al proposito di rivendicare il lascito trasmesso dai novatori al pensiero meridionale, il segno da loro impresso sulla vita morale e civile attraverso lo sforzo d'iscriverla nei circuiti del "secolo della filosofia", di aprirla, nel modo più largo possibile, al movimento intellettuale europeo, d'includere infine nel suo orizzonte i numerosi motivi che lo percorrevano, cogliendone i nodi essenziali e gli aspetti capaci di stimolare più fresche energie. Perciò, guidate dalla consapevolezza dei vasti riflessi della battaglia teorica in corso, esse riaffermavano, contro il dogmatismo ed il verbalismo scolastico imperversante, il metodo sperimentale, l'intuizione della materia e l'ipotesi atomistica, l'indagine storica come criterio di verifica delle autorità.  Comunque l'impresa cui il D. dovette maggiormente la sua fama di studioso e il successo presso le corti di Napoli e di Madrid furono le scritture composte nel 1667 e nel 1676 per respingere le pretese di Luigi XIV alla successione spagnola e contestare le tesi della pubblicistica che lo sosteneva.  Sin dal 1663 il re di Francia aveva reclamato i Paesi Bassi alla moglie Maria Teresa in base al diritto di devoluzione. La contesa si era infiammata via via tanto sul piano politico-diplomatico quanto su quello giuridico e dottrinale. I rapporti tra le corone si avviavano a rottura aperta quando, sul finire del 1666, il vicerè Pietro d'Aragona incaricò il D. di controbattere gli argomenti francesi. Il 28 febbr. 1667 questi sottoscrisse solennemente, alla presenza del viceré una Dissertatio de successione Ducatus Brabantiae (copia a Napoli, Bibl. oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII. 3. 16), che venne subito inviata a Madrid. Tuttavia l'incalzare degli avvenimenti, con l'invasione francese delle Fiandre, seguita nel maggio, e il moltiplicarsi di trattati e libelli per il Re Sole, assieme al ruolo ufficioso rivestito nella polemica, imposero al D. di ritornare sulla materia, sicché nell'estate scrisse febbrilmente una nuova Risposta al Trattato delle ragioni della Regina Christianissima sopra il Ducato di Brabante, con altri Stati della Fiandra (Napoli 1667), che traeva spunto da un Traité anonimo, ma di carattere ufficiale, comparso a Parigi nel maggio dello stesso anno. La medesima Risposta, ritoccata, venne poi ristampata a Napoli con un Discorso e un Discorso aggiunto, di argomento storico-erudito, una appendice contenente la Copia di una lettera... nella quale si dà giudizio della Dichiarazione... del Re Christianissimo, redatta su incarico del viceré de los Velez come replica al manifesto di Luigi XIV per la guerra di Messina e già circolante sotto la data di Roma, 28 genn. 1676, e con altre due lettere di minore interesse (il libro cominciò a stamparsi nell'aprile 1676 e fu diffuso nel marzo 1677, come risulta dalla corrispondenza da Napoli di D. Ronchi; Roma, Arch. Doria Pamphili, fasc. 18.89, 18.90 e 18.91).  Strettamente legati all'occasione politica, gli scritti del D. ne seguirono le circostanze e gli svolgimenti, ma segnarono anche un passaggio di grande rilievo nella cultura napoletana del secondo Seicento. Se i due Discorsi, infatti, si avvicinavano in qualche modo al genere dei "bella diplomatica" che impegnava allora la migliore giurisprudenza europea, la Risposta confutava le rivendicazioni francesi in termini ben più avanzati delle consuete dispute avvocatesche, affrontando il tema della successione nel Brabante alla luce di una ricerca storica e di una meditazione sulle dottrine di Grozio, che la conduceva a individuare nel diritto di natura e delle genti le regole proprie al suo carattere giuspubblicistico. In tal modo rompeva l'isolamento del pensiero giuridico meridionale, lo apriva al confronto con le correnti d'Oltralpe, indicava un metodo storico per l'analisi degli ordinamenti e delle istituzioni che consentiva di determinare la natura privatistica o pubblicistica degli istituti, i loro rispettivi confini ed i fondamenti giuridici delle relazioni internazionali.  Non è dunque un caso se con quest'opera maturò nel D. un orientamento non solo giurisprudenziale, ma più largamente civile, fondato, in politica interna, sulla prospettiva di un accordo di governo tra il ceto intellettuale ed i viceré; sul lealismo spagnolo, in politica estera, giacché quell'impero restava, anche nel suo declino e col suo "genio tardo", atto a conservare più che ad innovare un puntello insostituibile per la pace e la stabilità dell'Europa, condizione per ogni sia pur relativa autonomia del Regno meridionale. Con la polemica sulla successione del Brabante prendeva forza, in sostanza, il difficile tentativo, condotto dal D. con cautele e prudenza, di collegare la battaglia culturale dei novatori alla riflessione e all'azione politica. Da allora infatti, nutrita dalla lezione di Machiavelli e dalle dottrine correnti della ragion di Stato, ma con l'aggiunta di un robusto realismo, che ne costituisce il tratto più caratteristico e originale, la sua attenzione si concentrò per circa un ventennio sulla scena internazionale, dove si decideva lo stesso destino del Regno di Napoli. Il rapporto tra gli Stati, la debolezza e l'immobilismo del sistema spagnolo, e di quello meridionale al suo interno, il dinamismo francese, infine l'emergere, da Napoli poco decifrabile, di altre potenze, divennero così l'argomento principale del suo nutrito carteggio col principe Doria, ed insieme lo sfondo di alcuni interventi forensi e di altri suoi scritti giuridico-politici (le une e gli altri editi ora da Mazzacane).  La familiarità col principe risaliva al 1673, quando dall'ottobre all'aprile 1675 il D. soggiornò presso di lui a Genova, Pegli e Torriglia, a conclusione di un periodo di viaggi guidati da curiosità intellettuali, non meno che da motivi di salute. Afflitto da serie crisi di ansietà e di apprensione, manifestatesi sin dal 1668 ed aggravatesi l'anno dopo con la morte del padre, forte di una solida situazione finanziaria, assicuratagli dalla funzione diavvocato primario del Regno, abbandonò la città poco più tardi, mentre precipitava una crisi nei rapporti politici degli intellettuali napoletani. Infatti se alla sua intesa col viceré d'Aragona si dovette l'avanzamento negli uffici del fratello Gennaro nel 1668 e l'incarico a lui, l'anno successivo, di difendere la "piazza" del popolo contro la nobiltà, tra la fine del 1669 e i primi mesi del 1670 il clima parve profondamente mutare, con la chiusura dell'Accademia degli Investiganti e la partenza da Napoli di alcuni suoi esponenti. Viaggiò per vari anni, con soggiorni più o meno lunghi in diversi centri italiani, raccogliendo consensi e amicizie, approfondendo gli studi scientifici e matematici, partecipando con vivacità alla vita intellettuale deicircoli che frequentava di volta in volta, come dimostrano le importanti lettere a Lucantonio Porzio (Napoli, Soc. napoletana di storia patria, ms. XX.B.24) e a Francesco Redi (Firenze, Bibl. Mediceo-Laurenziana, ms. Laur. Red. 219). Rientrò a Napoli nell'aprile 1675.  Le cronache della capitale, le relazioni degli agenti stranieri, le stesse lettere, spesso settimanali, al principe Doria consentono di seguire minutamente le sue attività professionali e la sua azione civile negli anni successivi. Tuttavia, nell'intreccio contraddittorio di una realtà arretrata, ma vitalissima, nell'accavallarsi di episodi maggiori o anche minimi, nel complicato scomporsi e ricomporsi dei vari "partiti", esse non si prestano a facili interpretazioni e non sono state interpretate uniformemente dalla storiografia. Del resto, qualsiasi lettura degli ultimi anni del D. è collegata con un giudizio sull'intera vita morale del Mezzogiorno durante il declino dell'impero spagnolo e nel profilarsi di una generale "crisi della coscienza europea". Perciò i dettagli di un'aneddotica spesso pettegola, le sfaccettature di un carattere umano incline alla melanconia, altero, ruvido ed anche "bizzarro", non possono esaurire il senso della sua presenza, vigile e critica, nella realtà napoletana di fine Seicento, il suo ruolo di maestro e guida intellettuale, di capostipite anzi di una genealogia spirituale che, attraverso il Biscardi e l'Argento, sarebbe giunta fino a Giannone.  Il governo del Velez segnò il momento di più consistente raccordo con la politica dei viceré e le aspirazioni egemoniche del ceto forense. Ne sono testimonianza eloquente, tra le altre, le scritture già ricordate sulle pretese del re di Francia, cui si aggiunse nel 1682 una Risposta al libro de' Francesi sopra li pretesi diritti del Re Cristianissimo sopra il Regno di Napoli et di Sicilia (Napoli, Bibl. naz., ms. XI.C. 25). A questa rapida "informazione" - una replica al Dupuy cui continuò a lavorare anche senza portarla a compimento - vanno aggiunte le difese in giudizio, sollecitate dal viceré, del marchese de Viso nel 1675, e dei Brancato e del Guaschi a partire dal 1679. Nello stesso anno rifiutò, con Carlo Cito, la designazione per la "piazza" del popolo, e l'episodio dimostra la volontà, e la possibilità tuttora attuale, di mantenere un'autonomia di partito per gli intellettuali e i forensi.  L'ascesa impetuosa di funzionari e ministri, profilatasi da lungo tempo e consolidatasi con l'assolutismo amministrativo del Carpio, spostando definitivamente il peso politico delle due anime del ceto civile, forense e togata, in favore di quest'ultima, divideva i rispettivi interessi e disegni e riduceva le possibilità, per la prima, di porsi con forza propria come centro di mediazione nella dinamica sociale e politica del viceregno. Perciò il D., emarginato e forse anche deluso dagli ambienti di palazzo (già nell'increscioso incidente del 1682 non si registrò né l'appoggio del Velez, né una risoluta solidarietà dei colleghi), si dedicò con rinnovata energia ai propri studi, per rianimare il gruppo disperso dei novatori dinanzi al ritorno in forze dello schieramento cattolico e del più oscuro spirito controriformistico.  Alla fine del 1684 morì il Cornelio e quella scomparsa sembrò segnare la conclusione di un intero ciclo della cultura napoletana, sicché assunse un significato evidente il carico preso dal D. per rivendicare il valore del suo insegnamento e la persistente vitalità della sua lezione. Egli infatti non solo sorvegliò l'edizione delle sue opere inedite, apparsa poi a Napoli sul finire del 1688, ma fece celebrare, nella primavera del 1685, un solenne funerale per il maestro, che ebbe il tono di un appello e di una perentoria riaffermazione di fedeltà ai principi della nuova scienza. Nello stesso anno stese anche la già ricordata Apologia in difesa degli atomisti e ricevette, tra ottobre e novembre, le visite di J. Mabillon e di G. Burnet, che rappresentarono un alto riconoscimento, da parte dell'Europa dotta, del suo prestigio internazionale e del rilievo degli studiosi napoletani nell'ambito del sapere moderno.  Furono tuttavia episodi che non lo scossero da una sorta di doloroso isolamento, in cui si inserirono meditazioni religiose sempre più fitte, d'intonazione etica rigorista, da leggersi comunque in rapporto con alcune scritture, di difficile datazione, dirette a inserirsi nei grandi dibattiti europei di filologia biblica (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII, 4. 1). Di peso più concreto fu invece la nomina, ottenuta dal viceré conte di Santo Stefano, per la carica di giudice di Vicaria, della quale prese possesso il 10 maggio 1688. Egli tornava così sulla scena pubblica, ma attraverso un reclutamento nella burocrazia - sia pur mitigato dalla maggior comprensione del Santo Stefano, rispetto al Carpio, per le ragioni culturali dei novatori - che costituiva di fatto un'ammissione del sopravvento degli uffici sull'avvocatura da parte di chi, come lui, lo aveva sempre avversato, ed ancora sarebbe tornato a negarlo negli Avvertimenti.  Seguì nel luglio 1689 la promozione a consigliere nel Sacro Regio Consiglio, e poi a fiscale della Sommaria, dove s'insediò il 5 apr. 1690: tutti spostamenti che s'intrecciarono con i tortuosi percorsi, e gli intrighi, dei circoli ministeriali di quella vera e propria "Repubblica dei togati", che era ormai diventato il Regno di Napoli per sua profonda struttura.  Le funzioni di governo e le competenze finanziarie dell'organismo di cui entrava a far parte richiesero il suo impegno su questioni economiche di scottante attualità, che egli affrontò con uno spirito di cui è difficile sottovalutare l'originalità e l'importanza. Dalle allegazioni (sono note quella dell'ottobre 1690 sul problema dei pedaggi e dei passi, intitolata Iura pro Regio Fisco…, e l'altra, Ad interpretationem regiarum litterarum quibus fuit declaratum officia quae sunt de regalibus, in sostegno del carattere pubblico degli uffici; entrambe in N. Ageta, Adnotationes pro Regio Aerario, II, Neapoli 1692, pp. 180-96 e 299-328) e dai suoi ripetuti interventi in Collaterale, nel corso del 1691 (Arch. di Stato di Napoli, Collaterale. Notamenti, voll. 75 ss.), emerge infatti un complesso di temi e valutazioni, nei quali prendeva forma una acuta analisi dell'inferiorità meridionale, capace di coglierne la sostanza economica, ed un coerente piano di parziali riforme.  La linea prospettata dal D., spesso ripresa e ampliata nelle lettere al Doria, non può avvicinarsi alla contemporanea cultura mercantilistica. Essa tuttavia conteneva il richiamo, d'ispirazione pragmatica più che teorica, alle esperienze europee più avanzate (olandesi ed inglesi), la denuncia della venalità degli uffici come causa prima delle disfunzioni del sistema spagnolo e della questione beneficiaria come uno dei lacci più pericolosi che soffocassero il Regno, infine l'indicazione di misure concrete sui problemi della moneta, degli uffici, dei passi. Ma la sua perorazione per la libertà dei commerci e le proposte di riforma corrispondenti si arenarono subito, nonostante l'intesa col viceré, per la ferma opposizione del baronaggio. Durante il 1692 si fece perciò più rara la sua presenza nei diversi consessi ministeriali. Nel 1693 fu sostituito in Sommaria e fu giubilato nel 1695, mentre risiedeva a Procida, donde dava vita a un rilancio della sua azione culturale.  Di tale intenzione erano state già segno la collaborazione prestata al Valletta per una scrittura, compiuta in quegli anni, relativa al conflitto accesissimo sulla giurisdizione del S. Uffizio e la stampa della Disputatio an fratres (Napoli 1694), un testo capitale della scienza giuridica di fine Seicento, in cui, con matura sensibilità storica, egli poneva la consuetudine e l'interpretazione giurisprudenziale a fondamento del diritto del Regno e dei suoi svolgimenti. Risalgono inoltre allo stesso periodo alcune scritture e lettere sullo stato politico d'Europa e d'Italia (cfr. l'ediz. Mazzacane).  Le opere dell'ultimo biennio valsero a confermare il suo ruolo eminente tra le avanguardie intellettuali napoletane, sicché non sorprende la visita resagli a Procida dal Santo Stefano a metà dicembre 1695 per concordare un'azione contro l'offensiva curiale e gesuitica in atto, che si esprimeva sul piano e politico e culturale con la controversia del S. Uffizio, il processo agli ateisti, i libelli polemici tra cui spiccavano per ampiezza di argomentazioni le Lettere apologetiche del padre De Benedictis, pubblicate a Napoli nel 1694 sotto lo pseudonimo di Aletino. Ad esse il D. replicò con le Risposte già ricordate, ma nel frattempo nuovi equilibri si profilavano a Napoli.  Altri temi più direttamente incisivi che non gli appelli per la moderna filosofia, si offrivano a costituire il cemento ideologico capace di saldare alleanze diverse tra i ceti e di rimescolarne gli schieramenti. Nella svolta di fine Seicento, dinanzi all'atto di accusa rivolto dagli ambienti cattolici alla nuova cultura e ai suoi progetti di rinnovamento, dinanzi ad un tentativo d'imporre il prepotere ecclesiastico, il ministero togato serrava le fila, si attestava sull'intransigente difesa della giurisdizione regia, assumendola in proprio, senza demandarne la definizione a intellettuali appartati, sia pure di grande prestigio, come il D'Andrea. La sua lezione investigante non poteva più rappresentare la base per un'intesa tra monarchia, viceré e magistrati, stabilitasi invece attorno al giurisdizionalismo, e difatti egli venne del tutto ignorato nelle iniziative del duca di Medina Coeli. Perciò gli Avvertimenti ai nipoti, completati nel 1696 e destinati a una straordinaria fortuna, assunsero spesso il tono di una apologia retrospettiva, pagarono il prezzo della contraddizione tra un modello ancora proposto e il realistico riconoscimento dei cambiamenti avvenuti. Il primato dell'avvocatura come alto magistero per il giurista moderno, argomentato con frequenti tinte neostoiche, e come via regia per acquistare ricchezza e potere, vi si accompagnava all'ambigua ammissione del risalto sociale e politico conseguito dal ministero, ispirando una ricognizione minuta sulle vicende del ceto forense negli ultimi cinquant'anni, che rimane esemplare per profondità ed acutezza di analisi, ma che non può nascondere il fallimento del tentativo di fissare le direttrici ideali per i nuovi gruppi dirigenti.Gli Avvertimenti furono terminati l'anno prima del ritiro a Candela, nei feudi lucani del principe Doria, dove il D. si ridusse per un impulso di solitudine e per curarsi lo stato fisico declinante. Morì a Candela (Foggia) il 10 sett. 1698, di una febbre terzana contratta a Melfi nell'estate. La sua operosità non era venuta meno neppure negli ultimi mesi. Aveva infatti compiuto da poco un Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna (edito di recente dal Mastellone), che è il suo estremo messaggio agli intellettuali napoletani nella "cupa" finis Hispaniae.  Fonti e Bibl.: Fonte principale sono le notizie autobiogr. sparse negli Avvertimenti ai nipoti, pubbl. a cura di N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento. F. D.,Napoli 1923, con intr., note e append. bibliografica ricche di riferimenti ai documenti ined. e alle testimonianze più antiche. Per le date di nascita e di morte si sono tuttavia preferite quelle indicate da L. Giustiniani, Memorie istor. d. scrittori legali del Regno di Napoli, I,Napoli 1787. pp. 57, 65, confermate rispettivamente dai Registri battesimali della chiesa madre in Ravello e dai documenti dell'Arch. Doria-Pamphili in Roma, fasc. 19.8. Circa l'età in cui iniziarono i primi studi, si è adottato l'uso moderno di considerare l'anno di vita compiuto, anziché quello iniziato. Si è inoltre collocata la laurea nel marzo 1641, seguendo [G. L. Torrese], Diligentissima Neapolitanorum doctorum nunc viventium nomenclatura, Neapoli 1653, p. 99, e G. Corrado, Nomenclatura doctorum Neapolitanorum viventium, Neapoli 1678, p. 21; la documentazione archivistica dell'Arch. di Stato di Napoli, Coll. dei Dottori, lacunosa, ne dà conferma almeno e silentio. L'elenco delle opere edite e inedite e delle lettere finora rinvenute è fornito da A. Mazzacane, I misteri de' Prencipi. Lettere e scritti politici di F. D., Napoli 1986. Tuttavia, manca ancora una soddisfacente ricostituzione dei testi, avviata, per le opere filosofiche, da A. Quondam, Minima Dandreiana. Prima ricognizione sul testo delle"Risposte di F. D. a B. Aletino", in Riv. stor. ital.,LXXXII (1970), pp. 887-916 (ma v. anche A. Borrelli, L'"Apologia in difesa degli atomisti" di F. D.,in Filologia e critica, VI [1981], pp. 259-80). Per il carteggio, due lettere al Redi sono pubblicate e commentate da G. Tellini, Tre corrispondenti di F. Redi, in Filologia e crit.,I (1976), pp. 401-53; numerose altre allo stesso sono studiate da A. Borrelli, F. D. nella corrispondenza ined. con F. Redi, ibid., VII (1982) pp. 161-97; quelle al Doria (ora pubbl. da Mazzacane) sono in buona parte citate ed utilizzate da R. Colapietra, L'amabile fierezza di F. D. Il Seicento napoletano nel carteggio con G. A. Doria, Milano 1981, il quale riassume anche precedenti lavori propri, annota e discute in maniera completa la letteratura disponibile, antica e recente. Di essa perciò ci si limita a ricordare soltanto le monografie e le raccolte di saggi che hanno maggiormente animato, negli ultimi tempi, il dibattito storiografico sull'autore e sul secondo Seicento meridionale, rinviando agli indici per la precisazione delle pagine di diretto interesse: B. De Giovanni, Filosofia e diritto in F. D. Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; Id., La vita intellettuale a Napoli tra la metà del Seicento e la restaurazione del Regno, in Storia di Napoli, VI, 1, Napoli 1970; N. Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico, Milano 1961; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965; Id., F. D. politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Firenze 1969 (alle pp. 183-99 il Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna); L. Marini, Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna ed a Roma, Bologna 1970; V. I. Comparato, G. Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli 1970; Id., Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974; Id., Retorica forense e ideol. nel giovane D.,in Boll. del Centro di studi vichiani, VI (1976), pp. 41-75 (alle pp. 62 ss. l'allegaz. Pro Congr. S. Ivonis); R. Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976; Id., Cartesianismo e culturaoltremontana al tempo dell'"Istoria civile", in Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Aiello, Napoli 1980; P. L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, Napoli 1991; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Firenze 1982. ANDREA (Francesco ’)nacquenellaCittàdiRavellonellaCoſta d’Amalfi il di 2.4. Febbraio dell’anno '1625. non già‘nel 162.4. o 1_óz7. come altri fi avvisarono. I suoi genitori furono Die go e Lucrezia Coppola della ſtessa Città', e nobile del sedile di Mon    58 -A N Montagna giusta l’avviso del nosiro autore' (r). Il Padre, che_ se ne stava in Napoli addetto all’ esercizio del foro, appena ch’ ebbe oltrepassata l’infanzia lo se quivi condurre (a), e di~ anni 10..-affidollo alla educazione de’ PP. dell' Oratorio. F in da quesia tenera età incominciò a dar saggio de' suoi vivaci talenti, ritenendo con iſtupore quanto legger segli facea, e quanto anche da’dotti sentiva, onde il nome gli diedero di maeslro di me moria. La sua educazione però, esser dovea tuttaltra da quella, che gliene diede poi il padre ne’ primi anni di 'sua giovanezza. Egli accorgendosì della vivacità del figli0,non volle metterlo sot to la disciplina degli oggigiorno espulsi Gesuiti per applicarlo ben toſto allo ſtudio della giurisprudenza, anche sul sospetto, che quel li conoscendo i talenti del giova‘netto persuaso lo avrebbero a ve flire le loro lane,e privar con ciò la sua casa degli avanzamenti, ' che avrebbe potuto sperare dalla sua riuscita,p Dell’etàdianni12.‘adunquemandollo adiſtudiargiurisprudenza,nien— te iſtrutto di quegli altri ſtudi necessari a ben intendere questa scienza. Buon per lui ch’ebbe_a maestro il tanto celebre Giannandrea di Pao lo,ottimo oratore dique’ tempi, e stato già discepolo di Alessandro...Turamino Sartese (3): giacchè a dir del nostro autore (4) corse ri ‘schio di esser discepolo di Gio. Domenico Coscia Calabrese, sopranno mato Casciana, uomo grosso d’ingegno, e ſtato già maesiro di Diego suopadre. Fe (i) L0 attesia esso Francesco nell’introduzione de’ suoi avvertimenti. (2)-Eglì ſtesso lo dice ne’ suoi avvertimenti, ove parla della casa Rovito. (3) Nicolò Toppi bibliot. napal. pag. 8. Giangiuseppe Origlia [sud. diNapol. r. a. p. '50. e Pietro Giannone jlor. civ. del Reg. di Napo!. [ib. 34.:0.8. Q. r. in fin. scrivono,'che quiz/Zi ancorchè Senese d’ origine su Napoletana. Ma-si sono ingannati a partito. Non pochi monumenti abbiamo da potergli reflituir la sua patria. Nel 1604. trovandosi in Ferrara scrisse una lettera al Cardinale Cammillo Borghese in cui scrive: e Neapoli per Tbyr-renum in pan-iam adveäiur-c Nel-1592. dimessosi dalla carica.di uditor di Rota nel {oro di Firenze, venne in Napoli, ed occupò la cattedra di diritto civi le,come appare-dalla letteravindirizzäta a D. Gio. Zunica Vicerè diNa 'poli, impressa nel libro de exaequariane legarorum, pubblicato nel i593. e dall’altra scritta dall'autore a Lorenzo Usimbardo., che fece precedere‘al suo opuscolo sulla L. non puro D.dejimfifri. Neap.1595.in4.enel1594. per morte del Colombino‘passò alla primaria, e tutte le opere, che pose qui a luce le dedicò' a’personaggí del suo paese; tal è quella sana a Giro lamo Cerretano, e Francese* Accarisio patrizj Sanesi, che precede al suo,opuscolo ad L. fruit—im‘, S. Papiníanur D. quem. dorperat. impresso nel 1600. E* da leggersianche l’accuratissimo Lorenzo Meho in praes. op”. Tura míni,ëdir.&nen/ir1-770. (4) Ne'suoiavvertimenti. 1 ñ    n, o AN 'gç Fece gli intendereildotto GianandreadiPaolo,quantoeglieramal fondato ne’ primi ſtud;,e qual bisogno avesse,per ben. coltivare i suoi talenti nello apprendere la scienza del diritto.Siffatti avverti menti però dispiacendo all’ambizioso genitore, bramandojl più preſto di vederlo esercitato nel foro, nell’età di anni 17. con di spensa volle addottorarlo nell’una enell’altra legge per fargli intraprendere bentoſto un. tal esercizro. Egli non però l’accorto giovanetto volle secondare i desider) paterni. N o n interruppe per ciò dopo la laurea dottorale le sue' affiduc applicazioni nella let tura degli autori latini e greci, tanto prosatori,che poeti. S'in vaghi non poco delle opere di Virgilio, e di Omero, ed anche de’più scelti poeti toscani, per cui avendoci acquiſtata una partico lar passione, com’c’ dice, non potè però giammai vedersi da tan- ’ to a comPorre un *ver/b con'qualchc suo dispiacimento. Queſta ' insinuazione gliela diede peraltro anche il dotto Ottavio di Felice, avendogli fatto comprendere similmente quanto fossenecessariol'ac— quiſto della geografia e cronologia,senza di cui e’tratto non avreb be un maggior profitto dalla ſtoria, e che ſtato sarebbe ancor per lui molto vanta gioso apprendere qualche cosa di moral filosofia. Colla guida de’ su odati valentnomint giunto all’età di anni zo. in cominciò la carriera del foro, *e ad iſtudiare gli articoli', che oc correano-nelle cause del padre. La prima scrittura,ch' e‘ mandò a ſtampa fu-sull’ articolo eccitato in un litigio del, principe di Ca salmaggiore,se l’interesse ~di più anni pote'a- eccedere il doppio della sorte principale. Lo spirito di novità con cui mane‘ iol-lo, piacque non poco alConsigliere Arias de Mesa stato diggi catte 'dratìco di Salamanca. La seconda in una causa d’ importanza del Principe d’Aquino col Duca dell’Acerenza per la vendita diGiu gliano, e in risposta di quella fatta da Giulio Caracciolo. M a poichè incominciò a veder da lungi. lavaſtità delle scienze, cad iscorgere qualeabilità ancor naturale richiedeasiñameritare ilnome dioratore,‘moſtrossìsul rincipio Corantoritenuto.diarringarc‘ nelle ruote, che su nella risoluzron di volersi di ’nuovo,rinchiudeñ re,-se animato non lo avessero i dotti, e poſtogli avanti gli occhi lasuaabilitàesapere.Undiqueſtisuil celebre Cammillo Colonna Signore di somme cognizioni, dandogli de’savsi) precetti, e la notizia insieme di scelti scrittori aformarsi un buÒno e diverso ſti— -le degli altri del foro. Ho ammise i-ndi nella sua letteraria accade-l mia-,che radunava in ogni settimana‘, perfarlo esercitare sì nello* scrivere, che nel parlare alla, presenza' di uomini colti. Queſto c sercizio confessa il noſtro autore che gli su di sommo aiuto, e che.perciò.vedeasinon poco obbligafo aqucſto gran protectorde’gtovani. Indi siascrissealla congregazione S.lvonc.,ove,recitò_una.suaart-?l 2. zio    60 AN zione in lode di quella is’tituzione; ed avendone riportati univerá sali applausi,incominciò pian piano ad incoragirsi,e a deporre quel timore,chel’aveafinallorasorpreso.Quindi trattenendosiunamat tina* nel Collaterale,in cui doveasi trattare la tanto famigerata cau sa tralla succennata congregazione,ei PP.Gesuiri, iquali pretendeano -fondarne altra, ed’ essendo ſtato chiamato dal Vicerè Duca d’Arcos il difensore di essa congregazione, non vi' si trovò per allora. Niu no de’ tanti avvocati della medesima,che vi s1 erano radunati vol le esporsi al cimento, ed il solo noſtro Francesco di anni ar. non già. zz. secondo vuole il Giannone (1) si addossò eſtemporaneamente l’in carico,e parlando colla più sop‘rafflna elo uenza, e sodezza di ra— gione,ancorchè avesse dovuto rintuzzare [avversario Francesco Pra to,che parlato avea in favella Spagnuola’,ne riportò a suo favore siuna compiuta decisione. Queſto dir solea il noſtro autore, esser ſtato un de’ più segnalati punti di sua vita, e il primo passo alla gran fama, che andò dipoi sempreppiù acquistando., Volle il Vicerè crearlo fiscale nella Regia Udienza di Chieti, che vi an ‘dòpoiversolafinedel1646.caricach’e liaccettòmalvolentieri,eche dispiacque e ualmente aglialtriperve ersi allontanato dal foro un giovanedi rffattaesettazione.Egliperòdilàadueannivisireſti tui,'e dopo di ave 1 procacciata della gran vfama nel suo eserci zio insieme‘ con D. Michele-Pignatelli Preside -e governador delle -armióinambedue’le‘provinciedegli'Abruzzi intempi sìmemo rabili di popolari rivoluzioni (z). Seguendo quelle provincie l’esem pio della capitale, quel savio Cavaliere’non trovò più abile Sog getto, che ll giovane'd’ Andrea,onde valersi in fiff‘atte circoſtanf ze a sedare ilfurore dell’insano popolaccio. Tanto nell’eseguire le incombenze del Pignatelli, quanto i nuovi ritrovati da lui, a ben riuscir nell’impresa in vari paesi tumultuati, moſtrò maisem pre una gran saviezza,ed una più che invecchiata prudenza-Chi unque volesse soddisfarsene legga la sua scrittura(ch’ io notcrò nel n. 7.) che conservasi tuttavia *dall’amabile odierno Marchese di Pe scopagano Sig. D. Diego d’Andrea Regio Consigliere di S. Chiara, -e del nuovo Tribunale dell’ Udienza dell’Esercito, Marina,Caſtel lidiquestaCittà,edell’Alcaida‘to,ilqualgentilmenteme lapassò nelle mani, ond’io tratte avessi lesuccennate notizie. Sa (1) Giannone [lor. civil. del Reg”. di Napo!. [ih-38. cap. 54’431. edizd723. (z) E’ norabìle, che tra i rubelli eranvi in Napoli Vincenzo, e Francesco d’Andrea di altra famiglia ignobile,edessendo ſtatocreatodalpopoloCon figlierediS.ChiaraessoFrancesco,mandataindilañnon degliuffiziali s a m dallo flessoinsuriflo popolo, si credette da taluni, ehegil noſtro Fi -scale d' Andrea fosse stato il promosso,- qual equivoco su smentito da esso --Miehele Pignatelli'. O 4. u 1    "A N.ci Sarebbe ritornato'in Napoli fin da Luglio 1648. se un ordine della Camera non l’avesse dovuto trattenere sino a Settembre dello ſtesso anno. In qual tempo ripigliò l’esercizio del noſtro foro, e sparse ditanto intalminiſtcroilgrido-disuararacapacitàedeloquenza,ch’ ebbero ad appellarlo ilcomun maeſtro,e il principe degli oratori (r).,Il Conte di Ognatte avendo, dinuovo mandato il Pignatelli nelle ſtesse Provincie, ed avendogli data la facoltà di eliggersi que’ mi niſtri.perUditori,che iù—abilie dotti gli sembrassero, eglisulle rime fe'scelta del no r0 d’Andrea: ma `per quante fossero~ state e preghiere fattegli da quel Cavaliere, non volle avvedutamente interrompere altra volta il corso dell’avvocheria per non essergli, com’ e’disse,nè di utile, nè di decoro. Nell’anno 1656. accaduta in Napoli quella fiera peſtilenza, sotto il governo del Conte di Caſtrillo, cedescrittaci da parecchi noſtri ſto rici (2.), volle il Principe di.Cassano seco condnrlo ne' suoi stati nella Calabria Citeriore. Indi cessato il contagio fatto rrtorno in N a poli, trovò quasichè tutti morti -i professori del noſtro foro. Per la scarsezza adunque di queſti, e più,per la sua 'abilità;'se gli ac crebbe ditanto il numero de’clientoli,che tempo non reſtavaglia riſtora'rsi dalle tante gravi applicazioni,asegno che incomincio ad infaſtidirsidi sua professione, e a contrarre delle varie indisposizio - uelle di,Antonio Gomez,e di Domenico Bracati:il primo inqui q sito di capital delitto, l’altro di menomato. zelo verso del suo So _vrano. L’uomo quanto ‘eradotto, altrettanto ancor fortunato. Egli ebbe a perorarle,laprima aVanti del-Vicerè Cardinal d’Aragona,l’al tra avanti del VisitatorCasati, uom coſtui rigidissimo pe’diritti del suo Sovrano; e nulladim`eno~ne riporto compiute vittorie, ed alla gran gloria,chevenne adacquiſtarsiconsiffatti patrocini,ne,otten ne ancor delle buone' somme, che' a larga mano gli diedero i rei. Circa queſti tempi essendosene` morto Diego suo‘genitore,edavanza te più le sue indispofizroni,risolvette' nel 1669.‘di fare 'un viaggio per la noſtra Italia (3), a ffi n di ricuperare la quasi cadente dlhîi sa.-~ t — ` -î- 11-.... (i) Vedi il dotto Caſtelli adjeéiio”. 'ad Cart-aber” part. l. say-'l, n.34. et 35. Francesco Maradei prati:.` universal. proceflur execufi-vi cap. a. n. 64.1). 64. (z) Vedi il.P. D. Carlo Francesco Riaco:Jil giudizio `di Napoli csi/'sussidi‘ \ ni ed acciacchi sulla propria salute. ñ " f- Le prime cause, che difese dopo il ritorno dalla (Calabria, siiron passato conteggio cet.,ln Perugia [658. in 3. e il.Ragguaglio della mirato losa protezione di S. F rancesco Saverio *ver-fit la Città e il Regno di Napoli ì nelcontagiodel1656.d’incertoautore,ma senzafallo_Gesuita,inNapo— - ii, e in Gratz nel 1660. e di nua-vo Napoli.x743. inps. Parrino teatro de' Vic”) di Napoli t.2. Pag. 191. edi-z: [77_0-. _. `, ›_~. (3) Vedi il noflro, autore negli avvertimenti a’suot mp0” 5. i. l. O ' '6:- AN lute. Egli girò per lo spazio di anni quattro, e luogo non vi.su j ove giugnesse,ch’ esatti non avesse i piu alti applausi esegni di ri spetto e venerazione. lo tralascio a far parola di que’ favolosi rac conti e del m o d o, 0nd’ egli viaggiato avesse per diverse parti dell’ italia; poichè ſtiam pur nella certezza d’ essersi fatto dappertutto conoscere,e dappertutto ancora esige atteſtatì diſtima ediammi razione. ln var} tribunali a preghiere de’ più grandi del. luogo, eb be a sar sentire la sua eloquenza, e donde partiva lasciava negli animi di tutti segni di affezione. Grandi furono gli onori, ch’ egli esigettc in Firenze (i) e in Perugia, che in occasion di sua par tenza composero i Perugini la seghente raccolta intitolatas Affet ti ossequiosì delle Muse di Perugia nella Partenza del Signor Francesco d’ Andrea Napoletano; In Perugia 1672.. in 4. Nell’ anno 1672.. alle cantinue preghiere de’ suoi illuſtri clientoli, e dello ſtes’s’o Vicerè, come si dice, ebbe a ritornare in vqueſta Ca pitale, e ripigliare per la terza volta l’esercizio del foro. Ella è coſtante tradizione,ch’vogni qualvoltadovea perorare,radunavansi i più dotti di queſta noſtra Metropoli, e con essi gli eſteri anco ra (z). Il celebre Giovanni.Mabillon (3) calato in italia nel 1685. col carattere d’ Inviato del Re di Francia per visitare le noſtre bi blioteche ed -antichità,dice di averlo ascoltato non seme! in Mist fn principîs Satriani magna cum eloquentiae flumine et fulmine Perorantem (4), ancorchè perallora- fosse già di anni 60. Dice Pietro Giannone (5).,,ch’ egli fosse stato il primo a sar risonare il nome di Cujacio,~-e di altri eruditi scrittori nelle sue aringhe. Autorità che' venne abbracciata dal Giannelli (á),e dal Grimaldi (7) avvisandoqueſt’ultimo,`che‘fosseſtato ilprimainn-adattaredelle operedelfamoso'anacio(8);Ma sÎingannaronosull’autoritàdellostes... lb‘7 y.-:l_. (i) Vedi le opere di Franc-,eseqRedi rom. 2. pag. rzt. e rom. 4. pag, 63. (z) Vedi Tommaso- Burner lnglese nel *viaggio d’Italia, l'autore dell’epi/iol. de ”He ín/Zímendfl academ., ad Lam. Prism” Venet. 1709.7. 21. e la vita, che ne scrisse Biagio Majoli A'vitabile impressa nelle ”ire degli Arcadí ì] ~~iilvh to 1- p ' (3) E’ troppo noto nella 'repubblica delle lettere queſto erudítislimo scrittore ~nato ‘in S. Pierremont nella Diocesi di Reims nel 163‘2‘. 'ed _entrato nella Cangregazionej di S. Mauro l’afluò- tanta gloria colle sue opere. Vedi. h Cei-f. biblioteque -hi/Ìarique army”: du.Am/mm' de 'la Congregalìon a': S'.Maw., Ruinart ‘vita Mobil!. ‘ (4) Mabillon im' Ita/ir. p. to;.‘~ - (5) Giannone islar. civil. [ib.;8. cap. 4. ', › ì -ñ ñ (ó) Giannelli editi-azione 'al figlio cap. 26. p. 230." (7) Ginesio Grimaldi isl_aría del/_e leggi {Magi/Ira” del Reg. di Nflp.t.x.p.106. (8) Vedi le notizie:siam/ae degli A m d: mom', tom.- a. p. 14. a z-r.  z” ~ f,-- _.—,__ì..IN-M,... _._ñ- `_. j l'-ó—. ñ -‘ ñ ó**Lt-ñ.: ax-   LA N 63 so nostroFrancesco avendo volutodarsi un talvanto negliavverti mentiassuoiscrivendo:Iofuiil rima,chefecisentirene’no/Ìn" tribunaliil”urnediCujacio,e eglialtrierudiri.Ma chiunque rivolgesse inostri scrittori legali,che gli fioriron d’ innanzi,vi rat troverebbe spesso nelle opere loro i nomi'di tutti quegli autori,che surseroda Andrea Alciati fino algranCuiacio(I).Se questi sivalea— no nc’ loroscrittì delle autorità -di tutti que’ dotti interpreti,parte Italiani,veparteOltramontani,come puòcredersi,cheperorando ne’ tribunali sentir non facessero anche iloro nomi. Questa gloria, chevolledarsiilnostrod’Andrea,nonsapreicomescrbarcela..i Che da’ suoi tempi incominciata fosse.un epoca più felice,per un cet. tomodo introdottodalui.nelloscrivere,eadisputargliarticoli, nongià‘secondoil ocogustode’precedentisecoli,ma iustale regole della ragion civile,e delle nostre municipali leggi,e sì quel vanto che merita assolutamente il nostro autore. La storia e la cri tica,mezzi valevoli a ben intender le leggi, per quanto potè l’in trodusse,-siccome'osserviamovnelle prime allega'zioni‘,ch"e’scrisse, e raccolte poi dal Moccia, e dal Staibano. e ì. - Egli s’impe nò,che.la giurisprudenza s’inse nasse anche con miglior metodo e’ erudizionc nella noſtra Univer lfà.'Si adoprò similmen te, che la cattedra di matematica si occupasse da Tommaso Cor ' nelio gran filosofo e medico’ di quel tempo, ch’egli venir fece da Roma nel1649.,quegliſtessoche*introdussepoitranoilevopere del celebre* Renato des Cartes,e volle-annoverarsi trai primi suoi ascoltatori. F e riſtabilire la.cattedra- di lingua greca con darsi al dot to Gregorio Messeri verso il1687.. come anche indusse Gio. Batiſta Cacace ad insegnare la rettorica, nel tempo -ſtesso ch' egli era pro fessore d’ iſtituzioni -civili,'mancandovi una-tal cattedra nella Uni vcrsità degli ſtud), ch’ indi fu eretta, e conferita ad Antonio Orlan dino. Fece ancor risorgere ñl’accademia degli Oziosi (a),e fu uno de’ fondatori delle accademie degli Oscuri.(3) de’ Razzi (4.), ‘de gl'I/zveſtiganri (5), e venne asgritt’o alla generale adunanza ‘d’Ar.:,..aaca ‘(t) Osserva il mio leggitore le opeíe di Francescantonio d’Adamo, di Vince zo_ Alfani, di Domenico de Rubeis, cet-’per res’tar‘ persuaso- di quel che i è da me afferiro. - '.. v (z) Nell'anno 1611.‘ Gio. Batìſta Manzo Marchese di Villa' iſtitui‘ una tal a c c a d e m i a.‘ Vedi G i u l i o C e s a r e Capa c c i o m i s u r a / f i e r e p a g. 8. e 9. e d g b be il`suo principio addì 3. Maggio ne’chiolii’i di S. Maria delle Grazie... presso S. Agnello. Vedi Tommaso Coílo memoriale de’succejji del Regno p di Napo/ì, in detto anno, 16”. g‘ (3) Nel M79. su eretta l’accademia degli Oscar!. (4) Nell’ anno ſtesso surseì'quell’ altra accademia sotto nome de’ Razzi. (5) Quella celebre adunanza iſtituìta anche nel 1679. venne protetta da D. - Ao    ~› e cadiacolnomedi'Lariscasafl’o. \* -'- ‘Egli adunque ambiva ‘di riformare il guſto del foro. e della cattedra” e fe de’ sforzi a riuscirci.-Per quanto potè moſtrossi protettore de’ letterati, co’ quali piacevagli molto il conversare. Ebbe dell’ a micizia con Lucanconio Porzio, Luca Tozzi, Cammillo Pelle grino, Carlo Buragna, Grana-alfonso Borrelli, Nicolò Amenta, Giambatiſta Capucci, Daniel'lo Spinola, Michele Gentile e, D o menico Scutari, Pietro Lizzaldi Gesuita, Sebastiano Bartoli, Fran cesco Redi, Antonio Magliabechi, Giammario Crescimbeni, Giu seppe del Pa a, Gabriello Fasano, Tommaso` Cornelio, Lionardo deCapua,e altriassaisiìmi;.moltide’quali,chescrìfferodelleope re, non lasciarono di`fargliquelle dovute lodi-nelle medesime, e parte gliele dedicarono ancora, come il Cornelio l’ opdka de eine, cumpulsione Platania:. ll Crescimbeni colmollo di lodi nella‘ifla ria del a 'volgarpmſta, e il Redi Co’ seguenti versi nel suo Bacco 6.1. AN i”Tosì‘ana:;L- -. ì ñ. ^‘_ E se ben Ciccio d’Andrea l Con amabilefierezza, \.ñ‘. Con terribile doleezàay, -. ‘~ Tra gran mani d’eloquenza Nella propria mia[presenza › _...i` _. Inalzarundi‘*voeva.~9 ñ y-, -..\ - ' Il Conte di. S. Stefano Vicerè di Napoli lo relesse Giudice di Vicaria vverso, il 1688. e‘quì debbo notare un errore in cui sono incòrsi v,..,‘h —tutti AndreaConcubletMarchesed’Arena,dcflinandolapropriasuacasa.Ve di Giannone lib. 40. rap, 5. Lionardo di Capua; parer: ragion. 8. Carlo Suv sauna in Buragnae vita. Lucantonio Porzio in opnseus. de mom graùium,et ` deìorig. semi-nn. Giannalfonso Borrelli nell’ api/i. dedie. al, suo libro da, mazionibu: naturalibus a gra-visure pendentióu:. Gl’iſtirutoti furono T o m m a so Cornelio, Lionardo, di Capua, il nostro d’Andrea, e il dilui germano‘ fratello Gennaro, nat-o addì. 4.‘ AgoſtosideL 1637.-e morto nel 1717c~di an ni 80. da Reggente di Collaterale, e Delegato della giurisdizione. (i)Gimmaelogiaccademicipart.1.nell’elogiodi.PietroEmiliaGuaseo.A sti dell’ ush ed autorità della ragion civile lió. l. tap. l. p. 4L‘infin- Gianno neIibÌ38.mp4... [ib.39.up.1,[ib.40.rap.8.Staibanor.2.resolat.185. Celano `delle notizie del bello, dell’ antico e curia/ò della Città di Napoli, x. 3. giornata V. p. 92. Fabroni 'vitae Ita/or. t. 3. p. 332. Ariani comment., dc chris iuriseonfl Napo!. p. 26. ` Quel (PA-versa acido Asprino, ` ì,~~“ Che nonfl) s’è tigre/70,0 -vina, ’ j- - -‘ ñ".' ì. -. r.~ ì ~.-.' -'.EinaNapolise!-óea- p ‘ Del superi-bo Fasano in; compagnia cet. nèaltrimentiparecchi-altriscrittori(1)., '\ ñ  _..._-ñ-_._.. -ññ. -..r.- *A   'AN 65 tutti coloro che ne han fatta parola avvisandosi, che il Re Car lo II.` innalzollo al grado di avvocato fiscale del Real patrimo— nio; qual carica essendogli troppo odiosa, commutar la volle con quella di Consigliere: ma da’libri delle discendenze del S. C. ri levasi, ch’ egli ebbe la commessa delle cause del Consiglier Ste— fano Padilla nel dì zo. Settembre del 1689. e nel 1691. passò avvocato fiscale, e le sue cause furon commesse al Consigliere D. Pietro Messones con decreto die 6. mensir sulii. 1691. Dopo anni 9. in circa di esercizio miniſteriale,ne reſtò talmente annoiato, che rinunciar volle la toga, e cercar un pò d’ ozio filosofico, avendo menata sua vita da circa anni 50. tralle noiose cure del foro, e in una piucchè assidua applicazione. A tal fine si ritirò nella noſtra Mergellina,eproprionelladiluimasseria,checomprossi erdue. zooo. ove fin dal primo giorno assalito dalle frequenti viiredegli amici e clientoli, si avvide ben toſto, che non avrebbe soddisfat to il suo desiderio; quindi se passaggio nell’ Isola‘di Procida, lusin gandosi ch’ivi trovato avesse quel tanto suo bramato intento: ma non gli riuscì nemmeno tal sua risoluzione, frequentata venendo nel modo iſtesio la dilui abitazione da numerosa folla- di litiganti a chiedergli qualche suo savio regolamento, ed inquietato piuc~ che mai veniva dalle visite de’sav) viaggiatori Europei,che calava no nella noſtra dotta Italia per riverire un uomo, la cui fama erasi diggià sparsa per tutto l’orbe letterario.Fu coſtretto perciò por tarsi in Candela terra in Capitanata, ove venne. a morte addì IQ Settembre verso le ore z:. dell’anno 1698- e di sua età settanta treesimo, e mesi,e non già come altri scrissero di anni.7t. Il Vescovo di.Melfi si adoprò nella miglior maniera, onde rendere gli ultimi uffizi alla sua memoriaznè mancò persona,che fatta gli avesseorazion funebre,laquale è ſtata da me lettamanoscritta,e non s0 se fosse ſtata benanche impressa. Il titolo èqueſto: In obi tuDominiFranci/ZideAndreaRegiiConsiliarii,acinRegiaCa mera Fisci Petroni elegiacum carmen,et oratio nabita ab UJ.D. s0.Bapti/Za Patetta. Ora altro non resiami,che dare a’leggitori un elenco delle tante 'sue opere,ed i motivi 0nd’ ebbe a scrivere alcune delle medesime. E’ celebre nelle iſtorie la controversia mossa da’ Franzesi nell’ anno 1666. sopra il Ducato di Brabante, ed altri ſtati della Fiandra contro i Spagnuóli. Per affar sì serio vennegl’impoflo dal Vicerè D. Pietro d’Aragona sul principio del 1667. di scrivere in difesa del lor Sovrano Carlo Il. Egli l’Andrea eseguì bentoſto un tal comando, eaddì2.8.FebbraiodelloAſtess’annoglipresentòunasua dotta scrittura, col titolo: '. 1.DijkrtatiodesucceffioneDucatusBraáantiae.QuaMenditurmul- - Tom!. vI lam 4    66 AN lam Córislianiflîmae Reginae ad ejusdem _Dueatur la ereditata-m spem fieri;per Consuetua'inem illms pravmciae,quaefilias primi Îlori *vom: ad parenti-”n berediratem exclnsir liberi:, quam-ui: mn/?ulisorti;exsZ-Cimdo;quodea,tanquani rivarorumci-vinm propria, ni/Îil commune habent, eum sucçe zone_ Publica tori”: Principal”. Volle intanto il Vicerè, che m dllUl presenza sotto scritta l’avesse, affinchè sr'egiata del suo nome, impoſta avesse in Europa una più alta e maggiore autorità,e così manoscritta inviol la in [spagna. Ella non su mandata a ſtampa per non dar nuovo motivo a’ Franzesi di dire, che i noſtri fossero ſtati iprimi a pro vocar li al cimento, non avendo pubblicata alcuna delle scritture, ch’ in i in poi produsse-ro. M a nel mese di Maggio, come siebbe avviso,che il ñRe Criſtianiſtimo era giunto co’ suoi eserciti nelle frontiere della Fiandra, e che n"el medesimo tempo avea fatto pub blicare di suo ordine una scrittura inlingua spa nuolasi), coi tito tolo: Traffado delos Deree/ms de la Reyna C riflianiflimn fi)er *vario: E/Zador dela Monarquia de Españ'a; toſtochè l’ebbe nelle mani ilVicerè D. Pietrantonio d’Aragona l’inviò alnoſtro autore con ordine di rispondervi,nel mentre ilRedi Francia entratone’ paesi bassi avea incominciato ad usarvi tutti gli atti della ostilità. L’ Andrea vi fece la desiderata ris`poſta,e su una delle più celebri scritture, che vedute si fossero in tal occasione. Eccone il titolo: z. Ri/jdo/Za al trattato delle ragioni della Regina Cbri/liani/Iìma/b pra il Ducato del Brabante, con altri fiati della Fiandra, nella qualesidimoslral'ingin/lizia dellaguerra mossa dalRe diFran cia Per la conquisha di quelle Provincie; non o/lanti le ragioni, eee _fifim pubblicateinsitonome,PerlaPretesasueeeflioneafavor della Regina Cbri/lianijsima. In Napoli Anno 166'”;- infl Fu ripro dotta con un nuovo discorso, ed alcune lettere' nel 1676. in4. Nel mentre che ilnoser d’Andrea ſtava mandando a ſtampa lasur riserita rispoſta,comparve altra conftttazione alla ſtessa scrittura de’ Franzesi,scritta da un dotto miniſtro in franzese, ed essendone ve nuta una sola c0 ia in queſta Capitale, su da un eruditissimo mi. niſtro volta in lingua Spagnuola, e mandata di nuovo a ſtampa, e finalmente tradotta in italiano. Intanto un certo Aubery avvo— cato della Corte del Parlamento di Parigi diede fuori un libro: Des _ju/les Pretentions du Roi sur l’Empire.Paris 1667. a cui si dice dal Giannone (2.),che l’Andrea data-vi aVesse altrarispoáia, —e (I) Vedi l'informazione al ieggitore di esso d'Andrea 'impressa nella risposla al` trattato delle ragioni cet. Giannone ci!. [ib. 39. cap. i. (a) Vedi Giannone lio. 39. cap. i.    As N 67 e'd impressa nello ſtesso anno 1667. in 4. (I).. x 3- Disputatio a” flames influida no/Zri Regnisucco-dan!, eum frati-i deeedenti non sunt eonjum‘îi ex eo latere, ande ea oàvenerunt. A d intelleéium Con/lirationis Regni m‘ de [iiceeflionibus,de sue cessionenobilium.Neap.apudParrinum,etMarian-11694.in Ei la è ſtata riſtampata molte volte.Nel 1717. ex typogr. Simoni/ma; e nel 1769. Avendo in queſta dilui opera consutato Andrea d’lfier nia, videli dopo la sua morte un certo Dottor Gio. Bernardino Manieri dar fuori propugnaeulnm Winiense, come nei dicoſtui ar ticolo t'ratterò più a lungo.. 4. In un opera del Cardinal de Luca (z)trovasi una sua scrittura:sii per sèererariorum APO/Zolieorum /uPPreflione.. 5. Consultariones in muffa sanno”. Majoratus s0. BaPti/Zae. Tro— vansi presso Gio.Torre (3). ì ó.RejÌmnsajm‘is’flipersuceeffionesaltata-ia,etquando babe”;la cum, neene. Si hanno presso lo stesso Torre (4). 7. Relazione de’jèr-vizj fatti nel tempo., ea’e/ercitö il Po/Zo di avvocatofi/ealenella rovineiadiAbbruzzeCitra,eParticolar mente di tutto ciò‘, e e da lui si operò in ser-vizio di LM. menz tre din-arena le rivoluzioni Popolari; cominciate in Napoli nel di 7.diLuglio 1647.ete/Zinteneldi‘6.diAprile164.8.in Le altre sue opere rimaſte inedite,sono: Varie lezioni intorno allafilosofia dellescuole, e del moderno gu flo introdotto nell’arte difilosofare.Furonrecitaredaluinell’ac cademia degli Oziosi, e quantunque i suoi. sentimenti sembrassero flrani per allora, furon dipoi abbracciati e 'coltivati, Trattato degli atomi con varie lezioni filosofiche. Voiqarizzamento dell’erica d’Ari/Zotile. ‘ ' Difesa della filo/olio di Leonardo di Capa/t, contro l’Aletino indi— rizza/z al Principe di Feroleto. Queſt’ opera, ch’ avrebbefi dovuta mettere a luce, giacchè in essa l’autore fe pompa dei suo sapere, e varie furono le inchieſte de’letterati, non so perchè trascurato lo avessero i suoi eredi. Infatti il nofiro dotto Nicolò Amenta (5) scrisse:non ba gnam', consomma mio piacere, e con profitiarne ‘ non (1) Alle altre scritture de’ Franzesi, non vi mancarono ‘altri dottíopposirori, che leggersi possono nel Diario Europeo rom.XV. X V L e XVIII. e men tovate vengono dall’erudito Struvio Syntagm. [Ji/Zar.Germ. dafl'ertat.” S.” (7.)De Lucatraéi.deoffieiis.Romae1682. ' ñ. (3) Jo. Torre traff. de susiefliom in Majoraxibmflet. Lugduni Ani/fln 1688.1.:(4)*Idemma‘.deprimogenitìs'Italia:eap.39.5.7.e9.ct”11.40.5.6.Lugdu- l m 1686. › (5) Amenta nella Vita dì Lianarda di Caploa pag-.54. ` * 2. ñ.    53 AN non poco, ho letto, e riletto: nè jb perchè il dilui fratello,il Tagguarde'vole per tanti capi, Regçente del Collateral Consiglia, Gennaro d’Andrea,non l’/7a fatto Pubblicare Per 'via delle [Zam pe, quantunque ne [/rabbia i0fatto pregare. In tretomi in foglio ella conservavasi nella celebre libreria diGiuseppe Valletta (1). ln un de’ Codici Magliabechiani in Firenze (z) evvi una lettera- di esso Francesco de’ 2.3. Agosio 1685. con cui gli chiede notizia di var) libri, che consultar dovea per tal suo lavoro. Disror/b della nobil famiglia della Marra.,. Discor/n sopra la /uc‘reflirme di?pagna in morte quando filC-'Có’dsldel ReCarloII.d'Au/lriagia}disperatod'a-verprole.Lo scrissestan— do in Candela colla data’ del di 15. Aprile 1608. Zisa/jime, ojjiano avvertimenti a’suoi nipoti, D. Gia. e D. Andrea, per farlor divvisare,eneasoslenerelacasanellagrandezza,in cuiegli,eilReqqentesuofratellol’a'vean Palla,unicomezzo era l’avvor/;eria. Quelli avvertimenti, ch‘ egli scrisse nell’ età di an ni 71. non sono ſtati impressi per aver incontrato l’oſtacolo di alcuni personaggi, ch’ebbero a scorno il sar vedere la di loro ori gine da qualche professore del noſtro soro. Son tante però le copie a penna siſtentino in queſto nostro Regno, e fuori, ch’ è riuscito vano il loro impegno. Si vuole ch’ egli avesse compilata quella s’toria di alcune famiglie no bili del nosiro Regno, che altri però attribuiscono al Presidente Gaetano Argento.Ma imoderni noslri critici la vogliono a ragion tuttagdi esso d’ Andrea ’scorgendovi in essa un metodo tutto suo proprio, poichè l’Arge’nto quanto dotto, altrettanto un pò scarso nell’ordine delle scritture. Lasciò finalmente più volumi di allegazioni, come dice ne’ suoi avi vertimenti, mapochediqueſte sonoſtate conservatedaalcuniscrit t-ori,ed inseritenellediloroopere,come dalStaibano,Silva,Ma radei, e Sorge (3). ANELLO (Gabriella)mandò'a ſtampa: De judieiornm civiliflm ordineadNeapolisTribunaliumnormam,necnonpro-w'nriarum, [cz-,Fumane,qua e: Curiarum infimarum Regni aélitandi i” aligui Imc minima 'varietas, advertitur,Pro Clerieorum PraHicorum in ÌBÌÌÌQEÌIti”,6tF.P.juvemsisusa, con/*cripta:bre-w,Foggiaeſtu dio/ae ju'UC’ÎIH-ls'l dieatus. Anno 1-780. in 8. ANGELIS (Baldaffarre de) dicesi giureconsulto Napoletano‘, edeb be a nascere nella decadenza del secolo XVI. come rilevafi dal ''.. le (l) Vedi i giornali rie’letterati Venez. t. 24. pag. 89. (z) Sognare Vlsl. Francesco d'Andrea cet. 133. (3) Smge in'sua pale/ira iuris t.z. allega:.7.   Parlando del DiCapua,ilVolubile,aiprincipiidel1683, dice che vent'anni prima a Napoli era fiorita l'Accademia degli Investiganti; un semplice calcolo ci riporta adunque all'anno 1663. Le parole del Volubile sono anche confermate, nello stesso luogo,da Cesare di Capua (73). Io credo,adunque, di non errare affermando che questa Accademia fu fondata nel 1663 e che il Buragna fu tra i fondatori principali, pur non potendo, però, frequentarla a lungo, perchè alla fine di quello stesso anno dovette allontanarsi col padre da Napoli. E, del resto, l'Accademia non fa che dar nome e sede ad una associazione di uomini già uniti da anni in un'intima comunanzadistudi,diintelletti,diaspirazioni.Andrea Con cublet, uomo amante degli studi e delle dotte compagnie, è il fondatore, dirò, materiale dell'Accademia, a cui assicurò (72) Non premessa al Parere dello stesso, come da alcuni fu scritto, per la già notata confusione fra le opere del Di Capua. Cfr. le n.6 e 61 di questo capitolo. (73) Nelle citate Lezioni la lettera del Volubile è preceduta da una prefazione di Cesare di Capua, che ci informa essere state queste Lezioni del padre suo, ancor vivente in quel tempo, recitate appunto nelle riunioni degli Investiganti; e anche il Di Capua, scrivendo nello stesso 1683, parla della Accademia come di cosa anteriore di venti anni. Non vi può esser quindi dubbio.  -76 V   la vita con la sua munificenza é la sede col suo palazzo; ma,virtualmente,l'Accademia esisteva già(74). Fra gli Investiganti, col Di Capua, col Cornelio, col Buragna, col Borelli, coi fratelli D'Andrea, troviamo G. B. Capucci, Camillo Pellegrino (75), il dotto vescovo Giovanni Caramuele, Sebastiano Bartoli, L. A. Porzio e qualche altro. Dal Volubile sappiamo che l'Accademia aveva per impresa un cane bracco col motto lucreziano: « Vestigia lustrat »; motto e impresa che ben rendono, insieme col titolo, la fi sonomia, gli scopi, gli ideali degli Investiganti. E, invero, gli Investiganti non vanno confusi con gli Addormentati, gli Insensati, con tutte quelle migliaia di in coscienti perditempo che avevano formate le tante Accademie di quel secolo. L'Accademia degli Investiganti si collega direttamente a quella del Cimento, fondata sette anni prima a Firenze, e ne trapianta a Napoli l'opera e le idee; essa, attraverso il Borelli e il Cornelio, mette capo a Galileo. Il Susanna stesso ci dice che il titolo era stato scelto appunto ad indicare come gli Investiganti si proponessero di percorrere le nuove vie scientifiche e filosofiche, procedendo con la ri cerca e l'esperimento, simboleggiati nel cane bracco e nel motto. In mezzo ai cultori della scolastica e della casistica, (74) Anima degli Investiganti, anche per la sua grande attività, fu Leonardo di Capua; non è però esatto dire, come il CARINI, (op. luog. cit.), che l'Accademia fu fondata dal Di Capua; i contemporanei riconoscono, concordi, nel Concublet il fondatore, tanto è vero che, scomparso lui, l'Accademia morì. Così erra l'ORIGLIA, nell'op. cit., vol. II, p. 89 affer mando che il Vicerè Oñate favori l'Accademia degli Investiganti, perchè, come abbiamo veduto, il viceregno dell'Oñate durò sino al 1653 e gli Investiganti si costituirono in Accademia dieci anni dopo. Secondo il D'AFFLITTO, op. cit., vol. I, p. 333, uno dei principali fondatori del l'Accademia fu F. D’Andrea.  - 77 (75) Questo illustre storico che nell'Apparato delle antichità di Capua iniziò la via, che poi il Muratori percorse con passo gigantesco, morì nel 1663;percuil'essereilsuonon fraquellidegliInvestiganti,èuna nuova confermadiquantofu,piùsopra,stabilito:checioèl'Accademia era già costituita nel 1663,   - 78 che ancora abbondavano a Napoli, gli Investiganti sorgevano a rappresentare nuove idee, nuove cose e nuovi tempi; ed è perciò che è una gloria pel Nostro l'esserne stato uno dei fondatori, mentre, nello stesso tempo, è documento della sua grande cultura scientifica e della modernità del suo in telletto. (76) Dell'influsso esercitato dagli Investiganti contro il vaneggiare della grande turba dei poetastri seguaci del Marino, abbiamo, fra le altre, una prova nelle parole dell'abate DE ANGELIS, contemporaneo, nella citata Vita di Antonio Caraccio, luog. cit., p. I, p. 145. Scrive il De Angelis: « In poco conto erano in quel tempo per tutto il regno di Napoli.... la vaghezza e la purità dello scrivere italiano.... tenute. Per lo contrario erano intesi i componimenti di coloro che dal proprio sregolato capriccio e r a n d e t t a t i, c o n i m p r o p r i e m e t a f o r e.... e c c. ». A g g i u n g e p o i c h e il C a raccio si tolse da questa cattiva schiera di poeti per i consigli e gli esempi degli Accademici Investijanti «uomini per universale consentimento an noverati tra i maggiori e più ce'ebri letterati dell'età presente e della passata»;efraimaggioridi siannoverailNostro.InfattiL’Imperio vendicato del Caraccio non si può dire, in generale, infetto di cattivo gusto secentistico, al contrario di altri scritti anteriori dello stesso poeta.  Senonchè il Cornelio, il Di Capua e il Buragna erano, oltre che scienziati e filosofi, uomini di lettere e gli ultimi due, insieme con qualche altro, anche poeti. E come nelle scienze, così nelle lettere, gli Investiganti rappresentano un profondo distacco da tutto ciò che è comune, anzi volgare; essi, voltando le spalle al marinismo, proclamano la necessità di una nuova poesia più conforme al buon gusto e alle patrie tradizioni poetiche. Fra gli Investiganti non c'è nessun m a rinista; essi ritornano al Petrarca e lo spogliano degli ele menti secentistici che vi s'eran sovrapposti e intorno eserci tano un influsso salutare, che fu da parecchi, della genera zione che sorgeva, sentito (76). E poichè il Di Capua, in questo tempo,aveva per sempre abbandonate le muse,dob biamo ritenere che il Nostro, il maggior poeta fra gli Inve stiganti, in questa Accademia, in cui portò un contributo notevole di profondi studi scientifici, abbia esercitato un   preponderante influsso letterario, che corrisponde a quello esercitato dallo Schettini nell'Accademia Cosentina (77). Il nome del Nostro si lega, dunque, a tutta una rivo luzione intellettuale, che abbraccia la scienza, la filosofia, la letteratura, e che certo deve essere meglio studiata e valu tata. Se avessimo le opere scientifiche e filosofiche del B u ragna, potremmo considerare tutti e tre i lati del prisma; ma non abbiamo che alcuni dei suoi versi,iquali però ba stano a dlarci testimonianza delle idealità poetiche di questa Accademia,della quale sono ifrutti migliori. Ma ci riman gono altri scritti scientifici, come quelli del Di Capua, già citati, e, con nuove ricerche, sarà possibile collocare gli I n vestiganti nell'importante posto che loro spetta, fra gli acca demici di questo secolo. Quanto durò l'Accademia ! Per meglio fissare alcune circostanze della vita del Buragna, dobbiamo cercare di ri spondere a questa domanda, almeno approssimativamente. Il Susanna scrive che la vita di questa Accademia fu breve (78) (77) Nell'esaminare le rime del Buragna, meglio vedremo delinearsi questa verità. In fondo gli Investiganti sono precursori dell'Arcadia, tanto è vero, che fra essi colui che più visse, il Di Capua, fu poi Arcade. Ma ognuno sa che vi furono due Arcadie e che la prima aveva in sè ideali poetici nobilissimi. (78) Come al solito, le vaghe espressioni del Susanna sono malfide per stabilire una cronologia con sufficiente esattezza. Egli ci spiega come il Nostro, anche durante la sua dimora a Lecce, e cioè, come fu già detto, dal 1663 al 1667, potesse continuare a prender parto ai lavori degli In vestiganti, tuttochè lontano da Napoli; infatti ora permesso di inviare per iscritto le proprie idee sciontifiche e filosofiche. Dice il Susanna, (e cito il brano perchè getta un po' di luce sui procedimenti di questa A c cademia ): «Licebat absentibus, ex Academiae institutis, sua mittere de Philosophicis rebus cogitata, quae recitarentur in congressu et per expo rimenta ad veritatis expenderentur trutinam. Moris quippe erat altera hebdomadae die ibi dicere quae quisque sentiret; altera, voro, insequentis heb d o m a d a e ex p e r i m e n t i s d i c t a e x e r c e r e ». S u s a n n a, o p. l u o g. c i t., f f. 6, r. e 7, v. Il metodo rispondeva agli scopi, ma vi era il difetto, comune a tante Accademie, anche gloriose, di voler creare una discussione che era fine a sè stessa e di cui, spesso, non v'era bisogno.  -79   e ciò ripetono coloro che ho citato; anzi il Caravelli (79), in un accenno, scrive: « Disgraziatamente la coraggiosa ed importante Accademia morì quasi sul nascere ». D'altra parte lo stesso Susanna viene a parlare dell'Accademia soltanto a proposito del ritorno del Nostro da Lecce, dicendo che egli fu accolto dai soci festosamente e prese parte alle riunioni degliInvestiganti,cheperò,dopononmolto,cessarono.E così altri contemporanei, pur notando la breve esistenza dell'Acca demia, non ci parlano di una vita addirittura effimera; anche l'opera esplicata dagli Investiganti presuppone una certa d u rata della società. E se il Nostro prese parte ai convegni in casa del Concublet, dopo il 1667, e cioè dopo essersi defini tivamente stabilito a Napoli, e se, d'altra parte, l'Accademia non ebbe lunga vita, la fine degli Investiganti dovrà cadere fra il 1668 e il 1670. Ma io credo che l'Accademia abbia continuato a vivere fino a quest'ultimo anno; me ne foruisce una prova abbastanza convincente la valutazione delle cause per cui l'Accademia stessa finì. Il Susanna scrive che ciò avvenne per essere Andrea Concublet venuto a mancare (80); e così, su per giù, gli altri (81). Ora, tenendo legittimamente per sicure le notizie dei contemporanei, noi sappiamo che nel 1670 il Concublet era ancora nell'Italia meridionale; in fatti appunto in questo anno G. Alfonso Borelli stampava (79) CARAVELLI, op. luog. cit., p. 178. (8 0 ) P e r ò, (e d a p p a r e a n c h e d a l l e p a r o l e d e l V o l u b i l e ), s i t r a t t a d i partenza e non di morte del Concublet, come credette il CARINI, nell'op. cit., p. 523. Il Volubile non ci dà alcuna notizia sulla durata dell'Ac cademia. (81) Qualcuno accenna ad ostilità dei Vicerè verso gli Investiganti; e, anzi, il CARAVELLI, al medesimo luogo dell'op. cit., fa terminare l'esi stenza dell'Accademia per soppressione ordinata dal governo. « Fosse, scrive, invidia o sospetto, o innato spirito del male, la dottissima e tran quilla adunanza fu messa in mala voce e, dopo qualche scissura e qualche atto violento, ne fu ordinata la soppressione dall'imbestialito governo vi ceregnale ». Senonchè, per vero dire, e non per tenerezza verso l'infausto governodeiViceré,questanotizianonrisultadaalcundocumento deltempo,  80   IntalmodoilBuragnaaccrescevalasuadottrinaelasua fama, ma s'avvicinava rapidamente per lui anche il momento dirinnovareildolore,giàprovatodiecianniprima;ildo lore di staccarsi ancora da tutta quella operosa vita di pen siero, da tutte le più care abitudini intellettuali e le più n o bili amicizie, per ricominciare il pellegrinaggio nella provincia. L'ora della giustizia era scoccata per Giovan Battista Buragna, dopo lunghi dolori. Per quanto fitta fosse la tela di calunnie, di cui parla il Susanna, per quanto i Vicerè (82)È l'opera: De motionibus naturalibus a gravitate pendentibus. Reggio 1670, non del tutto ignota agli studiosi. (83) L'Accademia ci fornisce ancora una prova della impossibilità che il Buragna sia rimasto a Cosenza sino al 1665. (Cfr. la nota 48 di questo capitolo). L'Accademia verrebbe a protrarre la sua vita oltre i limiti cho le notizie del Volubile e del Di Capua consentono.  - 81 - una sua opera scientifica (82), dedicandola al Concublet, parlando, anzi, nella dedica, degli Investiganti e della impor tante opera loro; ed è troppo noto il significato di queste dediche a mecenati intelligenti e generosi, perchè debba di lungarmi a dimostrare che ciò prova la presenza dello stesso Concublet a Napoli. Non si può, quindi, di molto errare fissando dal 1663 al 1670 la durata di questa Accademia, che racchiuse la più eletta. Francesco D’Andrea. Andrea. Keywords: investiganti, salotto degl’investiganti, villa Iambrenghi, Candela, investigare, vestigio, motto: investigare, sequere, segno – segno, di sequere, non sequitur, sequitur, il cane, che tipo di cane e il meglio investigante – l’atomismo – vestigio, Boezio, vestigio, segno, nota – latinismo, Cicerone su vestigio, nota, segno, notificare, segnare, segnificare, significare, vestigare, investigare, interpretare il segno, seguere il segno, segno non sequitur, segno e consequenza, sequenza logica, segno e sequenza, etimologia di ‘vestigare’ – cfr. tedesco ‘steigen,’ anglo-sassone stagan, greco stechos --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Andrea” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691504428/in/photolist-2mKNtmY-2mKCWuP-2mPHbXQ-2mKbfaU-2mJLMNt-2mJq2uE-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mGT6p1-2mGnP2f-2mEuJp2-E4u3XA-nNAxcL-nNAkjj-GrknGu-FVWdPd-T63iW1-Dw1w1R-DhJMno-BNU6Ba-BNPnbr-Cf6Cmr-Ck5cFS-BVhgDW-BpUfws-Bq2br8-BpPunU-BpZb62-Ck24sU-BnL74H-CayHCW-Ck9fMH-Bm9hW2-Bm2MF1-Cgaeq7-BJXeRz-BvUfSB-BUPaNy-BYzvBt-BRifbP-BwrYXs-B23vYm-Bq4SjB-ABifoD-AyLXky-Am1vDt-Am13jP-A3pPU7-znZhCQ-Am1maP

 

Grice ed Andria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Massafra). Filosofo. Grice: “I like Andria; of course he brings more problems than solutions but that’s philosophy even if his philosophical credentials are obscure! “He did write a philosophical chemistry and a philosophical agriculture, but that’s because at Naples there were only two faculties: law and philosophy – he also wrote a ‘medicina filosofica’ – Grice: “Andria’s theory of life – as he calls it – osservazione generalie sulla teoria della vita’ – owes a lot to Aldini and Haller--  Mainly he elaborates and refines Haller, if you believe it – it’s all Italian to me, so it’s eccitbabilita, sensibilita, ed irritabilita. “Andria goes on to define this eccitabilita in terms of the ‘fluido elettrico’ con ‘sende nel cervello e nei nervi’ – which galvanism smacks of Aldini. Grice: “Andria classifies ‘vita vegetale’ o delle piante, and ‘vita animale’ – Note that ‘social life’ is understood by ‘eucarioti’ of higher order, in terms of reproduction (of life – hence re-productum). A fronte de' profondi misteri dell'immensa, ed eterna meccanica, colla quale l’Autor del tutto à voluto che sian le cose disposte ed ordinate, la forza dell'umano intendimen to si trova per l'ordinario talmente oppressa dalla propria picciolezza ed imbecillità, che o totalmente impossibile le riesce di penetrarvi dentro, o appena l'è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur finalmente, sembrandole di esser riuscita nel suo disegno, realmente non fa altro, che delirare e perdersi dietro la brevità e l'inezia delle sue idee.»  (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804).Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli il suo primo profilo bio-bibliografico Gennaro Terracina. Studiò nella città partenopea giurisprudenza, pubblicando nel 1769 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi applicandosi alla medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata; a 27 concorse con il Cirillo per l'ottenimento della cattedra di medicina pratica, poi conferita a quest'ultimo.  La sua attività di cattedratico, svoltasi tra Sette e Ottocento, nel contesto di un particolare periodo storico, fu principalmente di ricerca e didattica presso l'Università Regia degli Studi di Napoli, dove ricoprì vari insegnamenti dalla storia naturale, alla medicina teoretica e pratica, all'agricoltura.  Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di medicina ed apprezzate altresì in varie parti d'Europa.  Nel 1808 Nicola Andria prese a dettare lezioni di medicina teoretica; nel 1811, di patologia e di nosologia. Malato ed ormai cieco, fu congedato agli inizi del 1814, insignito del titolo di cavaliere da Gioacchino Murat (cognato di Napoleone), e il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove fu seppellito nella chiesa di Santa Sofia, insieme al collega Antonio Sementini.  Nicola Andria ha subìto per più di un secolo una "congiura filosofica" perché medico e perché di Massafra, da cui gli epiteti spesso riferiti, nei pochi profili apparsi, alle sue origini provinciali; tuttavia, egli fu decano a Napoli ed ebbe amicizia e consuetudine epistolare con i nomi più noti ed importanti del panorama scientifico europeo dell'epoca. Non esistono studi sull'autore, eccezion fatta per alcuni contributi arenatisi agli anni ottanta del secolo scorso. Nicola Andria fu socio fondatore e membro del Real Istituto d'Incoraggiamento e del Comitato Centrale di Vaccinazione, oltreché di molte altre Accademie italiane ed estere. A Massafra, città natale del medico filosofo, com'egli stesso si definisce, portano il suo nome ben tre vie (Via Niccolò [sic] Andria, Lungovalle Niccolò [sic] Andria e Vico Casa di Niccolò [sic] Andria) e una Scuola Media.  Il 10 settembre 1997, in occasione del 250esimo anniversario della nascita, a Massafra è stato fatto un annullo filantelico speciale e una cartolina commemorativa.  Pensiero «Non vi è una materia in Natura che abbia per sua qualità intrinseca la vita, e meriti perciò di esser chiamata vivente. Né la vita è un fenomeno semplice, che a una sola materia appartenga, e nasca da una sola forza. Molte son le materie, e queste fra loro diversissime, che concorrono alla formazione di una macchina, in cui la vita risiede, le quali materie intanto, trovandosi separate, niuna vita producono»  (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804) Il contesto storico in cui Andria vive fa da “cerniera” ai due secoli più importanti della storia della scienza e della civiltà: il Settecento e l'Ottocento hanno “gestato” l'umanità contemporanea, provocato le guerre e portato l'uomo sulla Luna.  Andria vive a Napoli, per certi versi quasi “fulcro” e “convoglio” delle principali idee e scoperte dell'epoca; la sua particolare sensibilità di scienziato di formazione filosofica lo porta ad assorbirne il carattere rivoluzionario e ad “anticipare” i tempi. La sua condizione di provinciale in-urbato, tuttavia, lo “veste” di una semplicità ed umiltà di cuore, la quale si esprime nelle lodi del creato e dell'uomo, «congegni perfettissimi» di straordinaria bellezza.  Oggi, questo significa “ri-orientare” la ricerca scientifica verso un fine che non sia l'“utile” economico (politico, militare), ma ricerca del vero e del bello nella tutela e nella salvaguardia di tutta l'umanità.  Dagli anni cinquanta dell'Ottocento la circolazione delle idee andriane (di “freno vitalistico” al meccanicismo più sterile) si arena sulla sponda di un “nuovo lido”: quel meccanicismo biologico che dell'anima e del pensiero ha fatto solo un aggregato chimico di molecole. L'eco dell'appello di Nicola Andria, così instancabilmente perpetrato, in ricerca come in didattica, si perde; si perde alle soglie di una svolta importante, la stessa che avrebbe prodotto la Grande Guerra, il delirio dei nazionalismi, la credenza che debba sopravvivere il più abominevole degli uomini, dove “fortezza” vale essenzialmente in-umanità, dis-umanità, non-umanità.  «Il filosofo [...] in tutto questo giro di cose, ravvisando le tracce della sapienza infinita di un Dio, è obbligato ad esclamare: quanto ammirabili, o Signore, sono le opere tue!»  (B. Vulpes, in N. Andria, Elementi di Chimica Filosofica). Opere: “Discorso politico sulla servitù” (Napoli, Campo); “Piano di un corso di chimica pratica” (Napoli); “Trattato delle acque minerali” (Napoli: Manfredi); “Lettera sull'aria fissa” (Napoli);  “Elementi di chimica filosofica” (Napoli: Manfredi) -- Delle forze e delle materie di cui si occupa la chimica -- Del fuoco, sti che nederivano --- Delle principali combinazioni dell’ossigeno ede'composti chene risultano -- INTRODUZIONE alla Chimica – Dell’unione delle altre materie fi. nora non iscomposte, e de’ corpi,che quindisene otten -- Della cristallizzazione -- ne,edellasublimazione -- Della fusione. X zir X piùsolidi basamenti del globo terraqueo, che indi ne sorgono -- Dell'ossigenazione, & quindi della combustione e dell'atmosfera terrestre.-- Della congiunzionedelleterre,ede? --  Della soluzione. --- Degl’altri generi di combinazioni – Dell’operazioni chimiche -- Della distillazione, dell'evaporazio -- Della fermentazione, e della putrefazion. “Elementi di Fisiologia, Napoli, V. Manfredi); “Materia Medica” (Napoli, V. Manfredi, “Elementi di Medicina Teoretica” Napoli, V. Manfredi); “Istituzioni di Medicina Pratica, Napoli, V. Mandredi); “Prospetto generale dell'istituzione di agricoltura”; “Osservazioni generali sulla teoria della vita, Napoli, V. Manfredi); “Riflessioni su di un caso singolarissimo di gravidanza fuori dell'utero”; “Elementi di Medicina”. A partire da V. Cuoco, vari studi sono stati editi a proposito della Rivoluzione napoletana del 1799, la quale diede vita alla Repubblica partenopea, preparata dal triennio giacobino sin dal 1796.  Per l'internazionalità del suo pensiero si vedano gli studi di M. A. Duca in Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Massafra, A. Dellisanti,,  95-9  Melania Anna Duca, Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Antonio Dellisanti Editore, Massafra  Melania Anna Duca, Nicola Andria: Epistolario (1775-1794). Lettere a Canterzani, Haller e Spallanzani, Antonio Dellisanti Editore, Massafra. Melania Anna Duca, Nicola Andria et les origines de la psychiatrie moderne. Une contribution historiographique, in «Psychofenia», n. 23,  Melania Anna Duca, Troubles de l'alimentation, hypocondrie et mesmérisme en Nicola Andria, in «Psychofenia», n. 24,  Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Niccolò Andria  Sito dedicato al medico e filosofo Nicola Andria, su nicolaandria. 21 ottobre  15 maggio ). Felice Mondella, «ANDRIA (D'Andria), Nicola», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. iFilosofi italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Massafra Napoli. Francesco Nicola Maria Andria. Andria. Uno de' fenomeni piùs orprendenti, che nell'immensa università delle cose continuamente si ammiran, è senza dubbio la vita, o sia quel l'assortimento di circostanze particolari che à luogo negli esseri organizzati, e che decide del la loro individuale esistenza. La qual cosa fa, che riesca un tal fenomeno per noi anche il più importante, non solo per l'interesse che la no stra curiosità ne prende, come di un affare che tanto da vicino ci riguarda, ed è tutto nostro privativô;ma dippiùperl'impegno,incuina turalmente ci dee mettere,di ravvisarne le prin cipali molle, ed i mezzi percið di farlo corre re alla lunga, e con passi meno stentati è più sicuri. Disgraziatamente però è accaduto per conto della vita quello che à soluto sempre avvenire trattandosi de'gran fenoineni della natura,tutte le volte che si è dall'uomo concepito l' ardito disegno di rischiararli, o d'interpetrarli in qua lunque modo. A fronte de profondi misteri del l'immmensa ed eterna meccanica, colla quale  a2 l'Au. / 582663   |Autordeltuto à volutoche sian le cose di sposte ed ordinate, la forza dell'umano intendi mento si trova per l'ordinario talmente oppres sa dalla propria picciolezza ed imbecillità,che o totaliñente impossibile 'le riesce di penetrarvi dentro tutto si è abbandonato all' osservazione ed all'indagamento de solifatti. Col favore di un metodo cosi servile, che è pur.quello di cui la Natura si compiace, è permesso alle volte di giugnere allo scuoprimento di qualche picciola. edisolataverità,laqualeincanto senzal'aju. to di altre innumerevoli, all' intendimento u m a notuttaviaignoteenascoste sarà. tana dal render piena e perfetta ogni nostra cox poscenza. Nelle cose qui da noi rammentate; e che da ogni uomo anche di niuna esperienza son fa cilmente ammesse econosciute,sembra esser con tenuta la ragione, perchè nella cognizione del,  appena fes 4 1% è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur finalmente j sem brandole di esser riuscita nel suo disegno, real. mente non fa altro,che deliraré e perdersi die tro la brevità e l'inezia delle sue idee.Se qual che volta diversamente è avvenuto; è stato appunto, quando diffidando l'uomo di sèmedesi sempre lon   dine  Ma pur bisognerà convenire,che fra le dif ficoltà, onde1'umana ragione trovasicontinuar mente inceppata,ed in mezzo delle tenebre,che l' avvolgono e rendono i passi suoi sempre vam cillanti ed inceni,qualche verità di primo or 5 fenomeno della vitatanto picciolo avvanzamena to si sia finora fatto, quanto ognun sa; non ostante l'importanza del medesimo, e la forza colla quale, come si è già osservato, à dovuto richiamar sempre a sè l'attenzione e l'indagine umana. Ne fanno testimonianza le tante cose, che in tutte l'epoche della Medicina se ne sono dette ed.i tanti sistemi che se ne sono imma ginati.Iquali,adireilvero altroapparato per lopiùnonanno chediunapesanteerus dizione,quella cioè che ordinariamente pud tro varsi nella storia delle idee e de'pensierialtrui, ricavati non dalla natura,ma dal fondo di un'im maginazione,spesse fiatę riscaldata,e mal pre venuta. E se ammirazione qualche võlta pare che tai sistemi si abbian conciliato, cid solo va inteso per parte di coloro, che senza conoscer l'arte ben difficile di saper non sapere, e privi perciò di ogni criterio, tutto ammettono ed in gojano,contenti della sola apparenza, o di qual che picciolo inal concertato artifizio.   dine alle volte si rinviene,che una facile e ge sterale osservazione fa saltare agli occhi della maggior parte,o che gratuitamente si trova dal la Provvidenza accordata per intrinseco ed essen ziale appannaggio dell'umano intendimento.In una tal rubrica dee principalmente quell'assioma registrarsi di logica universale, in cui è stabili to secondolediverseinnumerevoli circostan. ze,che possono aver luogo nella grande,e nel laminuta esempreugualmentesorprendente meccanica della Natura. Ne inutile sarà ora di osservare,che una tal cosa sembra trovarsi prin cipalmente verificata nel gran fenomeno della vi ta, ove gli Uomini fin dal principio an dovuto conoscere ed ammettere una forza,che unicamen te ne decide.Del che ne abbiamo un argomento non equivoco nel privilegio,col quale un tal fe nomeno à solo meritato di esser nel comun lin guaggio annunziatocon una parola,ladi cui eti mologia vien precisamente in quell'altra voce  che in Natura niun fenomeno vi sia senza una forza che lo produce, e che il principio perciò di ogni movimento, o azione, o fenome no che si voglia dire,in una forza consiste.Se non che questa forza medesima può esser sem plice o composta, intrinseca o altronde ricerca ta con   71 contenuta,che per immemorabile universal con: senso altro che forza non à soluto mai indie care (a). Questa semplicissima osservazione, che è pur vera e grande e da ogni ragion sostenuta, sembra la più atta a somministrare un solo pune to di appoggio, onde alcuno possa spingersi in un'analisi profonda delle cose della vita; e in tal modo potrà ben procacciarsi di che ragione, volmente contentare la sua curiosità,e,ciò che importa molto di più, soddisfare quella cocente natural sollecitudine,che ognuno à di render la propria esistenza,per quanto all'Uom permes so,piùdurevoleemenoinfelice,Almenocosi sembrando al nostro corto intendimento,prendes rem volentieri una tal traccia per ordinare l'ana lisidellavita eportarlaperoratantoinnan zi,quanto dalle nostre deboli forze, e dallo sta to attuale delle nostre cognizioni potrà esser permesso. E mentre questo, e non altro, sarà (a) "Vita" viene da "vis", come anche "virtus", "vir","virilitas", le quali parole tutte fignificano forza: o ciocchè nella forza consiste, o la contiene    Nella..considerazione mo difare,ilprincipalsegno dellenostremife che qui ci proponia ilnostroprincipalfine ciifaremundoveredi non andarci divagando in altre cose aliene dal medesimo, o poco atte a raggiugnerlo.Eviterem soprattutto le citazioni; ed ogni esame di opi nioni diverse ed il rischio perciò di attribuir ad alcuno ciò che ad altri appartiene e di andar nuovendo picciole ed inutili gelosie. Contenti di prender dal sacro deposito della Scienza ciò che al nostro bisogno potrà esser bastante, la --scerem ad ogni depositario poi la cura di riven dicar il suo, tutte le volte che lo crederà o p portuno al proprio interesse · Per noi, l'avrem certamente a singolar fortuna quando ci venisse accordata la sola scarsa lode,.che neppur a coa loro sinega,chenon potendo per naturale inet titudine alcun vantaggio recare,se ne dimostra no almeno premurosi ed invogliati. Della qual nostra buona volontà ci lusinghiamo che ottima testimonianza ce ne potrà principalmente venire da Giovani che alle nostre lezioni an sempre assistito, o da chiunque altro che non isdegna di trovar tuttavia buono per il suo uso ciò che per mezzo nostro l'è potuto in qualunque modo pervenire. sarà    sarà l'assioma di sopra stabilito, dal quale si potrà per avventura losviluppo ottenere di con seguenze importanti, che disposte con metodo dalla natura istessa suggerito, ci potran forse a quel termine condurre, che formerà ora l'og geito principale di ogni nostra ricerca. Se la vita dunque in una forza consiste 3 che continuamente si esercita bisognerà neces sariamente supporre attaccataed inerente una tal forza alla macchina che vive, Questa qualunque facoltà che negli esseri organizzati risiede per vivere, si è voluto in questi ultimi tempi ecci tabilità chiamare.In vece di una tal parola,non saressimo ripugnanti, che quella ancor si usasse di vitalità,e d'irritabilità universale,e di for za nervosa,o altra qualunque di simil calibro; le quali ancorchè si sia preteso che possan cose diverse designare, in ultima analisi perd real mente non sono intese,che adichiarare il prin cipio generale della vita considerato dadiversi lati, o sotto forme diverse. Fra 'l' espressioni o r qui accennate noi intanto riterremo laprima, si perché si trova bastante per esprimer ciò che accade,si perchè troviam un tal nome già qua si universalmente ammesso.COM  9 b >? Vi sarà anche per foi un altro motivo, quello cioè di potersi tal Osserv.   lità 1  + 10 cosa in questo modo rappresentare, qual da noi si crederà più opportuna, senza esser obbligati di ammetterne qualunque altra corrispondente al le altrui idee. Una definizione, che venga a tempo, toglierà sempre ogni equivoco,che nel le diverse maniere di immaginare può aver luo go, ogni volta che con una sola voce sia venu to il talento di annunziarle. E ' un fatto costante che durante la vita si sentano dagli esseri organizzati le impressioni, che molti agenti son capaci di farvi, ed alle quali si risponde sempre con del movimento, o con un particolar senso che si risveglia. L'ec citabilità è quella su di cui cade l'operazione di ogni natural agente. Questi agenti medesimi si an poi voluto chiamare stimoli,e il prodotto della di loro operazione eccitamento. Il quale non dichiarandosi altrimente che per mezzo del moto,edelsenso,possonoben quindiqueste due cose rappresentare le forme principali del medesimo.Sembra dunque che per la vita vi bi sogni l'eccitabilità da una parte onde viene il senso ed il moto,e dall'altra il concorso de'sti. moli onde l'eccitabilità si mette in azione.Sena za eccitabilità l'operazion de'stimoli è inutile, e niuna vita produce, e senza stimoli l'eccitabi   Tutti gli stimoli poi, per ragion della di loro intrinseca particolar natura  lità non è richiamata'a qualunque azione, ed alle ordinarie forine di eccitamento. si sono divisi in esterni, ed interni. Nella classe de primi l'aria va messa, ed ilcalorico,e laluce,ed il cibo,ed il sangue, ed ogni altra material cosa, quam li da noi si sono considerate sempre come gli stia moli della vita,econ tal frase le abbiamo an che indicate tutte le volte che ci è toccato d'in terpetrarle. Di questi stimoli intanto mentre che gli esterni molte volte bastano a risvegliare un giro di eccitamento e di vira comune niera di operare, e diversa m a 9 a tutti gli esseri orginizzati, non bastano poi senza il concorso degli interni a costituire una vita per feita, com ' è quella dell'uomo, fra tutti gli al tri esseri che vivono il primo certamente ed il più nobile. gli organ può operare. Per interni al contrario s'intendono i movimenti dell' animo e quindi ogni morale azione, che non lascia pur in una maniera dichiarata di rimbombare sugli organi del corpo, Corrisponde tutto ciò perfettamente a quello, che gli antichi delle sei cose, c o m u nemente dettenon naturali,intendevano,le che fisicamente su Quan b2   Quando l'affare è precisamente considerato me' termioi finora proposti, niuna conseguenza potrà dedursi onde favorir dichiaratamente lo statoattivo,opassivodellavita.Ogni quistio ne diventerà perciò inutile,e sarà dissipato si. milmente lo scandalo, che alcuna delle opinioni accennate potrebbe recare a chi non ama occu parsi delle cose profondamente. Trattandosi di opposti,facilmente possono diuna medesima co sa intendersi, quando questa si consideri sotto i vari suoi aspetti,o in circostanzediverse.La vita a senso nostro può ben rappresentare uno stato passivo guardata per un lato,e nel tempo stesso uno stato pienamente attivo guardata per 1'altro.L'eccitabilità,o siailgerme immedias to della vita relativamente ai stimoli de' quali nulla può valere, è assolutamente pas siva.Ma addiviene di botto attiva dietro l'azio ne de' stimoli medesimi, ricavando dal suo pro prio fondo quell'energia ed attività,che spiega nell' eccitamento.Si potrebbe da alcuno chiamar: reazione quella dell'eccitabilità.Ma questa reaa. zione medesima non è a buon conto che una lità dunque è passiva relativamente ai stimoli, vera azione qualunque abbia potuto essere il motivo, ed il modo di risvegliarsi. L'eccitabi  senza, atti   attiva relativamente all' eccitamento ed a tutto il resto che ne può venire.Con una tale inter petrazione possono dunque benissimo restar con ciliate le due idee opposte, le quali si trovano ugualmente vere, allogandosi ognuna nella sua propria nicchia. Nè converrà dimenticarsi in questa spezie d'indagine,che non essendovi azio ne in Natura, che non sia il prodotto di un'al tra, per l'intelligenza della prima basterà cono scere ed ammettere quella, che inimediatainente laprecede,eneformaperciòlacagione imme diata. Perchè altrimente per uscir d'imbarazzo', e finirla presto, Essendo una verità di fatto l' eccitabilità; ossialafacoltà cheàlamacchinaviventedi e muoversi, non lo sarà meno il doversi quella trovar. sempre inerente alla maça  13 si potrebbe da principio ricor rere alla suprema volontà dell'Autor del tutto, ove senza contrasto alcuno incomincia la serie alternadicagioniedeffetti,chel'immensa ca tena rinchiude delle cose del Mondo. Ma in tal modo bisognerebbe pur convenire,che invece di sciogliereilnodo nonsifarebbealtrocheru vidamente tagliarlo,e distruggere così ogni fi lo,nel quale è unicamente raccapezzatol'ordi ne delle cose. poter sentire chig   di ravvisarvi distintamente l'uomo os e l'uomo arterioso, e l'uomo muscolare ed il nervoso,  14 china suddetta in tutto il corso della vita. a tutti i peza non che può nascere il dubbio, che una tal fa coltà risiegga ugualmente applicata a tutti i zi della macchina vivente,o pure alcuno ve ne sia onde si propaghi, e venga agli altri comu nicata. Vi sono de' Fisiologi che nella costitu zione della macchina animale vi ravvisano tante parti, che con un singolar andamento dimostra no di esser molto fra loro diverse Se, quantunque poi tutte intese alla formazione di quelli uno, che l'intera macchina rappresenta e cosi di tutto il resto. Corri sponde tutto questo apparato di nuove parole, o per Si an voluto insignire col nome particolare di sistemi, ed è quindi insorto il sistema irrigatore, il sistema assorbente, il nervoso, il muscolare, il cellula re, e ogni qualunque altro che il bisogno potrà richiedere. Vi è stato chi segnando con mag gior precisione i contini diversi di cotai siste mi, per rilevare in tal modo l insigne differen za che fra i medesimi sembra passare,e la gran parte che ciascuno di essi nella costituzione del corpo prende, non à avuto difficoltà nella con siderazione, che à voluto fare della macchina umana seo,   Noi intanto non sapressimo cosi facilmente intendere quanto la particolar considerazione de' pezzi della macchina animale, principalmente di versi fra loro per la diversità delle forme,o di altre circostanze non essenzialiallaparticolar na tura della di loro pasta originale, possa contri buire a far ravvisare l'eccitabilità nel suo unico e vero e general aspetto. Sembra la medesima esser qualche cosa di cale importanza, alleforme,oadaltreminoricircostanzeappar tenga,ma bensi direttamente alla pasta già ram  15 e per dir meglio di parole usate con nuova regoa la, a ciò che da altri con tuono più semplice ediungustopiùantico manelfondosignifi. cante lo stesso, si è derto sostanza cellulare vasi,enervi,emuscoli',eossa nel farne la particolare storia, e stabilire colla medesima i fondamenti della Fisiologia. Prima di passare ad altri argomentinon sa ràsuperfluo soggiugneranche qualchecosasul flo gisto,affinchèintalmodo iprincipiantis'istruisca no di una dottrina,la quale ne'tempi precedenti haavutotantoluogo intutteleteoriechimiche. E'anzi a tutti noto di essersi introdotto qua si universalmente l'uso di questa vocabolo an cora nelle altre Scienze. I Chimici, dopo di Sthal, pretendevano generalmente che dovesse  X 68 X in   X 69 X intendersiper flogistoquella talcosa,che ata caccandosi a'corpi producesse in qualunque modo il principio della loro infiammabilità.si altri. buivanoin oltre al medesimo moltissimi altri fenomeni. Siccome nella combustione si raduna una grandissima quantità di fuoco, di cui prima non eravi alcun vestigio,cosi Sthal sorpetto che in questa operazione si sprigionasse quel fuoco, il quale trovavasi nascosto nel corpo infiammabile. Questo fuoco nascosto in modo da non dar segno della sua presenza costituiva il flogisto. E quindi si ravvisaa primo colpo d'occhio, che il fogi sto fosse indentico col calorico aderente. M a la natura de'fenomeni richiedeva che quello com stituisse un ente di suo genere, trasfersisi tutto intero da uno in un altro corpo. Quindi bisognò immaginare una materia,o sia una base, alla quale il fuoco, o sia il calorico, si at taccasse ed in certo modo addivenisse fisso, cosi composto acquistasse un'adesione colle para ti de' corpi infiammabili. Nella prima edi zionediquestenostreistruzionicisiamo indu striati di esporre questa teoria, sostenendola con tutte le nostre forze; e per lo spazio di quasi cinque lustri ce ne siamo serviti nel ri schiarare tutti gli argomenti chimici. Ed in ve ro colla sua applicazione vedevamo che i feno meni non restavano spiegati con molta infelici tà. Questo è stato ancora conosciuto da ruta ti i Chimici di gran nome, che fiorirono dopo di Sthal, onde la teoria del flogisto si era qua potesse  affinchè E3 si >   X 70 X siresa universale fino a'tempi presenti.Non può negarsiperd,chenonmaiiltlogistocosi inimaginato siabbiapotuto apertamente diinostra re; e dal fin qui detto si deduce la sua ipotetica composizione.Cid non ostante era una teoria comoda, ed avea il suo luogo per mancanza di una migliore.Il progresso però della Chimica pneumatica, il quale a tempi nostri è addivenu to grandissimo, non solo l'haresa sempre più dubbia, ed inetta alla spiegazione de'fenomeni; ma (quello che magiormente importa ) ne le hasostituitaun'altra meno ipotetica,e più corri spondente aifenomeni.Eglièvero,cheifau tori dell'antica teoria abbiano fatto grandissimi sforzi per conciliare tutte le nuove teorie col flogisto; ma ora senza difficoltà può dimostrarsi che questi sforzisiano stati infelici,come biso gnosi sempre di nuove finzioni, o di false in terpretazioni. Keywords: chimica filosofica, implicatura bio-chimica, biologia filosofica, teoria della vita, vita, virtu, virilita – l’implicatura flogistica – Grice: what science? Palmistry? What deliverance? Phlogiston theory? Rhetorical questions: he means No and No. Or non rhetorical and they are formidable obstacles to his constructive realism about which he could care less!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Andria” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689457873/in/photolist-2mUz2t3-2mTzWxT-2mPpmMv-2mKGVU3-2mKF6Rp-2mKBYZx-2mPvmTf-2mJd7nN-2mJ4GHU

 

Grice ed Angeli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “I like Angeli – I’m glad he dropped the ‘degl’angeli” – but then I would because he is into the infinite (insert infinity symbol here) as so am I – mainly in my elucidation of that Anglo-Saxonism of Indo-European origin (Latin, ‘mentatum,’ ‘mentitum,’ ‘mentitura,’ dicitura) – ‘mean’ – I refer to a self-referential clause to solve the problem, but then I also refer to Plato on geometry and the idea of a ‘de facto’ versus ‘de iure’ instantiation of a ‘regressus ad infinitum’ – So Angeli is bound to charm me!” Frate dell'Ordine dei gesuati, nel 1668, con la soppressione dell'Ordine voluta da papa Clemente IX divenne prete secolare. Delfino e fedele allievo di Bonaventura Cavalieri, insegna a Padova. Fu l'unica voce autorevole di fine Seicento che continuò a difendere la teoria degli infinitesimi, in palese conflitto con i gesuiti.  Si dedica allo studio della geometria, continuando le ricerche di Cavalieri eTorricelli. Passa quindi alla meccanica, su cui spesso si trova in conflitto con Borelli e con Riccioli.  Opere: “Della gravità dell'aria e fluidi, esercitata principalmente nei loro omogenei” (Padova, Cadorin); “Problemata geometrica sexaginta” (Venezia, La Noù); “De infinitorum spiralium spatiorum mensural” (Venezia, La Noù); “Accessionis ad steriometriam, et mecanicam” (Venezia, Noù); “De infinitis parabolis, de infinitisque solidis ex variis rotationibus ipsarum, partiumque earundem genitis” (Venezia, Noù); “Miscellaneum geometricum” (Venezia, Noù). Note  Fonte: M. Gliozzi, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Mario Gliozzi, «ANGELI, Stefano degli», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Àngeli, Stefano degli, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Amir Alexander, Infinitamente piccoli. La teoria matematica alla base del mondo moderno, Torino, Codice edizioni, 353.Kirsti Andersen, "Cavalieri's method of indivisibles." Arch. Hist. Exact Sci. 31 (1985), no. 4, 291-367  Stefano degli Angeli, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Stefano degli Angeli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Stefano degli Angeli, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland.  Opere di Stefano degli Angeli / Stefano degli Angeli (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Pietro Magrini, Sulla vita e sulle opere del Padre Stefano degli Angeli matematico Veneziano del sec. XVII memoria di Pietro Magrini, letta all'Ateneo Veneto 10 Luglio 1862: Estratta dal Giornale Arcadico; tomo 45 della nuova serie, Tip. delle belle arti, 1866. Filosofia Matematica  Matematica Categorie: Matematici italiani del XVII secoloFilosofi italiani Professore1623 1697 23 settembreMorti l'11 ottobre Venezia Padova. Stefano d'Angeli, veneziano, lettore nello studio di Padova, provinciale veneto della sua religione de' gesuati, che fu soppressa, e discepolo di Cavalieri, di cui scrisse, 'Herculem geometricum alterum Bonaventuram sc. Cavalerium, cui devotione i habitu sui conjunitillimus eiusque sub disciplinis tyrocinium in geometria ad novem dumtaxatmenses, ipso a vivis mei mortali angore, qui tunc ad eram, o geometrarum omnium luctus, aciactura sublatum, posui auspican tillinum, orc: Siren de celebre Cavalieri colle molte opere, che manda alla luce, e spezialmente per la sua geometria degl'indivisibili, l'origine della utilissima analisi degl'infinitamente piccoli, come Itall'oinne fanno menzione i Chi ariss. Giornalisti. Ma sono opere dell'Angeli: "Problemata", "De infinitis parabolis", "Miscellaneum hyperbolicum, o parabolicum"; "Miscellaneum geometricum", "De infinitorum spiralium spatiorum mensura". Le Considerazioni sopra la forza di alcune ragioni Fisico-matematiche addotte da Riccioli nella sua "Astronomia Riformata" *contro il sistema copernicano*; le seconde *contro il moto diurno della terra piegato da Manfredi nelle risposte alle prime riflessioni di Stefano de Angeli; le terze e le quarte sopra la lettura di Borelli sopra la confermazione di una sentenza dello stesso prodotta da Zerilli, ecc; "Della gravità dell'aria, e de'audi"; "Dialoghi due";ed altri tre gli stampo.  The concept of infinitesimal was beset by controversy from its beginnings. The idea makes an early appearance in the mathematics of the Greek atomist philosopher Democritus c. 450 B.C.E., only to be banished c. 350 B.C.E. by Eudoxus in what was to become official “Euclidean” mathematics. We have noted their reappearance as indivisibles in the sixteenth and seventeenth centuries: in this form they were systematically employed by Kepler, Galileo's student Cavalieri, the Bernoulli clan, and a number of other mathematicians. It was Galileo's pupil and colleague Bonaventura Cavalieri (1598–1647) who refined the use of indivisibles into a reliable mathematical tool (see Boyer [1959]); indeed the “method of indivisibles” remains associated with his name to the present day. Cavalieri nowhere explains precisely what he understands by the word “indivisible”, but it is apparent that he conceived of a surface as composed of a multitude of equispaced parallel lines and of a volume as composed of equispaced parallel planes, these being termed the indivisibles of the surface and the volume respectively. While Cavalieri recognized that these “multitudes” of indivisibles must be unboundedly large, indeed was prepared to regard them as being actually infinite, he avoided following Galileo into ensnarement in the coils of infinity by grasping that, for the “method of indivisibles” to work, the precise “number” of indivisibles involved did not matter. Indeed, the essence of Cavalieri's method was the establishing of a correspondence between the indivisibles of two “similar” configurations, and in the cases Cavalieri considers it is evident that the correspondence is suggested on solely geometric grounds, rendering it quite independent of number. The very statement of Cavalieri's principle embodies this idea: if plane figures are included between a pair of parallel lines, and if their intercepts on any line parallel to the including lines are in a fixed ratio, then the areas of the figures are in the same ratio. (An analogous principle holds for solids.) Cavalieri's method is in essence that of reduction of dimension: solids are reduced to planes with comparable areas and planes to lines with comparable lengths. While this method suffices for the computation of areas or volumes, it cannot be applied to rectify curves, since the reduction in this case would be to points, and no meaning can be attached to the “ratio” of two points. For rectification a curve has, it was later realized, to be regarded as the sum, not of indivisibles, that is, points, but rather of infinitesimal straight lines, its microsegments.  La prima opera alquanto diffusa, ch'egli c o m pose e pubblicò in Venezia nel 1658, ha per titolo: Problemata geometrica sexaginta circa conos, sphae ras, superficies conicas,sphaericasque praecipue ver santia. In questo volume sono svolte con tutto il rigore della scuola dottrine,che in tali materie fan no continuazione a quelle di Archimede e di A p o l lonio Pergeo. Frequentissime occasioni gli si pre sentano di usare la teoria degl'indivisibili,e fra que ste è la tesi,dove dimostra che il conoide parabo lico è la metà del cilindro ad esso circoscritto. Il grande Newton nella sua Arithmetica Univer salis si occupa anch'egli a lungo di questa propor zione, perchè la prende come suo tipo ad insegnare la maniera, con cui l'analisi algebrica debba asse starsi alla risoluzione delle questioni geometriche; ed è in questo luogo ch'egli stabilisce le regole, che poi servirono a tutti gli analisti di norma in così fatti esercizii. L'inglese geometra, dopo tutte le opportune considerazioni, arriva a darci  riphaeria subtendatur ab ipsis. pe per satemi il termine, confermò ed ampliò con più s o lenne espressione nella molto profonda sua opera di recente pubblicazione, che versa sui Porismi di Euclide. E d eccovi esperte tutte le riflessioni che m'indussero e m ' incoraggiarono a passare a rasse gna i lavori dell'uorno che mi proposi oggi di farvi ricordato. In mezzo ai tanti curiosi problemi di questo li bro trovai degno di menzione quello così annunziato: Datis tribus lineis invenire semicirculum cuius risoluzione del problema una equazione del terzo la   Quello che alcun poco potè turbarmi nell'esame di questa opera si fu la qualche importanza, che il nostro degli Angeli sembrava attribuire al così detto paradosso geometrico, perchè abbagliò lo stesso Galileo, ed è che il centro di un cerchio è eguale alla sua circonferenza. Questo giuoco di parole,che come vedesi non presenta alcun senso se non as surdo, era un fatale intoppo nel quale si urtava quasi sempre nell' uso del calcolo degl' indivisibili, ed eccovene l'origine.  ! 20 grado,dicui,come è notissimo,non puòfarsila co struzione se non per mezzo delle coniche sezioni. La sola riga ed il compasso non possono qui essere usate allo scopo, se non nel caso, in cui due delle date rette sieno eguali,poichè in allora l'equazione cubica può comodamente venire abbassata al grado secondo. Il degli Angeli scioglie i due casi, senza la face dell'algebra,che allora non era accesa,l'uno per locum planum, secondo illinguaggio scolastico, e l'altro per locum solidum. Le sue costruzioni sono elegantissime,e mostrano chiaro che istintivamente anche gli antichi avevano un -segreto oracolo di a n a lisi, che domesticamento consultavano,ma non fa cevano vedere al volgo. Vi risovvenga, o Signori, di quei due solidi d e scritti da me poco fa, cioè di un emisfero e di un cilindro incavato da un cono rovescio,cilindro che lo circonda, dei quali così facilmente si appalesa. l'equivalenza. Or bene: questa equivalenza si de duce col provare, che tagliati dovunque idue corpi con un medesimo piano segante parallelo.colla base comune d'entrambi, il circolo nato nell'emisfero   eguaglia a puntino la zona circolare spettante al cilindro incavato. E siccome ciò ha luogo per ogni piano segante immaginabile, dicevasi con molta fretta che ciò doveva effettuarsi anche nel piano tangente alla sommità della superficie sferica; il che, come si vede, presentava da una parte un centro (cioè il punto di contatto) e dall'altra una circonferenza, cioè lo spigolo nudo del cilindro terminato; dunque per la presa analogia,il centro, cioè quel punto di contatto, doveva essere eguale a quella circonfe renza. Noi lo accorderemo di buona voglia, se sono così teneri di questa inezia, poichè sotto il riguardo di superficie (e qui si tratta di superficie soltanto) così il centro come la circonferenza si possono egua gliare,perchè sono entrambi eguali a zero; ma que sto strano vaniloquio non può insorgere a pretesa, se non in quei casi speciali, ove si richiama ad uno stato anteriore di rapporto, e non può certo aver modo di entrare quando sitrattassediun qua lunque cerchio isolato in un piano. Bastava riflet tere che il ragionamento dimostrativo non era ri volto che a' piani seganti; dunque il piano tangente non v'entrava se non ad indicare il limite dove il rapporto di eguaglianza andava a cessare.La man canza di un linguaggio ben formato, e che ci fu dopo dalla teoria dei limiti perfezionato, impedì forse la spiegazione chiara del sofisma per parte Questa menda del nostro autoreriflessa sopradi lui dallo splendore di un gran nome,è a dismisura can cellata dai tanti lavori di gran lena ch'ei porse nel seguito. Tale è il suo Miscellaneum hyperbolicum  21 di tri cotanto valenti e degnissimi di rispetto. geome   pubblicato nel 1659, e dedicato agli Illustrissimi Cinquanta del Senato di Bologna in contrasegno di gratitudine per quella illustre città; nella quale sua opera tratta profondamente dei centri di gra vità dell'iperbola, delle sue parti e di alcuni so lidi, dei quali nessuno fino allora aveva parlato. Insegna a quadrare la parabola in doppia manie ra ed a guidare le tangenti a tutta la famiglia pa rabolica. Sulla parabola inoltre e sui co noidi di essa risolve curiosi problemi spettanti ai massimi, inscrit tibili ed ai minimi circoscrivibili. In questo suo li bro l'autore ambisce di pretendere alla priorità sul la Faille e sul Guldino medesimo, il quale nella rinomata sua opera Centro -barica, così confessa la sua mancanza in questo proposito: deest hoc loco hyperbolae ejusque partium centri gravitatis investi gatio. L'opera uscita dalla sua penna nel 1660 è m e ritevole di ricordanza,tanto per la persona alla quale viene dedicata, quanto e molto più per la materia che l'autore vi ha svolta. È stato umiliato quel lavoro all'eminentissimo cardinale Gregorio Barbarigo, Patrizio Veneto, ve scovo allora di Bergamo, e che in seguito, come tutti sanno, fu vescovo di Padova e morì nel 1697, cioè l'anno medesimo della morte del nostro degli Angeli, ed il quale vescovo fu poi annoverato fra i beati dal suo concittadino Carlo Rezzonico,Papa sotto il nome di Clemente XIII. La dedica, o Si gnori, era degnissima,poichè sappiamo dalla storia della vita del Barbarigo.ch'egli era dottissimo nelle cose matematiche, e per ciò sembra che a buon di  22   Parlando della materia del trattato,che s'inti tola De infinitorum spiralium spatiorum mensura, ella valse a collocarlo in un gran posto fra i geo metri del suo tempo: e quel soggetto fu poi anche ampliato coll'aggiunta ch'ei vifeced'un altro trat tato, detto De spiralibus inversis, stampato in P a dova nel 1667. Fine a quell'epoca gli antichi a v e vano assai beve conosciuto ed usato le proprietà, gli spazi, le tangenti della Spirale di Conone o di Archimede,ma di poco o nullasieravarcatoque sto termine. Il degli Angeli ci racconta egli stesso di essere stato parecchie volte stimolato a scandagliare più a fondo in questo mare,quando trovavasi in Roma. E quelli che così eccitavanlo erano un Michelangelo Ricci,da lui chiamato il Corifeo degl'italiani geo metri, al che fece eco pienamente anche il Montu cla; poi un Francesco Slusio, riputato geometra fran cese, ed infine un matematico inglese di fama, Ric cardo Albio. Essendo egli allora troppo giovane ri cusò di affrontare cotali gravi ricerche, confessando modestamente il carico non trovarsi adattato agli omeri suoi. Ma più tardi,essendo in Venezia, e ri svegliatosi in lui colle nuove forze acquistate a n che il coraggio, intraprese lo studio delle infinite specie di spirali, e fu allora riverito per la novità dell'argomento e per la profondità della trattazione. Dopo di lui altri valenti coltivarono questo campo e lo trovarono ancora fecondo. Se non che la glo ria di esaurire in tutta la sua estensione un tale argomento era riservata al più moderno chiarissimo  23 ritto e senza lusinghe il degli Angeli lo invocasse col nome di Geometrarum Mecenas peritissimus.   matematico Varignon,inuna bellissimasua memoria, citata spesso e spesso indicata a modello ai giovani studiosi, la quale si trova inserita nelle Memorie dell'Accademia delle Scienze di Parigi per l'anno 1704. Tuttavolta a non iscemare di un punto il meritodelVeneziano,tornaopportuno ilriflettere che quella Memoria straniera comparve 44 anni più tardi, e di quegli anni di abbondanza, nei quali ľ analisi ardita aveva tanta sua ala distesa. Copiusi problemi di tutte le specie riguardanti le aree delle figure piane ed i volumi dei solidi non che i loro centri di gravità, si contengono tanto nella seconda parte di questo libro delle Coclee, quanto nel Miscellaneum Geometricum prodotto nel  24 Alle ora accennate due opere va unita per m e rito d'interessanti investigazioni quella del 1661 De infinitarum Cochlearum mensuris ac centris gra vitatis,dedicata a Leopoldo II dei Medici,granduca di Toscana, quegli sotto i cui validiauspiciisi for m ò e crebbe l'Accademia del Cimento. In questo dotto lavoro descrive la forma delle infinite coclee sìstrette esìallargate,chesigeneranopermezzo di triangoli, di rettangoli, di semicerchi,ed altre fi gure piane scorrenti con duplice moto, l'uno circo lare e l'altro progressivo, con diverso rapporto di velocità; ed assegna col metodo degl'indivisibili i volumi di questi solidi strani ed apparentemente intrattabili. Si propone in tale memoria l'autore di continuare e di estendere la strada tracciata ed i n cominciata assai pregevolmente dal Torricelli, m a ehe questo celebre uomo per cagione di morte la sciava ad altri da percorrere.   1660, quanto ancora nell'opera pubblicata nel 1662, cioè nell'anno primo in cui era entrato nella Pa tavina Università e che si intitola: Accessio ad Ste reometriam et Mechanicam in qua traduntur m e n s u rae et centra gravitatis quamplurium solidorum.  25. Nell'anno 1661 ideò un nuovo genere d'in vestigazioni nell'opera intitolata de Superficie U n gulae, a cui si unisce una seconda parte, che tratta de quartis liliorum parabolicorum et cycloidalium. Ciò che porgesse a lui il destro di mettersi a trat tare questi argomenti lo racconta egli nella sua pre fazione. Già nell'anno 1659 era comparso in R o m a un opuscolo de cycloide et de figura sinuum, che vantava per autore un Onorato Fabri Gesuita, sotto ilpseudonimodiAntimoFabio:ilbuondegli An geli s'invaghì di quest'opera ed indovinò che nella figura dei seni ivi celebrata latitabat non spernen d u m geometricum mysterium. E svelò a quanto pare pel primo ilmistero,dicendo che quella curva che noi chiamiamo sinusoide, altro non era che la sezione obbliqua d'un cilindro tagliato diagonalmente con un piano condotto pel raggio del quadrante base e sviluppata in un piano. Quantunque quell'Onorato Fabri non sia un nome molto onorato nella storia della scienza, poichè fu quest'uomo mai sempre av verso al Galileo e combattè ostinatamente tutte le belle scoperte dei giorni suoi, ilnostro matematico fa di lui qualche caso rispetto al citato libretto. Per altro è facile indovinare ch' ei lo faceva con una piccola dose di spirito di partito, giacchè sco priva nel Fabri un grande settátore del metodo del Cavalieri. E tanto anzi il Fabri lo usava con in 3   26 Quell'opuscolo per tanto del Fabri diede occa sione al degli Angeli di combinare problemi di tutte le specie intorno alle unghie cilindriche,ai loro cen tri di gravità, ai solidi da esse con varia maniera di movimento ingenerati. Raddoppiata la superficie svolta in piano dell'unghia cilindrica in tre modi diversi, egli costruisce una simmetrica figura, ch'ei chiama un giglio ungulare, dal quale poi altri gigli germogliano con altri ideati movimenti, e di tutta questa fantastica famiglia di figure aventi tutte per elemento l'unghia cilindrica, valuta secon do il solido le aree, i punti di equilibrio, i vari conoidi derivanti da quelle: e le stesse combinazioni, e gli stessi oggetti si propone nei suoi studi sulla semicicloide. Queste descritte, ed altre molte di eguale va lore, sono le opere geometriche del professore degli Angeli, opere il dobbiamo pur dire con ricresci m e n t o, le quali al pari di quelle di altri illustri suoi contemporanei non vengono più lette. La ragione di questo abbandono non è a mio credere soltanto il Fu quel secolo uno dei più brillanti e privile giati,sì per la moltitudine degli uomini di genio su periore, e si per la grandezza dei trovati. Sembra che la natura abbia voluto in quei giorni di deca  temperanza,che ilnostro autore a suo riguardo così si esprime: ut ad indivisibilium arenam percurrendam fraeno potius quam calcaribus indigere videatur. progresso della scienza ed il lasso del tempo, che corre da quelli a'nostri anni, poichè le verità m a tematiche non sono soggette aprescrizione di tempo; la causa più vera e profondamente morale.   27 denza delle lettere mostrare quanto ella era capace di produrre per largo compenso alla dignità del l'uomo. L'Italia prima del sapere maestra, dopo la barbarie dell'età di mezzo diede in questo se colo potentissimi e rinomati ingegni,un Luca Vale rio, un Galileo, un Torricelli, un Viviani, un C a valieri,un Pucci e moltissimi altri.Ma l'Europa produceva in quel tempo in altri climi il Nepero inventore del nuovo calcolo logaritmico, il Guldino scopritore di un nuovo cammino nello studio delle curve, il Keplero che tutti sanno, il Roberval; poi il Pascal, il Cartesio, il Newton; poi l'Huygens e la portentosa famiglia dei Bernouilli, e quel mira colo del Leibnizio, di cui tante si onora l'umano intelletto. E come la comunione espansiva di que ste straniere intelligenze fece salire a passi gigan teschi il sapere e lo unificava, è ben da credere che il tributo, che a questo cumulo di ricchezza l'Italia poteva recare, avrebbe certo accresciuto il tesoro della scienza o di molto accelerato ilsuo an damento nella matematica pura, come l'Accademia del Cimento fece già a pro' delle naturali scienze. Ma gl'italiani, rispettate alcune eccezioni,si tene vano in disparte nel purismo sintetico, ed offerivano solitari sagrifizi alla greca sapienza, benchè con at tività e maestria nuove ricchezze portassero a que gli altari ed a quei templi vetusti.E mentre sde gnavano di dare ad altri la mano nella grande in vestigazione della verità, ebbero talvolta a provare qualche umiliante disinganno;come avvenne fra gli altri al Viviani nel suo vantato Ænigma geometri eum, che ben presto fu spiegato in più modi ed    in più luoghi dagli oltramontani analisti. Attenutisi troppo scrupolosamente al linguaggio ed alle forma lità degli antichi, e non avendo voluto adottare quel calcolo algebrico, che tanto facilitava agli altri le dotte ricerche, si vennero a chiudere le porte per arrivare fino ai nepoti, e non rimasero le faticose ed ottime loro opere che come venerabili m o n u manti di storica scienza, che visitati non vengono se non da pochi pazienti eruditi. Mi si perdoni questa digressione, che per in tendimento aveva di mettere le produzioni del mio encomiato Stefano degli Angeli nell'aspetto sotto il quale è lecito oggi di riguardarle, e passiamo a par lare delle polemiche sue scritture.  28 È notissima nella storia della scienza la lunga lotta, che si riscaldò fra lui ed il Padre Giambat tista Riccioli Gesuita, uomo rispettabilissimo per la multiforme sua dottrina letteraria e scientifica, e so prattutto riputatissimo astronomo.Questo dotto pro fessore, che in compagnia del P. Grimaldi suo al lievo, giovò non poco colle sue esperienze a conser mare le leggi dei gravi cadenti scoperte dal fioren tino Filosofo, ebbe poi a macchiare inescusabilmen te il suo nome coll'essere divenuto uno dei più pertinaci combattenti, che mai facesse battaglia al grande Italiano sulla sua tesi del moto diurno della Terra. Ma il sapiente Riccioli non si teneva contento ai soliti plateali sofismi stiracchiati fuori dalle sagre carte dagl'ignoranti; egli invece si sbracciò a con trastare in sul serio quel movimento del globo con argomenti fisico -matematici. Oltre alla tante volte addotta difficoltà di concepire la rotazione della terra   a cagione della forza centrifuga, che dovrebbe ge nerarsi, a detta degli avversarii, in tutti i corpi terrestri nel moto circolare diurno,per cui la massa del globo ben presto verrebbe disfatta, argomento che si abbatte colla dimostrazione consueta che la velocità della terra dovrebbe essere 17 volte m a g giore dell'attuale perchè la forza centrifuga potesse eguagliare soltanto la gravità dei corpi, il Padre Riccioli aveva coniato un argomento fisico -m a t e m a tico tutto di suo gusto,al quale credeva che nes sun uomo di scienza potesse rispondere. Immaginatevi, ei diceva, che un grave siasi la sciato cadere dalla cima di una torreelevata,tanto che il corpo debba impiegare p. es. cinque minuti secondi per battere il suolo nella caduta. Dividendo quest'altezza in cinque parti nel rapporto dei tempi parzialidiquesta caduta con moto uniformemente ac celerato,cioè 1, 3, 5, 7, 9, figuratevi che il grave abbia ricevuto l'impulso da occidente in oriente a principio, c o m e voi pretendete, e troverete naturale ch'esso debba descrivere una curva. Ora il calcolo mi dimostra che le parti od archi di questa traiet toria rispondenti ai varii tempi summentovati sono pressochè eguali. Laonde le velocità del Il professore degli Angeli nell'anno 1663, quando  29 questi varii tempi, rappresentate da quegli archi, dovranno essere eguali,cioè nell'ultimo tempo come nel primo; dunque il corpo cadente dovrebbe bat tere la terra colla stessa forza come nel primo i stante così anche nell'ultimo, lo che è contrario all'esperienza, e perciò questo vostro sognato moto della terra non può esistere. in corpo   già da sei anni si trovava all'Università di Padova, si propose di abbattere tutti gli argomenti dell'a stronomo Gesuita, e ciò fece trionfalmente in va rie riprese colle sue prime, seconde, terze e quarte considerazioni sopra la forza degli argomenti fisico matematici del P. Riccioli contro il moto diurno della Terra,stampate in Padova. La confutazione sparsa per quei suoi quattro opuscoli riuscì un poco lunga e forse prolissa, poichè la compose alla forma di conversazioni fra un certo Conte Lescysky, un si gnore Offreddi ed il Matematico di Padova, ch'era egli stesso. La lentezza dei ragionamenti e delle d e duzioni dipendeva naturalmente dalla forma in dia logo dell'opera, poichè metteva il personaggio prin cipale nella necessità di togliere le più piccole dif ficoltà ed obiezioni degli altri due interlocutori. Ma la sostanza delle ragioni del Matematico di Padova si ristringeva a mostrare che il Padre Ric cioli, per altri conti commendevole,siera mostrato con sua vergogna in questo affare, atteso lo spirito di partito, assai inesperto nelle leggi più comuni della Meccanica.Mostrò cioè d'ignorare che nell'urto dei corpi contro un ostacolo irremovibile, come il piano sottoposto alla torre, dipendere doveva la forza della percossa non tanto dalla velocità asso Juta, di cui è il corpo animato, ma ancora dalla di rezione con cui la percossa discende. La velocità accordata pure che sia eguale nell'ultimo tempo come nel primo, non è poi egualmente inclinata nel corso della traiettoria nei varii tempi rispetto alla verticale.Decomposta in fatti la velocità assoluta in in una verticale e l' altra orizzontale, soltanto la  30   Ad ogni modo questa lunga controversia fu tutta col vantaggio del nostro concittadino, ed ebbe nella sua schiera tutti i veri scienziati d'allora, e non solo per questo conflitto, m a per la più possente ragione, ch' egli fu per carattere uno dei più caldi sostenitori del progresso in tutti i rami delle scienze fisico-matematiche. Ed invero nell'anno 1671 faceva di pubblica ragione in Padova due lunghi dialoghi fisico-m a t e matici; e tre altri nel successivo anno 1672, che avevano per titolo Della gravità dell'aria e dei flui di esercitata principalmente nei loro omogenei: nei quali con amene conversazioni fra quegli stessi in  31 prima doveva operare nell'urtare; e siccome le in clinazioni della velocità nei varii tempi erano diverse, diverse pure dovevano risultare le componenti v e r ticali; e queste appunto si trovano, con facile di mostrazione, nello stesso rapporto crescente, come se non esistesse l'impulso orizzontale; e per ciò si conchiude che il moto della Terra per nulla si o p pone all'esperienza, e può ben anche con essa sus sistere. Rilevata così l'impotenza del grande Achille del Riccioli si usarono dall'autore tutti gli ar gomenti indiretti, che potevansi per allora mettere innanzi. Là prova diretta del movimento rotatorio della terra, come ben sapete, signori, era riservata ai giorni nostri; chè ce la diede quel preclaro ingegno del sig.Faucault, per mezzo del pendolo da lui idea to, e poi da quel suo giroscopio, che rende sen sibile il fenomeno fra le pareti d' un gabinetto di fisica.   terlocutori di sopra nominati, si svolgono tutte le leggi dell'idrostatica e si sciolgono le minute diffi coltà di certi paradossi, già noti in quella materia, e dei quali in allora ben pochi precettori davano una chiara spiegazione. Non pretende il nostro autore, com'egli asserisce con modestia nella introduzione, che queste súe composizioni contengano cose del tutto nuove e non tocche dagli altri; m a essergli stato di eccitamento a scrivere il desiderio di gio vare ai nobilissimi scolari di quel sapientissimo s t u dio:i quali, diceva il nostro professore,camminando al dottorato pei ponti delle dottrine peripatetiche e delle formalità, poco o nulla vedevano della filoso fia sperimentale. La quale dichiarazione serve farci conoscere ad un tempo e lo stato delle p u b bliche istituzioni d ' allora, e gl' intendimenti del n o stro degli Angeli sul vero scopo degli studii pegli uomini socievoli. Ma non è a credere ch'egli con tato zelo del sapere calcasse unicamente le sole aride ed ardue vie della severa matesi e delle scienze. Abbiamo invece ogni motivo per ritenere ch'egli nella clas sica letteratura fosse molto perito, egli che per molti anni della sua fresca età n ' era stato precettore fra i suoi: egli che con tanta sveltezza di dicitura usò mai sempre familiarmente la lingua del Lazio. Ed inoltre nelle lunghe dedicatorie epistole, rivolte ai più distinti personaggi dello stato e della chiesa, lo troviamo come uomo familiarissimo degli ameni stu di spargere sali ed argutissime mitologiche allusioni, e questo con frequente uso ed anche abuso a se conda del gusto del secolo. Il Bresciano dottissimo  32   A coronare il monumento,che oggi m'ingegnai d'innalzare in questo letterario ricinto al nostro c o n cittadino Stefano degli Angeli, non mi rimane che porvi sopra un'ultimaghirlandadifiori,cioèdifare ricordanza delle qualità dell'animo suo. E qui sarò breve poichè l'affare è assai vecchio. Questo sacer dote così esaltato e venerato dai suoi confratelli per più di trenta anni, così accarezzato e tenuto per familiare ed amico da tanti nobili e famosi per sonaggi, la intera vita del quale non respirò che osservanza scrupolosa dei proprii doveri, e fu inces santemente modellata alla ricerca e diffusione del vero, non poteva essere dotato che di bella indole e di soavi costumi. E mi basta ad accertarmene per tutte la testimonianza del più volte citato sto rico contemporaneo della Patavina Università, Carlo Patino, che col degli Angeli viveva domesticamente, ed il quale al suo riguardo si esprime con queste parole: Singularem Stephani comitatem, m o r u m » que suavitatem experiuntur quicumque illam d e » siderant, adeo facilis est omnibus, benignus et » beneficus. In ejus gloriam dictum sit nullum a » m e inventum, qui vel levissime de ejus dictis » factisque conquereretur ».  33 E qui darò termine alle mie illustrazioni sulla vita e sulle opere Mazzuchelli ricorda la corrispondenza che regnava fra il degli Augeli ed ilcelebre antonio Magliabechi, in assai scritti di argomenti scientifico-letterari, e questo legame col fiorentino filologo serve bastan temente a dichiararlo non istraniero al consorzio dei dotti contemporanei di tutte le classi. di questo insigne matematico   e filosofo veneziano. Il desiderio di togliere da ob blio ingiusto e di mettere in piena luce i diritti a fama non peritura di quest'uomo il nome del quale così stretto si lega ad uno de' trovati più belli dell'italiano ingegno, m'infuse costanza, e dolce mi sembrò la fatica nella lettura di opere,che at tualmente pei modi mutati sono poco leggibili. So che potrebbe taluno ricantarmi essere ilnostro pre sente così fervido d'interesse nella scienza e nelle sue applicazioni al materiale benessere della vita da impedirci di guardare addietro nei secoli che f u rono. Ma io penso che sia non ultimo fragl'inte ressi del progresso e di quelli che lo promuovono, il celebrare con sagro zelo la memoria ed il bene fatto dai trapassati. Imperocchè con questo g e n e roso operare tramanderemo un buon esempio ai n e poti, a quei nepoti  34 « che questo tempo chiameranno antico », di non mancare di gratitudine ai primi informatori del bello,dell'utile e del vero.Così impediremo loro di gettare addosso un guardo compassionevole sui nostri prodigiosi lavori, che ora vagheggiamo con giusto orgoglio, m a i quali per fermo, secondo mento delle mondane cose,si contenteranno in al lora di venire conservati e posti in opera come materiali alla costruzione di nuovi e più amati edi fizii. Stefano degli Angeli. Angeli. Keywords: implicatura stereometrica – parabola infinita – Grice’s infinity – regressus ad infinitum, i cinque solidi platonici – la scatologia di Platone – il cerchio infinito – concetto limite, ottimalita – fisica e metafisica, fisica e aritmetica – aritmetica e geomtria – il moto diurno della terra, il sistema di galileo – antropocentrismo, ferita narcissista.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Angeli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691533368/in/photolist-2mJPC2N-2mJd7nN-2mKuzCc-2mGnP2f-2mEiqh9-Bq5Mgn-2mKNBXW-CnnqJD-Bq15zv-CcQs8U-BpSpay-CcQyew-BpT4yh-BpLNTC-BNLT9Z-BpTLSD-BNFFPV-BpWgpV-ChVcoh-CcS92Z-CayY13-BLCyMr-Bm5wbr-Bw1gsc-nNAxcL-nNAkjj-nL5dnJ-nL5bPy-nKrDZR-o2Wc12-nZWxB5-o3cjTW-nJxceu-nJx6xb-nSSg3U-nuY6N7-nu7n1k-nu8c83-ncUvcj-nuoZdT-nuoVrV-nu8cDU-ncUAgf-nu85Xh-ncUzyJ-ncUxh9-ncUmCH-nsmsf7-nu4k8E-fZz6s8

 

Grice ed Angiulli – la dialettica della dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castellana). Filosofo. Grice: “I like Angiulli; especially since he brought some grice to the mill, as he crossed the pond to read “System of Logic,” but his heart is in Berlin --  he loved that monumental ‘aula magna’ where Hegel taught. “Once a Hegelian, always a Hegelian.” He loved Feuerbach because he multiplied dialectic – la dialettica della dialettica – Garin loved this!”  If there is a hashtag here is #metafisicacritica, since Angiulli oddly concludes with a synthesis: metaphysics (which includes the view that ‘la natura delle cose e la fenomenalita’) should be part of what he calls the ‘ricerca’ (and which Lakatos translated as ‘research’) --.” Grice: “I love the fact that Angiulli, seeing that Mill was so erudite yet never attended Oxford, thought that Oxford was perhaps ‘acccidental’” – Grice: “Another thing I love about Angiulli is that he can quote direct from greek, as in his note on nature spawning itself, without (a) the need to translate or (b) provide the boring stuffy academic source!” Importante esponente del positivism.  Inizialmente allievo di Bertrando Spaventa, uno degli interpreti del pensiero hegeliano in Italia, successivamente Angiulli si allontanò dalla scuola hegeliana napoletana dopo un soggiorno biennale di studi in Germania nonché in Francia e in Inghilterra, dove conobbe la sua futura sposa: Mary della nobile famiglia dei Romano di Patù, nipote di Liborio Romano. Aderì al positivismo, ma rifiutò l'agnosticismo di Herbert Spencer, mentre ritenne possibile giustificare la "religione dell'umanità" (di Auguste Comte) in base alle scienze positive.  Iniziò la sua carriera d'insegnante di filosofia nel liceo "Vittorio Emanuele" di Napoli. In seguito divenne professore di antropologia e pedagogia nell'Bologna e dal 1876 ordinario di pedagogia in quella di Napoli, dove fu anche incaricato dell'insegnamento di etica e di filosofia teoretica.  Fu più volte assessore alla pubblica istruzione nel Comune di Napoli dal 1884 e candidato senza successo al parlamento nazionale. Angiulli era ritenuto un progressista vicino al socialismo che egli invece contestava come dimostra la sua corrispondenza epistolare con Marx che aveva avuto modo di conoscere in Germania.  Massone, fu affiliato Maestro nella Loggia Fede italica di Napoli. Il pensiero pedagogico Angiulli riteneva che ci si dovesse adoperare per una riforma dell'istruzione in senso popolare e nazionale inserendo questo progetto nell'ambito di un rinnovamento dell'intera società che solo tramite l'educazione sarebbe riuscita a mantenere nel tempo le proprie caratteristiche. Occorreva dunque una fusione fra cultura, sistemi educativi e la politica sociale realizzando così il programma del pensiero positivista che, secondo Angiulli, ha un valore soprattutto pedagogico, di una pedagogia scientifica, secondo i dettami positivisti, ma anche letteraria e liberale.  La pedagogia quindi non potrà non tener conto dell'antropologia che dimostra l'importanza della famiglia come nucleo fondante della società e della sociologia che stabilisce il collegamento tra educazione e una politica laica e liberale.  È nella famiglia, secondo Angiulli, che avviene la prima forma di pedagogia dove il padre rappresenta l'autorità e la madre il temperamento, tramite l'affetto, dei comportamenti infantili: elementi questi essenziali destilla formazione armonica di un cittadino in grado di esprimere solidarietà sociale e volontà di progredire resistendo a quelle pressioni clericali che caratterizzavano i primi anni della nascita dello stato unitario italiano.   I grandi progressi compiuti in questo secolo in ordine alle scienze p o sitive hanno avuto il loro riverbero nelle industrie e in tutto ciò che si po trebbe dire scienza pratica, la quale ha fatto dei passi giganteschi. È stato questo che ha contribuito a infiltrare nell'animo di tutti, nonchè un senso pratico della vita assai più raffinato, la tendenza al sacrificio di ogni più nobile cosa di fronte all'interesse. Data una tale costituzione psicologica, parecchi problemi son sôrti nel campo teorico. Si èdetto:– A che la Poesia, a che l'Arte? Il tempo delle finzioni, delle illusioni e dei sogni è passato; ora si cerca ciò che ha un'utilità più o meno immediata, la realtà ci s'im pone. Il terreno delle emozioni si va sempre più restringendo e l'intelligenza pervade tutto.— Il grido Non piùPoesia si è accompagnato col grido Non più Metafisica (Nicht mehr Metaphysik ), ed abbiamo ancora nelle orecchie gli anatemi lanciati non solo contro la Metafisica,ma anche contro la Filo sofia in genere. Il puro specialista in fatto di scienza si ascriveva ad onore il dispregio per ciò che fosse Metafisica. Questo stato però si può dire che sia durato poco,e da tutte parti re centemente è surta una reazione benefica contro la corrente antifilosofica. Ma se ci è un certo accordo quanto ad ammettere la Filosofia,regnano ipiù grandi dispareri per ciò che concerne i limiti da dover assegnare a tale disciplina. La maggior parte dei scienziati, per esempio, ha compreso che ciascuna delle loro scienze speciali ha per iscopo precipuo la scoverta di leggi sempre più generali, di leggi che raccolgano sotto il loro dominio il maggior numero di fenomeni. Generalizzando sempre,si arriva a certi principii che offrono sinteticamente la genesi di quasi tutti i fatti primitivamente raccolti e descritti dagli scienziati;esponendo e discutendo tali principii, sidiceche si fa la Filosofia di quella data scienza. Per codesti specialisti quindi non ci sarebbe una sola Filosofia, o meglio, la Filosofia come scienza a parte, ma ciascuna scienza avrebbe la sua. E pur volendo ammettere,notarono al cani, la Filosofia quale scienza a sè, ad essa non rimarrebbe altro compito che quello di volgere intorno alla Dottrina della Conoscenza. Ci furono altri che proclamarono un sogno la sintesi cosmica, per modo che tutti i sistemi metafisici passati e futuri non avrebbero per loro che il valore di aspirazioni dell'anima, di espressioni di amore per l'Ideale. Codeste opinioni sono sostenute da filosofi di molto merito, nè si creda che non siano giustificate in nessuna guisa; ciascuna invece contiene una parte di verità; il difetto sta nell'aver esagerato troppo l'importanza di co desta parte e nell'aver escluso gli altri elementi. Quelli, per esempio, che hanno visto nella Metafisica nient'altro che ilromanzo dell'anima,non hanno tutti i torti, giacchè se in ogni lavoro scientifico quasi quasi si trova la nota della sensibilità, molto più si rinviene questa nella Metafisica che è un lavoro d'insieme. Le condizioni della conoscenza non sono sempre in uno stato di semplicità ideale, ma si vanno sempre complicando,e l'oggetto della ricerca non appare con una nettezza definita, nè l'intendimento è comparabile ad uno specchio terso. L'uomo non ha abbastanza facoltà per quest'opera di creazione,perchè scovrire è creare.  L'immaginazione entra in giuoco,muo vendo dal fondo stesso del temperamento, di cui quest'immaginazione è un riassunto. Ogni spirito di scienziato ha dunque un certo fare originale, sub biettivo,anche nell'ordine delle conoscenze più lontane dalla complessità della vita. Che avverrà in ordine alle conoscenze più viventi e più complesse, e fra queste in ordine alla più complessa di tutte, come quella che riflette l'uomo e il mondo, vale a dire alla Metafisica? I sostenitori dell'opinione che la Metafisica debba considerarsi come un romanzo dell'anima,ragionano a questo modo. Costruire un sistema è com piere, per mezzo di un'ipotesi esplicativa, la somma delle conoscenze esatte fornite dall'esperienza. Noi possediamo sull'universo e sull'uomo una certa quantità di nozioni positive, noi le coordiniamo e completiamo per via di una teoria generale,allo stesso modo che un geometra disegna una circonferenza intera secondo il semplice frammento di un cerchio. E queste nozioni posi tive, materia indispensabile della nostra ipotesi,ci sono apportate dall'espe rienza in due modi distinti. Da una parte il filosofo conosce i risultati ge nerali delle scienze sperimentali nel tempo in cui egli lavora, e vi conforma la sua immaginazione d'inventore d'idee; dall'altra parte questo filosofo ha subìto, almeno nella sua infanzia e nella sua giovinezza, le influenze infini tamente multiple e complesse della sua famiglia, dei suoi amici, della sua città,della sua regione. La sua vita sentimentale e morale ha preceduto ed accompagnato la sua vita intellettuale. Questa seconda iniziazione si unisce alla prima in modo che la scoverta d'una dottrina si trova essere insieme un romanzo dello spirito ed un romanzo del cuore. Coloro che limitano l'obbietto della Filosofia solo alla dottrina della co noscenza, neanche sono completamente nel falso. Se l'oggetto della Filosofia come sintesi cosmica è la ricerca della genesi dei principii fondamentali di ciascuna scienza speciale, è chiaro che per gradi si risale, generalizzando sempre, dal dominio di ogni scienza speciale a quello della Filosofia. Le con dizioni della scienza moderna son tali che il puro specialista quasi quasi si potrebbe dire che non è un vero scienziato.I legami fra le varie scienze sono oggi così stretti,che s'impongono alla considerazione di tutti.Ed ipro blemi un tempo di esclusiva pertinenza della Filosofia entrano ora nel d o minio delle scienze speciali. Identificando l'oggetto della Metafisica con la realtà immanente dell'esperienza e identificando il metodo di studiarlo coi procedimenti della scienza positiva, essa o non deve esistere, o si converte nella Fisica, intesa come scienza prima ed universale, in quanto tocca il problema cosmico, il problema dei principii fondamentali ed universali, pro blema che emerge da sè dalle scienze speciali, senza alcun lavorio partico lare. La Filosofia però è la continuazione delle scienze positive,costituendo la loro unità, il loro tutto, ma non è che un lavoro di compilazione. Come còmpito speciale ed originale della Metafisica non rimane alla fin delle fini che la Dottrina della Conoscenza. L'obbietto del saggio dell'Angiulli  è appunto quello di esaminare i titoli che la Filosofia pud presentare per essere riconosciuta come scienza separata che ha un còmpito proprio. È stato per questa ragione che mi è sembrato opportuno dilungarmi prima un pochino nel delineare come stanno le cose attualmente. Prima e contemporaneamente alla pubblicazione del libro dell'Angiulli, parecchi altri hanno mostrato come la Metafisica fosse da considerarsi quale scienza con un obbietto ben definito. E si può dire che tutte le scuole filo sofiche contemporanee siano d'accordo su questi punti, che il vero oggetto del nostro sapere è la sintesi dello scibile, la ricostruzione ragionata del mondo analiticamente conosciuto,che la veduta metafisica deve essere sug gerita principalmente dai risultati delle scienze sperimentali, e di queste essere la migliore spiegazione possibile, e che non ha valore quella tratta zione metafisica, alla quale non sia fatto precedere un accurato esame del potere conoscitivo umano,una critica cioè della conoscenza. Gli Idealisti però non consentono che la Metafisica sia dichiarata una scienza positiva, perchè, a differenza di queste, essa ha un doppio intento: ha per oggetto materiale il pensiero, che differisce dagli obbietti delle altre scienze, e per oggetto formale lo studio delle relazioni supreme onde i singoli fatti si col legano fra loro.Le cognizioni proprie della Metafisica,secondo costoro,si ottengono bensì mercè l'osservazione, purchè questa sia psicologica, razi nale, anzichè solo empirica. Poi il procedimento della Metafisica nell'addurre la ragione delle conoscenze, non è quello delle discipline positive; queste debbono limitarsi all'esperimento ed all'induzione, laddove quella, oltre tali metodi, deve seguire speciali criteri suggeriti dalla critica della conoscenza,  Ora comincio col domandare: A quale delle categorie di pensatori ac cennatepiùsuappartiene l’Angiulli? A nessuna: per lui oltre la Filosofia di ciascuna scienza, c'è la Filosofia il cui obbietto è la sintesi cosmica e del sapere. Egli ritiene che i progressi delle scienze positive non hanno fatto pernientemutarel'obbietto dell'antica Metafisica –Sintesi cosmica (Cosmologia), Sintesi del sapere (Dottrina e Critica della Conoscenza) e Valore dell'esistenza (Etica) -- ma hanno solamente portato una rivoluzione in ciòche riguarda il metodo da seguire nella soluzione del problema metafisico. Angiulli qualifica la sua Metafisica come scientifica e progressiva,dichiaran dola scienza e non meno positiva delle altre. Se tale quesito fosse stato for mulato da un dommatico spiritualista o materialista che fosse, ci sarebbe da meravigliarsi poco, e la cosaavrebbepocoopunto importanza; ma il tenta tivo di una metafisica scientifica fatto da un partigiano così illustre del metodo sperimentale, è cosa degna di ogni considerazione.   per distinguere l'apparenza dalla realtà. Finalmente l'ordinamento delle parti nelle singole scienze è parziale, invece la disposizione di esse nella Meta fisicaètotale:quelleordinanocose,fatti;questa,oltrelecose,devedisporre ancheleidee,eordinarel'essereeilconoscere.Conchi one, la Metafisica e una scienza razionale, non positiva. Lasciando da parte ora le sottigliezze metafisiche che non fanno progredire d'un passo la scienza, dirò che tra i filosofi contemporanei quegli che molto si è occupato del problema metafisico è stato il Fouillée. Mentre la scienza pura e semplice, egli dice, non bada che ad oggetti particolari, fac e n d o astrazione dalla mente che li conosce, come d'altro canto la psicologià non si occupa che dei fatti mentali, facendo del pari astrazione da ciò che si co nosce per via dei poteri mentali, è solamente la metafisica che si occupa della relazione, del nesso esistente tra gli obbietti e la mente; e la vera realtà sta appunto in tale relazione, in tale corrispondenza. Però, a senso suo, tutte le altrescienze, compresala Psicologia, sarebbero dachiamarsipro priamente scienze astratte, mentre solo la Metafisica sarebbe da dirsi concreta. Insomma, l'oggetto della metafisica volgerebbe intorno alla reazione di tutto il nostro organismo mentale (conoscenza, volizione, sentimento) di fronte al Mondo.IlFouillée delrestoaccennasolamente aivariproblemimetafisici, ma non ne svolge, nè alcuno ne approfondisce, vuoi in fatto di cosmologia, vuoi in fatto di psicologia, non forma, direi,un trattato dei problemi metafisici, in modo che ti si dia la genesi delle idee filosofiche odierne positive. Tale merito era riservato, si pud dirlo con orgoglio,all'Angiulli,m e rito tanto maggiore, per le difficoltà che offriva il soggetto. La parte vera mente importante ed originale del suo saggio è di non aver solamente proclamata l'esistenza di una metafisica positiva e progressiva, di non averne solamente ideato il disegno, m a di aver eseguito questo, di aver gettato le basi di una Cosmologia e di una Psicologia quale oggi si può avere dal Positivismo ragionato. I partigiani dell'esperienza o non devono ammettere una Metafisica, o, se devono ammetterla, non possono accettare che quella,di ciamo pure, abbozzata dall'Angiulli. Esporrò ora a grandi tratti i con cetti fondamentali dell'autore. Se gli oggetti della realtà conoscibile sono studiati dalle diverse scienze positive, rimane sempre da studiare l'insieme degli oggetti e le scienze stesse e quindi i rapporti, le connessioni esistenti tra gli oggetti particolarmente studiati dalle scienze, e tra le scienze stesse; campo codesto riservato alla Filosofia. Il dimostrare che è impossibile la formazione di una sintesi cosmica è già una ricerca filosofica. Ma veramente l'analisi degli oggetti cosmici è inseparabile dalla sintesi in cui essi ottengono il loro vero valore. E le scienze stesse si volgono a raggruppare più fatti sotto una nozione o una legge generale,o più nozioni e più leggi sotto una nozione od una legge ancora più alta.Ma in questa opera giungono a toccare un limite che di mostra la loro insufficienza. Gli ultimi sostegni e gli ultimi legami dei loro concetti sorpassano i confini delle loro indagini; perciò non possono trovare nella propria sfera la soluzione compiuta anche dei problemi speciali. La filosofia comprende quella parte di ogni scienza che s'innalza a principii e ad ideeuniversali, quellapartechericonducequesteideeequestiprincipii ad una unità superiore. È parte di ogni scienza ed è una scienza a sé. Ed il Girard,dimostrando che la Filosofia non è un'opera aggiunta alle scienze, sibbene una loro parte integrante, distingue itna Filosofia delle scienze particolari, una Filosofia dei diversi gruppi di scienze,ed una Filo sofia centrale che è la loro sintesi ultima e definitiva. L'Angiulli con ra gione insiste molto su questo, appunto perchè rimanga ben chiarito il con cetto che dobbiamo formarci della Filosofia, e del suo compito nella cultura e nella vita. Le scienze, egli dice, per sè sole scoprono verità che diremo astronomiche, fisiche, chimiche; la Filosofia scopre verità cosmiche. Solo quando le verità attinentisi ai fenomeni meccanici, fisici, chimici, biologici, sociologici si collegano in un principio, in un rapporto comune, si ha una verità cosmica. Quando il Lagrange con la sua splendida applicazione del principio delle velocità virtuali a tutti i fenomeni meccanici, fuse in un tutto orga nico i diversi rami della meccanica che erano stati fino allora studiati sepa ratamente, ottenne una conquista scientifica di un grado superiore. Quando ilGrove el'Helmholtz,mostrandocheivarimodidelmovimento pos sono essere trasformati l'uno nell'altro, apparecchiarono una base comune allo studio del calore, della luce,dell'elettricità e del moto sensibile,conquista rono una verità,la quale,sebbene tocchi già la sfera della filosofia,non esce ancora dai cancelli di una scienza speciale. M a quando il principio delle v e locità virtuali e il principio della correlazione delle forze furono dimostrati entrambi corollari del principio della persistenza della forza, conseguenze necessarie di un medesimo assioma, allora la verità conquistata appartenne all'ordine filosofico. Cosi anche quando Von Baer sostenne che l'evoluzione di un organismo vivente è un progressivo passaggio dall'omogeneità della struttura alla eterogeneità, egli scoprì una verità biologica;ma quando Spencer applicò questa medesima formola all'evoluzione del sistema solare, della terra,della vita,dell'intelligenza,della società,egli conquistò una ve rità filosofica, una verità non semplicemente applicabile ad un ordine di fe nomeni, ma a tutti gli ordini. Dopo averfissatocodestipunti,ilimitidellaFilosofiasembranobencir coscritti, nè vi dovrebbe esser luogo a discutere,se,poniamo,una data teoria sia da considerarsi come teoria filosofica,ovvero tale che non esca dai confini delle scienze speciali. Pure non è così, come si vedrà più giù, quando mi fermerò un po' sulla teoria darwiniana. L'Autore passa subito a fare l'applicazione dei principii su esposti. Svolge dapprima il concetto largo che bisogna formarsi dell'esperienza, ag. giungendovi l'elemento sociale e storico, entrambi tanto importanti; passa poi a delineare la dottrina della conoscenza, mostrando giustamente come sia impossibile trattare un tal soggetto, senza prima far precedere delle note paramente psicologiche. E poichè la Filosofia, se èsintesi del conoscereè anche sintesi dell'essere, Angiulli, nella parte III “ del suo libro si occupa della dottrinadell'evoluzione cosmica. Quivisono raccolti i più recenti risultati scientifici, ed è notevole che l'Angiulli è perfettamente al corrente di ogni novità in ordine alle scienze della natura. Io non scenderò a partico larità; mi fermerd solo un momento su cið che concerne la Biologia, tanto per offrire un esempio della difficoltà che si prova a giudicare se una data teoria scientifica possa aspirare all'onore di essere detta filosofica. Porrò prima il quesito: Qual'è l'importanza che nella sintesi cosmica, qualesipuòformareoggi, ha ladottrina darwiniana? A questoriguardo regna ancora un po' di confusione: c'è chi vorrebbe vedere nell'idea darwi. niana la legge del mondo,e quindi nel darwinismo una dottrina filosofica, e c'è chi pensa proprio il contrario. Giova premettere che non va confuso il Trasformismo col Darwinismo: il primo certamente racchiude un pensiero generale che rasenta almeno il dominio della filosofia; dar ragione di tutto il mondo organico per via di trasformazioni graduali e consecutive è certa mente un'idea che raccoglie il massimo numero di fatti particolari organici e nello stesso tempo tenta di darne la spiegazione; tanto più se si pensa che un tempo tutto lo studio del mondo organico si riduceva a fare un in ventario più o meno ordinato degli esseri organizzati. Ma il Trasformismo è benaltra cosa del Darwinismo: questo in fin dei conti non è che una forma particolare di quello. Il Darwinismo è nient'altro che una teoria generale,la quale non esce dai cancelli di una scienza speciale. Ed infatti: raccoglie esso il massimo numero di fatti che si osser. vano nel mondo organico? Tenta, dico tenta e non a caso, di risolvere il massimo numero di problemi organici? La sua formola è tanto generale da dare la spiegazione della genesi dei fatti più importanti in Biologia? Pone esso tutti i problemi di origine? L'idea del trasformismo era già vecchia; C. Darwin non ha fatto che togliere da tale veduta tutto ciò che poteva sembrare estraneo alla scienza. Ed è stata l'impronta scientifica da lui data a tal genere di studi che ha fatto sì che le scienze ausiliarie concorressero a controllare i risultati già per altra via ottenuti. M a la selezione naturale non spiega tutti i fenomeni organici e molto meno connette questi coi fenomeni fisico-chimici.Di qui il bisogno che si è sentito di fare l'integrazione, come si è detto, della teoria darwiniana:siècompletata,sièperfezionata,aggiungendovi molti altri elementi che l'hanno trasformata tutta. Essa, ridotta ad una teoria pretta mente scientifica, non offre quell'universalità propria di una teoria filosofica. È per questo che l'integrazione non concerne elementi accessori,ma riguarda la sostanzialità di essa. Per il Darwin, invero, dalla carestia dipenderebbe la variazione, mentrechè si è notato che il primo fondamento della varia zione risiede nell'opera della nutrizione, la quale riesce ad un accrescimento della sostanza vivente, per quel processo naturale onde essa, col concorso favorevole dei mezzi dell'ambiente esterno, accoglie in sè nello stadio evo lutivo più di quello che non perda. Dall'abbondanza dei mezzi nutritive -- Cfr. MORSELLI, Lesioni di Antropologia L'Uomo secondo la Teoria dell'Evoluzione, Dispense --  come ha notato il Rolph, dalla prosperità, non dalla miseria, dipende la variazione, l'accrescimento della materia organizzata. Questo accrescimento, segnando in pari tempo una conquista di nuovi caratteri ed una divisione di attività e di attinenze, si porge come svolgimento, come progresso. Giova notare anche qui che la prima storia della vita comincia dal rispecchiare le condizioni dell'ambiente ove essa si svolge. Innanzi alla lotta coi rivali l'essere organizato deve, di contro alla varietà degli agenti esterni, conquistare il suo posto. La legge della concorrenza non può essere il primo sostegno dell'evoluzione biologica:èsolounepisodiodiquesta.La leggemalthusiana deve essere mantenuta in confini più giusti, poichè il rapporto della ripro duzione di fronte ai mezzi dell'esistenza, cangia, si trasforma col perfezio namento degli organismi. Chi voglia persuadersi di primo acchito come siano essenziali gli ele menti introdotti nell'integrazione fatta della teoria darwiniana, non ha che a volgere uno sguardo a ciò che tanto lucidamente ha scritto l'Angiulli nella parte biologica della sua sintesi cosmica. Egli, guardando sempre le cose da un punto di vista generale, cerca sempre di connettere e di scovrire i rapporti esistenti fra le cose, mentre il Darwin, puro scienziato, non vi presenta che serie di osservazioni con le rispettive dichiarazioni, senza mai tentarediunificare.L'Angiulli,peresempio,vidicechebisogna ricon durre i principii e le leggi esplicatrici della derivazione delle specie all'effi cacia delle funzioni stesse della vita nutrizione e riproduzione adat tamento e trasmissione ereditaria. La legge dell'evoluzione biologica sarebbe la stessa della Fisiologia, dilargata nello spazio e nel tempo. A base del l'evoluzione biologica rimane quella virtù della variazione che scaturisce dalla complessità e dall'indefinitezza della composizione della materia orga nizzata. Cosi l'ultimo principio esplicativo delle forme e delle proprietà degli esseri viventi si trova in un cangiamento chimico. La trasmissione ereditaria si risolve in una semplice partecipazione di proprietà chimiche. Si è sentito il bisogno di ricorrere ad altri ausiliari per la dichiarazione del mondo organico, facendo sempre l'applicazione del principio posto, che bisogna spiegare la derivazione delle specie mediante l'efficacia delle fun zioni stesse della vita. Così anche la sensibilità e la motilità, se sono fun zioni integranti della vita, debbono avere un'efficacia trasformatrice degl’organismi. Senza gli stimoli della irritabilità, dice Virchow, non vi ha lavoro organico, nessuna assimilazione di materia formativa, nessuno svolgimento. Inoltre, come le attività e i rapporti della vita si accrescono e si moltiplicano, si accrescono e si moltiplicano del pari i fattori della varia zione.Ed a misura che i singoli fattori si elevano, nello svolgimento della vita, ad una forma più alta, acquistano un'efficacia trasformatrice sempre maggiore. Perd dobbiamo attribuire col Virchow alle forme più elevate della sensibilità e della motilità, al pensiero ed all'azione volitiva una m a g giore efficacia trasformatrice e perfettiva degli organismi concreti. Coi fatti della sensibilità e del movimento è congiunta nella sostanza organica la disposizione a riprodurli, che fu detta memoria, ed è il fonda mento dell'abito, senza di cui sarebbe impossibile la variazione degli esseri viventi. In tale proprietà va implicato quel processo di coordinazione o ag gruppamento degli effetti dell'esperienza che altri ha considerato come nota speciale dell'intelligenza. All'occasione di un sol termine di una relazione di un gruppo, dato da una sperienza presente, si riproducono anche gli altri termini non dati,ma con esso congiunti.Ora,l'anticipazione immaginativa è una condizione essenziale dei progressi della variazione perfettiva. La varia zione non avviene soltanto come effetto di azioni o di stimoli presenti, per manenti,ma avviene anche in anticipazione di azioni non presenti;non vi è un adattamento a relazioni attuali, ma benanche un adattamento a rela zioni future e previste. L'interna attività della rappresentazione anticipativa è sufficiente per sè a produrre una certa modificazione della struttura orga nica in anticipazione della funzione.Così si ristabilisce una specie di finalità negl'intimi svolgimenti della vita, rilevando l'efficacia dell'attività intellet tiva come fattore della trasformazione delle specie. Oltre all'adattazione per opera dell'immaginazione anticipativa, vi ha un'adattazione più specialmente intellettuale, perchè riguarda circostanze nuove e non previste,e non si riconosce in un abito già formato. Questa specie di adattazione selettiva o raziocinativa si appalesa gradatamente nella serie degli organismi, comin ciando dai più bassi, m a senza di essa sarebbe inesplicabile l'acquisto di molti istinti el inesplicabile il progresso della vita animale. La varia zione, per esser progressiva e perfettiva, non può essere accidentale, abban donata alla pura lotta esterna degli organismi, ma deve essere promossa da una funzione coordinatrice ed anticipatrice delle relazioni dell'esistenza. Ora domando: Dopo un'integrazione di tal fatta, la quale si potrebbe chiamare la filosofia della trasformazione delle specie, perchè riunisce sotto un unico principio, giusto o falso che sia, tutti i vari elementi che concor. rono alla derivazione delle specie organiche, che cosa è divenuta la teoria darwiniana vera e propria, quale uscì dalla mente del suo autore? Niente altro, mi pare, che un caso particolare della grande legge della variazione organica. Già Darwin stesso confessa che egli rifugge dall'occuparsi dei problemid'origine,equindi di quellid'ordine generale;eppure,chivuol fare la filosofia della natura organica non può fare a meno di trattare la que. stione della genesi della vita, come di penetrare nella natura intima dei fenomeni implicati in essa,quali la nutrizione,la crescenza,la riproduzione, lasensibilità,lamotilità,lavariabilità.E l'Angiulli,chehaintesodi porgere le linee principali di una sintesi biologica, ha trattato a modo suo tutte codeste questioni. Potrà essere discutibile la soluzione data del problema, ma questo va sempre messo col tentativo della discussione. Alla teoria darwiniana manca per questo ogni individualità propria, e può entrare nei sistemi filosofici più diversi; individualità e precisione che (1)Qui espongo semplicemente l'integrazione della teoria darwiniana offertaci dal l'Angiulli, non ne faccio la critica, perchè ciò non risponderebbe allo scopo che mi son proposto più sopradimostrare come il Darwinismo sia una pura teoria scientifica, non filosofica. Dirò solo che sarebbe oltremodo necessario precisare sia l'immaginazione anticipativa organica che l'adattazione raziocinativa. le vengono impartite dall'integrazione fattane, la quale racchiude un pensiero filosofico. Il concetto della selezione è per se stesso abbastanza elastico,e si presta alle più disparate interpretazioni, ond'è che per vedere un concetto filosofico in essa,la si è più o meno piegata alle proprie idee. La selezione, si è detto, è il fatto stesso della variazione prodotta dal complesso delle attinenze e delle condizioni interne ed esterne dell'essere vivente: è un'espressione a b breviativa di tutte le condizioni interne ed esterne di esistenza: non è la causa della variazione, ma è l'espressione di essa.La selezione, si è anche detto, non deve circoscriversi a significare l'accumulazione di quelle varia zioni che sono utili nella lotta coi competitori, ma deve essere intesa in un senso più generale, cioè come quell'aspetto della variazione che rende l'or ganismo atto a sopravvivere,come espressione metaforica del fatto che ogni equilibrio di forze meglio adatto a sopravvivere, sopravvive. Intesa a questo modo,rispondo io,la selezione naturale diviene un con cetto astratto, una forma vuota,e non più una legge concreta e produttiva, o,meglio,esplicativa dei fenomeni. Se essa non ci si presenta come un con cetto definito e preciso, si può lasciarla impunemente da parte. Ma è poi vero che nella mente del Darwin la selezione naturale significasse ciò che vogliono alcuni filosofi d'oggi? A me non pare: per lui era la legge dell'e voluzione organica. Aggiustarla ora in varie guise prova sempre più l'inde terminatezza delle vedute darwiniane, rileva la poca esattezza da parte di chi sconvolge le idee, ed in ogni caso è reso sempre più certo il fatto che la teoria darwiniana vera e propria è perfettamente estranea alla Filosofia. L'ultima parte dell'opera dell'Angiulli riguarda l'etica; vi si trova la giustificazione completa del titolo La Filosofia e la Scuola. Dirò solo che codesta parte non è inferiore alle altre da qualunque punto di vista si voglia considerare. Ora non mi è concesso discuterla; spero di farlo in altra occasione,ma non concluderò senza affermare che questo dell'Angiulli è fra i lavori filosofici dell'ultimo decennio, di cui maggiormente possa onorarsi il pensiero italiano.  sono, come l'Ente, altro che umane astrazioni. Noi non conosciamo il pensiero se non come un'attività, una funzione dell'umano organismo. Però lo spirito assoluto, e tutte le altre entità metafisiche sono una produzione di questa umana attività, un fenomeno psicologico. Vale dunque solol'opposito diciò che affermavaHegel:in luogo cioè di essere la natura e la materia una manife stazione del pensiero, egli è il pensiero una m a n i fesiazione della natura e della materia. Oltre alla materia non vi ha altro principio. Il materialismo ed il naturalismo è dunque ad un tempo la conse guenza e la confutazione dell'eghelianismo.Questa specie di dialettica della dialettica egheliana è un fatto storico,ilcui maggiore autore fu il Feuerbach,  12 M W L'io assoluto dell'Hegel, cioè il pensiero e lo spirito assoluto, affermato c o m e principio e verità di tutte le cose,non è altro che la massima di Pro tagora spogliata del carattere d'individualismo. Se Protagora esprimeva esagerato un fatto reale, H e gel esprime esagerata un'astrazione spiritualistica, che non è meno relativa del relativismo sofistico. Feuerbach tornaall'uomo concreto.L'uomo èan cora per luiilcentro della filosofia,ma nè più co m e l'individuo arbitrario dei sofisti, nè più come l'universale astratto dell'Hegel, si bene come tutto l'uomo,come sensibilità e come società. Di con tro all'idealismo si riafferma il realism. Solo  Però l'astrazione è produzione di nuovi concelli solo in quanto è trasformazione di precedenti.Anche per la psicologia moderna vale ciò che vale per la geologia modern a; le funzioni ed i prodotti psicologici sono spiegabili con le stesse forze fisiche e fisiologi che,con l'aggiuntadelfattoredeltempo.L'eredità. psicologica è un altro fatto accertato dalla scienza moderna e capace di recare molta luce in siffatte quistioni. Noi non facciamo che continuare le atti iudini e le conquiste del passato. Ilprogresso è l'educazione dell'umanità;la civiltà è un risultato d'esperienza, e non un miracolo di rivelazioni. Ma con tutte queste aggiunte e modificazioni dell'empirismo voi, si dirà,non potrete mai elevarvi sopra la sfera del sensibile;ossia le cause che voi potete ricercare non possono essere che altri fatti primitivi;eleleggichevoipotetescoprirenon pos sonoessere altro,che le relazioni costanti dei fatti. Precisamente questo: così l'uomo moderno ha in sè stesso il suo punto di appoggio, e la storia ha in sè stessa la sua legge, senza bisogno di entità teologiche o metafisiche che la dirigano, come la natura ha in sè stessa l'energia ed il principio della sua esistenza e della sua spiegazione. La natura fondamento della natura, ecco il grande principio della cultura ccidentale (ουδένάνευφύσιοςγίγνεται,γίγνεται 27.12.çúcevēxo.oto.). Allora ricadetenel positivismo schiell. No, perch è se il positivist a r i l i c n e come. Opere: “La filosofia e la ricerca positiva: quistioni di filosofia contemporanea”; L'idealismo assoluto confutato dal materialismo. L'idealismo ed il materialismo nel corso della storia della filosofia. La filosofia greca. La filosofia naturale dei romani antichi. La fondazione della scienza positiva. Il medio evo. Il risorgimento italiano. La filosofia moderna. Il secolo XVIII. Il criticismo di Kant in Italia. La filosofia speculativa. La ricerca scientifica. La critica filosofica e la scienza positiva. La filosofia positiva -- il positivismo filosofico in Italia. Che cosa manca al positivismo filosofico. Gli altri sistemi contemporanei. Vacherot, Renan, Taine, Comte, Mill, Littré. La filosofia come ricerca positiva.– V.La filosofia e la storia.   “Gl’hegeliani e i positivisti in Italia e altri scritti inediti”(Savorelli); Pubblicazione dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria". Gli hegeliani e i positivisti in Italia. Positivismo e socialismo. Problemi di etica; Evoluzione, educazione e società. Il prof. Haeckel e la pena di morte. Dal carteggio di Andrea Angiulli". Collezione "Studi".  “La pedagogia lo stato e la famiglia”;  Natura complessa della quistione sociale. Riguardalari or ganizzazione della cultura nei diversi strati della socie tà. Problema dell'educazione. Antinomie dei sistemi pedagogici. Una Pedagogia scientifica è resa impossibile dalle dottrine della teologia e dell'ontologismo. La teoria dell'educazione presuppone la legge dello svolgimento nel campo della biologia e della sociologia. L'attuazione di un sistema scientifico dell'educazione nazionale presuppone la costituzione dello Stato libero, il trionfo libertà e di ordine. Appartiene agli uffici dello Stato. L'istruzione scientifica. La scuola laica. L'eliminazione del catechismo non rende la scuola antireligiosa. Non vi ha conflitti tra la scienza e la religione in generale. La perfezione religiosa deriva dai progressi della scienza. La scienza la religione e la morale. La scienza e l'arte. La scienza e la quistione economica. La scienza e la quistione politica. Difficoltà per l'attuazione del l'istruzione scientifica. La riorganizzazione delle scuole normali. Le condizioni dei maestri elementari. Insufficienza dell'azione diretta dello Stato. La famiglia. L'opera della madre. Il punto culminante del problema. L'istruzione richiesta nella donna per compiere il suo ufficio di sposa, di madre, di educatrice. Insufficienza dell'istruzione per migliorare il carattere e la condotta umana. Una dottrina di H. Spencer. Il Lewes.Verità  della politica scientifica. L'educazione è un dovere nazionale. È un principio di   VIII parziale di questa dottrina. È anche vero che l'istruzione determina gli affetti e conferisce al perfezionamento morale e pratico. Il Luys. Il Littré. Il nostro discorso rimane saldo ad ogni modo. Ammesso come vero che la condotta sia determinata dalle associazioni del sentimento, rimarrà vero che solo dalla conoscenza delle leggi onde si formano coteste associazioni, cio è solo dall'istruzione scientifica dipenderanno in ultima analisi gl'indirizzi dell'operare, il miglioramento morale dell'individuo e della razza. “La filosofia e la scuola” La quistione fondamentale della filosofia. Rapporti tra le scienze e la filosofia rispetto alla conoscenza della realtà. L'unità dell'oggetto e del processo conoscitivo. La filosofia non è una pura somma de' risultamenti delle scienze. Le scienze generano la filosofia. La moltiplicazione delle scienze agevola l'opera della filosofia. Tre modi d'intendere quest'opera della filosofla riguardo alle scienze. La filosofia è una ricerca progressiva, e può scoprire verità di un ordine superiore. Il *fondamento esplicativo* delle scoperte scientifiche è dato dalla filosofia. Influenza reciproca della scienza e della filosofia nel corso della storia. La filosofia come dottrina generale della conoscenza e della scienza. Medesimezza di natura tra la conoscenza comune, la scienza e la filosofia. Relazione storica della logica o dialettica e delle scienza. Classificazione della scienza. Dottrina del Comte. Rapporto delle scienza astratta e della scienza concreta. Un concetto della filosofia più compiuto di quello del Comte. La dottrina dello Spencer. Gli stadi dell'evoluzione cosmica e la clas sificazione della scienza. Il posto della psicologia filosofica nella classificazione della scienza. Bain, Spencer. La ricerca *meta-fisica* come *compimento indispensabile* della scienza e della dottrina della scienze. Lacuna del Comte. Il lato *logico* o dialettico ed il lato *cosmo*-logico della meta-fisica. La ricerca delle origini e degli elementi generativi dei fatti è una nota caratteristica della scienza e della filosofia. Contraddizione del Comte. Il Littré. L'inconoscibile dello Spencer. Il lato metafisico dell'etica. La religione dell'umanità e dell'inconoscibile. Sistema e speculazione. IV. Il problema della critica. Ladottrina del Kant si muove sopra un supposto *non*-critico. Gli elementi della conoscenza. Il molteplice. I problemi della filosofia,   della sensibilità. Le forme dello spazio e del tempo. Le categorie del l'intelletto. L'attività sintetica originaria della mente. La funzione sopra-individuale della conoscenza. Critica della dottrina kantiana. Il neo kantiani e i vetero-kantiani. I neo-criticisti e i vetero-criticisti. La critica e la psicologia filosofica. Il Liebmann, il Riehl, il Goering, il CARNERI. Il positivismo francese. John S.Mill. I Spencer, Lewes. La critica dell'esperienza e la dottrina della conoscenza. Il falso supposto dualistico della vecchia critica. L'unità dell'io è un'illusione metafisica. La genesi della coscienza. L'embriologia mentale. Le facoltà psichiche sono una derivazione dell'esperienza. Gli elementi dell'esperienza debbono ricercarsi col soccorso dell'esperienza stessa. Le esperienze incoscienti. Le leggi della vita e le leggi dell'esperienza. Il senso e l'intelletto. La sensazione e la coscienza. L'attività trasformatrice dell'esperienza. L'esperienza ereditaria e l'esperienza individuale. L'esperienza abbraccia tutt'i lati della mente. La legge dell'esperienza e la legge dell'associazione. L'esperienza individuale e l' ESPERIENZA sociale e COLLETTIVA esperienza collettiva. L'esperienza storica. La psicologia sperimentale e la dottrina della conoscenza. Le leggi della sensazione e del pensiero. L'elemento a priori della conoscenza è un prodotto dell'esperienza stessa. Trasformazione dei gradi più bassi della conoscenza mediante le attività più elevate della mente. La genesi dei concetti e delle categorie. Le note della necessità e dell'universalità della conoscenza. Il principio della regolarità nell'ordine della realtà. Il realismo sperimentale. Le proprietà del reale. Lo spazio ed il tempo. Il fatto, la legge e la causa. La metafisica. La dottrina dell'evoluzione cosmica. Il problema intorno alla concezione del mondo. Sguardo storico della dottrina dell'evoluzione cosmica. I fattori della dottrina scientifica dell'evoluzione. Gli elementi primitivi della materia e della forza. La sostanza e il divenire. Due lati di un unico problema. Interpretazione più esatta del processo di evoluzione. L'evoluzione biologica. L'origine della vita e della mente. Le pro prietà capitali dell'essere vivente. La nutrizione, la riproduzione, la sensibilità, la motilità. L'origine delle specie viventi spiegabile mediante l'azione delle attività fondamentali della vita. La dottrina del Darwin. Estensione del principio della lotta per l'esistenza. La selezione è il *risultato* non la causa della variazione. L'efficacia dell'elemento psichico. L'*evoluzione sociale*. La legge dell'associazione nel seno della biologia. *Formazione della società etnica*. Struttura e funzioni dell'*organismo sociale*. Esagerazione dell'analogia biologica. La dottrina del Comte e dello Spencer. Dallo studio degl'individui non si può ricavare l'esplicazione del fatto sociologico. I fattori che determinano la differenza specifica e qualitativa del fatto sociologico. Il consentimento volontario e la creazione di prodottiche debbono essere appresi. Rapporti tra i prodotti della cultura nello svolgimento progressivo della vita sociale. La dottrina dell'Etica. La sociologia mette capo al problema dell'etica. La dottrina del l'etica compie il concetto della filosofia. Nell'etica si accoglie un problema di un significato cosmico. L'etica e la religione. La dottrina dell'evoluzione è il fondamento più saldo e perfetto dell'etica, ed è il fondamento di una nuova religione. La religione nella sua forma primitiva è una scienza nascente. Gli elementi costitutivi della religione. Il lato pratico, il lato estetico. La legge morale e la legge dell'ordine cosmico. Il fatto morale è il *prodotto* no n il presupposto dell'evoluzione. L'ottimismo e il pessimismo. Il concetto d'evoluzione e la nuova dottrina del migliorismo. La base biologica sociale storica dell'etica. Il fattore dell'ideale nell'etica e la quistione della libertà umana. La libertà è un prodotto sociale e storico. L'educazione rinnovatrice dell'esistenza sociale è una funzione dell'etica. L'educazione nel suo metodo e nel suo contenuto scientifico. Opinione dello Spencer. Le materie dell'istruzione designate dai fini della vita. Il loro ordinamento conforme allaclassificazione delle cognizioni scientifiche. Il fine dell'istruzione non si raggiunge se non si porge una intima connessione tra i diversi rami degli studi. Questa connessione è l'opera della filosofia. La filosofia nei diversi gradi della scuola. Gl’insegnamenti della scuola primaria debbono essere animati da uno spirito filosofico per raggiungere la loro efficacia educativa. Lo studio della filosofia nella scuola media. Trasformazione di questa scuola secondo i bisogni della cultura moderna. Lo studio della psicologia nella scuola media. La teorica della conoscenza. Lo studio della filosofia all'università. Efficacia pratica e sociale di questo studio.  Curiosità Al professore è stata intitolata, nel 1906, la Società Ginnastica Angiulli di Bari. Note  E. Garin, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Andrea Angiulli, La filosofia e la ricerca positiva, Napoli, tip. Ghio, 1868,  97 e seg. e 150 e seg.  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, 200515.  Luigi Volpicelli, La Pedagogia: storia e problemi, maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento, ed. Piccin, 1982, p.168 A. Espinas, La Philosophie expérimentale en Italie. Origines-Etat actuel,Paris 1880,  82-88. F. Alterocca, Sulla vita e sulle opere di A. A.,Milano 1890. G. A. Colozza, A. A., in Diz. illustrato di Pedagogia, Milano 1891, I,  31-40. G. M. Ferrari, Il Liceo Vittorio Emanuele II di Napoli, all'esposizione universale di Parigi del 1900, La cattedra di filosofia, Napoli 1900,  CXXXVI-CXLVI. F. Orestano, A. A., Roma 1907, (con ). G. Gentile, La filosofia in Italia dopo il 1850III. I Positivisti. V. A. A., in "La Critica", VII (1909),  97-120 (e in "Le origini della filosofia contemporanea in Italia", II, Messina 1921,  123-53). G. Flores D'Arcais, Studi sul positivismo pedagogico italiano, Padova 1953, passim. U. Spirito e F. Valentini, Il pensiero pedagogico del positivismo, Firenze 1956, passim. R. Tisato, Positivismo pedagogico italiano,  II, Torino 1976,  65-101. A. Savorelli, Positivismo a Napoli. La metafisica critica di A. A., Napoli 1990. G. Oldrini, Idealismo italiano tra Napoli e l'Europa, Milano 1998, cap. VIII. M. Donzelli, Origini e declino del positivismo. Saggio su Auguste Comte in Italia, Napoli 1999,  141-177. G. U. Cavallera, A. A. e la fondazione della pedagogia scientifica, Lecce 2008.  Positivismo Pedagogia Famiglia Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Andrea Angiulli Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Angiulli Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Andrea Angiulli  Eugenio Garin, Andrea Angiulli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Andrea Angiulli,.  Andrea Angiulli, in L'Unificazione, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia Istruzione  Istruzione Filosofo del XIX secoloPedagogisti italiani 1837 1890 12 febbraio 2 gennaio Castellana Grotte NapoliMassoniProfessori dell'BolognaProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Angiulli. Keywords: la dialettica della dialettica; l’antisignano del positivismo filosofico – metafisica critica – l’organismo sociale, il fatto sociale, la collettivita, il fatto collettivo, il fatto sociale – la societa, la collettivita, la collettivita etnica, la razza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Angiulli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51711772279/in/photolist-2mTna1x-2mNaxw3-2mMAmhF-2mKE4L3-2mFd1fG/

 

Grice ed Annunzio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescara). Filosofo. Grice: “I will call him a philosopher.” D’Annunzio e il fascismo è una storia italiana. I Contemporanea. L’Illuminismo oscuro Il rapporto tra il vate e il fascismo è molto più complesso e burrascoso di quanto si pensi: un poeta buono nell'infondere emozioni e a forgiare l’immaginario collettivo, ma che poco ha a che spartire con Mussolini e la dottrina fascista.  Difficile trovare un personaggio più divisivo di Annunzio. O lo si ama o lo si odia. Chi lo ama, solitamente, sa vagamente perché. Chi lo odia, il più delle volte, non ha idea della ragione. Pochi si addentrano nel personaggio, nelle opere, nella biografia, nella sua filosofia, e finiscono per apprezzarlo per le sue magnificenze e contraddizioni, senza amarlo né odiarlo. L’uomo presenta slanci superbi e difetti inemendabili, che si elidono e restituiscono l’immagine di una persona straordinaria.  Propaganda Filippo Tommaso Marinetti. Come si seducono le donne Manuale di seduzione futurista. Coraggio, coraggio, coraggio: ecco l’afrodisiaco supremo della donna! Una celebre contraddizione di Annunzio fu l'adesione al fascismo. La questione viene spesso relegata a una semplicistica organicità del vate al regime e alla sua dottrina politica, cosa che lo rende – come se interventismo, erotomania, morosità, dissolutezza e tossicodipendenza non bastassero – inviso e disprezzato dai più. Dire che Annunzio fosse un antifascista sarebbe un’esagerazione fuori luogo, dire però che fosse un fascista fatto e finito è altrettanto un errore, perché ben poco condivideva di quella dottrina e certo non fu amico di Mussolini. Il personaggio e le sue scelte sono figli di quel tempo complesso, e della lacerante crisi che l’Italia vive. Proiettiamoci allora con l'anima in quegli anni terribili.   Cartolina disegnata da E. Anichini per il centenario dantesco. Si vede l’Italia tra Dante e Annunzio, in una specie di simbolico passaggio di consegne. Il vate, nella mano destra un fascio curiosamente capovolto, è rappresentato come la più illustre personalità d’Italia: colui che, come Dante unifica linguisticamente lo Stivale, lo unifica con la forza della parola e delle mani. È una cartolina pubblicata per conto dei fascisti, in cui di Mussolini non si fa la minima menzione. Per tutti, se un duce ci è non può che essere Annunzio. È finita la Grande Guerra e l’Italia è sull’orlo di un altro conflitto, una guerra civile. I reduci sono delusi e arrabbiati, sia i cosiddetti interventisti democratici – quelli che intendeno portare il popolo in armi alla liberazione dei compatrioti sotto dominio straniero –, sia gli interventisti nazionalisti – coloro che auspicano che l’Italia, sconfiggendo lo storico rivale dispotico e arrogante, potesse sedere al tavolo delle grandi potenze – si trovano a stringere un pugno di mosche: alle trattative per la pace l’Italia ottiene ben poco ed è trattata con sufficienza. Tre anni di combattimenti, 600 mila caduti e la vittoria sul campo non garantiscono quanto era stato promesso nel Patto di Londra -- è la vittoria mutilata. I nazionalisti insorgono. Annunzio ha occupato Fiume e la tiene fino a quando lo stesso governo italiano bombarda la città mettendo fine all’avventura della Reggenza Italiana del Carnaro. Come se non bastasse, in Italia scoppiano scioperi e rivolte. Gl'operai si ribellano, occupano le fabbriche, erigono barricate. Scioperano gli agrari, i sindacati si mobilitano, le piazze sono in tumulto, il Partito Socialista si agguerrisce: si compie il biennio rosso, che culminerà, almeno simbolicamente, nel Congresso di Livorno, quando la corrente massimalista del Partito Socialista secede, dando vita al Partito Comunista. I fascisti seminano violenza in tutta la Val Padana e anche oltre. Si scagliano contro i socialisti e le loro sezioni, contro gl'operai, i contadini, i comuni amministrati dalla sinistra. Sono il primo antidoto repressivo al biennio rosso. Obiettivo prestabilito: i rossi, la canaglia bolscevica, i pacifisti traditori. Uniti nella lotta, socialisti, comunisti e anarchici fronteggiano un nemico comune, le squadre di camicie nere.   La classe dirigente liberale è impotente, il parlamento litigioso e inconcludente, i politici non hanno consenso: le trattative di pace sono state condotte con scarsa convinzione e l’amministrazione pubblica è allo sbando. La gestione dell’ordine pubblico è quasi inesistente, tanto che frange dell’esercito, delle forze dell’ordine e alcuni prefetti iniziano a simpatizzare coi fascisti: almeno loro riescono a garantire un minimo di ordine, seppure in maniera inadeguata a uno stato di diritto.  Qui si incastra una doppia illusione. Da un lato, parte della borghesia industriale e agraria foraggia i fascisti in funzione anti-rivoltosa, contro i propri stessi lavoratori indisciplinati. Dall’altro, la classe politica *liberale* ritiene che queste squadre di *incolti picchiatori* siano utili a mantenere ordine e a prevenire una possibile rivoluzione socialista, e che spariranno a breve come tutti i fenomeni pittoreschi, capeggiate come sono da cinici opportunisti, violenti agitatori e da un parolaio magico. Gl'uni e gl'altri credono di potersi servire di questo movimento finché lo si farà durare, per i propri comodi.   Annunzio legge nella Capponcina -- è noto per le opere letterarie, i saggi filosofici decadentisti, le avventure amorose e per il suo gusto nel bel vivere. La guerra, Fiume e le folle sono di là da venire. A questa età, Mussolini si appresta a diventare capo del governo. In tutto ciò Annunzio *è l’italiano più famoso all’estero* e più influente in patria. La parola del Poeta non è quella di uno scrittore o un politico normale. Annunzio è un *eroe di guerra*, è l’artefice dell’Impresa di Fiume. Occupa le prime pagine dei giornali di tutto il mondo -- è uno scrittore acclamato, il più tradotto, il più amato e il più odiato. Ha un seguito enorme, migliaia di sostenitori appassionati, reduci di guerra e ammiratori comuni, e centinaia di legionari fiumani legati a lui da giuramento -- è un uomo che può raccogliere attorno a sé migliaia di fedeli, persone che tra le altre cose conoscono le armi. È un uomo pericoloso. Quando arringa, unisce; quando dileggia, divide. È bipartisan il Vate, piace a tutti e non appartiene a nessuno -- è inserito fino al collo nell’ALTA SOCIETÀ, piace agl'ARISTOCRATICI -- è un fervente patriota, beniamino di tanti nazionalisti. Ha incassato la stima di Lenin e in alcuni momenti pare davvero un rivoluzionario, per questo lo osservano diversi proletari.  Lo vorrebbero con loro anche molti fascisti. Ma Annunzio non ricambia il favore ai demagoghi che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia sordida. È un ottimo momento, ma il Vate temporeggia. Stanco, disilluso, disgustato dalla politica e dal governo *liberale* che gli ha tirato addosso le granate, a lui che, *monarchico* e patriota, vanta sette medaglie al valore. Si è ritirato nella villa di Gardone, sul Lago di Garda, e sostiene che  non c’è oggi *in Italia* nessun movimento politico sincero, condotto da un’idea chiara e diretta. Perciò è necessario che noi facciamo parte di *noi stessi*, immuni da ogni mescolanza e contagio. Annunzio osserva il caos in cui l’Italia versa e decide di non gettarsi nella mischia. Lui ha già combattuto, non è questo il suo terreno. Spera in fondo che un giorno non lontano tutta Italia lo richieda a gran voce come paciere, novello *dittatore romano* che scongiura la guerra civile. Ha tutte le carte in tavola ma non le sfrutta. Dice di sé. Mi auguro di essere la persona alla quale un giorno si penserà dicendo: Avanti! Non resta che lui!  I fascisti credono sia arrivata la loro ora, ma manca un vero condottiero. Mussolini è l’ideologo, l’*inventore* del movimento, ben lontano dal diventare il *duce degli italiani*. Colui che in questo momento viene acclamato come *duce dalla gioventù* è Annunzio, il condottiero che deve portare al potere *la giovane Italia* nata nelle trincee, scalzando la pletora di politici vecchi e mercanteggianti che hanno vinto la guerra non per merito loro e hanno svenduto la patria allo straniero. Annunzio ha il carisma, il seguito, la statura culturale per trascinare i giovani e i reduci a Roma, compiendo quella rivoluzione italiana che *nulla ha a che fare con la rivoluzione bolscevica*. Ci sperano i suoi seguaci, meno lo agogna lui. Annunzio è però anche un cialtrone, un oratore capace di trascinare le folle nei momenti bui ma del tutto inadeguato alla politica intesa come mediazione e governo quotidiano. Ciononostante vanno in molti a bussare alla sua porta.  Contemporanea Nicola Maiale In Fiamme Violenza politica in Italia dalla belle époque alla marcia su Roma. Mussolini sigla il patto di pacificazione coi socialisti, che prevede la rinuncia bilaterale alla violenza e la *costituzionalizzazione* del movimento fascista, e all’interno dello stesso movimento le polveri esplodono. "Chi ha tradito, tradirà" si legge sui manifesti affissi dagli stessi fascisti a Bologna. L’ovvia implicatura è al tradimento del Mussolini socialista. La massa fascista, le squadre e i rispettivi ras, ripudiano la guida di Mussolini, che ricambia con le dimissioni (rigettate) e affermando che quello che era un movimento ideale si è trasformato in una banda armata al servizio del capitale. Mussolini è politicamente fuori gioco e i ras invocano il duce che è tornato da Fiume da pochi mesi. Dino Grandi e Italo Balbo si incaricano dell’ambasciata a Gardone per offrirgli la guida del fascismo. Annunzio rifiuta nettamente, senza rispetto, e i due se ne vanno sdegnati. Anche Gramsci compie il pellegrinaggio! Non si sa quale sia la proposta perché Annunzio rifiuta di incontrarlo poiché, dice,  non posso lasciarmi imporre i colloqui.  Forse Gramsci vuole trascinare il poeta nel Partito Comunista, più probabilmente proporgli di unire i suoi legionari alla resistenza antifascista. Perché si sa che Annunzio non ama i fascisti, seppure con una certa ambiguità, e il disprezzo è ancor più motivato dai toni che in quel momento Mussolini assume nei riguardi del Vate, quando smette la riverenza e dice apertamente che le iniziative politiche di Annunzio sono irrilevanti, che egli è inaffidabile e capriccioso, inservibile e intrattabile. Non ha tutti i torti. Annunzio sarà anche stato l’eroe di guerra, il condottiero che prende Fiume in armi e la tiene per un anno e mezzo, ma è pur sempre un poeta, un dandy *narcisista* e *dissoluto*, uomo adatto alle arringhe, a infondere emozioni e volontà, a forgiare l’immaginario collettivo, ma di cosa sia la politica non ne ha idea e non vuole saperne nulla, disgustato com’è da tutto e tutti, desideroso solo di crogiolarsi nella sua solitudine e tornare ad essere quel che era, un operaio della parola, come ama sempre definirsi.   I due personaggi appaiono quanto mai diversi. In questa immagine si ritraggono un Mussolini primo *deputato* fascista, *sguardo severo* e *abbigliamento scuro*, minaccioso nell’espressione, e un Annunzio in uniforme, gli occhi persi nel vuoto, indubbiamente più affascinante, ma *meno granitico*. Nel periodo precedente la marcia su Roma Annunzio mostra particolare ostilità al fascismo. Dopo il fallito tentativo di Gramsci, sono ricevuti i capi della CGIL e persino Čičerin, commissario sovietico agli Affari esteri, tutti per attrarlo nell’orbita antifascista. Ma le parole faticano a trasformarsi in fatti. Di agire stivali sul terreno non se ne parla. Si fa vivo addirittura Nitti, il Cagoja, l’odiato primo ministro dei tempi fiumani, che gli scrive:  bisogna unire tutte le forze per finire questo regime di stupidità e di violenza, per riportare l’Italia ai suoi ideali di democrazia, di libertà e di lavoro. Non m’importa di me. Tu vedi il pericolo e puoi agire sulla *gioventù*, infiammandola e riportandola al buon sentiero.  Francesco Saverio Nitti Il momento di Annunzio è giunto, può mettere finalmente d’accordo le forze in lotta e prendere le redini di un paese nel caos. Viene organizzato un incontro tra Nitti, D’Annunzio e Mussolini. Due giorni prima il poeta cade da una finestra della stanza della musica, dal primo piano del Vittoriale. Sul volo dell’arcangelo, come lo chiama, vede fatta molta *dietrologia* e qui la storia fatta con i “se” potrebbe sbizzarrirsi. Chissà cosa sarebbe successo se si fossero incontrati e Annunzio avesse espresso la sua terzietà e l’opposizione rispetto a un governo fascista. Fatto è che l’incontro viene annullato. Il poeta non lo sa ancora, ma è definitivamente uscito di scena.   La foto ritrae Mussolini come tutti lo conoscono. Non veste ancora l’uniforme ma già fa mostra di tutto il suo stile: attorniato da *camicie nere*, posa con lo sguardo arcigno, la mascella prominente e le mani sui fianchi. Pittoresco e quasi ridicolo all’apparenza, conquista nonostante ciò le folle, armato della retorica altisonante e aggressiva, trionfale e accattivante, che ha in parte imparato da Annunzio. Mussolini va a trovarlo ma non viene ricevuto. Si incontrano ugualmente ma senza risultati tangibili. Ormai i tempi sono maturi, i fascisti vogliono il potere e vanno a prenderselo. Ricorre l’anniversario della vittoria e Annunzio è invitato nella capitale per presenziare le celebrazioni, per questo la marcia su Roma viene anticipata di una settimana. Mussolini teme che il Vate possa effettivamente convogliare alcune correnti in favore del governo e compromettere l’iniziativa fascista. Le squadre imperversano per le strade di Roma. Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare lo stato d’assedio e convoca Mussolini.  Annunzio è ormai un relitto della politica. L’uomo che poteva fare non ha fatto, colui che aveva forze vive, uomini, consenso e autorevolezza, non aveva né l’idea né l’ambizione. Obnubilato dalla sua stessa grandezza, si è rimpicciolito fino all’inutilità. Forse l’aveva proprio cercata questa inutilità, non gli interessava praticare la politica quanto ritrovare se stesso e la sua arte, in solitudine, se è vero che confidò a un amico pochi mesi prima. "Ho voluto ri-entrare nel silenzio, ho voluto essere un capo senza partigiani, un *condottiero senza seguaci*, un *maestro senza discepoli*.  Gabriele D’Annunzio Mesi dopo, uno che per vivere la Grande Guerra ha falsificato la carta d’identità e si è qualificato come giornalista, che aiuta l’esercito italiano in Veneto nel servizio ambulanze, uno scrittore di nome Ernest Hemingway, scrive di Mussolini come del più grande bluff d’Europa. Aggiunge che  sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Annunzio.  Purtroppo per l’Italia, cui nei successivi anni non verranno risparmiate sofferenze e costrizioni, la previsione di Hemingway non si rivela esatta. Un’opposizione è effettivamente incarnata dal Comandante, ma rimane silente, sepolta nelle mura del Vittoriale e dell’incombente vecchiaia.  Comunismo d'annunzio fascismo fiume Gabriele D'Annunzio Italia Mussolini prima guerra mondiale seconda guerra mondiale Socialismo socialisti italiani. La costituzione più bella del mondo. Quella sì, fu davvero “la più bella costituzione del mondo” e non per modo di dire. Per i contenuti, lo stile, la prosa, l’idealità che sprigionava. La Carta del Carnaro non fu scritta da pur insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la nostra costituzione. Fu scritta da un grande sindacalista e rivista da un grande poeta-soldato. Parlo di Alceste De Ambris e di Gabriele d’Annunzio. Fu animata dal confluire di tre grandi energie: l’amor patrio, lo slancio poetico e lo spirito sindacalista rivoluzionario. All’articolo 2 della parte generale, scritta da De Ambris sono condensate tutte le parole chiave della carta: democrazia -- diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, sul lavoro produttivo e sulla sovranità collettiva di tutti i cittadini. È d’Annunzio a parlare nella sua stesura della volontà popolare, del fato latino, e d'evocare il Carnaro di Alighieri, l'estremo confine della civiltà romana, e il culto della lingua. È d'Annunzio a sostituire 'repubblica' con quella più classica 'reggenza' -- intesa come governo del popolo. Fu Annunzio a richiamarsi ai produttori e agl'ottimi. E fu Annunzio a indicare nella bellezza della vita, del lavoro e della virtus, la credenza religiosa collocata sopra tutte le altre, che guida lo Stato.  La forte impronta sociale e popolare della carta non impede il culto aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle arti e delle discipline più nobili, del corpo e dell'anima.  Nella carta è garantita ogni libertà dei cittadini, il voto universale -- è poi ribadita la funzione sociale della proprietà privata ed era disegnato l’assetto delle corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni raccoglievano i lavoratori nelle loro articolazioni (terra; mare, operai, impiegati, liberi professionisti, intellettuali); la decima corporazione era enigmaticamente riservata alla forze misteriosa del popolo in travaglio e in ascendimento, al genio ignoto, all’uomo novissimo, a colui che fatica senza fatica -- è risolto il dilemma tra parlamentarismo e presidenzialismo, riconoscendo centralità al lavoro e sovranità al popolo dei produttori -- è introdotta la figura di un comandante, inteso come il dictator romano, con pieni poteri ma limitati a un breve arco di tempo. Elementi costitutivi della carta sono l’auto-decisione del popolo, la possibilità di indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della civiltà italiana-latina-romana, l’istruzione e l’educazione del popolo come il più alto dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella costituzione come un’istituzione religiosa e sociale. Nel linguaggio d’oggi dovremmo dire che sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della carta del Carnaro. La fusione tra poesia, trincee e sindacalismo è il suo timbro originale. Veniva poi costituita una Lega di Fiume che une in un solo fascio la forze sparsa di ogni. Cerca l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolge anche ai paesi islamici. Annunzio esalta il risveglio dell’Islam, auspice Italia, dispensatrice di diritto e giustizia. Memorabili i discorsi fiumani d'Annunzio che prepararono il terremo alla reggenza del Carnaro e al suo statuto. Da L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. E a Fiume vi rimane davvero. La carta del Carnaro non è il sogno proibito di una città-utopia separata dalla storia e non è nemmeno il frutto di un’avventura velleitaria d'un eroe disoccupato a caccia di emozioni, come l’ha sbrigativamente liquidata Emilio Gentile -- èinvece la visione più lucida e ardita della politica e della società di combattenti che la guerra la fano sul serio. Così De Ambris sintetizzò la carta ad Annunzio. Diamo al mondo l’esempio di una costituzione aristotelico-vichiana-nietzscheiana che in sé accolge ogni libertà e ogni audacia di Platone, facendo rivivere la più nobile e gloriosa tradizione della nostra stirpe italica. Esempio perfetto di rivoluzione conservatrice.Annunzio. Keywords: Alighieri, quarnaro, reggenza, non repubblica, musica, dictator romano, commandante, il fiume, il fiumenismo, sindacalismo, utopia, dystopia, revoluzione conservatrice, implicatura fiumenista, la filosofia in d’annunzio, la carta di carnaro, aristotele, vico, Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Annunzio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51749241873/in/photolist-2mQUoGa-2mQWsyF-2mQT8Uz-2mQT8Ly-2mQXDcP-2mQUoRU-2mQXD1m-2mQUoQ1-2mQUoRJ-2mQNTJ4-2mQNTxs-2mQWsqj-2mQNTK1-2mQWssy-2mQWszh-2mQUoR3-2mQWsDk-2mQT8R8-2mQXD2i-2mQWsxJ-2mQXD78-2mQT8Qb-2mQNTy9-2mQUoNh-2mQXDdq-2mQUoR8-2mQWsqu-2mQWstA-2mQXD6g-2mQWsE7-2mQNTyz-2mQUoGk-2mQNTBL-2mQUoUK-2mQXDeC-2mQT8Hh-2mQWsoR-2mQUoLD-2mQWswX-2mQNTyK-2mQXD2t-2mQT8Lo-2mQUoPz-2mQaKxF-2mPUHFB-2mN8ym7-2mN9XHg-2mN5fBh-2mMR2RR-2mMXAfJ

 

Grice ed Antiseri – solidali – filosofia italiana – Luigi Speranza Foligno). Grice: “Antiseri makes a distinction between what you CAN say and what you MUST ‘tacere’ (i. e. left implicit). Not exactly what I was thinking when I made the explicit/implicit distinction, but similarly! His point is that for Vitters, questions of the mystic – which Antiseri compares to Bonaventura! -- -- ‘la logica di un mistico y la mistica di un logico’! genial – I was thinking more along the lines that ‘You’ve just committed a social gaffe’ is best left implicit (“She is a windbag’) – our of manners, etiquette, and what I call the principle of conversational gentility!” – “So I find the ‘must’ too strong, and change it for a ‘may’ – but in Antiseri’s case, the point is conceptual: you just CANNOT make the mysitic explicit, and there is a need (his word) to keep whatever the mystic is Unexpressed.” Grice: “I like Antiseri, and he indeed quotes me, not only because he MUST, as in his history of contemporary philosophy, but because he LIKES it (cf. Italian piacere) – as surprised I was when I see that when discussing the future of metaphysics within analytic philosophy he relies on my Third-Programme for the BBC!” Grice: “Antiseri reminds me of myself, when he discusses ‘senso commone’ and ‘filosofia anallitica’ and ‘linguaggio ordinario’ – that’s why I used to joke, when lecturing in the New World – and at Welleseley, no less! – about the “Oxford School of Ordinary Language Philosophy”! Grice: “While Antiseri invests a lot to make logic of Austin, he has to because he has posited himself as giving ‘lezione di filosofia del linguaggio’!” Grice: “Most importantly, his key words, such as solidarity, are very much along the lines that base my ‘ethics of conversation’ which is Kantian in spirit --.” Grice: “Antiseri has to fight how to deal with this Kantianism along utilitarian lines, as when he confronts ‘horizontal’ to ‘vertifical’ (i. e. bad) subsidiarity – where a principle of subsidiarity – or respect for ‘il bene commone – gets balanced with the principle of solidarity. A Calvinist approach, to some!” – Antiseri: “It is amusing that Antiseri is forced to defend the relevance of the Romans, where that is taken for granted at Lit. Hum. Oxford!” -- Dario Antiseri (Foligno), filosofo. Originario della città umbra di Spello, si laurea in filosofia nel 1963 presso l'Perugia; ha poi proseguito i suoi studi presso varie università europee sui temi legati alla logica matematica, all'epistemologia ed alla filosofia del linguaggio.  Divenuto libero docente nel 1968 ha iniziato l'insegnamento presso l'Università "La Sapienza" di Roma e l'Siena. È inoltre membro dell'Advisory Board del Centro Studi Tocqueville-Acton.  Dal 1975 al 1986 è stato ordinario di filosofia del linguaggio presso l'Padova mentre, dal 1986 al 2009, ha assunto la cattedra di "Metodologia delle scienze sociali" alla LUISS di Roma per poi ricoprire l'incarico di preside della Facoltà di Scienze politiche della stessa Università tra il 1994 ed il 1998. Nel febbraio del 2002 è stato insignito, assieme a Giovanni Reale, di una laurea honoris causa presso l'Università Statale di Mosca. Collabora stabilmente con il quotidiano Avvenire.  Dario Antiseri ha pubblicato testi didattici di filosofia oltre a testi di divulgazione filosofica e di autori stranieri, in particolare ha contribuito a far conoscere in Italia il pensiero di Karl Popper.  Critiche Il pensiero del professor Antiseri è da tempo sottoposto a critiche sia all'interno della Chiesa sia all'interno del mondo intellettuale liberale. A tal proposito sono interessanti le critiche recentemente mosse al pensiero dell'intellettuale da Assuntina Morresi sul giornale on-line L'occidentale e l'articolo del 2005 su "espressonline" di Sandro Magister in cui l'opera di Antiseri viene definita "apologia del relativismo".  Altrettanto interessante è il commento al relativismo di Antiseri apparso sul web nel blog di Fabrizio Falconi, e quello di Litta Modignani pubblicato sul sito Critica liberale.  Opere:  “Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede” (Brescia, Queriniana);  Epistemologia e metodica della ricerca in psicologia, Padova, Liviana Editrice); C'è ancora spazio per la fede?, Milano, Rusconi); “Il filo della ragione, Roma, Donzelli); “Liberi perché fallibili, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Trattato di metodologia delle scienze sociali, POMBA Università); “Come lavora uno storico, Roma, Armando); “Liberali. Quelli veri e quelli falsi, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'università italiana. Com'è e come potrebbe essere, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Tre idee per un'Italia civile, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere dopo la filosofia del secolo XX, Roma, Armando); “Didattica della storia: epistemologia contemporanea, Roma, Armando, Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'agonia dei partiti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia e didattica delle scienze, Roma, Armando); “La medicina basata sulle evidenze, Edizioni Memoria); “La Vienna di Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Quale ragione?, Milano, Cortina); “Teoria unificata del metodo, POMBA); “Cattolicesimo, Liberalismo, Globalizzazione, Soveria Mannelli, Rubbettino,  Karl Popper. Protagonista del secolo XX, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia, clinica medica e la "questione" delle medicine "eretiche", Soveria Mannelli, Rubbettino); “Principi liberali, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee fuori dal coro, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [ 1], Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cattolici a difesa del mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Come leggere Kierkegaard, Milano, Bompiani); “Come leggere Pascal, Milano, Bompiani, Credere. Perché la fede non può essere messa all'asta, Roma, Armando); “Epistemologia, ermeneutica e scienze sociali, Roma, Luiss University Press, Introduzione alla metodologia della ricerca, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Prefazione a Joseph Agassi, La filosofia e l'individuo, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [2], Soveria Mannelli, Rubbettino); Relativismo, nichilismo, individualismo. Fisiologia o patologia dell'Europa?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Teorie della razionalità e scienze sociali, Roma, Luiss University Press); “L'ermeneutica è scienza?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e solidali. La tradizione del liberalismo cattolico, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La «via aurea» del cattolicesimo liberale, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La società aperta» di Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Von Hayek visto da Dario Antiseri, Roma, Luiss University Press); “Dario Antiseri e Gianni Vattimo. Ragione filosofica e fede religiosa nell'era postmoderna, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani); “Dialogo sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Roma, Armando); “L'attualità del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Soveria Mannelli, Rubbettino); “In cammino attraverso le parole, Roma, Luiss University Press); “Contro Rothbard. Elogio dell'ermeneutica, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali d'Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino,  Note  Questioni disputate, su chiesa.espresso.repubblica.  Marx, un falso profeta sconfitto dalla storia, su lanuovabq.   Contro Popper, Bruno Lai, Armando Editore, Vedi L'impegno dei cattolici in politica si misura sui valori non negoziabili Archiviato il 21 gennaio  in. di Assuntina Morresi, l'Occidentale, 12 giugno.  Vedi Questioni disputate. Un filosofo cattolico fa l'apologia del relativismo di Sandro Magister, chiesa.espressoonline, 3 novembre 2005.  Vedi Il relativismo inevitabile? Risposta a Dario Antiseri, Il blog di Fabrizio Falconi, 1º gennaio.  Vedi La falsa "laicità" che piace al Corriere Archiviato il 30 aprile  in. di Alessandro Litta Modignani, Fondazione critica liberale, 29 maggio.  Giuseppe Franco, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, in Giuseppe Franco, Sentieri aperti della ragione. Verità, metodo, scienza. Scritti in onore di Dario Antiseri nel suo 70º compleanno, Pensa Editore, Lecce,  23–43.  Relativismo. Citazionio su Dario Antiseri  Sito ufficiale, su docenti.luiss.  Dario Antiseri, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dario Antiseri, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Dario Antiseri,.  Registrazioni di Dario Antiseri, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche, su tocqueville-acton.org. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloInsegnanti italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore1940 9 gennaio FolignoProfessori della SapienzaRoma. In un saggio in "Roma", Antiseri studia e spiega 'Se e perché studiare ancora il mondo romano.' Non posso qui ripetere tutte le argomentazioni, cui rimando volentieri, ma il succo del discorso sta in questi due punti. Primo. Niente avviene al di fuori di una tradizione culturale. Le stesse rivoluzioni sono tali rispetto a una determinata linea di svolgimento, che ne costituisce il presupposto; perciò i grandi rivoluzionari sono stati tutti buoni conoscitori del passato. Secondo. La nostra tradizione culturale italiana è quella latina. Non c’è possibilità di auto-identificazione e di innovazione se la si ignora. Quindi lo studio di quell’ antico è una condizione di fatto della nostra civiltà italiana. Se ci fermassimo al primo punto, dovremmo considerare di buon auspicio per le nostre sorti la ripresa, che si sta verificando, di interesse per il passato, da quello immediato e locale al più lontano nel tempo e nello spazio. Visto più da vicino, questo interesse non collima col secondo punto. Non solo questo passato italiano è romano, ma è selettivo. Accomuna l’archeologia industriale ai graffiti preistorici, la cultura materiale e i valori. La selettività di per sé contraddice al *momento*  romano *antico* correttamente inteso. Anzi gli toglie la staticità del *classico*, cioè del modello unico, esemplare perfetto e irripetibile (quindi fuori della storia) e lo ricolloca nella dinamica dell’evoluzione umana, lega la unica Roma all'Italia d'oggi. Questa elettività diventa filosofica, quando considera il romano *antico* -- in sue fasi monarchica, repubblicana ed imperiale -- un momento come un altro, senza speciali incidenze sulla storia. Peggio, quando si configura in qualche modo come una ri-edizione della tesi della priorità vetero-italica, palaeo-italica, o archaeo-italica, sulla civiltà classica. Peggio ancora, se pre-dilige il *passato* eroico dell'Omero romano, Virgilio, quale che sia come tale, come un tutto indifferenziato, solo perché diverso. Si rischia di tornare così alla cultura dei sassi, che Leopardi rimprovera ai romani del suo tempo (lettera al de Sinner, cioè all’antiquaria di settecentesca memoria (cioè senza storia e senza lingua). Se nell’interesse verso *il romano antico* non ha per noi un posto preminente i tre *momenti* del romano antico -- regno, repubblica, principato -- questo è segno di perdita di storicità vichiana, gentiliana, o croceana, di oscuramento di valori, di restringimento di orizzonti. Quel momento del romano antinco non è importante solo perché ha aperto vie, costruito ponti, tracciato città, su cui ancora insistiamo, ma perché ha dato un impulso decisivo a un complesso filosofico, di idee, mentalità, istituzioni, che costituiscono ancora i nostri parametri abituali e la nostra cultura di italiani. Gli altri momenti forti, da cui si può volta a volta, non senza ragione, far partire la nostra riflessione storica, il rinascimento toscano, l’Unità d’Italia mazziniana, si sono misurati con questa tradizione romana antica, l’hanno arricchita o combattuta, mai ignorata. Se riteniamo naturale ancor oggi rifarci alla nostra genesi civile romana, dobbiamo subito porci il problema se si debbano studiare Roma e se non sia riduttivo assumere come punto di partenza *solo Roma*, cioè studiare la civiltà *latina*, del Lazio. Non si tratta di rinnovare la vecchia questione dell’originalità romana, che una volta costituiva un passaggio obbligato per ogni storia della letteratura latina. Quel problema rispondeva a diverse contingenze storiche e teoriche. Il suo ambiente culturale era Roma, dove il nazionalismo rispecchiava se stesso nella superiorità di Roma rispetto ai barbari. Il sostegno teorico era offerto dal mito del classicismo romano, cioè del modello a-storico e perfetto, attingibile solo dagli eletti. Nelle ultime fasi della sua storia, la tesi trova forti resistenze in Italia per la convergenza di due motivazioni diverse. Da una parte il nostro nazionalismo, culminato nella grande guerra, dall’altro la nuova estetica simbolista di d'Annunzio, che insegna a fare filosofia in se stessa. Oggi quei condizionamenti storici e quei presupposti teorici sembrano molto lontani. Del resto, a parte le punte polemiche, già la ricerca aveva portato a una revisione di fatto di questi atteggiamenti. La contrapposizione poi di una *romanolatria* è più pensabile come ideologia politica. Il mondo romani costituisce una unità, ma non tanto in senso sincronico, quanto in senso diacronico. Roma si dispone in successione, in una unità dinamica. Roma è fatto antico e non solo a livello dotto. Non è un fenomeno solo neoterico, ma anche delle origini e della fine. Roma accentua la tradizione per raccoglierne l’eredità e stabilire così il suo diritto successorio alla leadership mondiale. E’ corretto che i moderni pongano il problema in modo non diverso dagli antichi romani. Di qui discende anche la legittimazione a fare di Roma un possibile punto di partenza della riflessione storica. Se la civiltà romana è  tradizionale, nell’atto stesso di arricchire, trasformar, e diffonder una tradizione, studiare Roma è universale. Rimane ai romani antichi il merito di molte creazioni, e di averle trasmesse al futuro. Il concetto dell’uomo e della comunità, la storiografia, la scuola, la retorica rimangono quelle ereditate da Roma. L’asse culturale si conserva intatto. Si può senza difficoltà riconoscere che l’eredità romana, dal diritto alla lingua, non ha finito di operare. Si pensi per esempio alla lingua italiana, che, pur diversa com’è ormai dalla latina, conserva di quella i caratteri costitutivi e le energie generative. La stessa evoluzione del 'volgare' si è svolta e si sta svolgendo secondo modalità sempre latine. Un fatto significativo rimane il latino medioevale, che non è più il latino classico ed è una lingua di dottrina, però è una lingua viva, perché usata nella comunicazione reale. La sua peculiarità consiste nel non dipendere da matrice italica nazionalista. Usano il latino medioevale le genti che si riconoscono in un’unica cultura. Così quella lingua diventa propria anche dei non-neolatini e coopera alla formazione di una nuova unità, l’Europa, ben diversa, anche geograficamente, dall’Impero. L’Europa è una formazione post-romana, con materiali latini. Questa è un’importante ragione oggi per lo studio anche del solo latino. Quasi come uno slogan si potrebbe dire che Roma ha generato l’Occidente (una civiltà), l'Italia, e l’Europa (una storia). Entrambe le prospettive sono sprovincializzanti. Non c’è niente di più istruttivo che consultare i volumi dell’Année Philologique, che non solo si fanno di anno in anno più grossi, ma vedono allargare la partecipazione agli studi classici a paesi sempre più lontani e che sembrerebbero estranei a questa tradizione: dagli stati dell’Est alle nazioni in via di sviluppo. Segno che questa cultura non è neanche solo nazionale o europea o occidentale, ma ci appartiene come uomini senza esaurirci. Questi concetti sono generalmente ammessi e non hanno perciò bisogno di particolare documentazione. Ne discendono però alcune conseguenze sui modi corretti dell’atteggiamento odierno verso il mondo romano. Anzitutto si rifiuta l’ideologizzazione, specie politica. È invece oggetto di studio questo atteggiamento nel passato, specie recente (Fascismo, Nazismo: cfr. specialmente la rivista Quaderni di storia). Fa ancora ideologia (postuma e alla rovescia) chi osserva da una parte sola quest’uso politico del classico in passato (in genere considerandolo al servizio del potere o della classe dominante). In realtà l’ideologia del classicismo è sempre reversibile, fornisce insieme Bruto e Cesare, come è avvenuto a cavallo fra Sette e Ottocento. Ma in genere le ricerche hanno un respiro più ampio, volte come sono a indagare la presenza degli studi classici filosofici nella cultura moderna, quindi la partecipazione degli antichisti latinista e la loro relazione con gli orientamenti e movimenti coevi: è molto di più non solo della ideologia, ma anche della diretta influenza dei classici sui moderni. Rifiuto dell’ideologia e studio della presenza dei classici e del classicismo nel mondo moderno presuppongono senso vivo della storicità, ossia della continuità antico-moderna, che vuol dire due cose insieme: un legame che ci unisce agli antichi e l’alterità che, senza contraddirlo, ci distanzia. Di qui il rifiuto anche dell’esemplarità e del presentismo. L’esemplarità fa del romano un modello perfetto, imitabile ma irraggiungibile; questa concezione, oggi improponibile, in altri tempi ha avuto una sua funzione attivizzante (come nell’Umanesimo). Le conseguenze del mutato atteggiamento sono evidenti. Non si definisce più un’età aurea, non si parla più di declino, ma di trapasso. Decadenza romana o tarda antichità? intitolava H. Marrou un suo piccolo libro (ed. it. Jaca Book, Milano). Il tardo antico richiama molta attenzione. I convegni comensi, indetti in occasione del XIX centenario della morte di Plinio il Vecchio (e oggi disponibili negli Atti in tre volumi), si sono spinti molto oltre l’età dello scrittore celebrato, studiando la tecnica, la città, l’economia (vedi i titoli: Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario: Tecnologia, economia e società nel mondo romano; La Città antica come fatto di cultura). Rinunciando infatti all’ideale della esemplarità, il concetto di «classico» (nel senso di romano) esce dalla sola categoria del bello e del perfetto una volta per tutte e si arricchisce di valori e di problemi esistenziali. Si supera anche l’antinomia classico = forza contro debolezza, anacronisticamente riproposto dalla edizione italiana di un libro composto da W. Otto mezzo secolo prima (Spirito classico, La Nuova Italia, Firenze). Si esplorano province nuove (i papiri di Ercolano e l’epicureismo campano). Qualche volta si registrano scoperte notevoli (dopo Menandro, Callimaco, Cornelio Gallo, Rutilio Namaziano, la Seconda Centuria del Poliziano ecc.). Si ricuperano, nella loro umanità e nel loro valore documentario, autori e movimenti minori: il Favorino di Arelate di A. Barigazzi (Le Monnier, Firenze), le Questioni neoteriche (che comprendono i novelli) di E. Castorina (La Nuova Italia, Firenze). Anche nella filologia nostrana nasce l’interesse verso i rapporti fra Roma e la cultura d'Etruria (G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente d'Etruria, Paideia, Brescia nuova ed. F. Arnaldi, La crisi morale dell’età argentea, « Vichiana ». Estesa e polidisciplinare è la bibliografia sui rapporti tra Roma ed Etruria. Sono meno frequenti le monografie, ma non mancano le sintesi come quella celebre di P. Grimal, Le siècle des Scipions. Rome au temps des guerres puniques, Aubier, Paris -- Paideia, Brescia). Intensa è l’attività traduttoria dell’editoria italiana: va da A. D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori storici e filosofi latini. Il Mulino, Bologna a R. Syme, Tacito (che è un grande affresco dell’età tacitiana), Paideia, Brescia di P Boyancé, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, ancora a R. Syme, La rivoluzione romana, Einaudi Torino, da M. Pohlenz, La stoa, La Nuova Italia, Firenze, a W. Jaeger. Paideia, La Nuova ltalia, Firenze, a H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium Roma. Ho citato un po’ a caso fra i titoli più famosi. La stessa ampiezza di questa produzione, con la eterogeneità dei suoi titoli, testimonia la lontananza attuale da un ideale ristretto di esemplarità. Di recente si è verificato, invece, un breve successo dell’ atteggiamento antitetico, cioè del presentismo, più rilevabile a livello di letteratura scolastica che scientifica, forse nel tentativo di rendere accettabile l’antico a un determinato pubblico, facendone vedere l’analogia col moderno. Il procedimento però è rischioso. Proiettando sull’antico la luce del moderno, tende a ritrovare in quello un doppio del presente, quindi ne rende inutile lo studio e impedisce di vedere i legami storici, cioè le fondamenta lontane del moderno, che legano e insieme differenziano, distinguendo nella continuità. Già il Rostagni avvertiva questo pericolo, riflettendo sul suo stesso lavoro (Aristotele e l’aristotelismo nella storia dell’estetica antica, « Studi ital. di filologia classica » ora in Scritti minori I, Aesthetica, Bottega d’Erasmo, Torino, spec. p. 235): eppure è noto quanto egli fosse guidato da un certo crocianesimo, andando alla ricerca di un’estetica dell’intuizione presso i classici. Il pericolo oggi si ripresenta leggendo i classici alla luce di altre ideologie attualizzanti. Legittimo è invece studiare nell’antico temi e problemi, che sentiamo vivi, ma sempre con coscienza storica, ossia proprio per scoprirne la formazione lontana: pace-. libertà, progresso, lavoro, scienza. L’atteggiamento corretto sarà dunque di porsi davanti all’antico senza cessare di essere moderni e (poiché quell’antico è greco-romano, cioè la nostra origine culturale) senza negare il debito e senza cancellare l’intervallo: dunque alterità più legame storico. Questo comporta anche l’uso di strumenti ermeneutici nuovi e la modernizzazione dei tradizionali. Di alcuni impieghi di tecniche recenti danno qui sotto saggio i contributi di V. Cremona e di G. Proverbio: sono appena esempi, cui altro sarebbe da aggiungere. Così, molto vivace è oggi la narratologia; e è il Convegno internazionale «Letterature classiche e narratologia» a cura dell’Istituto di Filologia Latina dell’Università di Perugia.. Gli strumenti tradizionali a loro volta hanno compiuto i progressi di tutte le tecniche; per la filologia in senso stretto danno informazioni il saggio e il materiale approntati da L. Castagna. Mezzi vecchi e nuovi si intrecciano per conseguire risultati più fini: A. Grillo ha messo la narratologia a servizio della critica testuale per risolvere alcuni problemi di lezione dell’Ilias Latina in Critica del testo. Imitazione e narratologia. Ricerche sull’Ilias latina e la tradizione epica classica, Bibliot. del Saggiatore, Le Monnier, Firenze. E’ facile constatare la differenza da una meccanica applicazione di criteri lachmanniani (almeno come vengono volgarmente intesi). E si veda quale cammino si è percorso dalla ricerca grezza e materiale delle fonti (la famigerata critica dei «fontanieri») alla più sofisticata tecnica allusiva e alla memoria poetica. A loro volta quelle che un tempo venivano chiamate discipline ausiliarie (archeologia, topografia, epigrafia ecc.) non solo si sono giovate dei progressi delle tecniche applicate, ma hanno esteso il loro campo ben al di là del mondo greco-romano, abbisognando quindi per competenza di un discorso riservato (come del resto la storia generale, intrecciata al diritto e all’economia, oltre che a queste stesse discipline e alla cultura materiale, nella prospettiva di una storiografia totale). Non si possono infine dimenticare alcuni graditi incontri o addirittura ritorni. La linguistica, sorta fuori e in opposizione alle lingue classiche, è salita man mano dalla frase al testo e ha ricuperato concetti della grammatica nata dal greco e dal latino. La logica e la critica letteraria hanno riscoperto la retorica classica senza la mediazione della filologia greco-latina, incontrandosi e quasi confondendosi con questo genere di studi. Della retorica, affermatasi a Roma come tecnica politica e poi diventata cultura, paideia e letteratura, si ripete oggi mutato nomine la dicotomia, da una parte nei mass media e nella pubblicità, dall’altra nella critica letteraria. Gli antichisti cooperano da parte loro a questo riavvicinamento: gli Elementi di retorica di H. Lausberg, ed. it. Il Mulino. Bologna, si presentano come un moderno manuale di linguistica; quella di E. Cizek, Structures et idéologie dans «Les Vies des Douze Césars» de Suétone, Editura Academiei e Les Belles Lettres, Bucuresti Paris è insieme un’analisi strutturalistica e retorica (studia la sovrasignificazione fornita, al di là dei concetti, dalla loro distribuzione). In questa prospettiva molte analisi letterarie su testi moderni rivelano una straordinaria possibilità di impiego di strumenti antichi. Dario Antiseri. Antiseri. Keywords: solidali -- antiseri — implicatura solidale — il concetto di solidale -- liberali d’italia – il principio del liberalismo – la mistica di Gentile e il liberalismo di Croce — Grice — metaphysics in Pears 3rd programme — Grice p.331 — ‘violazione consapevole della massima’ — flouting the maxim — la scuola di Oxford di filosofia analitica del linguaggio ordinario — Austin, Grice, … gruppo di giocco – Grice sa benissimo che la massima e violabile intenzionalmente e comunicativamente — Fidanza — il mistico — la logica di un mistico -- Roma – la relevanza della filosofia del mondo romano antico -- — La mistica fascisdta di Gentile —Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Antiseri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Antonini – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Viterbo). Grice: “I like Antonini, or Cinesio – you see, one problem of these Italians – but cf. Occam – by sticking to the first-name is that a researcher in the longitudinal history of philosophy has to check references to Aegeius viterbensis and Aegidius Cinesio! It was only recently that he was found to be one of the Antoninis! His place in the longitudinal history of philosophy is that famous pendulum between Plato and Aristotle – so after Aquinas’s Aristotle, Egidio – an almost Tuscan man! – finds Plato more pleasing – especially his philosophy of love in the symposium, the references to Ganymede as representing ‘amore,’ and he has the cheek to display all this hardly scholastic erudition (more of a renaissance thing) in his commentary of Lombardo’s sentences! Delightful – my favourite is his reference to Ganymede, for here we have the treatment of a subject (Zeus) of another subject as an object – and that’s just only one reading of Zeus’s intention --.”  Grice: “In any case, the sacrificial status of Ganymede is recognised in the Platonic tradition – as the manipulative use of a subject by another subject who is subjected as an object, rather --.” Antonini: Essential Italian philosopher. Antonini (n. Viterbo), filosofo. Egidio da Viterbo  «Sono gli uomini che devono essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini»  (Egidio da Viterbo, prolusione al Quinto Concilio Lateranense) Egidio Antonini da Viterbo, O.E.S.A. cardinale di Santa Romana Chiesa Egidio 2Egidio da Viterbo, affresco XVII secolo (part.), Sala Regia, Palazzo dei Priori, Viterbo Stemma egidio  Incarichi ricopertiPriore generale dell'Ordine di Sant'Agostino, Cardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola (1517) Cardinale presbitero di San Matteo in Merulana (1517-1530) Vescovo di Viterbo e Tuscania (1523-1532) Patriarca titolare di Costantinopoli (1524-1530) Cardinale presbitero di San Marcello (1530-1532) Amministratore apostolico di Zara (1530-1532) Amministratore apostolico di Lanciano (1532)   Nato1469 a Viterbo Ordinato presbiteroin data sconosciuta Nominato vescovo2 dicembre 1523 da papa Clemente VII Consacrato vescovo10 gennaio 1524 dall'arcivescovo Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Elevato patriarca8 agosto 1524 da papa Clemente VII Creato cardinale1º luglio 1517 da papa Leone X Deceduto12 novembre 1532 a Roma   Manuale Egidio Antonini da Viterbo, o semplicemente Egidio da Viterbo (Viterbo), filosofo. Apparteneva all'Ordine degli Agostiniani. Nacque a Viterbo, da Lorenzo Antonini e Maria del Testa, in un giorno imprecisato tra l'estate e l'autunno del 1469Pur essendo i genitori di origini modeste, fecero compiere ad Egidio studi approfonditi presso il convento agostiniano viterbese della Santissima Trinità. Forse influenzato dalla predicazione di Mariano da Genazzano, presente a Viterbo nel 1485, tre anni dopo, nel 1488, all'éta di diciotto anni, entrò nell'Ordine degli Agostiniani, presso il medesimo convento per esservi ordinato sacerdote. Sotto il priorato di Giovanni Parentezza, studiò filosofia, teologia e lingue antiche (greco, ebraico, arabo, aramaico, persiano) e si perfezionò, cominciando anche ad insegnare, presso le case del suo ordine ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Viterbo ed in Istria. A Padova (1490-1493) incontrò più volte Pico della Mirandola, con il quale discusse di astrologia e cabalismo, ma, soprattutto, in quella città curò nel 1493 l'editio princeps di tre commenti aristotelici di Egidio Romano, con notazioni contrarie ai peripatetici e ad Averroè. Alcuni anni più tardi conobbe a Firenze l'umanista Marsilio Ficino, di cui fu allievo e successivamente amico, e con il quale si perfezionò notevolmente nello studio delle dottrine neoplatoniche, specialmente in rapporto alla loro assoluta compatibilità con i principi del Cristianesimo. Nella primavera del 1497 il cardinale Riario, protettore degli Agostiniani, che aveva per lui grande stima, lo richiamò a Roma dove, dopo una duplice e complessa prova, conseguì il magisterium in teologia.  Oratore di straordinaria efficacia, particolarmente apprezzato in quegli anni da papa Alessandro VI, quindi dai suoi successori, paragonato da taluni a Demostene, fu in contatto con i maggiori intellettuali del tempo; oltre alla fitta corrispondenza con Marsilio Ficino, va ricordata la frequentazione che ebbe a Napoli con Giovanni Pontano (che gli dedicò il dialogo Ægidius) e con gli intellettuali della sua Accademia.  Nel giugno 1506 papa Giulio II gli affidò la guida dell'Ordine agostiniano come Vicario apostolico; l'anno successivo (1507) il capitolo generale dell'Ordine lo confermò alla sua guida come Priore Generale, incarico che mantenne per molti anni, durante i quali riformò profondamente l'Ordine stesso, riportandolo agli antichi fasti con il pieno recupero della regola di S.Agostino. Durante quegli anni fu uno dei più stretti collaboratori di Giulio II, che accompagnò nella sua missione contro Bologna e dal quale fu inviato come nunzio apostolico a Venezia e Napoli per ottenere l'adesione di quegli stati alla crociata progettata dal pontefice: venne anche inviato nella città ribelle di Perugia e ad Urbino. Il 3 maggio 1512 il papa gli conferì il prestigioso incarico di tenere l'orazione inaugurale del Quinto Concilio Lateranense: Egidio pronunciò così una celebre, accorata allocuzione in cui parlò con determinata onestà dei mali della Chiesa, suscitando viva emozione nei presenti, molti dei quali lodarono lo stampo ciceroniano dell'orazione.  Morto Giulio II, anche il suo successore Leone Xappartenente alla potente famiglia fiorentina dei Medicicontinuò la stretta collaborazione con Egidio, che impiegò in importanti missioni diplomatiche, come quella del 1516 in Germania, quando ottenne una difficile pacificazione tra Massimiliano I e la Repubblica di Venezia. Il papa innalzò Egidio alla dignità cardinalizia nel concistoro del 1º luglio 1517 creandolo cardinale prete con titolo di San Bartolomeo all'Isola; quasi subito il porporato viterbese optò per il titolo di San Matteo in Merulana, antica chiesa agostiniana; molti anni più tardi, poco prima di morire, avrebbe infine optato per il titolo di San Marcello. Nel 1518 Leone X lo nominò cardinale protettore dell'Ordine degli Eremitani di Sant'Agostino e, nello stesso anno, lo inviò come legato pontificio in Spagna per una complessa missione nella quale avrebbe dovuto impegnare Carlo V alla crociata contro i turchi. In quel periodo fu anche governatore di diverse città dello Stato Pontificio. Occorre altresì ricordare come a meno di quattro mesi dalla sua nomina a cardinale e quando Egidio era ancora Priore Generale degli Agostiniani, un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, affisse sulle porte della Schlosskirche di Wittenberg le notissime 95 tesi che avrebbero dato inizio alla riforma protestante.  Dopo la scomparsa di Leone X ed il breve pontificato di Adriano VI, il 18 novembre 1523 fu eletto papa, con l'appoggio di Egidio, un altro Medici, Clemente VII, che, pochi giorni dopo l'elezione, il 2 dicembre, conferì al cardinale viterbese la nomina a vescovo proprio della diocesi di Viterbo: l'anno successivo Egidio venne nominato patriarca latino di Costantinopoli e amministratore apostolico dell'arcidiocesi di Zara. Purtroppo in quegli anni le indecisioni e gli errori politici di Clemente VII crearono problemi gravissimi al governo della Chiesa: il papa finì per schierarsi con i francesi, ma prima la sconfitta di Francesco I a Pavia, poi le incertezze della lega di Cognac aprirono le porte alla discesa in Italia di Carlo V con i suoi lanzichenecchi, culminata nel terribile Sacco di Roma (1527), durante il quale venne distrutta -tra l'altro- tutta la ricchissima biblioteca di Egidio nel Convento di Sant'Agostino. Il porporato si trovava allora nelle Marche e, per soccorrere il papa, assediato in Castel Sant'Angelo, organizzò -impiegando anche il proprio denaro- una spedizione armata, che non ebbe però fortuna per i molti ostacoli frapposti dai signori locali. Dopo quei dolorosi momenti la salute di Egidio andò peggiorando: questo fatto non gli impedì, peraltro, di tenere, durante il concistoro pubblico una famosa ed appassionata orazione sulla necessità di riformare la Chiesa dopo lo scisma luterano. Clemente VII dichiarò la sua disponibilità, ma sarà solo il suo successore, Paolo III, conterraneo di Egidio, a convocare l'importante Concilio di Trento, che segnerà, con la controriforma, la prima importante reazione della Chiesa al protestantesimo. Poco prima di morire il cardinale fu nominato arcivescovo di Lanciano; amministrò la diocesi lancianese a titolo di commenda per sette mesi, fino alla morte.  Morì a Roma il 12 novembre 1532 e venne sepolto nella chiesa di Sant'Agostino, dove lo ricorda una semplicissima lapide sul pavimento della navata centrale, a cornu evangelii rispetto all'altar maggiore.  Filosofia, Ebraismo, Cabala  Egidio da Viterbopartic. di affresco XVIII secolo, Sala del Cenacolo, Convento Santissima Trinità, Viterbo Egidio deve certamente essere considerato uno dei maggiori filosofi di quei secoli. Il suo primo impegno importante fu quando, studente a Padova, curò nel 1493 la pubblicazione con commento di tre opere del filosofo e vescovo agostiniano Egidio Romano, vissuto tra il XIII ed il XIV secolo: elaborò così un'autentica avversione nei confronti della filosofia di Aristotele e dell'averroismo, contro i quali ritenne che l'unico possibile antidoto fosse, specie dopo l'incontro con Marsilio Ficino ed in perfetta armonia con Sant'Agostino, il neoplatonismo, inteso come «pia philosophia», cioè nella sua piena compatibilità con i valori cristiani. Uomo dottissimo, volle leggere tutte le opere che studiava nelle lingue originali in cui erano state scritte, per meglio comprenderne il vero significato: acquisì in tal modo una straordinaria conoscenza, oltre che del latino e del greco antico di cui aveva padronanza assoluta, dell'aramaico, per il Talmud e varie parti della Bibbia, dell'arabo, per il Corano e le opere di Averroè, e dell'ebraico, per la Torah. Ebbe una fitta corrispondenza con l'umanista tedesco Johannes Reuchlin, finissimo conoscitore dell'ebraismo, con il quale si intrattenne a lungo sia su temi relativi all'Antico Testamento sia sulla cabala (in ebraico Qaballáh), argomento da lui già affrontato con Pico della Mirandola, che trattava dei misteriosi simbolismi, parte dei quali nascosti nei numeri e nelle lettere stesse dell'alfabeto ebraico, che potevano avvicinare l'uomo a Dio. Le problematiche della letteratura ebraica e della cabala occuparono gran parte dei suoi ultimi anni di vita, quando tentò ripetutamente di ricondurre in ambito cristiano tutte le altre culture, dedicandosi in particolare ad approfonditi studi e ricerche sullo Zohar.  Lo scrittore e l'oratore  Raffaello:La disputa del Sacramento (affresco, Roma, Stanze Vaticane)  Egidio da Viterbo in preghiera, particolare di pala d'altare, chiesa Santissima Trinità, Viterbo Rimane ben poco della cospicua produzione letteraria di Egidio, sia a causa della perdita della sua biblioteca durante il Sacco di Roma, sia perché lui stesso, per modestia, non volle dare alle stampe molte delle sue opere. Tratta quasi tutti i campi della filosofia alla letteratura, dall'astrologia alla storia, dalla poesia alla geografia, dalla teologia all'arte: a quest'ultimo proposito si ritiene che il programma iconografico per gli affreschi di Raffaello della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura sia stato largamente ispirato dalla sua opera, con la probabile mediazione di Tommaso Fedra Inghirami. Da notare come Antonini preferisce di solito ritirarsi in luoghi tranquilli, come l'Eremo di Lecceto, presso Siena, o la sua città natale, Viterbo, o, ancora più spesso, due rifugi nei dintorni di quest'ultima: un Convento nell'Isola Martana, sul Lago di Bolsena, ed un Eremo nella selva del Monte Cimino. Meritano comunque menzione tre ecloghe latine di stampo virgiliano (Paramellus et Aegon, -- Paramello e Egone -- in Resurrectione Domini – la risurrezione del Signore -- e De Ortu Domini – L’orto di Dio --, sei madrigali dedicati alla famiglia Colonna  ed una favola silvestre dello stesso periodo (“Cyminia”, in volgare italiano viterbese. La a sua maggiore opera filosofica è costituita dai “Commentaria sententiarum ad mentem et animum Platonis” (I comentari dei sentenze sull’anima di Platone”, brevemente detta Sententiae ad mentem Platonis, che presenta l’ostilità all'aristotelismo e la necessità di sostituirlo, l'anima e la dignità umana; “Historia XX saeculorum” racconta le vicende di Alessandro VI a Leone X, attinsero a piene mani vari storici, da Gregorovius a Pastor, anche se il loro giudizio complessivo sulla Historia è perplesso, se non addirittura negativo. Tra altre opere meritano anche menzione il “Libellus de litteris sanctis”, sul significato recondito delle lettere dell'alfabeto romano, e la Scechina che guarda in la cabala.  Il campo nel quale Egidio riuscì comunque a dare il meglio è quello della retorica o dialettica colloquenza filosofica, divenendo uno dei migliori oratori di quei decenni, forse il migliore in assoluto, con giudizi sempre entusiastici da parte di tutti quelli che ebbero modo di ascoltarlo. In realtà egli era veramente dotato di un'eloquenza drammaticamente coinvolgente, capace di suscitare grandi emozioni negli uditori, sia che fossero ricchi principi, sia che si trattasse di poveri popolani; lo aiutava probabilmente lo stesso aspetto fisico, ascetico, con il viso pallido e scavato e la barba fluente. Tra le orazioni conservate vanno ricordate: quella nel certamen che lo vide trionfare su tre filosofi peripatetici e conseguire il magisterium. Altre opere: “De aurea aetate” (o De Ecclesiae incremento), tenuta in San Pietro su incarico di Giulio II per onorare re Manuele I del Portogallo che aveva scoperto nuove terre e riportato una grande vittoria navale, lavoro dottissimo e ricco di riferimenti cabalistici; l'orazione delConcilio Lateranensegrande onore concessogli dal papache provocò indicibile emozione negli astanti e fece definire l'agostiniano viterbese il nuovo Cicerone; è in quest'ultima orazione la celebre sentenza di Egidio. “Sono gli uomini che devono essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini”. Va infine ricordata l'orazione tenuta in occasione di un concistoro, sulla necessità di riformare la Chiesa, che viene da molti considerata come il vero preludio al celebre Concilio di Trento, convocato da Paolo III.  Genealogia episcopale Arcivescovo Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Cardinale Egidio Antonini da Viterbo, O.E.S.A. Note  Notizie molto precise sul suo luogo di nascita e sul suo esatto cognome sono reperibili nel lavoro di Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo etc.,Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1929. L'opera dello storico viterbese, con una ricchissima documentazione bibliografica, costituisce un indispensabile fondamento monografico per lo studio di questo porporato; in particolare Signorelli precisa, con riferimento a numerosi manoscritti, perché debba essere ritenuta Viterbo la città natale di Egidio ed in base a quali errori diversi storici abbiano, sbagliando, ritenuto Canisio il suo cognome:il cognome esatto è Antonini.  Quanto sostenuto dal Signorelli è pienamente confermato da G.Ernst,Egidio da Viterbo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, 1993, in quella che è probabilmente la più completa monografia su Egidio reperibile on-line, con notevole.  Pur essendo acclarato il cognome Antonini, appare peraltro corretto chiamarlo semplicemente EGIDIO da VITERBO: Ægidius Viterbiensis o Viterbii è il nome con cui viene indicato nella bolla papale di nomina cardinalizia relativa al concistoro è il nome che compare nelle bolle da lui sottoscritte ed è, infine, il semplice nome che compare sulla sua lapide sepolcrale nella Chiesa di S. Agostino in Roma; sempre Egidio da Viterbo sono intitolate le principali monografie a lui dedicate da Signorelli, Ernst, Massa, O'Malley ecc.. Va infine ricordato come lo stesso Comune di Viterbo abbia chiamato Via Egidio da Viterbo la strada a lui dedicata parecchi anni fa nel centro storico cittadino e con la medesima intitolazione Egidio da Viterbo vi siano altre istituzioni viterbesi.  L'epoca della nascita è indicata ancora dal Signorelli (op.cit.), che cita vari documenti del periodo.  Si veda in proposito Lettera a Mannio Capenati, agosto 1504 citata in: Francis X. Martin, Friar..., cit., Appendice III, pag. 346  De materia coeli; De intellectu possibili; Egidii Romani commentaria in VIII libros Physicorum Aristotelis  Egidio non ricambiò mai la simpatia di papa Borgia, anzi il suo giudizio sul pontificato di Alessandro VI fu terribile, con parole di inusitata durezza; si veda Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, IV,lib.XVI,pag.394,Viterbo, Agnesotti, 1913.  Lo dice espressamente il Signorelli, op. cit., capo II, pag 5.  Per la precisione fino al 25 febbraio 1518, giorno in cui depose l'incarico davanti al Capitolo generale dell'Ordine, consegnandolo nelle mani dell'amico Gabriele Di Volta, nominato due giorni prima con breve di Leone X proprio su proposta di Egidio; v. G. Signorelli, op. cit., Capo VI, pag. 68.  Lo sottolinea bene Ernst (op.cit.).  L'episodio che vide Egidio alla testa di un esercito è ricordato in un intero capitolo (Da Vescovo a Duce) nella monografia del Signorelli, op.cit., capo VIII.  Papa Paolo III, era nato come Alessandro Farnese nella cittadina di Canino, situata ad una trentina di chilometri da Viterbo.  La lapide, fatta collocare dal Priore Generale Gabriele Veneto, reca la seguente iscrizione: D.O.M.AEGIDIO VITERBIENSI CARDINALIGABRIEL VENETUS GENERALISMDXXXVI (v.S.Vismara,Una grande figura religiosa del Rinascimento:Egidio da Viterbo su Biblioteca e società in//bibliotecaviterbo/biblioteca-e-societa/index.php?fasc=12; il volumetto contiene gli Atti di un interessante Convegno di studi su Egidio da Viterbo, nel anniversario della morte). Occorre notare come la lapide originale, praticamente distrutta dal tempo, sia stata sostituita nel 1982, a cura dell'Ist. Stor. Agostiniano con una nuova lapide che riporta, integralmente, l'iscrizione. Il background intellettuale e la relativa fonte egidiana dei due affreschi della Stanza della Segnatura sono stati promossi dallo storico gesuita Pfeiffer (Heinrich Pfeiffer, Die Predig des Egidio da Viterbo über das goldene Zeitalter und die Stanza della Segnatura, in: J. A. Schmoll gen. Eisenwerth, Marcell Restle, Herbert Weiermann, Festschrift Luitpold Dussler, Monaco-Berlino, Deutscher Kunstverlag, Id., La Stanza della Segnatura sullo sfondo delle idee di Egidio da Viterbo, Colloqui del Sodalizio, serie II, n°3, 1970-1972, pagg. 31-43; Id., Zur Ikonographie von Raffaels Disputa: Egidio da Viterbo und die christlich-platonische Konzeption der Stanza della Segnatura, Roma, Università Gregoriana Editrice) ripreso da Ernst, op.cit., e da G.Polo, Egidio da Viterbo e Raffaello, in Biblioteca e Società, cit., pagg. 21-22. Il ruolo di Fedra Inghirami quale mediatore tra Egidio e Raffaello è stato inizialmente ipotizzato da Paul Künzle, Raffaels Denkmal für Fedra Inghirami auf dem letzen Arazzo, in: Mélanges Eugène Tisserant,  VI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, e si ritrova in: Christiane L. Joost-Gaugier, Raphael's Stanza della Segnatura: Meaning and Invention, Cambridge, Cambridge University Press, 2002. Per una sintesi si veda: Ingrid D. Rowland, The Intellectual Background of the School of Athens: Tracking Divine Wisdom in the Rome of Julius II, in: Marcia HallRaphael's School of Athens, Cambridge, Cambridge University Press,  Biblioteca apostolica vaticana, Ms Vat.lat. 6525  Il più autorevole di questi manoscritti è certamente quello autografo esistente presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (Mss.lat.,IX,B,14).  Tutti i giudizi degli storici sono ben riportati dal Signorelli, Riprendendo il Signorelli, descrive bene le sue grandi doti oratorie Sandro Vismara, Biblioteca e società, ATTI del Convegno...,op.cit.,pag.11.  Proprio a questa orazione si sarebbe ispirato Raffaello per due affreschi della Stanza della Segnatura, cioè la Disputa del Sacramento e la Scuola di Atene (v.Pfeiffer e Polo, ocitt..)  S.Vismara,op.cit..  Il testo latino recita letteralmente: Homines per sacra immutari fas est, non sacra per homines.  Egidio da Viterbo, "Ecloghe", Jacopo Rubini, Sette Città,. Rafael Lazcano, Episcopologio agustiniano. Agustiniana. Guadarrama (Madrid), Hubert Jedin, Riforma Cattolica o Controriforma, Morcelliana, Brescia, Francis X. Martin, The problem of Giles of Viterbo: a Historiographical Survey, "Augustiniana",  Francis X. Martin, Friar, Reformer, and Renaissance Scholar: Life and Work of Giles of Viterbo Villanova, Augustinian Press, John W. O'Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study on Renaissance Thought, Leiden, Brill, 1968 Heinrich Pfeiffer, Le Sententiae ad mentem Platonis e due prediche di Egidio da Viterbo, in: Marcello Fagiolo, Roma e l'antico nell'arte e nella cultura del Cinquecento, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo,  IV, Agnesotti, Viterbo, François Secret, Notes sur Egidio da Viterbo, "Augustiniana",  Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo agostiniano, umanista e riformatore, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Viterbo Ordine di Sant'Agostino Umanesimo Cabala ebraica Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Egidio da Viterbo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Egidio da Viterbo  Egidio da Viterbo, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Egidio da Viterbo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Egidio da Viterbo, su sapere, De Agostini. Egidio da Viterbo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Egidio da Viterbo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da Viterbo, su ALCUIN, Ratisbona. Egidio da Viterbo, su Find a Grave. Opere di Egidio da Viterbo,. Egidio da Viterbo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M. Cheney, Egidio da Viterbo, in Catholic Hierarchy.  Biblioteca e società, ATTI del Convegno di Studi su Egidio da Viterbo nel 450º anniversario della morte, su bibliotecaviterbo. Rassegna bibliografica   [collegamento interrotto], su bibliotecaviterbo.ÆGIDIUS OF VITERBO, Jewish Encyclopedia (la voce contiene, peraltro, alcune inesattezze) Salvador Miranda, VITERBO, O.E.S.A., Egidio da, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Articolo della rivista Theological Studies (O'Malley) dedicato al pensiero riformistico di Egidio da Viterbo, su bc.edu. PredecessorePriore generale dell'Ordine di Sant'AgostinoSuccessore13.escudo.oar.png Agostino da Terni, O.E.S.A Gabriele da Venezia, O.E.S.APredecessoreCardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola Successore CardinalCoA PioM. Domenico GiacobazziPredecessoreCardinale presbitero di San Matteo in MerulanaSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Cristoforo Numai, O.F.M.Obs. Charles de Hémard de DenonvillePredecessoreVescovo di Viterbo e TuscaniaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Ottaviano Riario2 dicembre 152312 novembre 1532Niccolò Ridolfi (amministratore apostolico)PredecessorePatriarca titolare di Costantinopoli Successore PrimateNonCardinal PioM.svg Marco Corner Francesco de PisauroPredecessoreCardinale presbitero di San MarcelloSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Enrique Cardona y Enríquez9 maggio 153012 novembre 1532Marino GrimaniPredecessoreAmministratore apostolico di ZaraSuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Francesco Pesaro (arcivescovo metropolita) Cornelio Pesaro (arcivescovo metropolita)PredecessoreAmministratore apostolico di LancianoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Angelo Maccafani (vescovo)10 aprile12 novembre 1532Michele Fortini, O.P. (vescovo) Filosofi italiani del XVI secoloCardinali italiani Professore Viterbo RomaAgostiniani italiani Cabalisti italianiCardinali nominati da Leone XPatriarchi latini di CostantinopoliEbraisti italiani. Raptus GANYMEDIS. Ubi ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quae ad mortales usque proveniunt. Utrumque enim in symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus AMOR est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur.Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipue loquuntur, quae firma immota semper est, quasi quae novam rem pariat. Iam a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset, quod veri nulla potest ratione. Sane divinus ille Amor ex aliquo semper effertur inaliquid,quod si quamanatex aliocogitetur Amor,aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa donantur.Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut, quemadmodum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio ut, efficiturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quam-quam immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos animorum curandos, ille loquntur V; locuntur N pariat] percipiat V sint] sunt  ac. V Utrumque … est] Symp.  NV ; Symp. N medicus … mortalium] Symp. N V accedit amor. Ita ad aegrum se conert, ut agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum gemini AMORES, geminaeque sint Veneres, sicut Platoni placet, uterquesi processerit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum,morborum,malorum  omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elar-gitur.HincMenonillePlatonicusait, mortals non nisi divino gurore correptos bonos eri. Quae quidem sententia oraculo consentit, quo praedicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus furor in era humanam sortem rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam men-tem vehit.  HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVERO COGITARI VOLEVAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTUM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE – VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORUM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM ET AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furors ostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis, quartum etiam Veneris adiecitomnium maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisciquid prohibet, a libera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se acturam statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod in tempore quicquamegerit, ut mutatautique dicenda esset, si quod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse, ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in tempore dicimus procisciillum cum divino aliquot coniungitur munere, quo prius nobis non coniungebatur. Callistoetenim, et amanti deo miscetur prius, et deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem in rebus, non divinum AMOREM sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina AMICITIA ac deinceps etiam caeli sede a divino AMORE donata est nactaque. Spiritus munus est quippe quem non aquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extinguere non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentum obrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanctus [amor  in marg. V  animus] animis  ac. V  Quare] quarum  ac. V esse] etiam  V esse] esset  V etenim  om.  V  Salamone  N V cum … placet] Symp. N N V Menon … eri] Men. N N V puero]  asteriscus N Nam … divinissimum] Ion  N V ; Phaedr. Ion  N caeli … rapi] Mt. Aquae … charitatem] Cant.] ille AMOR inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos re ormidant ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et prius Homerus et postea Maro posteris prodiderunt. Arctos Oceani metuentes aequore tingi, quod hii, quos divinus AMOR corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis tempestatibus non possint. Iam verode AMORIS processibus quaesitum saepe est, duonesint, anunus. Alii duos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatessecontendunt,quia duo sunt ad aliquid in spiritu:alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil erum constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio rationis. Nos medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos processus esse volumus, omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi coepit carcere, Calcidicaque levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures esse dicendumest. Ita erme et AMORIS divini processus. Si ontem unde fluit adspicias, unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse principiumostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus et HUMANUM genus, id circo duosesse progressus asseverandum est. In onte enim si quid est quod sit ad aliquid in processu spiritus, unum dum taxatest. In unibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum,  ut idem interpretatur quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut etiam consensit interpresAverroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem AMOREM constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM itaqueis vates aeternum essececinit, quem temporarium quoque universa ecit antiquitas,cum Iovem tra-xisse nxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos amores, per amatas Deo puellas, et (si ss esset ii  N re ponimus] reponimus  V  onte  V spiritum  V concedunt  V  Almenae  N V Arctos … tingi] Virg.  N V omnis … est] Phy.;. Phy;.Phy. N N V Aristotele … Chaos]. Phy.  N N V Arctos … tingi] Geo..Calcidicaque … arce] Aen..dicere) per Iovis adulteria intellexere, nisi AMORIS divini adventum in homines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verum agnoscere, pedem retrahere, caelum contempta terra conscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino AMORI, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICVM sanctum, diis vero NON AMICVM PROPHANVM arbitrabatur. Quicquid itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quae donantur hominibus, ipse etiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit, antiquissimum deorum esse AMOREM ut spiritum ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et primum intelligimus non modo qua deos alios anteit, verum etiam qua divina in nobis antecedit dona. Primum namque donorum omnium AMORE facit Aristoteles in Rhetoricis, quare nisi prius mortalibus AMOR detur, nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae AMICITIAM nobis conciliant divinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult, ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiae eo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit AMOR ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus AMICI efficiamur, non potest idem ipse AMOR non esse innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probetum nosse tum AMARE incipimus. Notitia enim AMORque Dei, quae praecipua a Deo munera generi humano tribuuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deo spiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid, quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quamobrem efficitur, ut AMOR ille, qui deus est, alia quam prius ratione possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum in udit se animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabi- ut] et V nixus V ille  sl. N suscepimus V ut] et  V prius  in marg.V  autem] etiam  V .– Dat … reperitur] Eut. N V ; Eutyphrone N Plato … Amorem] Symp. N N V] tur.Quod si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei AMOREM in discipulorum cordibus praedicat diffusum per spiritum, inquit, sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona, verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienim AMOR est donorum primum, nullo nos donari munere sequitur, nisi prius AMOREM spiritumque suscipiamus. Cum tamen non nullos constet improbos Spiritus divini dona suscepisse, spiritum tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a rismegisto et a Platone in medium afferri consuevere. Deum namque apellitare soliti sunt patrem, verum, bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua pro ecti sumus. Verum, ut id quod summum intelligimus. Bonum, ut id quod ut beatisimus adamamus. aria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est Deus. Quaenim Pater ac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, similitudinem servant eorum, unde sunt, atque hoc pacto in rebus est Deus. Esentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretal censuerunt. Ego omnia impleo, dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit. Ab Iove, inquit, principium musae. Iovis omnia plena. Ubi et sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovis esse plena omnia, atque ideo ab eo principium musae facere. Qui locus longe altius agit, quam prima carminis ronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipso est. Filias enim Iovis Homerus Musas ecit. Musas etiam caelestesque deos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat. Quare id circo docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerumque omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesit et pateret principium. Didicitex imaeo Deum esse non modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile est, effari autem nulliunquam as est. Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. rimegisto  illam] illi  N intelligmus  beatissimus] beatissimus V inquit  sl. N ac] et V advertimus V Ab plena] Virg. NV Didicit … est] im.NNV    At esse ubique Deum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus,est cognitionis et mentis, quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur namque Deo mens dum contemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in contemplante estDeus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamantibus. Illud cognitionis, hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum illud est interstitium, quod rei speciemaltera, altera non speciem, sed rem ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis, cumcontra bonumipsum ac malum, non in rerum imaginibus, sed in ipsissintrebus. Quaretertius hic nodus quoiungimurdeo, tanto est superiorepraestantior,quantoaurum, atque homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia qua-dam nos ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathematicae solent, quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et troianus eandem devenirent, ubiarctissimo connubiivinculoiungerentur. Atquehocest quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iungat, AMORIS vincula pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro AMORIS retinacula ut arctissima esse demonstraret, matrimonii illa et nuptia- vel sed V ii ipsi ac. V atque  N altera  om. NV sint sl. V nodus] modus  ac. V  potitur  V Iarbam] Hyarbam  N V  mathamaticis V denunciant V esse est] Enn. VI lib. cap. et   lib. cap. N N V  hoc artiorem]. Reip.  N NV  speluncam … devenirent] Aen. Rumiugosigni cavit. Idem quoque hicidem quo de agimus Spiritus effecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum et inmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori nomine appellate sunt, quamc onnubii atque nuptiarum. Quam obrem liberis, qui mores canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur. Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, quirationisest particeps, quadam et specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiam atque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo AMORIS bene ciodatseipsum. Iam itaque constarepalam potest, quaemunera AMORIS ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur hominibus, nisi ea AMORIS, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum, quo AMORIS hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium faciemus. Hoc idem in Platonico Symposio indicat, quod in AMORIS ortu enia Poro miscetur, ut aperte AMORIS vis intelligatur, cuius inaestimabili et bonitate et beneficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O Fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat AMOR, ubi suas Deus exercet nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamo cubat suo. Quidfasces, quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc AMOREM non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese aellureevehunt, caelum que lunae dum taxat aspiciunt, quam terrae naturam sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi AMORIS munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur atque] ac  V costare  V  quoque quo V  inestimabili  V; inextimabili  N N ac a V Hoc copuletur Symp.  N V ad aciemus Io. ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano abulantur. Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est, nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad amoris ignes acilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione similitudinum dimicant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam ut poterat sperabat, geminas qui forte columbas aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves. In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest,quiamoremabsquerebusaliissatisesse,res alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum prophetia, non cum miraculis semper datur deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si habeam, unum AMOREM non habeam, nihilomninosum. Quod vero sit donorum primum acitutaliquasempercum donis AMOR detur; si -- prior testo con note – apparato critico – Antonini. Ubi ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quaead mortals usque proveniunt. Utrum queenim in Symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus amor est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur. Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipueloquuntur, quae rma immota semper est, quasi quae novam rem pariat.Iam a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset,quod eri nulla potest ratione. Sane divinus ille AMOR ex aliquo semper effertur inaliquid, quod si qua manatex aliocogitetur AMOR, aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa donantur. Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut, quem ad modum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio et, efficiturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quamquam immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos animorum curandos, ille accedit amor. Ita ad aegrum se confert, ut agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum geminiAmores,geminaequesintVeneres,sicutPlatoniplacet, uterquesiprocesserit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum, morborum, malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elargitur. Hinc Menon ille Platonicus ait, mortales non nisi divino urore correptos bonos feri. Quae quidem sententia oraculo consentit, quo prae-dicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus uror in ra humanam sortem rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam mentem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVUERO COGITARI VOLEBAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTVM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORVM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furoresostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis,quartumetiam Venerisadiecitomnium maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisci quid prohibet, alibera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se facturam statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod intempore quicquamegerit, ut mutat autique dicenda esset, siquod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse,ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in temporedicimus procisciillumcumdivinoaliquoconiungiturmunere, quopriusnobisnonconiungebatur.Callistoetenim,etamantideomisce-tur prius, et deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem inrebus, non divinum amorem, sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina amicitia ac deinceps etiam caeli sede a divino amore donata est nactaque. Spiritusmunus est quippe quem nonaquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extin-guere non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentumobrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanc-tus ille Amor inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos reformidant ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et priusHomerus et postea Maro posteris prodiderunt: “Arctos Oceani metuen-tes aequore tingi, quod hii, quos divinus amor corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis tempestatibus non possint. Iam vero de AMORIS processibus quaesitumsaepe est, duonesint,anunus.Aliiduos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatesse contendunt, qui aduosuntad aliquid in spiritu: alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil rerum constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio ratio-nis. Nos medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos pro-cessus esse volumus, omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi coepit carcere, Calcidica que levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures esse dicendumest. Ita erme et amoris divini processus. Si ontem unde fluit adspicias,unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse principium ostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus, et huma-numgenus, id circoduosesse progressusasseverandumest. In onteenimsi quid est quodsitad aliquidin processu spiritus, unum dumtaxatest. In nibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut idem interpretatur, quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut etiam consensit interpres Averroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem Amorem constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM ita queis vates aeternum essececinit,quemtemporariumquoque universa ecit antiquitas,cum Iovem traxis senxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos amores, per amatas Deo puellas, et si as essetdicere per Iovis adulteria intellexere, nisi AMORIS  divini adventum inhomines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verumagnoscere, pedemretrahere, caelum contemptaterraconscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino Amori, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICUM sanctum, diis vero NON AMICUM PROPHANUM arbitrabatur. Quicquid itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quaedonantur hominibus, ipseetiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis Spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit, antiquissimum Deorum esse AMOREM, ut Spiritum ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et primum intelligimus non modoqua deos alios anteit, verum etiam qua divina in nobis antecedit dona.Primum namque donorum omnium AMOREM facit Aristoteles in “Rhetoricis”, quare nisi prius mortalibus amor detur, nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae amicitiam nobis conciliantdivinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult,ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiaeeo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit Amor ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus amici efficiamur, non potest idem ipse Amor non esse innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probe tum nosse tum amare incipimus; notitiaenim AMORque Dei, quae praecipua a Deo munera generi humano tri-buuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deospiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid,quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quam obrem efficitur, ut AMOR ille, qui Deus est, alia quam priusratione possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum inudit se animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabitur. Quod si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei amorem in discipulorum cordibus praedicat diffu-sum “per Spiritum,” inquit, Sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona, verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienimA AMORES tdonorumprimum, nullonos donarimunere sequitur, nisiprius AMOREM Spiritumque suscipiamus. Cum tamen nonnullos con-stet improbos Spiritus divini dona suscepisse, Spiritum tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a risme-gisto et a Platone in medium afferri consuevere. Deum namque apelli-tare soliti sunt Patrem, Verum, Bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua protecti sumus; Verum, ut id quod summum intelli-gimus; Bonum, ut id quod ut beati simus adamamus. ria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est Deus; quaenimPaterac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, simili-tudinem servant eorum, unde unt, atque hoc pacto in rebus est Deus:essentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretacensuerunt. Ego omnia impleo,” dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit: “Ab Iove,” inquit, “principium Musae; Iovis omnia plena”; ubiet sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovisesse plena omnia, atque ideo ab eo principium Musae acere. Qui locuslonge altius agit, quam prima carminis fronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipsoest. Filias enim Iovis Homerus Musas fecit. Musas etiam caelestesquedeos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat. Quare idcirco docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerum-que omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesitet pateret principium. Didicitex imaeo Deum essenon modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile est, effari autem nulliunquam as est.” Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. At esse ubiqueDeum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus, est cognitionis et mentis, quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur namque Deo mens dumcontemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in contemplante est Deus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamanti-bus. Illud cognitionis, hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum illud est interstitium, quod rei speciem altera, altera non speciem, sed rem ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis, cumcontra bonumipsum ac malum, noninrerumimaginibus, sedinipsissintrebus. Quaretertius hic nodus quoiungimur deo, tanto es tsuperiorep raestantior, quantoaurum, atque homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia quadam nos ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathemati-cae solent, quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et Troianus ean-dem devenirent, ubi arctissimo connubiivinculoiungerentur. Atque hoc est quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iun-gat, amoris vincula pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro amo-ris retinacula ut arctissima esse demonstraret, matrimonii illa et nuptiarum iugo signi cavit. Idem quoque hicidemquodeagimus Spiritus effecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum etinmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori nomineappellatasunt,quamconnubiiatquenuptiarum.Quamobremliberis,qui  AMORES canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur.Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, qui rationis est particeps,quadamet specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiamatque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo amo-risbeneficiodatse ipsum. Iamitaqueconstarepalampotest, quaemunera AMORES ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur hominibus, nisi ea amoris, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum, quo amoris hoc divinissimum signi󿬁-catum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium aciemus.”HocideminPlatonicoSymposioindicat,quodinAmorisortu Penia Poro miscetur, ut aperte Amoris vis intelligatur, cuius inaestimabili et bonitate et benficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat Amor, ubi suas Deus exer-cet nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamocubat suo! Quid asces, quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc Amorem non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese aellureevehunt,caelumquelunaedumtaxataspiciunt,quamerraenatu-ram sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi Amoris munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur  ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano fabulantur. Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est,nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad AMORIS ignes facilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione similitudinum dimi-  cant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam (ut poterat) sperabat, “geminas qui orte columbas aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves.” In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest, qui AMOREM absquerebusaliissatisesse,res alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum prophetia, non cum miraculis semper datur Deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si habeam, unum Amorem non habeam, nihilomninosum.Quodverositdonorumprimum acitutaliqua semper cum donisAMOR detur. Simplicitertamenexactequedari non dicitur, nisi dum munera tertii sunt generis et divina cum AMICITIA tribuuntur. Egidio Antonini. Antonini. Keywords: Ganimede, amore, amare, amatore, amante, amatum, significatum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Antonini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Antonino – imperare – filosofia italiaa – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. – marc’aurelio: antonino -- Grice: “Some call him Aurelio, but I call him Antonino, since the first time his thing was published in Latin, his thing was under ‘M. Antonini,’ no clue about the Aurelius!” -- Grice: “I once suggested to Strawson that he should write a dissertation on a comparison of Barberini’s and Xylander’s translation of Marcus Aurelius; you see, he was a Roman who philosophised in Greek; and he was translated to Latin only in the 1550s; and into Italian a century later! Sir Peter responded: “I guess you want me to detect all the misimplicata!’ ‘Misimpiegato,’ I replied!” Solo il presente ci è tolto, dato che solo questo abbiamo.»  (Marco Aurelio, Pensieri) Marco Aurelio Antonino Augusto (in latino: Marcus Aurelius Antoninus Augustus; nelle epigrafi: IMP·CAES·M·AVREL·ANTONINVS·AVG. Meglio conosciuto semplicemente come Marco Aurelio, è stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato dal futuro suocero e zio acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale.  Nato come Marco Annio Catilio Severo divenne Marco Annio Vero, che era il nome di suo padre, al momento del matrimonio con la propria cugina Faustina, figlia d’Antonino, e assunse quindi il nome di Marco Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero di Antonino stesso. Antonino e imperatore sino alla sua morte, avvenuta per malattia a Sirmio secondo Tertulliano o presso Vindobona. Mantenne la coreggenza dell'impero assieme a Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo genero, anch'egli adottato da Antonino Pio. Morto Lucio Vero, associa al trono suo figlio Commodo. È considerato dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward Gibbon. Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre partiche e marcomanniche), da carestie e pestilenze. Marco Aurelio è ricordato anche come importante filosofo stoico, autore dei Colloqui con sé stesso (Τὰ εἰς ἑαυτόν nell'originale in greco). Alcuni imperatori successivi utilizzarono il nome "Marco Aurelio" per accreditare un inesistente legame familiare con lui. Busto dell'imperatore Marco Aurelio (Musei Capitolini, Roma). Nome originale Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus Tribunicia potestas 9 anni (da solo), 6 con Lucio Vero, 4 con Commodo e 15 con Antonino Pio per un totale di 34 volte: la prima volta dal 1º dicembre del 147, rinnovata annualmente al 10 dicembre di ogni anno. Cognomina ex virtute Armeniacus nel 164, Medicus e Parthicus Maximus, Germanicus, Sarmaticus. Titoli: Pater Patriae, Salutatio imperatoria10 volte:[1] I (al momento della assunzione del potere imperiale) nel 161, (II) nel 163,[11] (III) 165,[12] (IV) 166, (V) 167,[13] (VI) 171,[14] (VII) 174,[15] (VIII) 175,[16] (IX) 177[17] e (X) 179.[1] Nascita26 aprile 121[18] Roma Morte17 marzo 180 Sirmio o Vindobona (attuale Vienna) PredecessoreAntonino Pio SuccessoreCommodo ConiugeFaustina minore FigliDomizia Faustina Aurelia Tito Aurelio Antonino Tito Elio Aurelio Lucilla Annia Aurelia Galeria Faustina Tito Elio Antonino Fadilla Annia Cornificia Faustina minore Commodo Tito Aurelio Fulvio Antonino Marco Annio Vero Cesare Vibia Aurelia Sabina Adriano Un altro figlio di cui non si conosce il nome nato dopo Tito Elio Antonino GensAnnia DinastiaAntonini PadreMarco Annio Vero adottivo: Antonino Pio MadreDomizia Lucilla Consolato3 volte: nel 140, 145 e 161. Le principali fonti per la vita e il ruolo di Marco Aurelio sono frammentarie e spesso inaffidabili. Il gruppo più importante è rappresentato dalle biografie contenute nella Historia Augusta, composte in epoca successiva al IV secolo.[34] Le biografie derivate principalmente da fonti ormai perdute (come Mario Massimo), ma anche da Eutropio e Aurelio Vittore, ovvero quelle di Marco Aurelio, Adriano, Antonino Pio e Lucio Vero, sono ritenute accurate e affidabili. Di Frontone, maestro di retorica di Marco e di vari funzionari di Antonino Pio, si conservano una serie di manoscritti irregolari, che coprono il periodo che va dal 138 al 166. Nei Colloqui con sé stesso Marco offre una finestra sulla sua vita interiore, ma gran parte dei libri risultano senza riferimenti cronologici e con pochi accenni al mondo esterno. La più attendibile fra le fonti del periodo è Cassio Dione, Egli scrisse una storia di Roma dalla sua fondazione al 229, chiamata Historia romana.[36] Altre fonti letterarie e giuridiche, come gli scritti del medico Galeno, le orazioni di Elio Aristide e le costituzioni imperiali dello stesso Marco Aurelio forniscono ulteriori informazioni sul contesto storico e sociale in cui visse l'imperatore. Epigrafi e monete possono integrarle, così come i numerosi reperti archeologici. La sua famiglia e di origine romana, ma stabilita da tempo a Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi), una piccola cittadina. Essa salì alla ribalta alla fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu senatore e forse pretore. Il nonno, anch'egli di nome Marco Annio Vero, fu elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio Vero, cioè suo padre, sposa Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna materna, eredita una grande fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto redditizia in un'epoca in cui la città era interessata da una notevole espansione edilizia. La famiglia della madre e di rango consolare, mentre quella del padre vanta addirittura una discendenza da Numa Pompilio. Busto di Marco Aurelio giovane uomo, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, collezione Farnese. Il busto (fino al collo) è un rifacimento moderno. Nacque da Vero e Lucilla il sesto giorno prima delle calende di maggio, l'anno del secondo consolato di suo nonno Marco Annio Vero, corrispondente all'anno 874 dalla fondazione di Roma. La sorella, Annia Cornificia Faustina, nacque probabilmente nel 122 o nel 123. Il padre Annio Vero muore giovane, durante la sua pretura, quando Marco ha solo tre anni. Anche se difficilmente può averlo conosciuto, scrisse nelle sue Meditazioni che ha imparato modestia e virilità dal ricordo di suo padre e dalla sua reputazione postuma. Lucilla non si risposa più. La madre di Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio, affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me. Dopo la morte del padre, anda a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma anche Lucio Catilio Severo, descritto come il bisnonno materno di Marco (probabilmente il patrigno o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipa alla sua istruzione. Crebbe nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era nato, in un quartiere che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio. E una zona esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina presa dal nonno dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o qualcuno del suo seguito potevano costituire una tentazione per Marco. La sua istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente, introducendo Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione. Per volere di Diogneto, prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a utilizzarne l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco. Altri tutores, Trosio Apro, Tuticio Proculo edAlessandro di Cotieno, descritto come un importante letterato (il principale studioso omerico del suo tempo), continuarono a occuparsi della sua istruzione. Deve ad Alessandro la sua formazione nello stile letterario, rilevabile in molti passi dei Colloqui con sé stesso. Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo contro la volontà delle persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e morì, costringendo il princeps Adriano a indicare un nuovo successore, quando la scelta cadde su Aurelio Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col nome di Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello stesso princeps, Antonino adotta Marco, allora diciassettenne, e il giovane Lucio Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo momento Marco muta il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Rimase sconcertato quando seppe che Adriano lo aveva adottato come nipote. Solo con riluttanza passò dalla casa di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano, che si ritiene non fosse ancora la casa di Tiberio, come veniva chiamata la residenza imperiale sul Palatino). Adriano chiese in Senato che Marco fosse esentato dalla legge che richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il candidato alla carica di questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima questore, ricevette quindi l'imperium proconsulare maius e il consolato. L'adozione facilitò il percorso della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente divenuto prima triumvir monetalis (responsabile delle emissioni monetali imperiali) e in seguito tribunus militum in una legione. Marco probabilmente avrebbe preferito viaggiare e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta che il suo carattere rimase inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per i rapporti come aveva quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e attento dei suoi beni come lo era stato quando viveva in una abitazione privata. La salute di Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando anche il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore, gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae, località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema polmonare. La successione di Antonino era ormai stabilita e non presentava appigli per eventuali colpi di mano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo "Pio". Governo con Antonino Pio (139-161)  L'adozione (Monumento dei Parti, oggi presso il Museo di Efeso di Vienna): Antonino Pio (al centro) con Lucio Vero di sette anni (a destra) e Marco Aurelio di diciassette anni (a sinistra, alle spalle). All'estrema destra, sembra esserci Adriano. Magnifying glass icon mgx2.svgEtà antonina. Subito dopo la morte di Adriano, Antonino pregò la moglie Faustina di accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i suoi precedenti accordi matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa fatta a Ceionia Fabia e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e bella figlia, inizialmente promessa a Lucio. Ricopre il suo primo consolato nel 140, con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi nominato princeps iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il titolo di Cesare,[69] divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito si schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato, Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis e i septemviri epulones. Antonino gli chiese di prendere la residenza nella Domus Tiberiana, uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto difficoltà a conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche, anche se ammirò sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di condotta integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva essere un obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile vivere una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile vivere la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver abusato della vita di corte di fronte alla società. Come questore, Marco sembra abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare lo Stato. Il 1º gennaio 145, Marco venne nominato console per la seconda volta, a soli ventiquattro anni. Una lettera di Frontone esortava Marco a dormire molto in modo che potrai entrare in Senato con un buon colorito e leggere il discorso con una voce forte. Marco si era lamentato di una malattia in una lettera precedente: Per quanto riguarda la mia forza essa è migliorata, sto cominciando a guarire e non vi è alcuna traccia di dolore nel mio petto, ma riguardo l'ulcera sto facendo un trattamento e faccio attenzione a non fare nulla che interferisca con esso. Marco era di salute cagionevole: lo storico romano Cassio Dione, scrivendo dei suoi ultimi anni, lo elogiò per essersi comportato a dovere, nonostante le numerose malattie. Matrimonio con Faustina  Busto di Faustina Minore, Louvre, Parigi. Nell'aprile del 145 Marco sposò la quattordicenne Faustina, come era stato programmato. Secondo il diritto romano, per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con le immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina. Dopo aver indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la sua formazione oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode Attico, e uno di latino, Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso come suo maestro di stile e di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e Attico erano gli oratori più stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori solo dopo la sua adozione da parte di Antonino. La preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda sofistica, una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma, Marco userà il greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui con sé stesso. Erode era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco d'Oriente e mal sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista; Marco, che sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei suoi Colloqui, nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei decenni successivi. Quinto Giunio Rustico in un disegno riportato nel Crabbes Historical Dictionary. Busto di Erode Attico in marmo, risalente al II secolo d.C. e conservato al Museo del Louvre di Parigi. Frontone godeva di grande reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura latina era considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che oggi, in base ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non correva una gran simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in ultimo far scorrere una vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco. Frontone non divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era il principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a far riconciliare i due. All'età di venticinque anni Marco cominciò a disamorarsi degli studi in giurisprudenza, mostrando segnali di un diffuso malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di prendere posizione in dibattiti immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale di Marco era ormai finita. Aveva mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti e continuava a seguirli con devozione, anche se la lunga istruzione ebbe negative influenze sulla sua salute.[89] Quando Marco era giovane Frontone lo aveva messo in guardia contro lo studio della filosofia, disapprovando come una deviazione giovanile le sue lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo. Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu proprio Rustico a suggerire. Nascite e morti nella famiglia. Il 30 novembre 147 Faustina diede alla luce una bambina di nome Domizia Faustina Aurelia. Era solo la prima di almeno quattordici figli (tra cui due coppie di gemelli) che Faustina avrebbe partorito nei successivi ventitré anni.[92] Il giorno successivo, 1º dicembre, Antonino Pio attribuì a Marco il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè l'autorità sugli eserciti e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato conferito. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.La prima menzione di Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma.[94] Lui e Faustina furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta poi nel 151.[92][95][96]  Nel 149 nacquero a Faustina due gemelli, celebrati da una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini e la scritta "felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono sepolti nel mausoleo di Adriano. Lo stesso Marco scrisse: Uno prega: «che io non debba perdere mio figlio!»; ma tu devi pregare: «che io non tema di perderlo! Marco Aurelio: aureo FAUSTINA MINOR RIC III 682-808351FAVSTINA AVGVSTA, busto con drappeggioFECVNDITA-TI AVGVSTAE, la Fecunditas (fertilità) seduta, con un bambino sulle ginocchia e altri due in piedi AV (7,37 g); 161 circa Il 7 marzo del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153 (un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non sopravvisse a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate solo le due femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui mancò la sorella di Marco, Cornificia.[92][96]  Un settimo figlio nacque e morì poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre due figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di Faustina e di Marco.[99] Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare, Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo. Lucio divenne questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni).[63] Nel 154 ottenne il consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere, in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. Antonino Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da Adriano,[102] seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato. Nel 156 Antonino Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico presso il princeps e poi non durò a lungo.[104] Nel 161 Marco e Lucio furono designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi la fine che infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti della Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium, due giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre. Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi si girò, come per andare a dormire, e morì. Dopo la morte di Antonino Pio, Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu "costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita filosofica, ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo. Anche se nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per Adriano, Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne in atto i piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare solo lui, egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli stessi onori: alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio Vero del titolo di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale, Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il nome di famiglia di Marco, Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo, divenne Imperatore Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma veniva governata da due imperatori contemporaneamente.[109]  Fin dalla sua ascesa al principato, Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse associato su un piano di parità (diarchia),[62][69] con gli stessi titoli, ad eccezione del pontificato massimo che non si poteva condividere. La formula era innovativa: per la prima volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e una parità totale tra i due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli stessi poteri, in realtà Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le ragioni pratiche di questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la memoria di Lucio Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare l'impero a Marco Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono completamente chiare. A dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe maggior auctoritas di Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso la carica già con Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E questo fu chiaro a tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando superiore al fratello più giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente obbedisce a un proconsole o un governatore obbedisce all'imperatore. Subito dopo la conferma del Senato, gli imperatori procedettero alla cerimonia di insediamento presso i Castra Praetoria, l'accampamento della guardia pretoriana. Lucio affrontò le truppe schierate, che acclamarono la coppia di imperatores. Poi, come ogni nuovo imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise alle truppe un donativo speciale, che fu il doppio di quelli passati: 20.000 sesterzi (5.000 denari) pro capite ai pretoriani, e in proporzione agli altri militari dell'esercito. In cambio della donazione, pari a diversi anni di stipendium, le truppe giurarono fedeltà ai due imperatori. La cerimonia non del tutto necessaria, considerando che l'ascesa di Marco era stata pacifica e incontrastata, costituì comunque una valida assicurazione contro possibili rivolte da parte dei militari. In seguito a questi eventi sembra che la moneta d'argento, il denario, cominciò un lento processo di svalutazione, che portò sia alla riduzione del suo peso che del suo titolo (% di argento presente nella lega), che passò dall'89% dell'epoca di Traiano al 79%. Il funerale di Antonino fu celebrato in modo che lo spirito potesse ascendere agli dèi, come era tradizione. Il corpo venne posto su una pira. Lucio e Marco divinizzarono il padre adottivo attraverso un sacerdozio preposto al suo culto, con il consenso del Senato. Secondo le sue ultime volontà, il patrimonio di Antonino non passò direttamente a Marco, ma a Faustina, che in quel momento era incinta di tre mesi. Durante la gravidanza sognò di dare vita a due serpenti, uno più agguerrito rispetto all'altro. A Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito Aurelio Fulvio Antonino e Commodo, che poi sarebbe succeduto al padre come imperatore. A parte il fatto che i gemelli erano nati lo stesso giorno di Caligola, i presagi sembra fossero favorevoli, e gli astrologi trassero auspici positivi per i due neonati. Le nascite furono celebrate sulla monetazione imperiale. Statua equestre di Marco Aurelio (Equus Marci Aurelii Antonini), in bronzo, situata al Campidoglio (copia moderna non fedele dell'originale che si trova ai Musei capitolini) Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a Lucio la figlia undicenne, Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle celebrazioni dell'evento, furono donate delle somme per i bambini poveri, come aveva fatto in precedenza Antonino Pio quando volle commemorare la moglie scomparsa. I sovrani divennero popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori concessero piena libertà di parola, come dimostra il fatto che un noto commediografo, un certo Marullus, poté criticarli senza subire ritorsioni. In ogni altro momento, sotto qualsiasi altro imperatore, sarebbe stato giustiziato. Ma era un periodo di pace e di clemenza e il biografo riporta che Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio. Marco Aurelio sostituì vari funzionari dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio Volusiano, responsabile della corrispondenza imperiale, con Tito Vario Clemente, un provinciale, originario del Norico, che aveva prestato servizio militare nella guerra in Mauretania e in seguito aveva servito come Procurator Augusti in cinque differenti province. Costituiva l'uomo adatto per affrontare un periodo di emergenza militare. Lucio Volusio Meciano, che era stato uno degli insegnanti di Marco Aurelio, era governatore della prefettura d'Egitto. Marco lo nominò senatore, poi prefetto della tesoreria (Praefectus aerarii Saturni) e poco dopo ottenne anche il consolato. Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei futuri consoli di età severiana Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio Frontone, venne nominato governatore della Germania superiore. Non appena la notizia dell'ascesa imperiale dei suoi allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la sua casa di Cirta e il 28 marzo rientrò nella sua residenza romana. Inviò una nota al liberto imperiale Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto con gli imperatori poiché, disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente agli imperatori. L'insegnante si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi allievi. Egli, ripensando al discorso tenuto per l'ascesa al consolato del 143, elogiò Marco con queste parole: C'era allora una straordinaria capacità naturale in te, perfezionata ora in eccellenza, il grano che cresceva è ora un raccolto maturo. Lucio era invece meno stimato dallo stesso precettore, i suoi interessi erano di livello inferiore. Annia Lucilla, figlia di Marco e moglie di Lucio Vero Il primo periodo di regno procedette senza intoppi, così che Marco Aurelio poté dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto popolare. Ben presto, però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine della Felicitas temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura proclamato. Nell'autunno del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando alcune comunità italiche e gran parte di Roma. Annegarono molti animali, lasciando la città in preda alla carestia. «Marco e Lucio affrontarono personalmente questi disastri» e le comunità italiche colpite dalla carestia furono aiutate, permettendo loro di rifornirsi del grano della capitale. In altri tempi di carestia, gli imperatori avevano tenuto le comunità italiche fuori dai granai romani. Gli insegnamenti di Frontone continuarono nei primi anni di regno di Marco. Frontone riteneva che, visto il ruolo ricoperto da Marco, le lezioni fossero più importanti oggi di quanto non fossero mai state prima. Riteneva che Marco desiderasse riacquistare l'eloquenza di una volta, eloquenza per la quale aveva per un certo periodo di tempo perso interesse. Frontone ricordò nuovamente al suo allievo l'antitesi tra il suo ruolo e le sue aspirazioni filosofiche: Supponiamo, Cesare, che tu possa raggiungere la saggezza di Cleante e Zenone, eppure, contro la tua volontà, tu non possa comunque avere la mantella di lana del filosofo.  I primi giorni di regno di Marco furono i più felici della vita di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma, era un ottimo imperatore, uno studente appassionato, e, forse più importante, eloquente come lui voleva. Marco diede prova di grande abilità retorica nel suo discorso al Senato dopo un terremoto avvenuto a Cizico. Aveva trasmesso il dramma del disastro, e il senato era stato intimorito: improvvisamente la mente degli ascoltatori era più violentemente agitata durante il discorso, che la città durante il terremoto". E Frontone ne fu enormemente soddisfatto. Politica interna: l'amministrazione dello stato In politica interna, Marco Aurelio si comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè "primo tra i senatori" e non da monarca assoluto, rivelandosi rispettoso delle prerogative del Senato, consentendogli di discutere e di decidere sui principali affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle nomine alle magistrature.[131] Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre categorie sociali: ai provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte cariche dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri antenati influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito personale. Egli concesse cariche a persone che riconosceva come illustri eruditi e filosofi, senza guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto amministrativo introdotto da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a quel momento aveva preservato l'Impero anche quando si erano succeduti imperatori dissoluti come Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra civile del 69, era imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire piena consapevolezza del proprio potere. Marco istituì l'anagrafe: ogni cittadino romano aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla loro nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e distrusse tutti i libelli diffamatori che circolavano su molte persone.[135] Proibì i processi pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai senatori l'antica immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove certe e una condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della rete stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio, o in fortezze, accampamenti e città.Egli non amava particolarmente i giochi gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva e li frequentava solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità militari ausiliarie di gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette richiamarli per il malcontento del popolo che, nonostante le economie necessarie a causa della guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i suoi ideali stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze locali portò alla formazione di una classe burocratica che presto volle arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe chiusa.   Marco Aurelio Pontefice Massimo Trascorse, inoltre, molto tempo del suo regno a difendere le frontiere. Tra le altre leggi proibì la tortura per i cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi, come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli schiavi, ma solo se non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve. Nei processi da lui presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per tutti, anche quando doveva emettere una condanna secondo le leggi.[142] Marco e Lucio stabilirono ad esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un genitore in un momento di follia, materializzando così un primo concetto di infermità mentale. Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie, prendendosi molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione. Avvocati di professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e, come sosteneva il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente giusto». Egli mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto: l'affrancamento degli schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta dei consiglieri cittadini (decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo tornò sui suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero stava affrontando a causa delle guerre marcomanniche. E mentre il fratello Lucio era impegnato in Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni familiari. La prozia Vibia Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una disputa legale, dato che il suo ingente patrimonio aveva attratto l'attenzione di molte persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti a farsi includere nel suo testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano essere riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex Falcidia: Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo patrimonio non alla propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes. Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che Matidia non aveva mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto di morte alcuni dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma quest'ultimo, studiato attentamente il caso, preferì che fosse il fratello a prendere la decisione finale. Benché a Roma vigessero la tortura e la pena di morte, applicate con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e stranieri, la normativa di molti imperatori "illuminati" cercò di ridurre il numero di reati punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito. Per Marco anche gli schiavi andavano trattati come persone, seppure subordinate, e non come oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore della classe servile. Alcuni critici tuttavia temevano che il movimento filosofico-giuridico legato alla politica di affrancamento degli Antonini, se non fosse stato profondamente ancorato al sistema economico romano, basato principalmente sulla schiavitù, avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto servile entro un secolo, ed avrebbe comportato gravi ripercussioni economiche. Marco mostrò un grande interessamento affinché a ogni schiavo fosse data la possibilità di riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone avesse espresso la propria disponibilità a restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa di manomissione, portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino, e citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo, egli favorì uno schiavo. Coerente con lo stoicismo, filosofia contraria alla schiavitù, emanò numerose norme favorevoli alla classe servile, estendendo le leggi già promulgate dai suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per esempio il concetto di diritto di asilo per gli schiavi fuggitivi (che potevano essere puniti e uccisi in ogni modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si trovassero presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua dell'imperatore. Sul letto di morte, Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei confronti di alcuni re clienti, che il Birley interpreta fossero quelli posti lungo i confini orientali. Il cambio al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia incoraggiato Vologese IV di Partia ad aggredire, nella seconda metà del 161, il Regno d'Armenia, alleato dell'Impero romano, nominando un re fantoccio a lui gradito, Pacoro III, un arsacide come lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e parzialmente sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima (114-116), era così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle province orientali romane dagli antichi territori dell'Impero persiano.[154][156]  Il governatore della Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i Parti facilmente, condusse una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva completamente distrutta. E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si profilavano lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del limes germanico-retico, dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra che Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche poiché, come ricorda il suo biografo, non aveva potuto maturare un'adeguata esperienza militare, avendo trascorso l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come Traiano o Adriano. Scena di guerra tra Romani e Parti, sul Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo delle vittorie di Lucio Vero e Marco Aurelio contro Vologese IV. Poco dopo giunse la notizia che anche l'esercito del governatore provinciale della Siria era stato sconfitto dai Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era quindi necessario intervenire con grande rapidità, anche nella scelta dei migliori ufficiali da inviare lungo quel settore dell'Impero così strategicamente importante. Marco pose a capo della spedizione (expeditio parthica) il fratello Lucio perché, come suggerisce Cassio Dione, era robusto e più giovane del fratello Marco, più adatto all'attività militare. Birley suggerisce che Marco volesse spingere Lucio ad abbandonare la vita dissoluta che conduceva e a capire i suoi doveri. In ogni caso, il Senato diede il suo assenso, e nell'estate del 162 Lucio partì, lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la città ha chiesto la presenza di un imperatore. Era però necessario affiancare a Lucio un adeguato staff militare (comitatus), ampio e ricco di esperienza, e che comprendesse anche uno dei due prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito Furio Vittorino. I rinforzi vennero inviati da numerose province imperiali fino alla frontiera partica. Frattanto Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium, una nota località turistica sulle coste dell'Etruria, ma le numerose preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse allora all'amico Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di descrivergli nei particolari quello che stava facendo a Alsium, perché sapeva che sarebbe stato rimproverato. Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare, prendendo esempio dai suoi predecessori: Antonino era stato un appassionato di palaestra, di pesca e di teatro, Marco trascorreva invece gran parte delle sue notti insonni a risolvere questioni giudiziarie. Dai loro scambi epistolari sappiamo che Marco non riuscì a mettere in pratica i consigli di Frontone poiché ho doveri che incombono su di me che difficilmente possono essere delegati e rimandati, adducendo la sua devozione al dovere. Conclude informandosi della salute dell'amico e salutandolo addio mio ottimo maestro, uomo dal cuore buono. Frontone rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico una selezione di letture e, per rimediare al suo disagio per lo svolgimento della guerra contro i Parti, una lunga e meditata lettera, piena di riferimenti storici, indicata, nelle edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello Parthico (Sulla guerra partica). Frontone scrive che, anche se in passato Roma aveva subito pesanti sconfitte, alla fine i Romani avevano sempre prevalso sui loro nemici: Sempre e ovunque Marte ha cambiato le nostre difficoltà in successi e i nostri terrori in trionfi.[164]   Il teatro delle campagne militari orientali di Lucio Vero Intanto Lucio, partito dall'Italia e giunto dopo un lungo viaggio in Siria, fece di Antiochia il suo "quartier generale", trascorrendo gli inverni a Laodicea e le estati a Daphne. Durante la guerra, nel periodo autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a Efeso per sposarsi con Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante circolassero voci sulle sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna di umili origini. Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla madre Faustina, insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro, nominato per l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare la figlia fino a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a Roma, inviò istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non preparassero alcun ricevimento ufficiale. La capitale armena Artaxata, venne presa nel 163 e alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di Armeniacus, pur non avendo mai partecipato direttamente alle operazioni militari, mentre Marco si rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno successivo. Al contrario, quando Lucio venne acclamato imperator, anche Marco accettò la sua seconda salutatio imperatoria. Le armate romane si attestarono stabilmente in Armenia e l'ex console di origine emesana, Gaio Giulio Soemo, venne incoronato re tributario d'Armenia, con l'assenso di Marco. Vide le armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia, dove posero sul trono il re vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le metropoli gemelle della Mesopotamia: Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e Ctesifonte su quella sinistra. Entrambe le città vennero occupate e date alle fiamme. Cassio, nonostante la penuria di rifornimenti e i primi effetti della peste contratta a Seleucia, riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua armata vittoriosa. Lucio venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme a Marco venne salutato nuovamente imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione imperiale. Ancora Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri, permettendo a Lucio di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco otteneva la IV salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus. I Parti si ritirarono nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di dover ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus legionis della III Gallica, una delle legioni siriane. Al ritorno dalla campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).[176]  Scambi commerciali con l'Oriente Magnifying glass icon mgx2.svgRelazioni diplomatiche sino-romane. Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda, infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo predecessore, Antonino Pio, in quanto Antoun equivarrebbe in lingua cinese al nome latino della famiglia imperiale degli "Anto[u]n-ini". Statua di Marco Aurelio in uniforme militare (Museo del Louvre, Parigi).  Marcomanni e Sarmati nel 178 Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale. Le tribù germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i confini settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo nuovo slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro volta dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima invasione di Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia, clienti dell'impero romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò contro un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori compresi tra il Danubio e il fiume Tibisco. Secondo la Historia Augusta, conclusa la guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni, una coalizione di natura militare, composta da una decina di popolazioni germaniche e sarmatiche (dai Marcomanni propriamente detti della Moravia, ai Quadi della Slovacchia, dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della piana del Tibisco, fino ai Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei continui flussi migratori che avevano ormai modificato gli equilibri con il vicino Impero romano. Questi popoli erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi, sia in conseguenza della forte spinta che subivano da altre popolazioni, sia per il continuo aumento demografico della Germania Magna. Erano, inoltre, attratti dalle ricchezze e dalla vita agiata del mondo romano. In quel periodo la frontiera danubiana non poteva contare su buona parte dei suoi effettivi, sia perché molte legioni avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti alla guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato numerosi reparti. Tale epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica prolungatasi per oltre un ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste nera. Nel 166/167 avvenne il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera di poche bande di predoni longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento delle truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le limitrofe popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei barbari aggressori, recatisi pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di Carnunto (nel 168).[184]  Al ritorno dalla campagna partica l'esercito portò con sé una terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la "peste antonina" o "peste di Galeno", che si diffuse a partire dalle fine del 165 per quasi un ventennio, mietendo milioni di vittime e riducendo drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno dopo la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse invece essere vaiolo o morbillo,[185] avrebbe finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi. La malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma, infettando fino a un quarto dell'intera popolazione. I decessi totali sono stati stimati in cinque milioni. La colonna di Marco Aurelio o colonna antonina, fatta costruire dal figlio Commodo Dopo che la morte colse Lucio agli inizi del 169 (secondo la Historia Augusta in seguito ad un attacco apoplettico che lo colpì non molto distante da Aquileia,[187] mentre autori moderni sostengono che il decesso, forse causato dalla stessa peste, sopraggiunse mentre era impegnato in nuove manovre militari lungo il limes danubiano), Antonino si trova ad affrontare da solo i barbari ribelli e con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali, organizzò una vendita all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi appartenenti al patrimonio imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo, vasellame regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta moglie, oltre a una raccolta di gemme trovata in un forziere di Adriano. In quell'anno Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo marito, il fedele Claudio Pompeiano, un militare esperto e affidabile, premiato in seguito con il consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono, al posto dello scomparso Lucio Vero, conferendogli perlomeno il titolo di Cesare, ma egli rifiutò sempre la porpora imperiale. Frattanto lungo il fronte settentrionale, i Romani subirono un paio di pesanti sconfitte contro le popolazioni di Quadi e Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo) e assediarono Aquileia, il cuore della Venetia, la principale città romana del nord-est dell'Italia. Questo evento provocò un'enorme impressione: era dai tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del nord Italia.[192]  Contemporaneamente la popolazione dei Costoboci, proveniente dalla zona dei Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia, spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare il santuario di Eleusi. Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a respingere gli invasori. Numerosi barbari germanici vennero allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse una novità, Marco si adoperò per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra l'odierna Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera chiamate Sarmazia e Marcomannia. Quelli che erano stati insediati a Ravenna si ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco non portò mai più nessun altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che qui si erano stabili ti in precedenza. Marco fu così costretto a combattere una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del Nord, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia Cisalpina, del Norico e della Rezia, poi contrattaccando con una massiccia offensiva in territorio germanico e sarmatico, in scontri prolungatisi per diversi anni. L'imperatore, in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognomina Germanicus (172) e Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli Armeniaco, Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la morte di Lucio Vero, giacché andava a quest'ultimo il merito del loro conseguimento;[195] tuttavia egli, per via dell'impegno profuso lungo il fronte pannonico, non riuscirà più a far ritorno a Roma.  Dione e gli altri biografi raccontano anche alcuni episodi particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo della pioggia, rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna di Marco Aurelio.[196] I Romani, circondati dai Quadi in territorio nemico, si salvarono a stento da un possibile nuovo disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti cristiani per sostenere che non sarebbero state le preghiere dell'imperatore a ottenere la pioggia in favore dei soldati romani assetati, ma quelle di alcuni legionari di fede cristiana.[197]  Sempre nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in Egitto, guidata dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa città di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio Cassio e le discordie interne ai rivoltosi portarono alla fine del conflitto entro breve tempo[198].  Rivolta di Cassio (175) Magnifying glass icon mgx2.svgAvidio Cassio § La ribellione. Nel 175, mentre preparava una nuova campagna contro le popolazioni della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla notizia che il governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei migliori comandanti militari romani, alla falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato imperatore. Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la Historia Augusta, Avidio Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina, poiché la stessa credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero potesse cadere nelle mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo giovane. Cassio venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la gran parte delle province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si schieravano a fianco dei ribelli.  All'inizio Marco cercò di tenere segreta la notizia dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla pubblica, di fronte all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso (adlocutio) rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra Romani. Ma dopo soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò ufficialmente falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico dello stato e del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La testa dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.[200]  Viaggio in Oriente (175-176) Marco Aurelio: aureo[201] MARCUS AURELIUS RIC III 357-159422M ANTONINVS AVG GERM SARM, testa laureata con corazza e paludamentumTR P XXX IMP VIII COS III, la Felicitas con caduceo e scettro AV (7,33 g); coniato nel 176 Nell'ultimo decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali imperiali, Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma. Insieme alla moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai comites del consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le province orientali nel 175-176.[202] Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse a Tarso, sostando in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati dalla parte di Avidio. Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina morì in circostanze poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in Cappadocia ai piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla morte dell'Augusta: una prima ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto accordi per la successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la gotta; una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza all'età di quarantacinque anni. Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente con degne cerimonie a Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso accompagnato il marito in guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a essere insignita del titolo di mater castrorum.[204] Halala, il villaggio dove era morta, venne rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono istituiti collegi di sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo dell'istituzione benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino Pio, istituzione che si occupava di fanciulle orfane della penisola italica.[204] Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio, spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il marito, con marinai e gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe nato Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia Augusta. Dopo questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la Siria, forse fermandosi a visitare la città di Antiochia (che si era schierata con Cassio), perdonandone i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato, incontrando alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I. Riprese, quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel 176 in Egitto, dove ricevette una delegazione dei Parti. Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove incontrò Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il filosofo cinico Zenone aveva fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto, dichiarandosi "protettore della filosofia". Istituì quattro cattedre permanenti di studio, finanziandole, una per ogni principale scuola filosofica: platonici, aristotelici, epicurei e stoici.[209] In Grecia prese parte anche ai riti dei misteri eleusini.Durante il tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani. Decise di associare al trono imperiale il figlio Commodo, l'unico maschio superstite tra i suoi figli (dopo la morte del giovane Marco Vero Cesare e quella di alcuni nipoti), nominandolo Augusto e concedendogli la tribunicia potestas e l'imperium, benché avesse nei confronti del figlio alcune perplessità.[214] Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia Crispina. A Roma, si dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di riparare a torti e abusi del passato; dispose la celebrazione di giochi circensi, mettendo però un limite di spesa a quelli gladiatorii.  Il 23 dicembre del 176, Marco, che aveva battuto le popolazioni germaniche e sarmatiche a nord del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da poco nominato Augusto. In suo onore venne eretta una statua equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei Conservatori. Offensiva finale in Marcomannia e Sarmatia (177-180)  L'impero romano alla fine del regno di Marco Aurelio, nel 180 L'apparente tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche, in particolare Marcomanni, Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto del 178 Marco fu infatti costretto a marciare ancora una volta verso la frontiera danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai più tornato a Roma. Egli fece della fortezza legionaria di Brigetio il suo nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima campagna nella primavera successiva del 179, che aveva come obiettivo quello di occupare stabilmente parte della Germania Magna (Marcomannia) e della Sarmatia.[219] Si racconta infatti che:  «I Quadi essendo poco disposti a sopportare la presenza di forti romani costruiti nel loro territorio tentarono di migrare tutti insieme verso le terre dei Semnoni. Ma Marco Aurelio Antonino che ebbe queste informazioni in anticipo della loro intenzione di partire per altri territori, decise di chiudere loro tutte le vie di fuga, impedendo la loro partenza.»  (Cassio Dione, 72, 20.2.) Dopo una vittoria decisiva nel 178, il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia), per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche, sembrava avviato al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si ammalò gravemente nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo costringesse a fare uso anche di oppio per alleviare il dolore persistente che lo affliggeva da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo stesso Galeno.[221]  Morte (180)  Eugène Delacroix, Ultime parole dell'imperatore Marco Aurelio, una rappresentazione moderna della morte di Marco: l'imperatore, al centro, siede a letto, circondato da amici e dignitari, e stringe il braccio di Commodo (a destra), vestito di rosso, sbarbato e abbigliato in maniera orientaleggiante, con orecchini e una corona, e che appare distante e poco interessato. «Uomo, sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c'è di grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire che il dramma è completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una né dell'altro. Quindi parti sereno: chi ti congeda è sereno.»  (Marco Aurelio, 12.36.) Marco Aurelio muore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna).[19] Secondo invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia),[20] che fungeva da quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Il Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio (che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di Sirmio. Iniziando a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del padre. Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di partire. Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così la malattia per permettergli di morire il più rapidamente possibile. Il sesto giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse loro: perché piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene. Mentre anche i soldati si disperavano per lui, alla domanda su a chi affidasse il figlio, rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza, ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte morì.[224] Cassio Dione aggiunge che la morte avvenne "non a causa della malattia per cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo", anche se secondo il Birley, "è inutile avanzare ipotesi". Officiato il funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato, mentre le sue ceneri furono portate a Roma e deposte nel mausoleo di Adriano, che divenne così il sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori successivi, finché il sacco visigoto della città lo danneggiò gravemente. Le sue campagne vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio. Marco Aurelio aveva stabilito che a succedergli fosse il figlio Commodo, che già aveva nominato Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore). Questa decisione, che mise di fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo non solo era estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu inoltre descritto, già in giovane età, come estremamente egoista e con gravi problemi psichici, appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui lui stesso prendeva parte), passione ereditata dalla madre.  Marco Aurelio riteneva, a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero come quello romano, ma così non fu. A conclusione del principato di Marco Aurelio, Cassio Dione scrisse un elogio all'imperatore, pur descrivendo il passaggio a Commodo con dolore e rammarico. Marco non ebbe la fortuna che meritava, perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare, per la durata del suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo ammiro maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e straordinarie, non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese infelice, il fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi deluse le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo argomento, dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia, decaduta da un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.»  (Cassio Dione, 72, 36.3-4.) Carattere e pensiero filosofico Magnifying glass icon mgx2.svgColloqui con sé stesso, Pensiero di Marco Aurelio e Letteratura greca alto imperiale.  Statua equestre di Marco Aurelio (Roma, Musei capitolini) Marco Aurelio fu l'ultimo grande esponente dello Stoicismo. Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, come esercizio per il proprio orientamento e auto-miglioramento. Il titolo è stata un'aggiunta postuma, originariamente Marco intitolò l'opera “A se stesso”, ma non si sa se avesse intenzione di renderla pubblica. Il saggio è considerato uno dei capolavori filosofici di tutti i tempi. Sii come il promontorio contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi è capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi è capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna?»  (Marco Aurelio, 4.49.) Politica religiosa e atteggiamento nei confronti dei cristiani Magnifying glass icon mgx2.svgPersecuzione dei cristiani sotto Marco Aurelio. Sebbene Marco abbia da sempre seguito la linea indulgente degli imperatori Adriano e Antonino Pio, che continuò nei confronti dei culti ammessi, è elencato tra gli imperatori persecutori dei cristiani. Molti disordini si verificarono sotto il regno di Marco Aurelio, segnato da epidemie, carestie e invasioni e più volte le folle diedero la caccia ai cristiani, ritenuti responsabili di tutto (per aver causato la collera degli dèi, avendoli negati), e i martiri furono numerosi. Marco Aurelio, personalmente, non mostrò esplicito disprezzo per i cristiani, né li considerò un vero pericolo, ma piuttosto dei fanatici.[229][230]  Monetazione imperiale del periodo Magnifying glass icon mgx2.svgMonetazione degli Antonini. Il prototipo di statua equestre è senza alcun dubbio la statua equestre di Marco Aurelio. In precedenza l’opera bronzea si trovava nella piazza del Campidoglio a Roma, prima di essere sostituita da una copia e trasferita nell’adiacente Palazzo dei Conservatori. Historia Augusta, Cassio Dione, Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.  Tertulliano, 25.  Grant 1996,27.  Testo per esteso dell'epigrafe: Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus.  Il luogo della morte è incerto tra Sirmio o Vindobona: Tertulliano, 25: (LA) «[...] cum M. Aurelio apud Sirmium rei publicae exempto die sexto decimo Kalendarum Aprilium [...]» «essendo stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17 marzo.»  Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.14: (LA) «Ita anno imperii octavo decimoque aevi validior Vendobonae interiit, maximo gemitu mortalium omnium» «Il diciottesimo anno del suo governo, tra grandi lamenti, il più forte e più grande di tutti gli uomini morì a Vindobona»  Riportato invece così in Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 16.12 (compendio, più tardo, della stessa opera di Vittore, attribuita a lui stesso, ma con molta incertezza): (LA) «Ipse vitae anno quinquagesimo nono apud Bendobonam morbo consumptus est» «Egli stesso, nel cinquantanovesimo anno della sua vita, venne consumato da una malattia a Vindobona.»   Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.9; McLynn 2009,24.  Cassio Dione, 69, 21.1.  Asse della zecca di Roma antica (del 151-152), RIC, III, 1308a (Antoninus Pius); BMCRE,1917; Cohen, Cassio Dione, 72, 11.3-5.  Machiavelli 1531, I.10.  Gibbon 1776-1789, capitolo I: Estensione e forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini; in particolare I.78, in cui l'autore descrive il buon governo degli imperatori adottivi; inoltre,273 nota 4 del testo disponibile su Google libri, in cui usa l'espressione "good emperors".  Cassio Dione, 72, 14.3-4. Il libro completo, che parla dell'epidemia avvenuta sotto Marco Aurelio, è andato perduto; questa nuova epidemia fu la più grave che lo storico avesse mai visto, a quanto narra nella "vita di Marco Aurelio".  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 12.13, 17.1-2 e 22.1-8.  Renan 1937.  Tra questi vi furono: Marco Aurelio Probo (CIL XI, 1178), Marco Aurelio Mario (imperatore nelle Gallie), Marco Aurelio Caro e Marco Aurelio Carino (CIL VIII, 10956), oltre a due imperatori suoi omonimi, Caracalla (AE 1911, 56) ed Eliogabalo (il cui nome imperiale ufficiale era "Marco Aurelio Antonino"; CIL VI, 40677 e AE 1990, 469) e che furono i primi, pur non appartenendo alla dinastia antonina, ad usare il suo nome. Questi ultimi due, in particolare, come già il padre di Caracalla, Settimio Severo, che aveva riabilitato la memoria di Commodo, divinizzandolo e rimuovendo la damnatio memoriae imposta dal Senato, e dato al figlio il nome di Marco Aurelio, cercavano un collegamento diretto con gli Antonini al fine di nobilitare le loro origini africane e asiatiche, quindi provinciali. Inoltre, una delle mogli di Eliogabalo era una nipote di Marco Aurelio stesso, Annia Faustina. Il nome Marco Aurelio divenne, quindi, un nome di famiglia dei Severi e, come «Cesare», «Augusto» e, più tardi, «Flavio», venne utilizzato come prenome imperiale da molti altri.  Birley 1990,317-318.  Birley 1990,269 ss.  Birley 1990,316.  Birley 1990,313-319.  CIL II, 656 (p 696).  Birley 1990,31.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, Birley 1990,32-34.  McLynn 2009,14.  Birley 1990,34.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.  Poiché suo fratello Marco Annio Libone è stato console nel 128 e difficilmente potrebbe essere stato pretore più tardi del 126, Annio Vero deve essere stato a sua volta pretore prima di questa data, verosimilmente, appunto, nel 124.  Birley 1990,34-35; Marco Aurelio, 1.2  Birley 1990,36-37; Tacito, Dialogus de oratoribus, 28-29; Marco Aurelio, 5.4.  Marco Aurelio, 1.3.  Birley 1990,40; Marco Aurelio, 1.17.7.  Birley 1990,35; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.1; Marco Aurelio, 1.14.  Birley 1990,39; Marco Aurelio, 1.1.  Marco Aurelio, 1.17; Birley 1990,39.  Marco Aurelio, 1.4.  Marco Aurelio, 1.6.  Norelli,75 Marco Aurelio, 1.6; Birley 1990,43.  Marco Aurelio, 1.10 e 1.12; Birley 1990,46.  Birley 1990,51-52.  Guido Clemente 2008,629-630.  Birley 1990,55 ss.  Guido Clemente 2008,630.  Birley 1990,69.  Birley 1987,38-42.  Birley, Cassio Dione, 69, 22.4; Historia Augusta, Hadrianus, 25.5-6  Cassio Dione, 69, 22.1-4; Historia Augusta, Hadrianus, 24.8-13.  Birley 1990,63-66; Grant 1996,12.  Birley 1990,63.  Mazzarino 1973,328.  Marco Aurelio, 6.30: "Bada di non cesarizzarti, di non impregnarti con la porpora: succede infatti".  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 6.5; Birley 1990,67-68.  Marco Aurelio, 1.16.  Marco Aurelio, 5.16.  Birley 1990,68.  Marco Aurelio, 8.9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4 e 3.6.  Birley 1990,108.  Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.8 (trad. da Haines 1.184 ss.).  Cassio Dione, 71, 36.3.  Grant 1996,24.  Birley 1990,110-111.  Marco Aurelio, 1.11.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4; Cameron 1967,347.  Aulo Gellio, 9, 2.1–7 e 19.12; Birley 1990,76-78.  Birley 1990,65-67; molti critici moderni hanno avuto dubbi per l'ammirazione dei contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche: Barthold Georg Niebuhr, lo descrisse "frivolo", Samuel Adrian Naber lo trovò "disprezzabile" (Champlin 1980, capp. 1-2); altri lo hanno definito "pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né l'analisi politica di un Cicerone né l'introspezione di un Plinio (Mellor 1982 commentando Champlin 1980); una ricerca prosopografica degli anni '80 ha riabilitato, almeno in parte, la sua reputazione, cfr. ad esempio, sempre Mellor 1982 su Champlin 1980.  Birley 1990,88 ss.  Birley 1990,78.  Birley 1990,113.  Birley 1990,114 ss.  Birley 1990,83 ss.; Marco Aurelio, 1.8.  Marco ricorda Epitteto come una guida spirituale, facendo spesso riferimento alle sue Diatribe e al Manuale come ad esempio in Marco Aurelio, 11.34, dove lo cita e ne commenta alcune massime.  Birley 1990,336-339.  Birley 1990,126 ss.  Champlin 1980,174 n. 12.  Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.11 (trad. da Haines 1.202 ss.).  Birley 1990,130-132.  Marco Aurelio, 9.40.  RIC, III 682 (Aurelius); MIR, 18, 13-2a; Calicó, 2055 (moneta illustrata); BMCRE,399 note.  Inscriptiones Graecae ad Res Romanas pertinentes, 4.1399, tradotta da Birley 1990,140.  Birley 1990,205 e 339.  Historia Augusta, Lucius Verus, 2.9-11 e 3.4-7; Birley 1990,132-133.  Forse in omaggio ai filosofi greci o a causa di una cicatrice (cfr. Melani, Fontanella e Cecconi,58).  Bianchi Bandinelli e Torelli 1976, scheda 131 (ritratti di Adriano).  Birley 1990,137-138.  Birley 1990,140.  Cassio Dione, 71, 33.4-5.  Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.4-8.  Birley 1990,142; Historia Augusta, Pertinax, 13.1 e 15.8  Birley 1990,142-143.  Historia Augusta, Lucius Verus, 4.2.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 15-16.  Historia Augusta, Lucius Verus, 3.8; Birley 2000,156  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 7.9.  Savio 2001,331.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 7.10-11; Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.8; Birley 1990,144-145.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-2; Birley 1990,145.  Historia Augusta, Commodus, 1.2.  Birley 1990,145-147.  Birley 1990,145-146 cita Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 155 ss.; 949 ss.  Cassio Dione, 71.1, 3; 73.4.4–5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.1.  Birley 1990,150.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.8; Birley 1990,151 cita Eck 1995,65 ss.  Vittorino minore fu console assieme al nipote di Marco Aurelio, Tiberio Claudio Severo Proculo nel 200 (AE 1996, 1163 e CIL III, 8237).  Birley  cita Frontone, Ad Verum Imperator 1.3.2 (trad. da Haines 1.298 ss.).  Frontone, Ad Antoninum Imperator 4.2.3 (trad. da Haines 1.302 ss.).  Birley 1990,148 ss.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.4-5.  Birley 1987,278.  Birley 1990,158 ss.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8-10 e 12.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 10.  Pulleyblank 1999.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 11.  La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42 m) fu eretta per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-sarmatico del Danubio. La colonna era sormontata da una statua dell'Imperatore, dove ora è posta quella di san Paolo, così come accadde per la colonna di Traiano, dove venne posizionata una statua di san Pietro in sostituzione di quella dell'Optimus princeps), in Coarelli 2008,42-43.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17 e 23.  Renan, Eusebio, 5.1.77.  Codice Giustinianeo, Digesto, 1, 18, 13.  Codice Giustinianeo, Digesto, XVIII, 1,42.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 24.1-3.  Codice Giustinianeo, Digesto, XLVIII, 9, 9, 2.  Codice Giustinianeo, Digesto, XXXI, 67.10: «Item Marcus imperator […] et ideo princeps providentissimus et iuris religiosissimus cum fideicommissi verba cessare animadverteret, eum sermonem pro fideicommisso rescripsit accipiendum».  Birley 1990,165 ss.; Millar 1993,6 e ss. Vedi anche Millar 1967,9-19  Frontone, Ad Antoninum Imperator 2.1-2 (trad. da Haines 2.94); Birley 1990,164; Champlin 1980,134.  Historia Augusta, 24.1-3.  Svetonio, Titus, 8 e 9.  Casadei e Mattarelli 2009,107-108.  Bloch 1947.  Renan 1937,336-337.  Birley 1990,170-172.  Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.7; Birley 1990,148.  Birley 1990,149.  Mazzarino 1973,335 ss.  Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Frontone, De bello Parthico 1-2 (trad. da Haines 2.21-23); e 10 (trad. da Haines 2.31); Guido Clemente 2008,633.  Luciano di Samosata, Alessandro, 27.  Cassio Dione, 71, 2.1; Luciano di Samosata, 21; 24-25  Cassio Dione, 71, 2.1.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.9.  Birley 1990,151-154.  Birley 1990,154-155.  Champlin 1980,134; Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Birley 1990,156-157.  Frontone, De bello Parthico 10 (trad. da Haines 2.31); Birley 2000,150-164; Birley 1990,157.  Historia Augusta, Lucius Verus, 9; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4; Birley 1990,159.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4-6; Historia Augusta, Lucius Verus, 7.7; Birley 1990,162.  Birley 2000,163.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.1; Historia Augusta, Lucius Verus, 7.1-2; Frontone, Ad Verum Imperator 2.3 (trad. da Haines 2.133); Birley 1990,159; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, 233 e ss..  Birley 2000,162.  Farrokh 2007,165; RIC, III, Antoninus Pius to Commodus, n. 511-513255 e n. 1370-1375322.  Birley 1990,163.  Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 261ff.; 300 ff.  Birley 1990,174.  ILS 1098; Birley 1990,179-180; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus,401 ss..  Birley 2000,164.  Birley 1990,183.  Birley 1990,180; Pulleyblank 1999; Mazzarino 1973,338 ss..  Frontone, De nepote amisso 2 (trad. da Haines 2.222); Frontone, Ad Verum Imperator 2.9-10 (trad. da Haines 2.232 ss.)  Birley 1990,164-165.  Lucio Dasumio Tullio Tusco, un lontano parente di Adriano, fu inviato in Pannonia superiore, per sostituire l'esperto Marco Nonio Macrino. La Pannonia inferiore venne affidata al poco conosciuto Tiberio Aterio Saturnino. M. Servilio Fabiano Massimo venne trasferito dalla Mesia inferiore a quella Superiore quando Iallio Basso si era recato ad Antiochia di Siria da Lucio Vero. La Mesia inferiore venne allora affidata al figlio, Marco Ponzio Leliano. La Dacia venne divisa in tre distretti, governati da un senatore pretoriano e da due procuratori. La pace non poteva durare a lungo, la Pannonia inferiore disponeva di una sola legione, ad Aquinco. Cfr. Alföldy 1977, Moesia Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia, 245 ss.; Pannonia Inferior,251.  Birley 1990,189.  Southern 2001,203-206.  Ruffolo 2004,84.  Birley 1990, 194-197.  Stathakopoulos 2004,95.  Birley 1990,186-187.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 14.8; Historia Augusta, Lucius Verus, 9.11.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17.4.  Cassio Dione, 72-2, 3; 73-4,5 e 20,1; 74-3, 1,2.  Birley 1990,207; Alföldy 1977, Moesia Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,245 ss.; Pannonia Inferior,251.  Questa invasione avvenne secondo Birley 1990,184-186, 194-196 e 207-208 ed altri studiosi moderni (Brizzi e Sigurani 2010,393-394 e 398) nel 170.  Birley 1990,208-213.  Guido Clemente 2008,635.  Kneissl 1969,206-207. Infatti i cognomina Armeniaco, Medico e Partico sono assenti nella documentazione di carattere ufficiale posteriori al 172, come ad esempio i diplomi militari: nello specifico si veda, ad esempio, AE 1990, 1023 o AE 1987, 843 (entrambi del 179).  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 24.4.  Tertulliano, 5, 6.  Michael Grant, The Antonines. The Roman Empire in Transition, Routledge, 1994,50.  Birley 1990,230-231.  Cassio Dione, 72, 27-29; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.10-12.  RIC, Marcus Aurelius, 357 corr. (no P P); MIR,18, 322-2/35; Calicó, 2017; BMCRE,674.  Astarita 1983,155-162.  Birley 1990,239-240.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.3-9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-8 e 26.3-9.  Ammiano, Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, 71, 1.1.  Birley 1990,243-244.  IG II2 3620  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.1.  Historia Augusta, Commodus, 12.4.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.11-12.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.8; Cassio Dione, 71.31.1  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.6.  Historia Augusta, Commodus, 12.5; Historia Augusta, Marcus Aurelius, Historia Augusta, Commodus, 12.6.  Birley 1990,259-261.  Guido Clemente 2008,636.  Cassio Dione, 72, 36; Grimal 2004,228.  Birley 1990,264.  citato in Antonio de Guevara, Vita, gesti, costumi, discorsi, lettere, di Marco Aurelio imperatore, Venezia, 1557,80.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, Birley Cassio Dione, 72, 36.3-4.  Erodiano, Commodo, I, 13.1; Historia Augusta, Commodus  Perelli 1969,320-324.  Marco Aurelio, 11.3.  Sordi 2004,103 ss. 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Predecessore: Antonino Pio161–180 (con Lucio Vero, dal 177 con Commodo)Commodo Predecessore Console romanoSuccessoreConsul et lictores.png Gaio Bruttio Presente Lucio Fulvio Rustico II140 Marco Peduceo Stloga PriscinoI con Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IIcon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IIIcon Tito Enio SeveroTito Statilio Massimo145 Gneo Claudio Severo Arabiano II con Lucio Edio Rufo Lolliano Avitocon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IVcon Sesto Erucio Claro II Appio Annio Atilio Bradua161Quinto Giunio Rustico IIIII con Tito Clodio Vibio Varocon Lucio Elio Aurelio Commodo IIcon Lucio Tizio Plauzio AquilinoMarco Aurelio Campagne partiche di Lucio Vero Guerre marcomanniche Imperatori adottivi Imperatori romani e relative linee di successione Stoicismo. Antica Roma Portale Antica Roma Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura   Categorie: Imperatori romaniFilosofi romaniScrittori romani Nati il 26 aprile Morti il 17 marzoNati a Roma Morti a Sirmio Aforisti romani Dinastia antoniniana Consoli imperiali romani Stoici Annii Auguri Sepolti a Castel Sant'Angelo Marco Aurelio Persone legate ai Misteri eleusini. Italian philosopherone of the most important onesVide his letters to his tutor Frontino -- Marcus Aurelius, Roman emperor (from 161) and philosopher. Author of twelve books of Meditations (Greek title, To Himself), Marcus Aurelius is principally interesting in the history of Stoic philosophy (of which he was a diligent student) for his ethical self-portrait. Except for the first book, detailing his gratitude to his family, friends, and teachers, the aphorisms are arranged in no order; many were written in camp during military campaigns. They reflect both the Old Stoa and the more eclectic views of Posidonius, with whom he holds that involvement in public affairs is a moral duty. Marcus, in accord with Stoicism, considers immortality doubtful; happiness lies in patient acceptance of the will of the panentheistic Stoic God, the material soul of a material universe. Anger, like all emotions, is forbidden the Stoic emperor: he exhorts himself to compassion for the weak and evil among his subjects. “Do not be turned into ‘Caesar,’ or dyed by the purple: for that happens”. “It is the privilege of a human being to love even those who stumble”. Sayings like these, rather than technical arguments, give the book its place in literary history. Ab avo meo Vero didici placidis esse moribus et iram abstinens. Ex estimatione parentis mei cius recordatione ad verecundiam et VIRO dignos mores usus sum. Matre in studio pietatis erga deos isberalitate gimitatus. Præterea in abstinendo anno perpetrandis modo sed et cogitandis flagitiis. Tum in frugalitate victus, ab opulentia comitante luxu remotissima. A pro-avo id habui ut ne in publicos ludos comcarem sed bonis præceptoribus domimex uterer, intellige regnullis hac in re parcendum sumptib. Ab educatore, ne auriga Praginus, aut Venetus, neuc palmularius aut scutarius fierem. Ab eodem tolerare labores, esse contentus parvo, operari, non immiscere mc multis negociis, haud facile calumniam admittere, didici. A Diogneto, tudium in res inanes non conferre, fidem abrogare iisque de incantationibus, de  monug pfligationib. acid genusalii reb pitigiatores et impostores referent. Nec animi causa coturnices alere, aut fi milium rerum studio et cupiditate teneri. Ite libere dicta ferre æquo animo, PHILOSOPHIAE ME ADDICERE, audire primo Bacchiu, deinde Tandasidem ac Marcianum, scriber dialogos puerili etate grabatu, pellem, aliağ ad greca disciplinam pertinentia, usurpare. RUSTICI monitu in ea deveni cogitatione, mores meos correctione ac cultu opus habere. Non esse imitandos sophistas, non esse instituendas de contemplationibus scriptiones ne que oratiunculas adhortatorias declamandum neq speciem VIRI exercitiis dediti, ac laboriosi ostentandam. Ad hæc rhetorica, poetica ed atrologia abstinendum, domincuesticu, negaliis huius modi rebutendum. Epistolas scribendas simpliciter, quomodo ipsius ad matrem meam est epistola Sinueſſam missa. In super placabilitatem este et in alloquio facilitatem exhibendam iis qui stomachu nobis moverint, aut aliquid deliquerít, simulatqii redire adofficium volint. Diligenter etiam legendum, nec omnino considerationem accuratam satis putandum, ne æceleriter adsentiendum loquacite LOQUACITER CONVERSANTIBUS. Commentarios Epicteti legendos, quorum et e domo sua mihi copiam fecit. Apollonius medocuit ut libertatem secta rer, certamg constantiam, negalio un quam, ne minimum quidem, quam ad rectam rationem respicerem ac semper mei similis essem in gravibus doloribus a missione prolis, morbis diuturnis. Uc quem in vivo exemplo evidenter contemplarer, posse eundem et durissimum esse et remissum quam maxime. Tum etiam ut in percipienda doctrina menon morosum præberem sed circumspicerem de homine qui palam experientiam et in tradendis scientijs facultatem mia nimum suorum bonorum putaret. Præterea modum beneficia utiis videntur ab amicis accipiendi ne vel accepta ea nos viliores redderent vel stupidem ne gligerenturato permitterent. In Sexto de præhemdi comitatem et exemplum domo ad arbitrium patris familias institute, vivem di secundum naturam, gravitatem nion simulatam, ing consulendo amicorum commodis sagacitatem, facilitatem erga privatos, mores omnibus accomodatos. Quo fiebat, ut eius consuetudo omni adulatione suavior ipseos codem tempore in summa apud cos quibus cum agebat veneratione esset. Porro autem expedicam viam acrationem inveniendi et disponendi præcepta ad usum vitæ necessaria. item quod nequc iræ neo alius cuius animi commotio nis ullum indicium dabat, sed simul et quam maxime affectibus vacuus et humanissimi erat ingenii. In codem honc stam famam finciactatione. Multa rumorerum scientiam citra ostentationem. Alexandrum Grammaticum obseruabam ab increpationibus sibi tempera re, neque ignominiose castigare si quis barbarum, lolocum, aut absonum quippiam protulisset sed civiliter id modo o dicendum fuerat, pronunciare. Perinde ac si respondens vel suam sententiam interponeret, aut rationem re ipsa non verbo cum altero conferret. Aut omni no alia quadam solerti et occulta correctione idem efficiebat. A FRONTONE didici ut scirem quæ consequeretur tyranidem invidia quæ varietas simulatione. Et quod omnino qui nobis patria icidicunt in humaniores quodammodo fint reliquis. Ab Alexando Platonico, ne crebro neve nil necessitate coactus cuiquam dicerem scriberemúeme esse occupatum ne ve identidem impendetia negocia prætendendo debita familiaribus officia detrectare, A CATULO, ne parvi facerem li quid amicus conquereretur, etiam et nulla id ab eo fieretratione. Sed anniterer eum in pristinam gratiam rcducere. Item ut summa animi contentione præceptorum laudem prædicarem. Uti de Domitio et Athenodoto traditum est. Ut yliberos vere diligere. A fratre meo SEVERO amore familiarić et ucritatis iustitiæ. Per eundem cognovi Thrasea, Helvidium, CATONEM, Dionem, BRUTUM. Idem mihi autor fuit ut animo conciperem formam reipublicam in qua æquis legibus codemý iure omnia administrarent, ac regni, cui nihil cf afet libertate subditorum antiquius. Eun dem observans curis esse vacuum, constantiam in honore PHILOSOPHIAE habendo, beneficentiam et liberalitatem perpetuam servare, bene sperare ac de amicorum in amore certo libipolliceri, aq bus animo elſet factus alieno idiis non occultum ferre. Nec amicis eius opus esse ut de ipsius voluntate coniectura facerent sed eam apertam elle. Maximus adhortatus me est, ut suo exemplo me ipsum regerem, neq ulla in re præcipitarem, animo bono cùm aliis in calibus, tum in morbis essem. Ut moribus ut erer temperatis, blandis, ac gravibus ut quæ instituissem expedite necma gnacum molestia perficere. Dicebat libi verba facienti aut a genti quic quam nemine non fidem habuisse ex animi ipsum sententia loqui vel agree. Nullius rei admiratione se obstupuisse nunquam aut seſsi nasse, aut cunctatum fuisse, nec trepidasse neq mæstitiæ, neo gaudii nimium fuisse, neqz iracundum neq suspiciosum sed beneficum, placabilem, veracm, magis có Itantia erroris secura o erratorum correc ioné præ se tulille. Neminem fuisse, afe 1 abipfo conteptum, aut ipso pstantiorem putaret. Liberaliter quoß facetum fuisse. Patris notavi humanitatem et inijs quæ semel essent accuratem deliberata, pmansionem vanægloriæ et eorumque putant, ne que sunt tim honoru contemptu, tudium laborum, assiduitatem. Libenter audiebat cos, qaliqd reip. utile poterant adducere. In tribuendo unicuip dignitate suu firmiter pſeuerabat, pitusubi intendendum et ſet, ubi remittedum. AMORES ADOESCENTU lorum coercebat, utilitati publicæ, oes cogitationes intendebat. Amicis sec uncce nan dı, autiter faciendi necessitate remittebat etque necessitate aliqua impediti cum non conitati fuerant, cunde fempirfum inveniebant.In consiliis accurateqd conducere possetīqrebat, ac conftanter, nec ob uiis quibusg cogitationik. contento fine consultandi faciebat.Amicitiam conservabat, neq vel satietaté amicorum capiebat, ne ad eosparandos furore aliquo ferebat. In oib.reb. ola sua i se repogta habebat, læto vultu. Longe futura puidebat. Arq et minima antem pparabat, idý citra tumultum. Acclamationes, oems adulationem compescebat. Quæ ad magistratum erant necessaria, semper custodiebat, sumptus procura bat, ncq detrectabat dcijsreb, causam dicere. Deos citra superstitionem cole þat, homines ne demerebatur, ncquc auram popularem captabat. In omnib, his sobrius, costans, nusquam ineptus, aut novitatis studiosus. Has porrò res, quæ ad vitę commoditatem aliquid conducunt, quas fortuna suppeditat, liberaliter, fimulý sincfastu tractabat, ita ut & liadeffent, haud solicite iis uteretur, nec defidcraret, li deeflent.Nemo fuit, quieum aut sophistam, aut vernam, aut hominem de schola esse diceret. Sed VIRUM MATURUM, absolutum, adulatione superiorem, qui et seipsum regere, et ali ospoflet, Iam PHILOSOPHIAM VERAM profitentes in honore habens, reliquis nihil exprobravit. Cæterum in consuctudi ne familiari commodus gratiosuso extra fastidium erat. Corpus suum moderate curabat, non ut qui vitæ CUPIDUS, aut cuiforme elegantia curæ esset, non tamen interim negligenter. Itag suæ diligentiæ causa paucissimis medicorum pharmacis et fomentis opus habuit. Id in co praeclarissimum fuit, quod facultate alicuius rei præditis concedebat abso invidia, utoratoriæ, historiæ, legum, consuetudinum, aliorum gid genus. Quin etiam ut gloriam iis rebusquibus excellebant, adipiscerentur, operam suam ipsis navabat. Eccum ageret omnia secundum instituta maiorum, ne hoc ipsum quidem studebat consequi, ut videretur a maioribus accepta obserualle. Ad hæc non erat vagus aut levis sed locise et negociis iisdem soleba timmorari. Post intentissimos capitis dolores, recens at que alaçer ad consueta opera redibat. Praeterea pauca ad modum habebat arcana et hæc quoq tantum derebus publicis. Prudens porroerat, moderatus cum in spectaculis exhibendis, tumin operum extructionibus congiariis et aliis huius modi negotiis. Guippe vir ed ex usu foret potius, quam quem gloria fa &tum sequeretur, reputans. Non utebatur alieno tempore balneis, non erat ædificandi CUPIDUS, non de ciborum, non vestium texturæ aut infacturæ, non formæ corporis elegantia anxius. Comitatus ei e prædio qui eum ab inferiori casa deduceret. Inter Lanuvinos plerum Tusculano publicano utebatur, etiam deprecante. Omnino in eius moribus nihil in erat in humanum, nihil in verecundum, nihil procax, ne quod dicitur ad sudorem usque. Sed omnia ita apta  et concinna ut li per otium cogitata fuissent, compositem, placidem, firmiter et sibi in vicem convenienter. Ac commodari posset ei id quod de Socrate memoratur, quod et abstinere potuerit,et frui reb.istis, quibus et carere ple rio per infirmitatem & in fruendo continere se nequeunt: at temperare fibi ab utroque uitio pofle et sobrium permanere, id VERO VIRI eft animo integroinui conspræditi: quod ille in morbo maximi præstitit.A diis bonos avos, bonos parentes, bonam sororem, bonos praeceptores, familiares, necessarios, amicos bonos accepi feren omnia bona: tum g in nullum eorum quicquam deliqui, quam quam ita affectus, ut, si occasio incidisset, utiq aliquid tale admisissem verum beneficio deorum evenit, neresita caderent, ut hoc in me depræhenderetur. Id quoque iis acceptum refero, quod non diutius apud concubinam avisum educatus, quodad PUBERTATEM CASTUS perveni, neque ante eam VIR sum factus sed tempus expectavi. Quod principi et patri subditus fui, qui erat omnem mihi superbiam excussurus, oftenfurúsque pofle eum qui in aula vivat et ftipatoribus carere & vestibus pictis et facibus, ftatuisý certi generis, reliquo ğluxu: Sed licercei proximum privato homini habitum ſumere: imò verò eum splendorem eos, qui principes rempub.gerere velint, demissio, res segnioresg efficere. Itemque eum fratrem sum nactus, qui moribus fuis me ad curam mei ipsius habendam posset excitate, honore autemet  amore in me suo delectare. Quod hberi mi hi neque indole, neque corpore pravinati sunt. Quodmagnos in rhetorica, poetica, reliquisg studijs progressus non feci, qme fortassis planem detinuissét, si me feliciter pficeresenlitlem. Quod mature cos a quibus sum enu tritus in dignitate constitui, quod mihi videbantur cupere, quodg id iuvenib. Adhuc praestiti, neo diu cas future spela cavi. Quod Apollonium, RUSTICUM, Maximum cognovi. Quod perspicueat ą sæpe numero naturalem vitam cum ani momeo reputavi, qualisnam ea esset: nimirum quodad deos attineret & co rum munera, cogitationcsoninde conceptas, nihil iam obstarc, quin aut secundum naturam viverem, aut non. Atque boc quidem fore mca culpa, qui deûm monitus,actantùm non præcepta non obferuaffem. Quòd in cali uita mcum corpus tandiu durauit.Quòdncquecú Benedicta,nc cumThcodoto rem ha bui, fed & pofteàamore cócitus, rcctæ rationi parui. QuòdRuſtico fæpiusin dignatus,nihil prætercà admiferim, cu ius mepæniterepotuiſſet. Quòd ma ter, cum esset adhuciu venis moritura, reliquos tamen vitæ suæ annos mocum exegit. Quod quotiescung pauperi ali cui, aut alias indigenti opitulari statuissem, nunquam audivi, pecuniam mihi non esse, unde id facere et quod mininum quam usu ucnit, ut alterius ope indigerem. Quod uxorem ita obsequentem, mei AMANTEM ac limplicem habui. Quod alumni quibus liberos meos credere idonei non defuere. Quod in somnis cum alia mihi remedia funtdata tum contra sanguinis ex creationem ac contra vertiginem, hocg Caietę. Sicut Chrękę  cuğanimü ad PHILOSOPHIA adiunxič ſem, nó incidi in sophistam aliquem aut scriptore vel a SYLLOGISMOS dissoluere doceret aut meteora traderet. Olahực deorum auxilio, forcuna indigent. Hec in Quadis ad Granuam. Solobatis sibi prædicere, erit ut incidam in curiosum, ingratum, contumeliosum  dolosum, invidum, DISSOCIABILEM. Omnia hęcijs euenc runt ignoratione bonorum et malorum. Ego vero, quinaturam boni perspectam habeo, quòdhoncstum fit, & mali, quod turpc, ipfamg eius qui peccat natura, quod mihi lit cognata non quia ciul dem carnis efs aut feminis sed mentis et divinem particulæ particeps a nullo cocum lædi pollum. Nequccnimiamo V turpitudinem aliquam quisquam con ijciec. Ei porrò quod mihi cognatum est, negira scipossum, neque insensus esse: ute nim unus alterum iuvaret in suo opere, eo nati sumus, ut manus, ut pedes, ut palpebræ, ut superiorum inferiorum o dentium ordines. quare contra natura est, ut in vicem nobis repugnemus: atqui succensere at a versari se invicem, idquidem est repugnare. Quidquid ego sum, idomne constat caruncula, animula et mente. Proinde missos fac libros, neß stude, non enim licet. Quin tu, ut mox vitam cum morte commutaturus,cor pussperne, quod est tabus, ossicula et reticulí muliebris instar plexus nervorum, venarum arteriarum. Animaquog considera, qualis ea sit. SPIRITUS nimirum, ne que is idem semper, sed qui in horasali us efflatur, alius ſorbetur. Restat tertia pars, principatum obtinens. Proindelic tecum reputa. Senex es? Ne patere hanc principem partem ulcerius feruire, necß alieno impetu raptari, neq fatú uel præ sensi niquem fer, vel im pedes subterfuge. Res decorum plenæ sunt prudentiæ. Fortuitæ aut non carent natura, complexude corum quæ a prudentia administratur. Inde omnia fluunt:necessitas etiam accedit, et totius universi cuius tu pars es utilitas. Porrò autem quòd natura univerſi fert, quod quem ad eam facit conservandam, id bonum est unicui vis univerli particulæ. Conseruant autem mundum, quemadmodum elementorum, ita & exipsis concretarum rerum mutations.Hec sufficiant tibi, ac sem per præceptorum locum habcant. Librorum vero Gitim proijce, ne murmurans moriare sed vere placatus, at ex animo gratiam diis agens. A Emento quandiu hactenus ea diftuleris, ac quoties prorogato tibi à diis tempore, co non ususlis. Certe aliqua do te animadvertere oportet, cuius mundi pars sis et a quo mundi gubernatore de fluxcris. Tum finem præscripti tibi temporis futurum. Quodquidem tempus G ocio sus intra parietes consumpseris, elabet, nequeredibit unquam tibi defuncto. Singulis horis animo in id incumbe ut fortiter, quemadmodum ROMANO ET VIRO CONVENIT id quod præ manibus est, per agas, accurata & non fi &ta gravitate, humanitate, liberalitate, iustictia g adhi bitis.Interea animum tuum ab omnib aliis cogitationib. abduc: quodita fict, si unum quodlibet negotium, eorum quæ in vita tua exequenda cibi fintpo stremum elfe iudicans, ita conficias, ut ne quid vanitatis, affectuum a conglio avertentium, simulationis, AMORE SUI, aut earum rerum quæ fato quodam ei negotio adiunctæ sunt improbationis admittat. Cernis, quam pauca Gint ea, quorum có pos vitam felicem ac diuinæ similem ui uerc homo potest? nam ea qui adferuarit, ab eo dijnihilultrà exigunt. Ignominia te ipsum affice anime, contemnete ipsum inquam ut enim honore te ipsum afficias, non tibi præterea tempus suppetet. Vita enim unicuiqueid præbet. Quæ tibi propemodum iam exacta eſt. Nonigitur te ipsum venerare sed felicitatem tuam aliorum in animis reposita habe. Non patere ab ijs quæ extrinfecus accidunt, te circúagi,ſed otium tibipa raut boni aliquid addiſcas,ac uagari de fine.Eft & alter declinandus error: nó. nulli enim actibus uitæ ſuæ'confecti de lirant,quòdfcopum nullum habent,ad qué omnes ſuos conatus & cogitatio nes dirigant. Haud temere quisquam repertus est infelix ea de causa quod non inquireret quid aliorum animis accideret. Qui ucrò luiiplius animi motib. non obsequitur, necessario miser est. Horum semper oportet recordari, quæ sit uniuerli natura, quæ mea, quomodóque hæc ad illam lit affecta, qualis pars ca cuius totius Git: adhæc neminem esse qui obstet, quo minus semper ea, quæ naturæ cuius tu pars es Gintconfentanca et agas et dicas. THEOPHRASTUS in comparatione peccatorum, ubi ostendit communiorem ea inter se conferendi rationem, PHILOSOPHICE, inquit, ea quæ per cupiditatem conmittuntur peccata, graviora esse iis quem periram. Et enim iratus videtur cum dolore quodam et occulte correptus animo a recta ratio ne divertere. Qui vero per cupiditatem peccat, victus a voluptate, intemperantior altero censetur, magilý EFFEMINATUS. Recte igitur et ut PHILOSOPHO diagnum erat. In maiori esse culpa pronunciavit cui voluptas, quam cui dolor peccandi fuisset causa: ac omnino hic ante læsus, & propter doloré iratus, ille sponte sua ad delinquendum cupiditatis explendæ causa fertur. Omnia tibi ita et agenda sunt et dicenda et cogitanda, ut Giam nunc vitam in exitu esse arbitreris. Cæterum e vivis discedere, si quidem dii sunt, nihil habet incommode. Neque enim ii te aliquo malo sunt affecturi. Sin autem, vuel non sunt dii, uc!res humanas non curant, quid atti nebatui vere in mundo deum, ac prouidenti z uacuo? Enim vero et sunt dii et rerum humanarum curam gerunt et ut ne homo in ea, quæ re vera sunt mala, incideret, id quidem in eius potestate posuerunt. In reliquis rebusliquid mali inesset, utique & hinc ei prospexissent, ne omni noin malum incideret. Quod uerò hominem deteriorem non efficit, quonam id modo uitam eius poflet redderepeiorem? Et quidem um niuerli natura nunquam neg perigno rationem,ncg fciens quidem, non ua lens autem cauere autemědare illa, tan tum errorem admiſerit,neque imbecil licatis,nequeinſcitiæ caula, ut bona & mala bonis malisque hominibus promiscuem et ex æquo accidant. Atqui mors et uita, honor et ignominia, dolor et voluptas, opes et paupertas, omnibus hæc uniuersa eadem ratione hominibus cum bonis tum malis contingunt, ſuntg neque honesta, neque turpia: ergo neque bona quidem, neque mala. Quam celeriter omnia aboletur, in müdo quidem corpora, in quo autem etiam corum memoria. Omnia quæ sub sensum cadut, ac præsertim ea, quæ vel voluptate alliciu ut, vel dolore terrent, vel faste suo clara sunt, quam vilia sunt ca omnia et contemptione digna, quam sordida, obnoxia interitui et mortua? Intelligentiæ est, indagare quidnam sintii, quorum opiniones et voces gloria. Quidnam estmors? Certe si quis ea per se intueatur, cogitatio neg omnia ab ea separet, quæ ciinesse videntur, isi am nihil aliud existimabic esse mortem, quam opus naturæ. At vero PUER EST, qui nature aliquod opus formidat. Et quidem mors non opus solum est naturæ sed et prodest ei. Qoónam modo Deus hominem attingis et qua hominis parte?preterea quomodo affe citur eo tactu pars illa? Nihil miserius cít eo, qui omnia circulando scrutatur, et quod aiunt ea etiam quæ ſunt infra terram rimatur, coniecturağ ea quæ in aliorum animis eueniant inquirit, neg ſentit ſufficere,utſuu quiſq quiin ipſo ineſt genium obferuet, eumlegitimè colat.Colitur autem, fi quis ſeiplum ab animi perturbationib.à vanitate,ab in dignatione eorum caufa quæ à diis aut hominibus aguntur concepta,uacuum conseruet. Quæ enim dijagút, virtutis causa honorem quæ ab hominibus, cognationis nomine AMOREM merentur: nonnunquam etiam miserationem, ratione ignorationis eorum quæ bona aut mala ſunt. qui sane defectus non uilior eſt eo, quo ne inter album et nigrum discernere poſsimus, impediunt. Quodf tria annorum millia tibi vivenda forent, insuperg triginta alia, tamen recordandum tibi est, neminem aliam ab ea quam vivit uitam deponere, negaliam dep nere quam eam quam vivit. Itagidem est longissimum spatium cum eo quod est brevissimum. nam quod praesens eſt, id omnibus idem est, quanquã id quod perijt, non fitidem, atqid quodamitti  temporis punctum eſſe apparet. Ete nimncß præteritum aliquis,neß futu rum quicquã amittere poteft:qui enim id ei adimatur, quod ne habet quidem. Duo itag hæc memoria sunt tenenda, unum, omnia ab æterno eſſe ciufdé for mæ, atq circulo reuolui,nequedifferre quicquam, eadémne cétum aliquis, aut ducentis annis, an uerò infinito videat tempore. Alterum, quodis qui diutif sime uixit, & is qui celerrimem moritur, tantundem amittunt: eo enim tantum priuantur, quod præsens est, quando id etiam solùm habent: quod autem non habet, neid ne deperditur quidem, Universa elle ſita in opinione. Quod patet ex his quæ cum Monimo Cynico sunt disputata. Perſpicua autem eft c ius quod dictum eſt utilitas, fi quis ea tenus eius fuauitatem admittat, quate nus ueritati congruit. Anima hominis contumelia se ipsam multis modis afficit. Primo, quum quantum in se ipsa Gitum eſt,abſceſſus quidam, & qua fulcus mundi fit. Abscedit autem à natura, quando ea quæ fiunt, iniquo fere animo: cuius quidem naturæ una in par e reliquæ singulorum naturæ omnes continentur. Deinde, quum hominem aliquem auerlatur, aut lædendi causa adversatur: hoc est iratorum. Tertiò, quum uoluptati aut dolori ſuccum bit. Quartò, quum fimulat, fidéquc aliquid autfacit aut loquitur. Quin to, quum fiquam actionem aut cona. tum ad nullum certum scopum diri git,fed fruftrà quicquam,nulláque con fequentia agit: quum oporteat etiam minima quæg ad certum finem referri. Finis autem animantiratis eprædi to propoftus eft utrationem atque Le gem ciuitatis uetuſtiſsimæ fequatur. Humanæ quidem uitæ tempus,momë tum eft, natura fluxa,fenſus obſcurus: totius corporis temperamétum putrc fcitfacilè,animauaga eſt, fortuna quæ fit, difficile eſt colligere, famaincerta eſt. Atque ut ſummam rei dicam, o mnia quæ ad corpus pertinent, fluuij naturam habent, quæ ad animā,inſom nij & fumi:uita bellum eſt, & peregri natio, fama poſt mortem,obliuio eft. b4  Quid ergo eſt quòd tutò hominem por fit deducere? PHILOSOPHIA. Ea verò in hoc consiſtit, ut genium quiin te est, incontaminatum conferues, atqz illesum, la voluptatibus et doloribus superiore: ut nihil fruſtrà, nihilfictè aut falſò agas: nihil cures, agátne quicquam alius, aut omittat.Præterea, ut ea quæ accidūt, fa tóue eueniunt, ita accipias, tanquã inde miſſa,unde tu quoqueneris.Poftremò, utplacıdo morté animoexpectes,quip penihil aliud,quàm diffolutionem ele métorum eorum,ex quibus unūquod libet animal concretum eſt. Iam Gipfis elementis nihil mali euenit continenti bus iſtis mutationibus, quibus ipfain ter ſe alia identidem in alia uertuntur, quænam causa est, cur de mutatione universi corporis, dissolutionéque fini ſtrum quicquam suspicari debeamus? Cum ea fecúdum naturam fiat. nihil vero malum est, quodnatura cuenit. Hæc Carnunti disputata. qonhoc tantum est considerandum, singulis diebus vitam cossumi, parcég eius ſubinde minorérelinqui: fed & hoc cogitandum,getſiquis diutius lit uictu rus,incertum tamen eſt,lítne fuppedita tura eadem intelligentia ad cognoſcen das res et contemplationem cuiusfiniseft peritia rerü diuinarű at humanarum, Etenim & delirare ceperithomo,fpira bit quidé nihilominus, nutrietur, imagi nabitur, appetet, reliquasgid genus facultates retinebit: ca vero vis, qua se i plo uti queat, rationes officii subduce re accuratas, quæ animo pręcepitin or dinem collocare, de coipſo an iam tem pus fit uitam relinquendi delibcrare, ac fi quæ alia sunt, ad quæ obcunda ratione probè exercitata opuseft, ea inquã uis iam antem extincta est. Feftinandum eſti gitur,nonidcò ſolú, quòd fubinde moc b s  ti propiores fimus, fed &quia rerum in telligentia nos ante exitum uitæ deſti tuit.Id quoß observandum, ca quę appendicis quafi loco adhæréthis quæ na tura fiunt,haberenonnihil gratiæ & o blectationis.Viquum panis pinlitur,ui demusquaſdam particulaseius rumpi: quod ipſum etli quodãmodo accidit præter inſtitutú piſtoriæ artis, habet ta mennónihil decoris,appetitumg cibi ſuo quodammodo excitat. Ficus quog quú maximè maturæſunt, fati scut, itém Oliuis maturissimis quiddam putredi niproximum,pulcritudinem peculiaré addunt. Iam ſpicas deorſum le flecten tes, leonis ſupercilium, fpumam apro rú ex ore effluentem,multa eiuſmodi alia fiquis ſeorſim confideret,intelliget ca ctGlongèabſuntà pulchritudine,tas men quia rebus naturalibus inhærent, & eas conſequuntur,co &ornatum his adferre, & delectare. Quam obrem qui attentiùs ea quæin rerum natura fi untmente contemplatus fuerit, nihil pon eleganter eſſe factum putabit, e tiam corum quæ appendicis loco res naturales conſequuntur. Itaque ue ros belluarum rictus haud minori cum uoluptate afpiciet, quàm quos picto res & figuli effingunt: uetulæ etiam & ſenis maturam ætatem, puerorúmque amori aptum florem caſtis oculis in tuebitur: multaque alia cernet, non a. pud omnes fidem inuenientia sed apud eos folùm, qui naturam, ciúſque opera rectè intelligit. HIPPOCRATES quummultos sanasset morbo, ipſemor bo deceffit. Chaldæi multis finem vitæ prædixerunt: post ipsos etiam fatum arripuit, Alexander, Pompeius, & C. Cesar, quum totas urbes toties deleuiſ ſent, commiſſó queprælio multa cqui. tum peditúmque millia cecidissent, i pli quoque tandem uita exceſſerunt. HERACLETUS, multa de natura rerum et incendio finem univerfo allaturo quum disputasset, ipse intercutc aqua distentus, ftercore bubulo oblitus mortem obijt. DEMOCRITUM pediculi, SOCRATES CICUTA absumplit. Quorſum hæc? Ingressus es vitam, navigasti, uc et us cs: discede. Quod fi abcundum esti n aliam vitam, equidem neibi quido erit quicquam dijs uacuum:lin omnissensus adiinet, non iam præterea dolores ac uoluptates ferēdæ, nec ferviendum vaſi tantò deteriori. Quinimo quod servit, id supererit, nimirum mens et genius: cum uas illud terra fit, & tabus.Proinde reli quum uitæ tépusne abſume de alijs co gitando, nifi ad commune aliquod co modum id referatur: alioquin enim in terim ab alio negotio detineberis.Nam cogitare,quid hic uelille agat, quamob rem, quid loquatur, quid cogitet, quid moliatur automnino de alijs effe folici tum, id uerò efficitur euagemur,neque obferuemus eam quæ principatú in no bis obtinet partem.Itaq;in ſerie cogita tionú declinanda eſt uanitas, omniúş maximè curiofitas, & malitia.Adſuefa cere teipfum debes, ut de his tantùm re bus cogites, de quibus fi quis te fubitò interroget quid nunc mediteris, confe ftim liberè pofsis refpondere, hocaut boc:nimirum ut ftatim conſtet,cogita tiones tuas eſſe ſimplices,placidas,con fentaneas animali fociato alijs, ac negligenti earum quæ ad uoluptatéoble & ationemúefaciant cogitationum,ua cuo contentionis, inuidiæ, fufpitionis, aliorúmue, quæ ſi te animoagitaffefaf fus eſſes,pudore ſuffundi oportuiſſet. Virad hunc modum compoſitus, non eft cur diutiusexpectet nomen eius, qui in optimorum Gii numero. Est enim fa cerdos quasi et administer deum, uti turg eo, quod in ipso tamquam sacrario est positum. Id autem hominem præstat purum a voluptatibus, inviolatum à do Ioribus, intactum A LIBIDINE inſciumo mnis malitiem, certatorem maximi certaminis (ne scilicet ullus cum affectus de ijciat altem tinctum iustitia, ex animo contentum ijs quæ eveniunt, fató vedesti nata ipsi sunt, non sæpe, ncg niſi magna & publica necessitate urgente, de alio rum dictis, factis, aut cogitationibus meditantem. Solis enim iis quæ in ipso sunt ad agendum intentuseſt, ac quæ à fato universi ipsi sunt deſtinata, continenter conſiderat. Nam illa cenſet honeſta & pulcra: quæ uerò fibi obtigerunt, cabo Dacſſe perſuaſum habet: quippe uniufs cuius factű & constat aliunde, & fecü aliud adfert.Meminit etiam oia ratione prædica eſſe interſe cognata, eſſeſ,ho minis naturæ cóueniens, ut omniūho minú curā gerat: exiſtimationem auté non ab omnibus hominibus petédam, sed ijs tantùm, qui naturæ conuenienter vivunt. Qui uerò aliter uiuunt, hi quales ſe domi & extra ædes,noctu at que interdiu gerant,ac quibus fc homi nibus admiſccant, perpetuò memoria tenet: ab his igitur laudariſe nihil cu rat, quum ij ne fibi quidem ipfis pro. bentur. Ne inuitus accedas ad agen dum, neque cotus humaniimmemor, neque non bene cogitata re, neque pa tere te retrahi:nein cogitationibustuis aftutiam ſecteris,nequeuerbolusfis,ne que multa negocia ſuſcipias. Enimue ro Deus qui in te ineſt, præfit'tibi,ma ſculo animanti, ſeni, ciui,Romano, ac principi, qui ſeita comparauerit, ut ad abitum inſtructus expecter quando re ceptui ex hac uita canat. Neiuramen toindigeas, néue hominis alicuius teſti monio, Hilari eſto uultu, ac qui exter " A nominiſterio poſsit carere., eám quam alij ſuppeditent quietc. Rectú elle expe dit te, nó quilapſus ſe erigat. Si quid in uita humanainuenis potius iuſtitia,uc ritate, temperantia, fortitudine,autfi quid aliud melius eſt, quàm animum tuum eſſe ſeipſo contentum, quatenus præſtat ut fecundum rectam rationem agas: ſi, inquam, in fato, & ijs quæ abfo tuo delectu tibi ſunt deſtinata inucnis aliquid his quæ dixi præſtabilius, caut fruaris toto animo incumbe.Sin co qui in te eft collocatus genio nihil præftan tius inuenis, qui & appetitus fibijpfi fubiecit, & uifa examinat, &à perſua fionibus ſenſuum ut dicebat Socrates scipsum abduxit, féque Dco ſubmißt et pro hominibus procurat: fi hoc inferiora omnia, & uiliora de prehendis, nulli alteri rei locum con cede, nefemel ad eam inclinans, poft hac proprium illum tuum bonum præ ferre omnibus rebus nequeas. Nes fas enim eft ullam aliam diuera generis rem bono rationcprædito, & effe &tri ci opponi: ut laudem popularem, principatum, divitias, voluptatum perceptionem: hæc omnia,quel parùm te iis accómodare uiſum fuerit,confeftim præualent et à recta uia abducunt. Tu uerò, inquam, fimpliciter ac liberè id quod eſt meliuselige,eiginhære:me lius autem eſt id quod conducit. At hocipſú fi ea ratione fitutile, quatenus métem habes, serva: lin quatenus es ani mal,repudia, & iudicium integrum reti ne. Id modo cura, ne quid, p tuo como do amplectaris, quòd pofsit aliquando tecompelleread fallendum fidem,pro dendam uerecundiam, odium alicuius, fufpitiones, imprecandum, ſimulandú, appetendúmue aliquid, quod parietes & uelamenta degideret. Etenim quimé tiacgenio fuo, & facris uirtutis eius pri mas defert, is tragediam nullam exci tat,nongemet,nó ſolitudinis,nófrequé tiæ hominum indigebit: plerung uiuet nekappetés quicquā, neqfugiens.diú ne aparuo téporis {patio incluſa cor pori animautatur, nihil omnino cura bit:nam etli continuo migrandum fit,i. ta facile diffoluétur ut fi ad aliam quan dam functionem uerecundè ac decen ter obeundam ſe conferat. Id unum fi per uniuerſam uitam obſerues,ut cogi caciones tuæ ſíper lint de ijs rebus quæ ad ſocietatem ciuilem nato animali, ei que rationis compoti cóueniant, nihil unquam in animodeprauatú, nihil puc rulentum, nihil contaminatú,nihilſug. gillatú invenies Ncą uerò fatum uitá imperfectam adhuc abrūpit, quemadmo dum dici poſſet de tragãdo fabula no. dum peracta diſccdéte.)præterea nihil feruile, nihilfucatum,nihil alligatum, nihil abſciſſum, nihil obnoxium,nihil occulcum. Venerare facultatem cogita trice: in co.n.ſuntoía, ut pars cui prin cipatum obtinés nihil unquam animo concipiat quod fit naturæ inconueni ens, aut conſtitutionianimalis ratione præditi.Illiusautem conſtitutionis eſt munus,ut à temeritate alieni, coétui hu mano adiuncti, dijsý obſequentes li mus. Proinde omnibus proie & is, hæc modo pauca comprchende, acmemo ria tene, gunufquifq tantùm, id quod præſens eittemporis punctum uiuit: reliquum uitæ aut iam exactum,autin in certo politum est. Exiguū ſanè tempus quod uiuit quil:perexiguus etiãter ræ, in quo uiuitur,angulus:etia longiſsi ma poſt obicú fama, cxiguum cft, quæ &ipſaper ſucceſsionem cóſeruaturho múculorum mox moriturorum, acne ſe quidem ipfos cognoſcentium, nedů cum,quiiampridem fato conceſsit. Ad dendum his quæ commemoraui præce ptis unum, nempe eius quæquouis tem pore animo noftro cogitanda accidit rei, definitionem ſeu deſcriptioné effe faciendam,quo tecúipſe differerepof fis, quęnam lit eiusnuda &abomnibus alijs ſeparata natura, ac qualis: tú quod proprium eius nomen, quæ item appel laciones eorum, è quibus ipfa confiata eſt, & in quæ diſſoluet. Nihil enim per indeaninum magnitudine extollit, ac uia & uerè poſſe lingula,quæ in hacui. ta nobis occurrunt, examinare, atß eo modo ſemper intueri,utunà deprehen datur, cuinam uniuerli parti unuquod. que uſui ſit, quo in precio habendúra tione cum iplius.uniucra, cú hominis, 14 qui ded quiciuis cſt ſupremæ ciuitatis, ac cuius quaſi domus lunt reliquæ ciuitates. Quid eft, quibusex elementis concres tum. & quandiu fert natura cius ut per maneat id, quòd modò cogitatione ani momco attulit?quaporrò uirtuteadid uſus cric?ſcilicetmanſuetudine, ortitu dine, ueritate, fide, ſimplicitatc, ea qua totus ex me aprus fum, cęteris?de lingu lis ergo dicédum. Hoc divinitus venit, hoc faci connexio, casus $ aut fortuna attulit,hoc pfectum eſt à cognato mco & focio,ignaro quidem quænam effet cius natura: ego autem & noui, & cofc cundum legem ſocietatis naturalem u toræquo animo,iuſté,limulgin mc dijs rebus coniecturam facio ut unicui que ſuum ut dignum eſt tribuam. Sirea &am rationem fequens, id quodinſtat agas diligéter,firmiter,æquo animo,nc quc inftituto negotio alia admiſccas, ſcd cuum geniumGincerum conſerues, perinde ac fi iam is dimittendus tibieſ let, atqita ſi perſeucres nihil expectás, nihil fugiens,fed eo quod ſecúdum na turam agis, & heroica in dictis factiſas ueritate cótérus, bene uiues. Nemo aut eſt, quihocimpedire poſsit.Quéadmo dum mediciad ſubita malacuranda,in promptu ſua inſtrumenta habent, at ferramenta: fictu ad res diuinashuman nalý præcepta inſtructa habe,atos para ta:omniaş etiam minimaita age,ut mc mineris hæc duo genera interfe eflc có nexa. Neg enim rem ullam humanárc ctè perfeceris,niſi ſimulcam ad deosre feras:neq contrà. Non erra amplius. Non eniin commentarios leges tuos, neque priscorum ROMANORUM et græcorum acta, excerptas ex libris, quæ tibijpfi in ſenectute utenda repoſuiſti. Itaqad fi nem propera,uanaló (pes miſlas faciés, tibiipfi opem fer, fiquidé(dum licet )tui rationem habesullam. Neſciunt quàm multa fignificet uocabulum furari, ſerc re, emere,quieſcere, uidere quid sit agendum. Quorum hocnon oculis cernitur, ſed alio uiſu.Corporis ſuntſenſus, ani miappetitus, mentis praecepta. Imaginari aliquid, & uiſum concipere,nobis cu pecoribus eſt communc.Moueriappe titus explendi cauſa,id quidé & belluis contingit et ANDROGYNIS et Phalaridi et NERONI. Porrò mentem ducé habere ad ea quæ apparent eſſe officij, corum etiá eſt, qui deos eſſe negant, qui patria deſerunt, qui fimulac fores clauſere,ni hil non turpe perpetrant. Si igitur reli qua his quæ dixinius omnibus funtcó munia,reliquum ſanè eft aliquid, quòd proprium lit uiri boni: nempe æquo a nimo ferre ca quęaccidunt,fatog eie ueniút, in pectore collocatum genium non commouere, neg turba uiſorum perturbare,ſed quietum ſeruare, cique decenter tanquam Deo obſequi: nihil à ueritate alienum loqui,nihil præteriu ftitiam agere. Quòd fi nemohominum credat eum fimpliciter, uerecundè, ac tranquillo animo uiuere, tamdnneque ſuccenſebit cuiquam, nez deflecter à femita ad finem uitæ ducente:ad quem finem uenire debet homo purus, quie tus, ac diffolutu facilis, & qui nulla ui coactus ultrò ſuo ſc faro accommodauerit. VAE in nobis ineſt pars prī cipatum tenens, ea di ſecun dum natura fe habeat, ita ad ea quæ accidunt comparata cit,ut quouis tépore facile ad id quod poſsibile eft &conceditur ſe adiungat. Neg.n. materiã aliquä fibi ppria ſubic ctá habet, fed ut cum exceptione qua dam'ad ea fertur, quę propofita ſunt,ita id quod offertur ei, pro materia sua accipit. Quemadmodúignis, quiijs quæ inciduntpręualet,à quibus exiguus ly chnus fuiffet extinctus: at copiofiori gnis ſtatim ea quæ ipG iniecta lunt, Gibi accommodat,ato conſumir,atg ex ijs ipfis augetur.Nihil agendú fruſtrà,ne aliter, quàm ſecundum contemplatio nem, qua artisdefectus compleatur.Se ceflus uulgò quærunt hominibus,rura, litto ra,montes: tu quoq ſoles maximè cadeliderare. Atqui id planèeft rudiữ &  & abiectæ ſortis hominum. Tibi qua cúq uiſum fuerit hora licet in teipſum recedere:nuſquam enim neg tranquil lior, nec maioris otii ſeceſsus homini datur, quàm adanimum ſuum: præſer cim ei qui intus ea habet, in quæ aſpici ens,ftatim ſummam animi tranquillita tem reperit:bene nimirumomnibus in tus compofitis.Cótinenter igitur te eò recipe,ac teipfum renoua. Breuia auté fint quædam, & elementorú uicem ob tinentia, quæ tibiſtatim occurrant, om nig te molcftia liberent, & remittent nihil indignè ferentem corum ad quæ reuerteris. Quid enim fersindignè?nú hominüimprobitatem?Reputa tecü,i ta eſle ſtatuendum,ratione prędita ani.. mantia unum effe alterius caulanatum: tum æquanimitatem parté cflciuftitiæ: item non ſua cos peccare uolütate:quá multi exercitisinimicitijs, odijs, ſuſpi tionibus, confoſsi perierunt,ac in cine remreda & ifunt:ita & deſinetádem. At molcftú tibi eft fatum tuum? in mētem reuoca quomodo uniuerfi partes difti xerit uel prouidentia,uel atomiillę,uel  quodcungillud fuit, ex quo demóftra tum eft,múduminſtar ciuitatis effe. At quæ corpus attingūt,ca te afficiūt?cogi ta intellectú, cu femel feipfum college rit,ſuamý uim perfpexerit non permi ſceri Spiritui leniter aut aſperè moto: præterea quæ de uoluptate & dolore auditu perceperis,repete, atqillis adfé tire. Sed forlitan gloriola teſolicitúte net?refpice quá celerrimè omnia obli uione delcantur,quod fit chaos infiniti utrinæ æui,quá inanis famæfonus, quã ta inconftantia &incertitudo opinio num humanarum, quàm arcto includā tur hæc omnia loco. Quippe punctum eſt terra,at huius iplius quàm perexi guus angulus habitai? quot uerò ſunt in ca ipſa, aut quales illi, qui.tefint lau daturi?Proindememento in hanc (quã demonſtraui,particulam tui recedere; idó præcipue cura,ne cupiditate traha ris,fedliber mane,relợita intuere,ut VIRUM UT HOMINEM UT CIVEM UT ANIMAL MORTALE conucnit. Cæterum ex his quæ tibi infpicienti quàm maximèin promptu cffe debcãt, duo funt:alterú,gresipfæ animā non contingut, ſed extra eam fic matæ perſiſtunt.Perturbationes tátùm ex internis opinionib.naſcunt. Alterú, goía hæc quæ cernis, statim mutabun tur, nec crunt amplius perpetuog.com gita, quoriam eorú mutationib.ipfe in terfueris.Mundus quidérerum in uari as fubinde formas mutatio eſt, uita in o pinione confiftit. Si intelligentia eſſe pręditu,hominibusnobis inter nos eſt comune, erit &ratio, ob quam illud no bis adeft cómunis: ſin hæc, etiam ratio quæ præcipit quid agendum fit,quido mittendum, communis eric omnium: proinde &lcx. Quód Gita habet,ciues ſumus: crgo ciuitatis alicuius partici pes. Quo reliquit, múdú ciuitatis loco esse: cuius.n. alius civitatis dicere possimus comunionem esse humano generi? utruita ex hac comuni civitate nobis eſſe capacib, intelligentiæ, utiratione, & legi, datú est, an aliunde? Utenim ter renæ mihià cesra aliqua particulæ sunt tributæ & humorab alio quodā elemento, ités ſpiritus,calor, & ignca natura, ſuis fingula à fótib. admcderiuataſūt, puso  nihil enim eſt,quod non alicunde &uc niat, & aliquò abcat.) ita & intelligétia nobis aliunde data eſt. Mors, perinde acuita,arcanum cftnaturæ opus, ex ijſ dem elemétis in eadé confufio & mix tio.Deniq non est eares, cuius pudere aliquem debeat: neque enim eſt contra caufas animalis mente donati, ncg có tra eius ſtructuræ rationem. Hæcita, hiſq de caufis fiút neceffariò. Quod qui fieri nolit,perinde faciat, acli ficum ar borem fucco uelit carere. Omnino au tem memineris,intra breuiſsimum tem lo pòſt, ne nomen quidem ucftrum ſu pererit. Tolle opinionem, fimul etiam de accepto damno abolebitur cogita tio:hacý ſublata, ipſum etiam danum non crit. Quod hominéſeipfo deterio rem efficere nó poteft, id neg uită eius pciorem reddit,ncg lædit,nec extrin Tecus, neg intrīſecus. Natura utilitatis hoc neccſſariò fccit, ut quicquid acci dat,iufte accidat: quod, fi diligenter observes, ita haberc inuenies: atq hocdi co,non tantùm caufarum consequentia ita fieri, fed etiam ratione iuſtitiæ, & ab aliquo, g tribuat unicuip dignita te ſuū. Itaq,uti coepiſti,obferuare hoc perge, & quicquid facies, hoc modo a ge,adhibitabonitate, quo modo uerè bonus intelligitur:idgin omnibus tuis obſerua actionibus. Nonita tibi fentić dum eſt, quemadmodú is quiiniuriá fa cit, uel iple fétit,uelte cxiſtimare uult: ſed resipfæ quid uerè lint,perſpice.Sem per hçc duoin promptu habenda ſunt: alterú,utea tãtùm agas, quod ratio cius partis, quæregnum in te, & poteſtatem obtinetlegislatoris,te hortat, idý pros pter hominum utilitaté. Alterum, ut fi quis adfit, qui te corrigere, & ab aliqua opinionc deducereuelit, ſententiamu tes:modò ut ea mutatio fidé mereatur iuſtitiæ autpublicę utilitatis,aliúſuchu iufmodi cauſa, nóuoluptatisgloriæúc gratia facta eſſe. Ratione præditus es: cur ca non uteris? quid enim prætcrca deſideras, ca ſuum obeuntc officium? Scis te, utparté, interiturű in co, quod te produxit universo: imò potius facta mutationc allumcris ad mcntem cam quæcſtreliquarum origo.Multa thuris grana eidem aræ impolita, unum altes ro priusignicorripit, ſed nihil intereſt. Intra decimum diem, Deus uideberis ijs,qui te nuncbeſtiam & fimiam putát: fiquidem ad præcepta &ueneratione métis reflectas,ne & cogites uitam tibi in immenſos annos prorogatum iri. Mors imminet, ergo dum vivis et licet,bonus ut sis cura.Quantum otij lu cratur, quinon uidet quid proximus di catsagat, aut cogitet, ſed tantùm quid ipfe agat, curato ut hoc iuftú fit & fas. At quifecundum Agathonem fortèbo numno circunfpicit nigrosmores, fed propofitamlineam recto,non uago cur fu tenet. Quifamæ poftmortem cupidi tate ducitur,non cogitat quenlibetco Tum, quiipfius mentionem fint facturi, mox ipfum etiam moriturum: deinde itidem eum quihuic ſuccedit, idő.co uſcs, dum omnis memoria per attoni. tosinanifama,extinctoſý homines p pagatu aboleatur. Quinetiam fingeim mortales fore eos, qui tui recordentur, immortalemg tuifutură memoriam.. quid ergoid adte,ne dicam,mortuum? quid ueluiuo tibilaus proderit?nifi ra tionecuiuſdam difpenfationis: omitte enim nunc naturæ munus, huic tempo ri non conucnicns et de quo fuo loco erit differendum. Omne quod pul chrum eſt,ex ſeipſo tale cſt, atquc in ſc ipſo abſoluitur,nullámque ſui partem habetlaudem. Ideoid quod laudatur, co ipfoncß peius fit, neq melius. Idý ctiam deijs intelligiuolo, quęcómuni ori nominc pulcraaut bona dicuntur, ut quæ ex materia fiunt, &artis opera. Id autem quod rcuera bonum eft, noa magis alia quadam re opus adid, ut fit bonum, habet, quàm lex, ueritas, cran quillitas animi,uerecundia:quid horú uelli laudetur bonum fit, uel uitupera tione corrumpitur? Smaragdus quidem niſ laudetur, debonitate sua aliquid a mittit? quid aurum, ebur, purpura, cul ter, floſculus, arbuscula? Si permanent animi, quomodo cosab æterno capit aer: & quomodo terra abęuo uſquchu matorum corpora recipit? Quemad modum hîc corpora quum aliquádiu in terra delituere,mutantur,diſsipatag fpacium alijs cadaueribus præbent:fic animæ in aérem ſubuectę,quum aliquá diu ibiperftiterunt,mutantur, fundun turg, &ad menté omnium aliarum ge nitricem adiungunt, eağ ratione alijs aduentantibus locum cedunt. Hocrea fpóderi poteſt, pofito animas eſſc cor poribus ſuperſtites. Neq uerò tantùm multitudo ſepultorum eo modo cor porum confideranda eſt: ſed & corum quæ quotidie comeduntur à nobis, & beftijs animalium et fic quodammo do ſepeliuntur magno numero, acni hilominus fuppedicat ſpatium alijs, p pter corum in fanguinem, aërem, calo remgmutationem. Ratio autem ucri tatis conſtat, ſimateria & caufæ inqui rantur.Non eſt uagandum,fed in omni appetitu iuſticię ratio habenda:omnig in cogitatione,certitudinis.Quicquid tibi,ô Naturarerum, conuenit, id omne mihiconuenit,nihilſ mihi uelimmatu rum eſt,ueltardú, quod tibi ſit tépeſti uum:oéid fructum meum puto, quod tuæ ferunthoræ.Ex tcfunt, &in una to omnia, ac in te unam omnia redeunt, Quidam dixit, ô chara Cecropis urbs. ego autem de tccur non dicam, ô cha ra Dei urbs? Pauca age, inquit, fi tibi tranquillitas animi curæ eſt. Nihil co plus cnofert, quàm ea quæ neceffe eft, agere, & quæ ratio animalis ad ciui lem ſocietatem nati, ac quo ca modo dcligit. Id enim non modò rede a gendo, fed & paucaagendo animi tran quillitatem parit. Nam ex his, quæ plurima &agimus & loquimur,fi quis ca quæ non ſunt neceffaria tollat, is &maiori otio Pombaur, & pauciores per turbationes experietur. Itaque lingu. lis in rebus circunfpiciendum, ne quid non neceſſarium agamus: acnon mo dò actioncs, fed & cogitationes inuti les funt uitandæ. ita cnim fict, ut nea. &tiones quidem fuperuacaneæ conſe quantur.Facpericulum,ut tibiboniui uita quadret:eius inquam,qui fato fibi deſtinata æquo fert animo, contentus eſtiuſtis ſuis actibus, & placidoftatu:ui diſti illa,hæc quoqueintuere.Non per turbatcipfum, fed fimplex efto.Si quis U MAwy peccat, fibijpfi peccat. Tibili quidbom ni obtigit, ab initio tibiid fato tuo fuit deſtinatum. Omnino autem breuis quum sit uita, curandum ut præſens tempus lucreris rectam rationem & iu ftitiam ſequutus: ac in remiſsionibus animi ſobrius fis. Aut compofitus eſt certo ordine mundus, aut cófuſo quæ ram rerum temerè mixtarum, mundus tamen. An quum in te ipſo poſsitor dolocum habere, uniuerſum nullo or dine conſtare dicemus? præſertim om nibus in co rebus ita digeſtis, diffufis, atque inter fe affectis. Mores nigri uocantur mores effæminati, duri, fe ri, pecorum aut infantium fimiles, ſto lidi,fucati,fcurriles,cauponarij,tyran nici. Si peregrinus in mūdo habetur, quæin mundo funt, non cognofcit: haud minus peregrinus erit, qui ea quæ fiunt:non cognofcit: exul, quiciuilem rationem fugit: cæcus, quiintelligen tiæ oculos clauſos habet: pauper, qui alio indiget, nequein fe habet omnia quæ ad uitam conducunt. Abſceſſus,ſiuculcus mundi-eſt, qui ſe à communis naturæ ratione feiungit,in dignè ferendo ea quæ cueniunt:(caeń quæ te produxitnatura, omnia pfert.) fruſtum à ciuitate amputatum, quiſu am animam à communi & unica om nium ratione præditorum méte reſcin dit. Alius line toga philoſophatur,ali us abfg libro,alius feminudus,panes ſe non haberè,& tamen ingſtere rectæ rationi dictitans,alius ſe diſciplinis ſuis non alere, & tamen perfeuerare profi tens.Tu artem quam didiciſti,dilige, in cağacquieſce. Reliquam vitæ partem: ita exige, ut q ex animo dijs omnia tua commiſeris,negullius te hominisuel ſeruum uel tyrannum conſtituas. CóGidera ſuerbigratia) quęVeſpaſia nitēpore euenerint: inuenies homines tum nuptias contraxiſſe, liberos aluiſ ſeægrotaſſe,diem ſuum obijffe, bellige raſſe,feſtos dies egiſſe, negociatos fuif ſe,agricultură exercuiſſe,adulatosfuif ſc,præfractos ſe geſsiſle, suspicionibus indulgfie, inſidias feciſſe,quoſdami uo tis mortem uocaſſe,alios quiritatos de præſentererum ſtatu,amalle, theſauros d TU collegiſſe,conſulatus et regna expetiif fe.Nonne corum omnium uitaiå aboli ta eſt?Rurfus ad ætatem Traiani defcé. de: invenies eadem omnia, atque cius quo ætatis hominesmortuoseſſe,eo dem modo ſi etiam reliquas ætates et gentes totas conlideres, uidebis quàm multicú ad ſummú cótendiſſent,paulò poſt ceciderint, & in elementa reſoluti fint.Præſertim uerò hi memoria recole di ſunt,quos ipfe cognouiſti uana affc Etantes, cum agere fecundum id ad quod natura erant facti, cizinhærere, &eo contenti effc ceflarent.Id quoque opuseftmeminiffe,in unaquauis actio necantum uerfandum,quantum digni tas cius & modus permitcunt:ita fiet,ut non diutius quum par litreb.exiguisim moratus, nullú faſtidiú cótrahas. Vlita ta quondā uocabula, nuncinterpreta tionis loco funt: ita et corum quifuerút olim celeberrimi, nunc quodammodo ſunt glossæ, ut Camillus, Cæso,Volcſus, Leonnatus, cum paulò post SCIPIO, CATO, inde AUGUSTUS, ADRIANUS, ANTONINUS. Ist hus: omnia enim hæc euanida ſunt, & mox in fabulam abeunt: mox obliuio. nc oí a obruuntur.Ato hocdicodeijs, qui ad miraculü ufo clari erant: relig enim fimulato animam efflarunt, obscuri, & ignoti facti ſunt. Quáquá quid eſt omnino,cuius fit memoria lempiter ħa? Omnia füntinanía. Quid eftigitur, in qd Geſtudio incúbendú? Vnicú hoć, ut cogitationes antiuftæ, actiones ſo cietatem humanam refpiciant, ratio te punő fallat,itag lis alo affcctus,ut quæ cúqaccidút,catanğneceſſaria,nota,ab codé principio & fonte promanantia, approbes. Vltrò te fato ſubmitte, pate regid teijs quæ ei uiſum fuerit rebus destinare:oia in diéfunt, cum id recordat alicuius, túid, cius fit mentio. Nunquá nó con dera, oía permutationes fieri, neq uniuerſi naturæ quicquã eſſe ulita tius,ĝres mutare, & innouare. Omnia em quæ in natura ſubliſtűt,femina qua G ſunt corum, quæ cxillisſunt naſcitus ra; eftautem nimium rudis hominis exi Ntimare ea cătùm ſemina cfTe, quæ in cer ram aut matricem deijciuntur. IM lam morieris,neque in pofterumeris is quinunces,fimplex, perturbationu uacuus,nihilſuſpicans extrinfecus tibi poffe damni afferri, omnib. benignus, prudentiam in eo tantum utiuſtè agas poſiram cenſens. Intuere aliorum principem partem, acquænam fugiant,quæ ſequanturpru dentes. Tuum quidem malum non eſt in al terius animo pofitú,neg in conuerlio neulla aut mutatione cæli. Vbi ergo? in opinione demalistua. Nihiligitur malum eſleiudica, & omniabenehabc bunt.Quòd li corpus, quod animo tuo eft proximum,fecetur,uratur,ſuppure tur,putreſcat,tamen ea pars, quæ iudi care de his debet, quietaGt:hoceft,exi ftimet nihil effe neque bonum,neque malum,quod exæquo poteft bono at que malo accidere:nam quod'ei qui ſe cundum naturam uiuit, exæquo acci dit, id neque fecundum, neque contra naturam eft, Aſsiduè tecum cogita,mundum eſſe animal quoddam unum,unam naturā, uno animo præditum, quomodo om nia ad eius fenfum unicum rcferantur, omnia ab co unico appetitu mouétea gantur, ac omnes res omnium rerum caufæ aliqua ex parte fint,tum quis ca rum inter fe contextus & ordo. Animula es, quæ cadauer geſtat: ut Epictetus dicebat. His qin mutatione funt, nihil eſtma lum: utnequebonum quicquã his qui è mutatione exiftunt. Aeuum, fluctus quidam eſtrapidus carum quefiunt rerü:fimulcnim unum quodß & apparet &præterit, &aliud ſubſequitur, moxitem aliud ſuccedet. Omne quod nobis accidit, ita conſue tum eſt, & notum, ut roſa uere, fructus æftate. Eadem eſtratio morbi, mortis, calumniæ, inſdiarum, omniumg eorü, quæ ſtultis uel gaudium, uel triſtitiam afferunt. Quæ ſubſequuntur ſubinde, ca præcedentibus rite ſuccedunt.Non enim numerus tantum certus eft eorü, àfolaneceſsitate dependens:fed & có fentanca corum inter ſe colligatio. ac quemadmodum certo ordine resinter fe ſunt coaptatæ, ita quæ fiunt,non ſuc ccfsionem nudam,fed mirabilemctiam quandam inter fe coniun &tionem etne ceſsitudinem oftendunt. Dictum Hera cleti ſemper eſtmemoria tenédum:ter ræmortem fcilicer eſſe aquam,aquæ ac rem,aêrisigné,idý uiciſsim. Eius quo quc exemplum recolendum,quineſcie bet quorſum iter duceret, Et quod cum rationc quæ uniuerſum admini ſtrat, continenter conſuetudinem ha bentes, tamen ab ea diſcrepant: itag in quæ quotidie incidunt, ca noua ipfis & peregrina uidentur. Non tanquam ſi dormiremus, agendum nobis eſt & lo quendum: in fomnis enim tantum uide murnobissgere aut dicere. Nequeimi tádi ſunt nobis pueri, qà parentib.fuis * hucé,nudè, Gicutaccepimus,Quéadmo dulias tibi Dcorūdiceret, moriendum tibi aut cras, aut ad diētertiú: nojā ma gnopètertiú dié craftino pferres,nifi a nimielies oio abiectiſsimi.quátú emeſt interuallum? Eodēmodoiudicanon in magno effe fouédú difcrimine,poſtmil lenos acaonos, anuçrò çras decedas. Crebrò reputa, quàm multi medici fint mortui, qui ſæpenumero ægrotos inſpi cientes ſupercilia contraxerint: quot Mathematici, qui alijs exitú è uita præ dicédo ſeiactauerint:quotphilofophi, quide morte & immortalitate multa alleruiſſent:quotre bellica laudati, qui multos occiderant: quot tyranni, qui magna cum inſolentia tanquamimmor tales poteſtate luauſi crant:quot urbes mortuę(utita dică)ſunt,Helico, Pom peij,Herculanú,& aliæ innumeræ.Col lige etiam,quos tuipſc noftiunum poſt alium,cuius funus curaffet mortuos:Et quod heri fuit piſcis,cras critfalfamen tum, aut cinis. Momentancum itagté pus à natura eſſe conſtitutum, conſide randum eft æquoſ animo è uita abeun dum:perinde ac Goliua maturitaté co ſecuca G decidat,arboréqipfam tulit ac genuit,collaudet, & gratiasagat. Simi lis elle debespromontorij, adquod al fiduè fluctus alliduntur: ipſum autem perfiftit,utcunque undęæftuantes cir cùm ferátur.Diceret aliquis: infęlicem mé,cuiboçacciderit:quinimòfelicem t me, quihunc cafum fine dolore perfe ram, & nec præſentibus frangar, necfu tura extimeſcam.Nam unicuiqtaleąd potuit accidere: at non cuiuſuis craç,li ne dolore cum caſum excipere. Curigi tur illud potius infortunio, quam hoc felicitati adſcribis? autcuridinfelicita tem hominis appellas,in quo nihil mali palla eſt hominis natura? an uerò dam num tibi humanæ naturæ uideri poteſt id, quod non eſt contra uoluntatem naturæ çius? Quid ergo? Numcaſus ifte ef ficere poterit, quominusfis iuſtus, magnaminus,temperans,prudens, circum fpectus,tutus ab errore,uerecundus, li ber?autadimereomnino quicquam co rum,quçhominis naturę funt propria? Proinde quoțies inciderit quicquam, quod ad dolorem te prouocet, recor dare huius præcepti,non illud informado nium eſſe appellandum,fedfelicitati tri buendum, quòd id fortiter feran Eft quidem ignobile,præſenstamen ad contemnendam mortem auxilium, memoria repeterc eos, qui uitam inlon giſsimum extraxerc tempus. Quid enim hi 57 1 hi amplius consecuti sunt, quàmij, qui immaturamorte ſuntabrepti? Vtique ipfi etiam defuncti iacent, Cadicianus, Fabius,Iulianus,Lepidus, alijſ corum fimiles, q cúmultosex tulissent, ipfidein de elati sunt. Omninoeņexiguū eſt ſpa çium, időper quotlabores,inter quos, &quali in corpuſculo exigendum? Ne igiturmortem prore difficili accipe. In tuere cius quod retro eſtæui uaſtiratë, & eius quod reſtat,immenſam longitu dinem:in tanto tempore quid præſtat is qui tres ætatcs, ci qui uixit triduum? Semper breuiorem uiamingrederc: brevissima autem est ea, quamnatura præ ſcripſit. Itag in omni & fermone & a. & ioncidfectare, quòd eſtrosiſsimum. Hocpropoſitum laboribus,militia, çura rei familiaris, & folicitudi neliberat. Anè cum grauatim à fom no ſurgis, in promptu tibi ſitcogitare,tead humanum opusfaciendum ſurgere.lca que ergo dices) grauatè acccdo ad agé da ea, quorum cauſa natusſum, ac pro ter quæ in huncueni mundum? scilicet in hocfactus, ut decumbesin lectome ipsum calefaciam? Atquihoc iucundi dius eft. Ergónead uoluptatem natus es, nonad agendum?nonuides plantu las, palierculos, formicas,arcaneas, a pes, lingula hæc luo intenta officio: tu uerò ea quæ funt hominis obire recu ſas, nc ad id te confers, quod naturæ tuæ conuenit? At uerò quiete opus eſt. Sane: fed & huic,modü ftatuit natura, pinde,utedédi,bibédig: atqui tu ultra modú &laq gfatis é, pcedis:n reb.uc rò agedis intro moduſubliſtis. Fit hoc cò, qateipſum nó diligis:alioqn eń & natura tua, cius voluntate diligeres.Et cnim alij qui ſuas artes amāt, operibus fuis ita incumbunt, ut neque balneorü nog cibi curá habeant. Tu naturm tua non tanti facis, quanti aut tornator, aut histrio suam artem, quanti avarus argentum, &inanis gloriæ cupidus glo riolam. Hi enim quarum rerum ftudio tenentur,dum eas augere poſsint, cibų &fomnum poftponunt. At tibi actio nes ad ſocietatem ſpectanteshumanam uiliores uidentur', 'minorig opera di gnæ?Quàm facile eft omnem cogitatio nem quæ animo aut perturbationem af ferat,aut nóconueniat, reijcere, & delc re, ſtatimg effc in fumma animi tran quillitate? Omnem fermonem & actionemque fit fecundum naturam, dignam te iudi. ca:nca te auertat ab ijs reprehenfioare fermones aliorum ca consequentes. Sed fi quid fa & o dictúue pulchrumeft,idte neindignum putes. Alij cnim aliam ra fionem,alios appetitus fequuntur:ad quos tibi non eit refpiciendum,fed re Cta via cò pergendum,quò &tua,& comunis omnium ducitnatura: utriuf que autem una eademg eſtuia per ca quæ funt fecundumnaturam progre: dior,donec morte finiam: expirans qui dem eam, quá inſpiro quotidie animā, cadens uerò in terram, ex qua &femen meum pater, & fanguinem mater,&lac nutrix collegit: quæmeterratot iam an nos'quotidie alit cibo ac potu, quamc calcantem fert, ac totmodisipla abu tentem. Auſteritatem tuam ut admirêturno est. Sit fanè, at multa alia ad quæ tc non eflenatura aptum, dicere non po tes.Eaigitur profert, quętota funtin te: integritatem, grauitatem,laborum tole rantiam, uoluptatum abftinentiam,ani mum ſua ſorte contentum, pauca defi derantem,placidum,liberum, àcurioſi tate & nugis alienum, altitudine prædi tum.Nonſentis,quam multa poſsisprę ftare, de quibusnulla eſt excufatio na turæ ad ea non aptæ: & taméadhucfpó te tua inferius manes. Quid? Ante natura parum bene in ſtructa cogit indigna ri,cúctari, adulari, corpuſculum tuum incuſare, tuam ſortem improbare,leuć eſſe, animouagari:nonmehercle,fed his omnibus iampridem ut liberareris malis,in tua fuit poteſtate.Hoc tantum erat uitij, quod tardioris ingenij, ac qui non facilè affequeretur ea quæ traderé tur,exiſtimari poteras: Sed & hoc exer citationeerat corrigendum,neſubinde cogitares de tua tarditate, néue ca de lectateris. Eorum qui bene alijs faciút,triaſune genera:primum corum, quiſtatim exhi bito beneficio, ſtatim etiam quam ſint meriti gratiam reputant. Alterum co rum, quiid quidem non faciunt,ta conſcij quid fecerint,debitorem ſeiam habere cogitant.Tertij quodammodò ne hocipfum quidem quod fecere,no runt:uiti ſimiles, quæ uuam cum protu lit, ut femel ſuum deditfructum, nihil præterea quærit. Equus ficucurrit, canis fi uenatus eſt,apis fi mel fecit,fatis eſt. Homo auté l benè fecit,non reuocatur, ſed ad ali ud negocium tranſit, quemadmodum uitis,ut rurſum fuo tempore uuam producat. In his nc igitur eſſe debent, quæ aliquomodo fine conſequentiaid faciunt?equidem.ſed hocipſum debet confequi. Propriū cnim est inquit animalis lege sociati, ut sentiatle et societatis causa egisse &ut velit omninoid eû qui ſocietatis eft ciuſdem, sentire. Verum clt quod dicis: quod autem nunc dici tur, excipe. Proptereà ex eorum numc ro eris,quorüantè feci mentionem. Hi enim uerifimilitudine quadam proba bili abducuntur. Quòdh intelligereuis quidná litid, quod diximus, netimcas, ne obid actio aliqua ſocietati hominü inferuiés tibi Gt omittêda.Athenienlių erathocuotu:plue,pluuiã ò chare lu piterin agros & cáposAthenienſes de mitte. Enimuerò aut nihil eft optandū, aut omnino fimpliciter, & liberalitcr. Quod dicimus Aeſculapium huice quitationé, illi lotioné in frigida,alteri utnudispedib.ambulet, iniúxiſſe:nihil aliud eft cú dicim°, natura uniuerfi huic hoimorbú, defectú autamiſsionémen brialicui'impofuit.Náutilliccum dici mus iniunxiſſe,intelligit.AEſculapium HUO O unam rem ad alterāordinafic, uerbigra tia,camrem reſpectum habere ad fanita té:ica hicidqunicuiqaccidec, rationé babet & rcfpectumad fatū.Ita enim hęc nobis accidere & cógruere dicimus, ut opificesquadratoslapides in muris aut Pyramidibus extruendis congruere a lerunt, quippe certa cos collocation ne inter ſe componétes. Omnino enim una quædam eſt harmonia: atg ut uni uerG huius corpus ex omnib.corporib. eſt compactum, ita ex omnib.caufis Fa tum ſuprema cauſa conſtat.Id quod di co,etiam rudiſsimi intelligút homiues: dicút enim,hocſors cius tulit,hoceica ratimpolitú.Accipiamusergo hæcita, utilla quæ Acſculapius impofuit: nā & in illis multa ſunt aſpera, quæ tamen fpc ſanitatis ferimus.Tibi crgò corú quęcó munis naturatibiiniúxerit perfectio,fi milis ſanitati iudicet:atqita æquo ſuſci peanimo oía quæ fiút(ctiāli gd durius uidcat. ) quoniã adidducunt, quod ra tioncmúdić fanicas,népeadfelicitaté. Nihileſ accidiſſet tibi, nifi in réuniuer Gita ect:ncq cnim una quæuis natura i  quicquam fert,ſed id modò, quod re fpcctum adid quod ab ea adminiſtratur, habcat. Quare duæ ſunt rationes,cur ea que tibicueniunt, çquodebeas animoferre. Vna, quiaſors tua ficferebat, & tibi de ſtinata erant ab antiquiſsimacauſa fata li habentiaad te certum reſpectum.Al teras quòd ca faciunt adprofectum, & perfe &tionem, ac permanentiam eius, quòduniuerfo praecſt. Totum enim muti latur,fi etianminimam partem conti nuitatis & coherentieutmembrorum, ita etiamcaufarum difcindas. Id autem quantum intc eft,facis, quotiesea quæ tibi obtigerút,moleſtèfers,ac quodam modo tollis. Faftidire,animumdeſpondere,ac de terrerinódebes, fi nó ubiq tibi fuccef ſusrefpondet,fecundum recta præcep ta agere fingula cupienti:ſed fruſtratus conatu,cum redintegrare, & æquo ani mopleraq humanaferre: neque debet te eius,ad quod redis,poenitere.Nequc tibi eſt ad philofophiam tanquam ad pædagogum redeundum:Sed utſolent qui ex oculis laborant,ad ſpongiam & ouum, alij ad cataplaſma &perfufioné confugere.Ita enim nó opuserit tibi o. ſtendi,utrectęrationiobedias:ſed in ca ipſe acquieſces. Memento philofophiam ca tantum poſcere, quæ natura etiam tua exigit: tu aút aliud quippiam uolebas.Vtrum uc rò horum blandius'eft an nonhocpa eto dccipit uoluptas? Vide gratior no gt magnamitas, libertas, simplicitas,æ quanimitas, fanctitas? Quid enim ipſa prudentia Git acceptius,ubicùm animo tuoreputes facultatem quæ ſcientiam certam, & certis conſequentijs nixam habet,nuſquamlabi, & ubiq ſucceſſum habere? Res quidem ipfæ in tanta quodam modo uerſantur obfcuritate, ut philo fophorú plerifcb & ijs no ignobilibus, omnino pcipipoſſe nihil uifum fit:Stoi ci tamé poflc percipi, ſed planè difficul ter,cenſucrunt.Eft omnis noſtra aſſé lo talis, utfalli & mutati poſsit:quis c nim ſenó pofle errare dixerit? Trasfer itag cogitationes ad ipfas res fubice  & as,acuide quàm breues, uilesø Gne, quæ ctiam à cinædo, fcorto,autprædo ne poſsint teneri.Inde tranG ad mores corum, quibuscum uitam degis, inter quos uix eſt etiam gratiofifsimum per ferrc,ne dicam, quod uix ſeipſum quis perpeti pofsit. Tanta igitur in caligigine, sordibus, tātoo rerum, temporis, motuumý, & rerum quæ mouentur flu xu, non uideo quid lit effe in honore, aut obferuantia hominum. Contrà præ ftat feipfum confirmare, acmortemræ quo animo expectare,ncqmoram indi gnè ferre, fed in his modo acquieſcere duobus: uno, quòd nihil mihi accidet, quod nó fitſecundum naturam uniuer fi:alterum, quòd licet mihi, nihil agere quod contra Deum geniumg fit meú demo em ad hocme cópellere poteft. Subinde hoc teipſuminterroga: quam adrem nunc utoranimo meo? at & exa mina teipfum:ea pars, quam principem uocant, quomodo núc habet?cuiusaío prçditus ſum? num pueri, num ADOESCENTIS, num mulierculæ, num tyranni, num iumenti,num feræ? Qualia fint illa, quæ uulgò bona ha bentur, etiam hinc euidens fiat.Sienim animo concipias ca quæ ſunt reipfa bo na, utprudentia, ut temperantia,utiu fticia,ut fortitudo,hisiam antè reputa tis, nihil porrò audies nominari bonú, quod nófub hæc referatur. Quæ uerò uulgus hominum bona putat,ca qui an tè mente conceperunt,fimulatq nomi nari audiút,perfacilè accipiút,perinde ut liquidà Comico appolice di& ú eft. Hæc eſt fere uulgi de differentia bo norum opinatio:alioquin enim haud co peruentum eſſet, ut uera bona auer ſarent,diuitiarū aút, voluptatis aut glo riæ métionéita admitterét, utſcitè ato urbanè dicta.Progredere ergò,acinter roga,(intne in honore habendaet in bo nis ducenda hæc, quæ fi animo tuoima ginatus fueris,aptè quis dicere poſsit, cum quiiſta poſsideat,propterhác co piam ncubi quidem cacec habere. Ex forma & materia conſto: ho. rum uerò neutrum in nihil uertetur, ut neque ex nihilo extitit. Ergo om nis mci pars permutationem redigetur in aliquam mundi partem, atqhæcrur fus in aliam uniuerli portioné tranſibir, ido ad infinitum uſ. Huiufmodi auté mutatione & ipfe extici, & parétes mei, ide in infinitum uſo retrò eunti licet dicere:quãquam certis alioquin circui tibusmundusadminiftratur. Ratio et rationalis ars, facultates funt abiipfæ ſufficientes,fuisg operib. Progrediunturàſuo principio, acper gunt ad finem propoſitum:habent a & tiones earum à uiæ cuiinGftuntilleno men apud gręcos, utfine netoptásons:nos rectas effectiones dicere poſſumus.Ho rum nihil de homine dicipoteſt,neque enim ei conucnit, ea ratione, qua homo eft: Non hæchomo,ncgiplius natura profitetur:non eſt ca in humana natura perfectio.Proindein externis rebusnc quaquam erit finis homini cóftitutus, nepid bonum, quod finem illumabfol uit:Alioquin hominis partes non fuif ſét,ut eosdeſpiceret,nem laudedignus, quiſeita parat,utillis non indigeat:no que qui illis rebus abſtinct, bonus dici mercrctur, fiquidem cæ bona ellent Nunc uerò tanto quiſ melioreſt, quá to magisſeipſum ab illis rebusabſtinet. Talis erit intellectus tuus, qualia ſunt ca,de quibus ſubinde cogitas: nam à ui bis fcu cogitationibus illis animus im buitur.Inficeigitur eum adliduitatehu iuſmodi cogitationum, qualesſunt:ubi cunqueuiuere,ibietiam bene uiuere li cet:uiuere autem licet in aula, ergo etiã bene uïvere licet in aula. ltem alicuius rei caufa fingula ſunt facta cui ucrò gra tia unúquodgfa & ú eft,adid fert, ado aút fert in eo finis eius é poſitus: ubi ue ro finis,ibi ét bonú unicuiq. Ergo finis animanti ratione prędito ppolituseft, focictas, natos cnim nos effe ad eājiam pridem eft demonſtratum. An uerò non euidens eſt, deteriora præstantiorum, rurſumýex his unum alterius caufa esse. Præftantuerò inani mis animata,atq inter hæcipfa, ca quæ rationem habent. Ioſani eſt,ſectari impoſsibilia. At fic ri non poteft,quinmaliſuomore agāt. Nihil cuiquam accidit,nifi ita Natu rá deſtinarit. Id quod alius iniquè fert, e  bas wal wide ولا bus alteri accidit, qui fiue ignorationc cius caſus,ſineut magnanimitatem oftédat, cóftantiā tuetur,atqillæſus manet.Ini quú cſtigitur admittere,utinſcitia et o pinio prudētiäſupent. Etenim res ipfæ animúnequaqattingunt, non intrātad eu,ncg mouere, ncq uertere poffunt. Solusipſe ſeipſum ciet, ac quale iudicia umtulerit, talia ea quæ accidere, fiunt. Alia róeſumma nobis eſt necefsitu. do cũ hoíe cóftituta,quaeibenefacere, eumý ferre iubemur:cú aúcimpedire conant noſtras actiones, nó magis ad nos attinet, ộ Sol, uétus:beſtiæ. Ato hi qdé impedire effectú aliquãdo pofsint: animi uero appetitioné, & affectum no qucunt,quiahæcexceptioné habét, & conuerlionem.Ná omneid quodimpe dimento fuit effectioni,id animus ad ca quæ præcellerút,cóuertit, atßcomo do id, quod instituto operi, uiccoßinitę obftitit,ei iam confert aliquid. Id quodin múdo eft præftantiſsimū, cole. Eit aútid, qd oíbusreb.utitur,oía gubernat. Similiterid quoßhonora, q in te elt primú: nimirú illi alteri cogna tum, cesa üles DO Pe quatum,quòd & cæteris quæ in teſuntom nibus utitur, & tuam uitam regit. Quod civitati nullum affert detri mentum,idnc ciui quidé nocet. Hæcre gula recoléda tibič, quotieſcúq telæ ſum aliquâ eſſe cogitas.Sin ciuitas dam no affecta cft, ei qui ítulit,ſuccéferenó debes. Quid neglectú eft?Sæpenumero códdera, ệ celeriter oía quæ & funt & fi unt, abripiãtur & cuanefcát. Etenim & ipfęnaturę amnisinſtarin adſiduo funt fluxu, & cffectiones cótinétib.mutatio nibus obnoxiæ, & cauſarúinfinitæ ſunt uices:denią nihilferè perſiat, aut ſui fi mile durat.lā & pręteriti, & uenturiçuí infinita é, in qua oſaabolentur,uaftitas, Quî ergo ſtultitiæ nó damnet, qin hoc tā cxiguo téporis articulo ſupbit,appe tit,autmoleſtia fe affectú quiritaf. Universæ rerum naturam recordare, cuiusmini. mã parté tenes: totius zui,cui' breue & mométaneútibi éattributúſpacium:fa ti, cuius perexigua ad te portio ptinet. Peccatalius qs aduerſummc uiderit, ſuā habet affectioné, ſuum a &um. Ego in præſentia id habeo, quod me habere i t c & C a & 1 uult cómunis natura: agogid qd'age remeiubetmea natura. Pars animitui princeps neinucrtatur ullo uelleui uel alpero carnis motu, neg admittat per fuafones quçinmembrisoriuntur, Sed circumſcribatcas. Quòd fi ex ratione alterius conſenſusad intelligentiam ef ferútur,nimirum quatennsea cum cor pore copulata eft, tum quidem ſenſui, cum is a natura proficiſcatur, reluctan dum non eft: opinioniautem mali aut. boniadfentiremensnon debet. Viuendum eſt cum dijs.Vitam ucrò cum dijs agit, qui continenterijs ſuum animum oftendit probātem ea quę ipli fatum tribuit, agentemg ea quægenio placerent: quem lupiterſuæ quandam particulā naturæ unicuiæ prælidé, du coşdedit, nimirú mente atæ rationé. Neiraſcaris ei qui hircú olet, autcui aia fætet; nihil, n.ad teidcmaliredibit, Alæ iplius, & osita ſunt affecta,utne ceflc ùthæcmala conſequi, Rationc,inquis, præditus eſt homo, ac fi scrutari uclit, intelligere poteſt quainre delinquat.Benereshabet. Proinde tu, qui & ipfe præditus es ratione, mentem eiustuæ mentis motu cxcita, doce, commonefac: li enim obtempe rat tibi, fanabis eum, negira opuserit. Nonita hic uiuendú eſt tibi,ut Tra gedo autſcorto qui egrediés uiuere co gitat. Quòd li tibinon cóccditur,tunc uita excedere, ita quidé,ut qnihil mali patiatur,acfumiinitar abeat, Quid hoc rei eſſeputas? Dum uerò nihilme tale abducit,liber permaneo,neq mequif quam prohibet agere,ut uolo, uolo au. tem,ut naturæ animantis ratione predi ti, & ad certum nati conuenit, Mens quæ mundum gubernat, ſocic tatisrationcm habuit:itag & inferiora præftantiorumcaufa effecit,& pręſtan tiorum unum alteri ſubdidit. Videt, ut ſubiecerit, cóiunxerit,ac unicuiq ſecu dú dignitaté ſuú tribuerit,ea quęlunt pręſtátiſsima,mutuo cófenfu deuíxerit. Quomodo uſus es hactenus dijs, pa rentibus, fratrib. uxore, liberis, docto ribus, alumnis,amicis,familiaribus, fa mulis? an in huncuſquediem in nemi nem horrcū uerbóuefuiſti iniurius! Reminiſcere étą ſupaueris, actolc raueris: tum fabulam uitæ tibiiam pera tam,teş tuo miniſterio defunctum ef ſe. Quàm multa uidiſti pulcra? quot uo luptates quotdolores deſpexiſti? quot peruerfis hominib. æquúte præbuiſti? Quamobré animi artis & diſciplinæ uacuiarte & fcientia præditum confun dunt? quem uerò animum arte & ſcien tia præditum uocas?cum,qui principi um & finem cognoſcet,et mentem, quç per uniuerfam rerum natură penetrat, acper omnes fæculorum curſus defini tos atq; ftatosmundum gubernat. lãiá cinis eris, &oſſa nuda, nihil öter nomé(liquidéid ſupererit) tui reſtabit. Noméautnihil eftõſonitus. Atea quæ magniin uita precij habent,uana ſunt, putrida, cxigua, atą inſtar catellorum mordicantiŭ, aut pucrorü inquietorů, quimodò rident,mox plorant. Cæterű fides,pudor,iufticia, & ueritas. Climatib. tcrræ cæld petiere relictis. Quid ergò reſtat, te hîc detineat? fen Gliane tam fluxa, torý mutationib. cxpofita?an ſenſus, obſcuri, & qui facilè decipiantur?animula ipſa, quæ cft ex halatio à ſanguine? gloria inter huiuf modi homines, inanis illa? Quid ergo aliud operiris,niſiuelextinctionem,uel translationem,idý æquo animo?Quid interim dum eam occafio adducit,tibi fuffi ciet? Quid aliud, quàm deos uene rari &collaudare,hominibus beneface re,eos &ferre, & ijs abftinere:quæ cx tra tuæ carunculæ & animulæ ſunt po fata fines,ea meminiſſenex poſſeſsióis, nco poteſtatis tuæ eſſe? Semper potcs uti ſecundisſucceſsibus, Gredtæ uiæ in Giſtere uis,duo hæc obferuare, quæ di uinæ menti communia funtcum homi nis, omnisg ratione præditi aſalis ani mo: unum, non poſle te ab alio impedi ri:alterum,iniuſta uoluntate & actione | bonum eſſe collocatum, cumý ad fino efle appetitionesdirigendas: Si hocneg mca fitmalicia,ncqactio eſtàmeaproficiſcensmalicia:nequcco munitatidāno eſt, quid folicitus deco ſum?querò dānúě cómunis focictatis? Non debemus nos cogitationib.om ninoabripiédos præbere, fed opitulari quátum eius fieri poteſt, & dignum eſt, etiam li in medio lit defectus:ncqueid pro damno ducere.ca enim cófuetudo mala eſt. Sed quemadmodū ſenex di ſcedens rhombum alumni poſcebat, memorrhombú cffc.ita etiam hic: quo niam bonú aliquid fiatin roſtris. Heus homo,oblitus es, adhæc lint? lanè: Sed ca,in quibushiſtudiú ponát.Propterea tu quoqs ſtultus es fa & us? Aliquando uteung relictus,factusſum felix. Felici tas auteſt, utbonam tibiipfifortem uendices: id eft,boni motus ani mi,bonæ appetitiones,bonæ actiones. Aturauniuerfi ſuo guberna tori obedies eft, acbene có polita: quæ uerò cam guber nat mens,nulláin ſeipſa ha betmalè agendicauſam: quippenihilei ineft uitij,nc peccat,nc ab ea quic quam læditur: omnia uerò fecundum cam fiuntatßperficiuntur. Nullo ponein diſcrimine,algenſne, an calens, dormiturićsan ſomni fatur, malian benè audiens,moriens an aliud quid agens id facias, quod te decet: quando mors etiã una eft carum a & tio num, quæ ad uitam referuntur. Sufficit igitur ea etiam imminente, id quodin ſtat,benè collocare. Intrò refpice.Nullius rei nequepro pria qualitas,neqid quod cidebetur, te fallat. Omnia quæſubiccta ſunt,celerrimè mutantur, & autin halitum refoluun tur, fiquidem fit compacta corum ſub ftantia,aut diſsipantur. Mens uniuerli gubernatrixſcit quó ſe habeat, quid agat, & quá habeatma teriam ſubiectam. Vlcilcédi ratio optima eſt,ne ſimilis fias cius, qui iniuriam fecit. Unohocte oblecta, inguno hocac. Quieſce, ut ab una ſocietatis humanæ tuendęcauſa ſuſcepta actione,ad aliam tranfeas, dei memor. Princeps hominis pars eſt ea, quæſe ipfam excitat atą cict, feğz talem, qualem vult,efficit,præſtatý ut ea quæ eue niunt talia, qualiaipſa uult, fibi uidean tur. 04 Omnia fecundú naturā uniuerG fiúc: negenim poſſunt fieri fecundú ali ali quam,ſiue extrinfecus circumdantem, fiue incluſam,fiue foris ſuſpenſam. Vniuerſum aut confufio quædam eſt, & cótextus fortuitus rerum iterum àſé diuellendarum & diſsipandarú: aut unitionc ordine, & prudétia conſtat. Si prius illud uerum eſt, quid eft,curcu pia inani huic colluuiei & mixeuræim. morari? quid aliud expetendum,quàm ut in terram utcungredigar? quid per turbor?quicquid egero,tamen difsipa tio mc corripiet. Sin altero mó res ha bet, uencroreú, animoſ conftári ſum, & gubernantimundum confido. Cum te rerum præſentium ſtatus nó nihil perturbat,celeriterad teredi,neg ultràquàm neceſſe é, à modoeius quá inftituiſti cantilenæ difcede. Nam co fa cilius harmoniam tueberis, ſi continen ter ad eam reuertaris. Sitibi Amul &nouerca, & mater effet, illam quidem coleres, &tamen crebrò ad matrem te recipercs. Eadem eſtribi ratio aulę & PHILOSOPHIæ. Quarc ad hanc sæpe numero revertere, & in hacac quiefce, quæ efficit,ut &res aulicæ tibi tolerabiles uidcantur, & tu duminijs ucrſaris,ferri queas. Quid cogitandum est de cibis & id genus rebus? hoc eſſe piſcis ca dauer, illud auis, aut porci: item Fa lernum, ſuccum eflc exiguum uuulz purpuram capillos elle ouiculæ, modi. co teſtudinis fanguine imbutos: tum coitum,inteſtini parui affrictioné, mu ciğ excretionem non fine cóuulấone. Cogitationes hæ præclarę ſunt: nam ré ipfam attingunt,acpertranſeüt, ut qua lis cafit,cerni poſsit.His per omnem ui tam utendum eft:aclicubiresquàmma ximè uidetur comprobatu digna,tegu mentis cſt nudanda, ut & eius in cófpe dum ueniat uilitas,& id,quo fe oftenta bat, ei adimai. Etenim fucus impoſtor eſt callidiſsimus,ac tummaximèin frau dem inducit,cum quis maximèfe res ſe rias & dignas tractare putat. Videigit, quid de Xenocrate ipſo Crates dicat: Pleraq, inquit,corum, quæ uulgus ad miratur, fi fub habitu aunatura conti nerent, ad latiſsimè patentia genera ré uocabat,utlapides,ut ligna,ficus, uites, oleas.Quęſubarctiorib.aliquanto, ad animata,utgreges,arméta.Si qua paulò plº haberćt gratiæ,hęcad eareducebac a cópræhédútur fub ala róe prędita,nó quidé uniuerſali,ſed quatenus artes tra ctat, aut alias facultates: aut ipſa per fc. au L fcæſtimabat, ut:quidnam cſſct,poſside remultamancipia.Qui uerò animūra •• tione præditum cû omnibus ſuis facul tatibus,ciuilis coetus ſtudio uenerat, reliquarum is rerum nullam curat. Sed omnibus poſtpoſitisſuum animum ita affectum,atgita fe mouentem, ut ratio ni & ciuili ſocietati cögruit,conſeruat: ijs quiſunt eiufdem generis, utiden præftent,auxilio eſt. Quædam iam fiút, quædā mox exiſtent, quin &cius quod fic, pars iam nuncaliqua euanuit. flu xus, & alterationes continenter mundű renouất: quemadmodum infinitum æ uum temporis adſiduolapſu nouü ſub indereddit.In hocita @ flumine quifná ca quæ præterferút, ac quibusinfiftere nonpoſsit, honore aliquo dignetur?is quidem perinde lit,acli quis unum de præteruolátibus paſſerculis diligerein cipiat,atisiamè conſpectu cius abica rit.Itafe & uita uniufcuiufque hominis habet,ut halitus a fanguine ſublatus,& aër inſpiratus. Quale.n.eft quod femel animāattrahimus, & efflamus,id quod identidemfacimus,tale ctiam eſt, quòd f ac ad all a. ba omnem reſpirádi facultatem, quam hc ri aut nudius tertius nati accepimus, eò reddimus unde accepimus.Quod uege tamurmoreſtirpium,reſpiramusmore pecudú, & ferarú, quòduitsafficimur, quòd appetitionis cauſa mouemur, q congregamur, quòd nutrimur,omnia hæcnonmaioriſunt in pretio ponéda, quàm quòd excernimus cibirecremé ta. Quid igitur honore dignü est? num plauſus?nequaquá. Ergo nelaus quidé populi,quænihil eft aliud quãplauſus 1 nguarú.Sublata igit etiâ gloriola, quid reſtat, quod ſuſpiciamus & ueneremur? Equidéhoccenſeo, ut quemadmodú fa ciiinſtructiś à natura fumus,ita mouca mur.Eò nos etiam diligentia opificum, &artes ducût. Ois.n. ars huc collimat, utid quod paratú eft,aptü fit & idoneu adopus, cuius operis cauſa paratú eft. Idé querit uinitor,idé qui pullos equo rum domat,idé qui canes educat. Ergo &inſtitutio primęætatis & doctrina co contédunt:isý finiseſt,quem expetere debeas. Húc córecutus,nihileft in alijs rebus quod ſis tibi quæliturus. Quòd fi pergas ES pergas alia eciã expetere, nec liber cris, neg tibi ſufficies ipſe, negeris affectuú uacuus:neceſſariò.n.inuidebis,æmula beris,liniſtra ſuſpicaberisdehis, quiilla tibi adimere poſsúc,infidiaberis ijs, qui? id quodmagni fit à tepoſsidét.Oino.n. necesse est cu esse aio pturbato, qiſta de fiderat:fępe etiá deos incufare. Quiuc rò mente ſuam reuereturato colitis & fibi ip, probabitur, & cum cætu homi num bencei conueniet, cúmque dijs conſentier,id eft,laudabit quæcunque ij diftribuunt & ordinauerunt. Infrà, ſuper, atque circum te motus ſunt elc métorum. Motus uerò uirtutisin eorú nullo eft,fed diuiniore quadá, & adin telligendum difficili'uia procedit. Vide quid aganthomines. Eos qui eodem cú iplis uiuúttépore, laudare nolūt:ipfi uerò à pofteritate laudari magnü exiſti mant:nimirúabijs quos ne uiderunt, neq uidebūtunqua.Id uerò haud mul tò aliud eft, quàm ſi dolerét, non à prio ris etiá ætatishominib. felaudatos esse. Non, li quid allegintelligétia tua neqs, id daullopoile apprehendi homine exiſti 0 co ert as f 2ti ma: Sed quicquid homo poreft, quic quid ei conuenit, id & tibiconcediiu dica.ln palæſtra fi quis unguibus aduer farium laniauit,autcapiteincuſſo ferijt, nonindignamur, ncq;offendinjur,nco inſidiarum fufpectum habemus: caue mus quidem nobis abeo,non ut abho ſte, ncquc Gniſtrum quid de eo ſuſpica mur,tantùm placidè cum declinamus. Id fieri debetetiam in reliquis uitæ partibus, ucidem de alijsſentianus, quod de ijs, cum quibus collucamur:poflu muscnim (utdixi) citra fufpitionem & odiűabijscauere, & cosuitace. Si quis meredarguere poteft, & demonftrare, quòdnon recte ſentiam,aut agam,læto animo fentétiam mutabo:ucritatem.n. quæro, quæ nemini unquam dáno fuit; damnum autem facit,quiin crrorc & i gnorationcſua pmanct. Ego, quodcft mci officij, ago, cætera menonauellúc. Autenim anima,autrationc carent,aut uiæ ignara errant. Animantia rationis expertia,tú omnes ciuſmodi res & fub. iccta,magno & liberali animo ſunt ufur panda tibi,ncmpcrationeprædito. Hominibus uerò, ut ipſis quogmentcin ſtructis rationeſocietatis habita utere. Inomdisciònegocio deos comproca rc:neos ſolicitusefto,quantum tempo ris fpatium tibi adagendum detur:fuffi ciúteoim ucitres huiuſmodi horæ. Ale xander Macedo,agaloß eius, mortui in idem ſuptredacti: autenim aſſumpti ſunt ad mentēmundicam, qua fati ſunt reliquorum animi, aut diſsipati ſuntin atomos, unus perinde atgalter. Cum animo tuo conlidera,quàm multa uni co temporis momento fiantin uniuſcu iuſ @ noftrûm,cùm animo, tum corpo re:ita fict,utnó mireris, quòdlógè plu ra, imò uerò omnia quæ in mundohoc fiunt,fimul extent. Si quis à te quærat, quomodo fitnomen Antoniniſcriben dum: nónne fingulatim omnes literas proferres? Quid ergo fi qui iraſcuntur, num uiciſsim tu quoque ſtomachabc ris?nó potius numerum inibis placidè; Ingularum rerú? Itac ctiam hîçmemé to luis omnc officium quibuſdam con ſtare numeris: quos li imperturbatos ſeruaueris, ncq indignatibus alijs ipfo com Spro MIUS. quog indigneris,recta uiaid quod pro pofuifti,perficies. Inhumanum effe ui detur,hominem impedire, ne ad ea fera turquæ ei utilia & cognata uidetur. At quiid tu ne faciant prohibes quodam modo,dūiniquo animo fers cos delin quere.Ferútur enim utiqueadid, quod naturæ fuæ coniunctum, & utile putāt. Sed res nó ita habet. IditaB oftéde eis, & & doce citra indignationé.Morsfinem imponit ſenſuum motus, & cogitation num officijs,animúģàcorporismini- situ ſterio liberat. Turpe aút eft in hac uita, in qua corpus tuũlabori nỏ fuccubit animú tuú elāgueſcere.Videne à pręfé tiſtatu deiectus obruaris. Poteft.n.hoc fieri.Itaq; cóferua teipfum Gmplice, bo ne núintegrū,graué,apertū,iuſtitiæ ſtudio fum,piúerga deos, benignú, humanú, ad officiunituendúforté,annitere utta lite lispermaneas, qualetefacere uoluit phi c loſophia.ucnerare dcos,ſalaté homini busaffer. Breue eſt uitæ in terra degen dæ tempus,omniſg eius fructus, ſancta animi conftitatio, & actiones commu- beri pitati hominum utiles.Omniautdecet Anto SE maig Sophie Antonini diſcipulum.age. Quæ fuerit eius in agendo fecundum rationem fir mitas, quæ ubiqueæqualitas, quæ ſan ctitas, memento: quæ uultusferenitas, accomitas. Quantus ille gloriæ con temptor, quod eius in percipičdis reb. ſtudium, quum nihil prętermitteret,ni fi prius accuratèperſpexiſſet,ac cogno uiffet.Vt tulerit iniuftè ipfum repræhé. dentes, neque conuitium his repoſuc rit:ut nihilproperatè aut cupidèaggrel fus fit: ut calumnias nó admiſerit, ut di ligens fueritmorum actionúmque exa minator:non obtrectator,conmeticu loſus, non ſufpitioſus, non fophifta. Quàm paucisfuerit contentus, ut do moleco, ueſte, cibo,famulatu:quàm tolerans laborum,quàm lenianimo: ut tempusnequeadueſperam propter ui ctustenuitaté egerit,ita ut neexcernere niſi coſueta hora opus ei effet.Queeius in amicitia fuerit conftantia, &æqua bilitas: quomodo tulerit cos, qui ipfius fententia liberè impugnarent,gauilulý fuerit,fi quis melius aliquid oſtêderet. Qua ille deos religione coluerit citra ſuperſtitionem,recordare, ut iibi quo quc ultima hora perinde atque is fuit re ¿ te tibi coſcio adueniat. Expergiſcere, & tcipſumreuocafomnog diſcuſſo co gitans quæ te inſomnia perturbarint,ui gilās ea intuere,utilla inſpexiſti, Ex cor pufculo & anima con to. Corpuſculo nihilintereſt interres, neque enim po teft difcrimen ftatucre. Rationiautem inter ca diſcrimen habetur, quæ nóſunt ipfius actiones: has uerò oés in ſua ha bet poteſtate. Quod ipſum tantùm eſt de præſentibusaccipiendum,præteritę enim & futurę animi actiones,ipſe quo que nullum habentiam diſcrimen.Ma nuiacpedi,dum ſuum agunt officium, nullus eſtpræter naturam labor.ita ho mini quoqueea agenti quæ ipfius ſunt partium, nullus eſt præter naturam la bor:ergo nę malum quidé.Quotuolua ptatibus,acquantis frui contigit latro nibus, cinædis, parricidis, tyrannis? Nonnc uidos ut qui ſordidas profiten. tur artes, uſque ad certum finem ſe pri uatis hominibus accómodent? nihilom minus tamčſuæ artis rationcm retinét, nab ea decedere uolunt. Nónne aútturpeft, fi architectus &medicus magis lux artis rationé reuercatur,quá ſuam homo, quæ quidé ei eſt cum deo communis? Aga& Europa, anguli ſunt mandi: uniuerſum mare, guttamundi: Athos, glebula mundi: omne inſtans tempus,púctum cſt æternitatis. Omnia funtparua,mobilia,interituiobiecta: 0 mnia inde ueniunt, profecta à principe uniuerfi,aut per conſequétiam. Etenim rictus lconis, lethalia uenena, omniaos maleficia,ut ſpina, cænú, pulcrarum & bonarum rerum ſunt additaméta, Non igitur ea aliena ab eo quod colisimagi nare,ſed fontem omnium rerum confi dera. Qui preſentia cernit,omnia uidit, quæ ab æterno fuerunt, & in infinitum uſg erunt, Omnia enim ſunt eiuſdem generis, & conformia.Sæpenumero co gita de omnium in hoc universorerum connexu, mutuag affectionc, Quodá cnim modo omnia inuicem ſunt impli cata,ca ratione amica mutuò. Aliud enim ex alio confequitur,propter con fantem motum, ac conſpirationem & fs unitionem (ut ita dicam )ſubeſſe. Quib. negotijs addictus es ſorte tua, his teac commoda: & quibus tehominib.fatū adiûxit, cos amore,idig uero,proſeque re.Organa, inſtrumenta, uaſa, quumid agunt,cuius gratia funt adornata, bene habent et quidéis qui ea parauit, abeſt abipfis.At in his quæ natura continen tur,remanet, intuſý eſt uis ea paratrix. Ita tanto magis honoranda eſt, &exi ftimandū, li ſecundum cius uoluntatem agere perſeueres, oía tibifecundum mé tem eſſe:idéo de alijs hoíbus oíbusin tellige. Quodcu exijsreb.quæ extra te,negin tua uolútate ſunt pofitæ,tibi Ppofueris,boniuel malinoie, id, fi uel utmalú tibi cótingat, uelfi, cú pbono ducas,adipiſcinon poſsis, efficiet ut & deos incufes, & odio habeas homines quiin cauſa ſūt,aut eo certe noíe ſuſpe cti habét, g uelmalú hochabeas,uelbo no careas.Propterhác rerú differentia, quam ipfi ftatuimus, fituc multa pecce mus. Quod fi ſola ea, quæ in nobis ſunt pofita,bona&mala tractaremus,nihil cauſęreſtaret,ne aut Deú incufaremus, aut cú hoíbusinimicitias ſuſciperemus. Oés ad eúde finé & effectú agimus: pars ſciétes, & certo ordine,pars inſcij. Qué admodú & dormiétes.Heracletus nifal 1 lor dixit eſſe operarios,qui adiuuétlua opera hæc quæ in múdo fiút. Alius aút alia róneid opus adiuuat:ſupuacanea opera eft eius qrephédit, & reniticonat ijs quæ fiút, ea reſcīdere:nā & hocuti tur múdus. Proide animum aduerte, in quorú tute numero reputes. Nã admi niſtratorhuius uniuerd, utiq tePombare &è, & accipiet te inter cooperarios.Tu vero ne ſis huiuſmodieorú pars, qualis eſtinfabula uilis ille et ridiculus versus, cuius mentioné Chrysippus facit. Sólne pluuiæ munia obire cupit,aut Aeſcula pius terræ frugé ferētis? Quid ucròfyde ra, anno diuerſa quidélingulis eſt actio, quętnadcómune opus cóferat?Quod fide me & his quęmihieuenire debue rút, dij cófultauerüt, rectè nimirú mihi confuluerút. Nam Deum fine confilio agentemnc cogitarequidem facile est: quæautem fuiſſet cauſa, propter quam malè mibi confultum uoluiſſet? Quid inde ad deos, & ad uniuerſum (cuius maximè habentróné fru & usredijſſet? Sin de me priuato nihil conſultauerüt, ac deuniuerſo utigrationes duxerunt, ex quo quum ea conſequutur que mihi cueniunt,non debet mc eoruinpcenite re.Sanède nulla re eos confilium inire, impiū eſt credere: autneſacrificãdum, neprecandum,neiurandum quidé, ne que quicquam corum faciendum,quæ fingula tanquam cum preſentibus & u nà uiuentibusdijs agimus. Sed tamen fi nihil illi de nobis ftatuerüt,licet mihi dcmeipfo cóGliú capere, ac demea uti litate deliberare. Vtile aút eſt unicuig id, quod eſt naturæ eius & conſtructio ni cófentaneú. Atnatura mea rationis eft cópos, & ciuili cætui accommodata. Civitas mihi est et patria,quatenus quidem ANTONINUS SUM, ROMA. Quate nushomo,mūdus:hçcigit tantùm mihi funt utilia, quæ his ciuitatibus condu cunt. Quælingulis cucniút,ca profunt uniuerſo: id eratfatis ſcire. Sed &hoc addendum, quòd fi animaduertere uc lis,ubig uidebis: quæ homini, autalijs hominibus * Sed nuncuocabulumu tilis accipiamus latius, ut etiam medijs rebus pateat.. Quæ in theatro aut fimili bus locis uides,ca quum ſemper eadem ſpectentur, & uniformia, fpe & aculiſa tictatem afferunt. Idctiam de tota uita ſentiendum. Omnia enim fuperiora & inferiora eadem funt et exijſdem cauſis excitcrunt.quouſ igitur?Adliduooís generis homines conlidera, qui ex om nis generis profeſsionibus & nationi busmortuiſunt:ita ut ctiam ufque ad Philiſtioncm, Phoebum et Origanio nem deſcendas. Hic fanè cogitandum, idem euenturú nobis,quodaccidit tot cloquentibusoratoribus,totgrauibus philosophis: HERACLETO, PYTHAGORæ, SOCRATI, tot Heroibus prius,deinde tot du cibus, tyrannis: tum Eudoxo,Hippar cho, Archimedi, alijs acutis ingenijs, magnanimis,laborioſis, callidis, contu macibus,his ipfis,qui caducam hanc & & in dies durantcm uitam hominūſub ſannarút,utMenippo &fimilibus.Hos omnes cogitandum eft dudú eſfemor tuos:quid auté maliinde habent?Quid hi, quorumne extant quidem nomina? Vnumhocſummi cſt pretij, ueritate iuſtitia feruata,mendacib. & iniurijsho minibus placidú uiuere. Cùm teipfum oblectare uis, cogita virtutes corú qui uiuunttecum: ftrenuitatem eius, illius uerecundiam, aut liberalitaté, aut aliud quippiam. Nihil enim eſt,quòd tantam afferatlætitiam, quantam limilitudines uirtutum in eorum quibuſcú uiuimus moribus expreſſæ,ac fefe cófertim offe rentes cófpectui.itaqz in promtu haben dæ.Noniniquè fers, tot libras te appen dere, &non trecentas: ita etiã quòdan norum certum, & conon maiorem ui ues numerum, indignari non debes.Etc nim ut corporis tanram, quanta cibi eſt tributa,portionem probas: ita &de té pore tibi ſentiendum eft. Annitendum eft nobis, ut perſuadeamusijs cum qui bus agimus: lin minus, etiam illis inuitis id agendú eft,quod iuftitiæ ratio iubet. Quod li quis ui te impediat,tranfi adę quanimitatem, eo impediméto ad al terius uirtutis opusabutere:memor, tc cú exceptione quadaíftituere actioné, negca appeterc,quęfieri nequeat.Itaq is füitimpetus animi tui, cui ſatiſfiat, ii id, cuius caufa citatuses, cóſequat. Glo rięcupidus, alienā actioné pluo bono reputat.uoluptuarius affectioné,quai ple afficit:méte uerò pręditus, ſuã actio né.Licet etiá nihil de hisexiſtimare.ipſe.n.res nó funt eius naturæ, ut iudiciú no ſtrúefaciat. Adſuefac te, ut alio docéte cogitationes nó aliò diuertas,fed totus animo diceris fisintétus. Quodalucari nó pdeſt,id ncapiquidé pdeſt. Sinau tæ malè gubernét, aut no rectè curétur ægroti,dicúr:alius erat quærendus,cui mecómitterē: aut quo hic faluté naui gātib. uelægrotis ſanitaté afferet? Quá multiiam unà cũhis, quibuſcúin mun dum uenerüt, ex múdo exceſſerút?Mor bo regio laboratib.melamarú uidetur: morfis àrabida beſtia, aqua eft timori: pueris fphęrula pulcra cft. Quid ergo i raſcor? aut tibi minor uis uidetur elle fal Gitatis, q bilis apudictericũ, aut ueneni apud morſum à rabioſo animali.Nemo prohibebit, quin fecundú rationé tuæ naturęuiuas:nec tibi quicqua accidet, quod fit cótrarónéuniuerg.Qualcsfút illi, quibus cupimus placere, aut ppter qd, g cis ſuperlis,autper quasactiones? quàm celeriter æuum omnia abſcon. dat: imò quàm multa iam nunc occultauit? eſtmalicia?id, quod iệpenumero uidiſti.Et quic quid omnino acciderit, ex peditin promptu te habere hanc rcgula, ſæpeid effe à te uifum. Om nino fi ſuperiora &inferiora animore petas,inuenies omnia cadem eſſe, quo rum plenæ sunt priscæ,mediæ, recéteró hiſtoriæ,& urbes, & domus:nihilnouú eft,omnia uſitata & breui durātia tem pore.Neque uerò alia ratione extingui poſluntopiniones, quàm cogitacioni bus quæ ijs respondent, abolitis: quas quidem ut continéter reſuſcites, in tua cft pofitum poteſtate. Poſſum de re oblata exiſtimare, id quod oportet: li hoc poflum, quid eſt cur animo pertur ber?Quæ ſuntextra mentem meam, ni hil omnino ad cam attinét. Hoc modo affectus,rectus eris. Reviviscere potes: nam fi res quas antè uidiſti, rursus apud animum tuum contempleris, exactam uitæ partem qualirepetes. Inane pompa ſtudium, fabulæ ſceöi tægreges,armenta,uelitationcs,oſsicu lumcatello proiectum,auteſca in piſci nám iniecta,formicarūlaborcs,& one: rum geſtationes,murium perterritorü diſcurſus, Gimulacra ncruis tracta ut le moucát. In his igit oportetanimo pla cido, &non elato confiftere, & intelli gere,tanto unumquem dignum eſſe, quâto ea in quibus ftudium fuú is po ſuit. In oratione ſingula uerba, inijs quæ fiunt, lingulęappetitiones ſuntant maduertendę: ato hic ftatim uiden dú,quam ad finem cæ referantur; illic quidfignificent: Sufficitne intellectus meus ad hanc rem, an ſccus? Quòd G fufficit,utoř cô ad rem propogtam tanquam inſtrume to mihiab uniuerli naturaconcello Sin g. contrà, aut eam rem alteri cuidam, qui melius id poſsit, perficiendam relin quo,præfertim fi alioquin id agere offi cium meúnó iubet:autipfe perago pro uirilimea,adſcito mihi auxiliario,cuius opera mca'mensid efficerepoſsit,quod in præſentia fitcommodum, & focieta ti hominum conducat. Quàm multi quondam fucre cele bres, quorum nunc fama eft obliuioni tradita? quàm multietiam horum, qui iſtos celebrauerunt, è medio funt fub lati?) Ne ducas tibi pudori, li cuius auxilio uſus es.Propofitúeftenim tibiid agere, quod fit tuarum partium: perinde ac militiin oppugnatione muroru. Quid ergò faceres, li tu claudicans folus con ſcendere propugnaculum nequires: ab alio adiutus,pofles? Ne te perturbent futura. Nam fi ita uſus erit, peruenies ad ea eadem inftru ctus ratione, qua nunc in præfentibus uteris. Omnia inter ſe ſunt complexa ſacro nodo és i nodo neg quicquam ab altero eſ alie ñum, ordincenim omnia certo funt dif polta, unum eundem mundum ex ornent. Mundus ex omnibus conſtat unus, unusqueper omnia diffufus est d Deus, una natura,unalex,unaratio cô munis omnibus ratione præditis ani mantibus, una ucritas:Siquidem etuna eſt perfectio eorum quę eiuſdem funt ni generis, eiufdemó participia rationis ui animantium.. Omneid quodmateria conſtat, ce lerrimè in uniuerlo abolei: omois cau io fa, celerrimè in rationem uniuerfi adlus mitur:omnium rerum memoria quàm 20 primùm æuoconfunditur. id Ratione prædito animali cadem a. EEtio & fecundum naturam eſt, & fccun dum rationcm. Rectus,an qui erigatur? Quam ra. Itationem in unitis & compactis corpori bus habent membra, eatn obtinent ra tione prædita animalia in diullia, præ parata ad unam quandam actionem. Hæc cò magis animum tuum tanget, ſi crebro tibiipfi dicas: pars fum cius, quodeſtex ratione præditis conflatū, corporis:Si autem propter elementum R.dicas te eſfc partem, nondum ex ani mo diligis homines, nondum ex bene ficentia delectationcm capis, quam ue rè apprehendat animustuus,adhucde cori tantùm cauſa ita agis, non ut in te ipfumbeneficium conferens. Sanèalijsquęcun & accidant,corum eft, fi uelint, ca culparc.Ego quidem re bus mihi contingentibus, niſi in malis eas ducam, nihillædor:& licet mihi ea non putaremala. Quicquid alij loquantur & faciant, mc quidem oportet ellebonum:haud aliter,gliaurū uel ſmaragdus,uelI pur pura ſemperita diceret, quicquid alij dicant, aut faciant, ſmaragdum eſſe o. portet,me colorem ſeruare mcum. Mensipſa ſeipſam nó perturbat,hoc cſt,non afert fibiipfiullam cupiditaté autmctum.Si quid aliud eſt, quod pof fit cam terrere aut dolorem afferre, fa ciat ſanè: ipſa quidé per ſenulla opinio. nc libihosmotus affert. Corpuſculum ucrò uerò ipſum curet, ne quid patiatur dis cato, ſi quid patitur.Animonullus me tus dolor,aut opinio horum accidere pót.negem ci ſunthabitusad hęc. Per le omnimetu mcns uacat, niſ feipfam deftituat:ita &perturbationis, & im pedimenti exors. Felicitas eft bonus dæmo, ſeu bonü. Quid igiturtu hic agis phantafia? ubi, unde ueniſti, non enim te opushabeo. Sed uenifti fecundum priftinam con fuetudinem: non tibiſüccéſco, faltem abi, Siquis mutationem timct,is cogitet able ea nihil fieri poffe, ncque eſte ca quicquam naturæ uniuerli amicius.An tu lauare poffes, nifi ligna mutarentur? aut ali,nifi nutrimétomutato?autquid nam aliud utile poteft abf mutationc fieri?Non ergo uides etiam tuimutatio nem carum limilem eſſe,ac perinde nc ceffariam uniucrü naturæ. Per uniuer ſam naturam:tanquam per torrcntem, tranfeunt omnia corpora,uniuerſo ipa cognata, & eius opcrum adiutoria, uti et nostra invicem luntmembra. Quot Chrysippos, Socrates et Epictetos xuí iamn deglutijt. Idem de omnire & homi ne tibiad animum accidet. Vnum hocmeſolicitumtenet,ne ad faciam, quodhominis conſtitutio aut nolit factum,aut alio modo, uel tempo re factum velit. Propediem erit, ut et tu omnium re rum obliviſcaris,& nulla Gtuſquam tui memoria. Proprium hominieſt,ut etiam cos di Jigat,qui peccant. Fiethocl in menté tibi ueniat, elle cos tibi cognatos, im prudétia, & inuitos peccare,paulò pòſt & te, & illum qui peccauit,moriturum; idý potiſsimum,nó lælum te ab co.no enim eius peccato tua mens deterior, quàm fuerat,facta eſt, Natura mundi, ex uniuerſitatetaną ècera modò equum finxit,moxco con fuſo, materia iſta ad fabricam arboris ulacſt,deinde ad homunculi, inde ada. liarum rerum.Harum ſingulæ quá bre uiísimo duraruntſpacio. Atquiarcula utlicompingatur,nihil eftmali:ita neli diffoluatur quidé. Irati uultus oío eft cótra natyrä,quádo fæpius immoriedi fit prętextus,aut ad extremú extinctus eſt,ut oſo inflammarinópotuerit.Hoc ipfo intelligere labora, irá à ratione effe alienam. Nam fi etiã ſenſus peccati nul lus erit, quæ erit uiuendi cauſa? Quæcung uides, ea iam iam à guber natrice mundi natura in alias, rurſuso & deinceps in alias mutabit formas:ut femper recens fit mundus. Si quís aliquid contra te deliquerit, ftatim cogita quánam boni uel malio pinionc pcccauerit:id.n.fi cernas, miſc reberis eius,acneobmiraberis,neq ira fceris.Nam autipſeidé,quodis,bonum putas, aut aliud quidda eiuſdé generis: venia ergo danda: Sin tu secus de bonis et malis iudicas, cò placabilioreris ei qui falsus. Non deijs quæ abſunt, tanquam de præfentibus cogitandum eſt:fed præſentium ea quæ ſunt aptiſsi ma, deligenda funt,illorumg caulame moria repetendū,quánam rõefuiſſenç quærenda fiquidem abfuiffent.Caueta men præſentia adeò probes, ut etiam in honore ca habeas,ac fi quãdo abſint,p turberis.Intra teipſum uertere. Hæceſt natura mentis,utiuſtè agens, in hocg acquieſcés,nihil extra fe quærat, Aufer uiſå inhibemotum ncruorú, cir cunſcribe inſtans tempus,cognoſceid quod uclţibi,uel alij accidat, diuide fubiectum in materiam &formam, co. gita de poſtrema hora, Quod peccatú eſt, ibi ceſſat, ubi pec cațum ſubliſtit, Intendenduseſtanimus ijs quæ dicuntur,mente penetrandum in causas et effectus, Exorna teipfum fimplicitate& uere cúdia, coś, ut quæ ſunt medio inter uir tutem & uitium loco, in nullo ponas di fcrįmịne, Diligehumanum genus, obſe quereDeq:is enim aitomnia fieri certa lege. Quod fi diuina ſunt etiam elemen ta. Sațiseſt meminiſſę,hæc omnia certa lege conſtare,aut admodú paucaſecus, Mors é auţ diſsipatio,qui indiuidua rum particularum ſecretio,aut exinani tia,autextinctio, aut migratio, Dolorli fitintolerabilis, mortem af, fert:diuturnus ferri poteſt,interimga. nimus ſuam retinet tranquillitatem,ne que fit deterior. At partes dolorç con fectæ, ipsæ quæratur,fiquidem poflunt. Honinum opiniones de gloria intue cil re, quales Gint, quid propolitụm habc cidant,quid fugiant, Lide Viß in littore maris arenæ cumuli Co- alij ſuperaliosappulg,prioresoccultát, įta in uita quo priora à ſubſequenti bus celeriter abſconduntur. Platonicũ.Quiigituranimocſt præ unditus alto et cognitioné habet omnis temporis, omnisg naturæ,an tu cúpu er tas exiſtimarç, quòd hominis uita ma - gnum ſit aliquid?Nequaquam,reſpon sc ditille. Ergo,inquam nemortem qui B: dem in malisille reputabit? Minimè Era uerò, Antiſthenicum,Regium eftmalè au dire, çum bene feçeris. Turpe eſt uulta co obſequi intellectuiſco componercita uutisiubeat,cumipfeintellectusſeipſum non componatat ornet. Namrebus iraſci,nihilfanè expedit: Iram curăt enim noſtram nihil.Dijslę. tiignaris, & nobis gaudia doncs. Frugiferam uti fpicam mcæ uitæ mc tam.* At hoc quidem effe, illud nona then Lam LIK trCurl be Quod ſi dij me, libcross ncgligunt, Ratio eft & huic. Meum enim est bbene efle et iustitia. Non una lugere, Deg tremere. Platonica. Ego autem haudiniuria hoc retule. rim.Non rectè dicis, ô homo,liputas ef ſe uel uitam uel morté aliquo in diſcri mine ponendam ciuiro, qui uel alicu ius fit precij:acnon id potius unum có fiderare cum inter agendum,iuſténcan iniuftè agat, & eáne fintuiri boni anue rò fecus.Reienim ueritas, & Athenien ſes, ita habet, ut quo quis loco ſeipſum conſtituerit,exiſtimansita optimum el fe,aut cum ita Gtoptimum,cò colloca tus fuerit, ibi (mea quidem ſententia ) perGftere debeat, ac quoduis pericu lum ſubire,neg mortem, uelullam alia rem turpitudine grauioré ducere. Sed heus tu,uide,ne animimagnitudo,cibo pum aliud quidpiam ſint, quam ferua re, & feruari. Neque enim conceden dum eſt,eum reuera uirum diçimereri, qui quantocuný tempore uiuendum, acquc rationem uitæ habendamputat: Sed 1 leo sel gar, CO all 1 WC 1 ef Sed eum, qui dehis cura deo commife la, credens mulieribus, non pofle fa tum ab ullo euitari, id consderandum porrò ducat, quánam rationetempus uitæ conceſſum fibi quàm optimè exi, Curſus liderum conſiderareexpedit, quali eos comitaremur, & elementorú mutuæ mutationes crebrò cogitandæ. Hæ enim cogitationes uitæ humilis for des abſtergent. Bene eſt à Platonchoc dictum.Etiam cùm de hominibus loq. mur, intuendum est in pes terrenas. Etc nim qui memoria altius repetierit ho minú cógregationes,exercitus,agricul turas,nuptias,pacta,ortus,interitus,iu 1. diciorum turbas, uaftitates regionum, varias. Barbarorum gentes, ferias, lu dus, nundinas, in ſumma, qui colluui cm illarum, & ex contrarijs compol tum præteritorum aceruum, tantas 191 imperiorum mutationes recoluerit, is ecià futurā præuiderc poterit. Quippe et candem hæc habent cum præteritis for mam, nem alio possuptmo fieri, Itaçćç Cu alia edbo en idem eſt, quadraginta, an decies milių ſpacio annorum uitam humanam exa mines, nihil enim amplius uidebis. Exterra enim nata in terramredacta funt:quæucrògenus traxeruntcælitus, redicre ad æthercúpolü: fiuehæc quæ dissolutio complexuum, quibus ato miiunguntur, sive elementorum passio nis expertium dissipacio. Cibis, potug, & magicis adeo artibus Avertimus currum, & mortis fugi mus uiam. Flantem diuinitus auram Opus eft tolerarclaboribus, Luctu, lachrymisg calentibus. Est aliquis te peritior luctæ:quid tú? at rófocietatis humanę ſtudioſior eſt, non uerecundior, non ita commodè fert ca quæ accidunt, nó ita mitis homi num peccatis. Vbicung poteft aliquid perfici,fecun dum cómuné dijs & hominibusratio ncm, ibi nihil eftmali.Nam ubi utilita tem conſequi licet actionis, quære&a uia proccdit fecundum conſtitutioné i hominis,ibinon cft uerendum nequid fubfit tog fubfit damni. Vbig & femper in tuacſt manupofitum,ut ca quæin præfentia di biacciderunt, & approbes piè, & cúbo minibus quicccum lint,iuftè agas, &ui ſa oblata artificiofe examinesne, quid non facis perceptum admittatur. Noli aliorum mentes circumſpicere, ſed cò recta intuere, quò te natura ducit, cùm uniuerli, per ea quæ tibieueniunt,tum tua per ca quæ tibi ad agendum ſunt propoGta. Id autem unicuiq ad agen dum proponitur, quod eft eius conſti tutioni conſentaneum. Porrò ita con ſtituta ſunt & comparata fingula: reli qua quidem omnia corum cauſa, quæ mente ſunt prædita,nimirumdeteriora pręſtātiorum causa, ratione autem pro ditorum unum alterius caufa factú cft. Primas igitur inter partes ex quibus ho mo conſtat, ca pars obtinct, que fo cietatcm humanamreſpicit:alteras,ca, fibi à perſuaſionibus corporeisillo abſtinet.Rationccnim & intellectu prę ditimotusproprium eſt,ſeipſum circa ſcribere, &nco ſenſitiuæ,ncqueappe titiuçmotioniſuccumbere:harumem utrag ctiam brutorum cft. 1 qua Atintelle&iua principatum obtine re, neq ab illis regiuult:neciniuria, quig pecuius natura ferat,ut omnibus reli quis ipſa utatur. Tertiú eſt,uacuitas te meritatis & erroris. Quibus intéta pars princeps,rectà progrediat, ſuis cóiéta. Tanquam mortuo, &qui hactenus tantùm uitæ uſura fuerit cóceſſa, quod ſupereſt uiuendum tibi crit fecundum naturam,tanquam ex abundanti. Tu ſolus ca diligens, quæ tibi fatum iniunxit, contentus efto. Quid enim magis congruum, quàm ut ſingula cue niunt,ftatim cosante oculos habere, & cum eadem ipfis cucniffent, indignati ſunt,nouitatem rei mirati, &repræhen derunt ea. Vbinuncijſunt?nufquam. Quid attinet te corum fimilem effe uel le? acnon potius alijs fuum morem rc linquere, ipfein hoc effe, utrebustuis bene uraris? Idý poteris præftare, nec deeritmateria, modò animaduerte, & ftude, uttibiipliin omnibus actionib. uidearis honeftatem confecutus. Vtri ufgz uerò actionum finis recordandum cft.Intrò reſpice:intuseft fons boni,ſem per ſcaturiens,fiquidem femper fodias. Corpus conftare,acneq motu, ncg habitu diffolutum effe debet. Sicutem mens efficit, ut vultus Gt compolitus & aptus, ita detoto corpore uttale Gt annitendú eſt. Omnia hæc curandu é, ut ne oftétationis caula Gimulata fint. Vivendi ars palæſtricæ cft, quòd ſal tatoriæ fimilior,eò quòdipfa quo cu rat,utad ea quæ incidūt,neq; ancè lune præcognita,parata fit et à caſu tutum hominem feruet. Adliduò inquire, qualesij fint, quos teftimonium de te ferreuis, ac quæ co rum fint mentes.Ita nco cos qui inuo luntariè peccantculpabis,nee teſtimo nijegebis,fiinipfosfontes infpicias,un deijopinionesfuas,appetitiones hau ſerunt:Omnis animus, inquit illc, non ſua ſponte priuatur ueritatc: idem sentiendum de iustitia, temperantia, benignitate, omnibusý limilibus.Atnecef ſariū eſt quâ maxime, id te nunquã nó meminiflc:ita. n. erga oés crismitior. Dcomni dolorein própru fit tibi co gitare, cum ncg turpem efle, neqmen tégubernątricem reddere deccriorem feras. Id quog recordare,multa cú ea quippe hæcnegrationc materiæ, nem ſocietatis humanędamnum accipit. In maiori autem dolorum numero etiam Epicuri dictum prodeſt,eum ncg into lcrabilem eſſe,ncg æternum. fiquidem finium recorderis,ac non preiudicium in * dem habeantcum dolore naturam, ta men occultèmodò moleſta eſſe:ut dor miturire, eſtum ferre,nauſeare:quorum aliquod li moleftè fers, dic tibiipfi,te dolori ſuccumbere. Vide neita afficiaris contra inhuma nos, ut homines contra homines. Vnde nobis conſtat Socratem fuiffc illuſtrem et meliori conſtitutionc præ ditum? Non enim ſatis eſt eum clariori morte occubuifle,aut peritiùs cum So phiſtis diſputalic, & patientiùs in frigo re pernoctalle, & Salaminium abdu cere iuſſus,fortiter rcpugnaſſe, acíuijs maieſtatem uultus præ ſe tuliſſe,dequo maximè dubitari poteſt an uerú id fuc rit. Sed hocconſiderandum eſt, quo ani mo fuerit Socratcs,an potuerit conten tus efle, Siiuſtumfc hominibus præbe ret, ac pium erga deos, annequç teme rè ob aliorum maliciam litindignatus, nec ullius inſcitiæ ſubferuiuerit, an ni hil corum quæli uniuerſi natura attri buiſſet, tanquam peregrinū autintole rabile acceperit, nunquám ne affecti bus carnis conſentientem mentempræ buerit. Non ita confudit omnia natura,ut no liceat circúfcribere ſeipſum, & quæ ſont propria cuix, caipfum in ſua reti nere poteftatc.Admodum cnim poſsi bile eſt,ut quis diuinus uir fiat,acă ne mine cognoſcatur. Hụius ſemper me mento:atqhuius etiam, quòduita bca ta in pauciſsimis rebus eft pofita. Nog guia deſperattice Dialecticú autPhyl cum futurum,iccirco etiã liberú,pudi cum,fociabilem,deog obedientem to fieri poſſe. In maximaapimi uoluptate licețui uere, tutum ab omni ui,utcung omnes quæ uolunt contranos clamitent:etia li corporeæ huius molis membra å ferig laniétur.Quid enim obſtat,quominus intcrim meas ſeipfam conſeruet in tran hic 10 5 quillitate,uero de rebus præfentibus iudicio, & uſu corú quæ ſuntpræma. nibusexpedito: ita quidem ut iudiciú rei fubicctæ dicat: fanè cu natura tua họces,etfi aliud uideris:urg ulus dicat rei oblatæ: Ego te quærebam. Semper cnim id quod adeſt, materia mihi eſt exercendæ uirtutis rationalis & ciuilis, omninog uirtutis humanę aut diuinç. Omni enim id quodaccidit,deo eft aut homini familiare,ncgnouum, ncgin fractabile,ſed conſuctum & tractabile. Perfectio morú hocpręſtat,ut omne diétanquá ſupremūagas,nihil tremas. nihiltorpeas,nihil Gmules.Dij, cu Gar immortales, tamen non indignè ferút, quodin tam diuturno zuo ſemper om nino tot improbos homincs perferre debeant: quinimo illorum curam fum mamgerunc. Tuautem qui iamiam cef fabisuiuere,defperas,idg unus è numc romalorum.Ridiculumeft te non fuge rc tuáipfiusmaliciam, id quod potes, aliorum uelle fugere, quodnonconce ditur tibi. Quicquid rationalis et ciuilis tua uis inuc  vn. ich inuenerit nc rationi cóſentancū,ncq ad focietatem conducens, id rectè ca indignum iudicabis. situ benè alicui feciſti, & cſt, quià to beneficium acceperit, quid præter hæc duo tertiumaliquid requiris ftultorü more,ut & uidearis bcnè feciflc, & gra tiam recipias. Nemo defatigatur accipi endo aliquid utile. Atqui utile tibi cita tcſecundum naturam aliquid agere: nc igitur dum alij prodes, dcfatigare tibi aliquid boni parando. Vniuerfi natura olim ad mundum fa bricandum fe contulit:nunc autem uck omnia quæ fiunt, confequétia fiút ſua,, uel ctiá in præcipuis corum, ad quæ fa mundi gubernatrix natura confert, ra tioninullum locum efle & cóGlio, tené dumeft. Hoc, & memoria tencas, multis in rebus animo ut his tranquilliori cffi ciet. hs 1 'D quoqad minuendamglo riæ cupiditatem facit, quòd non licet tibi adhuc totam uitam,quæàprima tuaæta te fuit,philofophicè uiuere: fed cumul tis alijs, cum uerò tibi ipli manifeſtum eſt factum,teproculà PHILOSOPHIA abef fea Gonturbatæ igitur funt tuæ ratio nes.cumaço ipfeiam nomen philofo phi facilèpoſsis adipiſci, & tuum inſti tutum repugnet. Siitaque uerè perfpe xiſtį, in quo litrespofita, omitte curare quis habearis:fatis autem fit tibi fireli quú uitæ arbitrio naturæexigas. Quid ca uelit, cogita, hinc te nihil diuellat. Expertus enim es circum quotres ua gatus,nufquam uitam beatam inuene ris:nonin ratiocinationibus, non in di uitijs, non in gloria, non in voluptate, nullibi.Vbi uero eſt?in agendo ea, quæ hominis natura requirit.Quomodo ita aget? Si eahabeatdogmata,à quibus có ſentạneæ appetitiones &actiones ueni ant.Quęſunt illa?debonis& malis.Sci licetNihil, effebonühomini, quod nó reddit iuftum,temperantcm,fortem, li beralem:nihilmalum,niſi quod horum contrarium efficiat. In omni actione à teipfo quere, qua lis ca tibi Gt. Nec poenitentia eiusmoue re:parum abeſt, ut moriaris, &omnia è medio fint. Quid prætcrca requiro, li præſens a &tio animalis eſt mente prædi ti,ſocietatis hominum ftudiofi et deo æqualis. Alexander, Caius, et Pompeius, quid hiad Diogenem, Heraclitum, vel Socratem? Hi enim nouerant res, earum cau ſas,materias:ita erant ipſarum mentes. inſtructę.Ibiuerò, quibusin rebuseſſet prudentia, & feruitus. Nihilominus cadem facicnt,eciam litute ruperis. Primum cſt hoc,neperturberis:om nia ſecundum uniuerli naturam eucni unt:paulò pòft,nuſquam eris,ficut núc Adrianus & Auguſtus. Deinde in rem ipfam intucre,eamg cólidera,recorda tusoz debcrc tc eſſebonum uirú, acad hominis natura uelit, ageid quod pro pofitum eſt cóftanter, aciuſtiſsimetúc te egiſſe puta:modòplacidè,uerecúdè, & citra ſimulationem cgeris. Vniuerli naturehoc agit,ut quæ hoc modo habcnt,aliòmPomba, & exuno lo coin alium res transferat: Omnia con Itant mutationibus, neß quicquã mc tue: nihil enim noui,omnia uſitata cue niunt, & æqualiter diſpenſantur.Cæte fum unaquęg natura,firccta uia ingro diatur,fibiipfi fufficit.Natura autem in tellectiuaid facit, G'in cogitationibus, id obſeruet,ne falſo,aut obfcuro aftipu letur: impetus animi ad eas folum actio ncs dirigat, quæ faciunt ad ſocietatem hominum: catantum appetat & uitat, quæ in nobis funt pofita: omnia quæ à communi natura tribuuntur grata ha beat.Hiuius enim pars eſt,bcutnatura fi lij,naturæ ftirpis pars eſt: nifiquod hæc eſt eius naturæ quę & ſenſu & intelle Au carcas,impedirepoſsit:Hominjsną  gratis non iraſci. tura,pars eſt naturæ quæ impedirinon poſsit,intelligat,& iuita fit:liquidem æ qualiter, & pdignitate uniuscuiuſuis tempora,ſubſtantiam,actionem, & eué ta diuidit. Congdera autem æqualitaté că inuenturum te fifingulas res exami nes: finunam cum uniucrGs conferas, non item. Atqui licetlibidinem arcerc,uolup tatibus &doloribus ſuperiorem eſſe, item gloriola: licet ctiam ſtupidis & in Nemo te audiat uitam aulică repræ hendere,ac ne tu quidem teipfum. Penitentia eſt repræhenlo quędam fui ipfius,propter bonü aliquod dimif ſum:bonú uerò,oportet utile effe, ideo qúe ciºcura é haběda uiro bono & ho neſto.At nullus talis pænitentia ducc turobneglectam aliquam uoluptatem, ergo uoluptasncqin bonis eft, ncoin utilibus numeranda. Resita expédendæ ſunt.Quid é hocp ſc, & fua, ppria cóftitutionc? ģei° ſubită tia &materia, quæ forma?quod eius in mundo officiú,ac quandiu permanet? Si difficulterà fomno expgiſcaris, reminiſcere conſentaneum eſſe tuæ conſti tutioni, & naturæ humanæ, ut aliquid agas quod coetui humano pſit. Atdor mire,etiam brutis eſt communc. Quod autem unicuiq ſecundum naturam eſt, id & magisproprium ei eſt, & cognati us, adde etiam gratius. Hoc aſsiduo & quibuſcũæ incidétibus cogitationib, li fieri pofsit, in promptu habendum. Si de natura, affectibus,aut alijs reb. diſputare cum aliquo libet,ftatim teip fum antè interroga: Quænã is ſentit de bonis &malis.Nam opiniones de uolu ptate & dolore, eorumg efficientibus, de honore, ignominia, morte, uita. Non debet mihinouum aut mirum uideri, li quæ res hoc aut hoc modo a gát: cogitabo em, ita opus efle fieri. Co gitabo, licut turpe fit uelle me in mira culum raperefificus fructum ſuum pro ducat, ita etiam, fi mundus ea proferat, quorum eft ferax: etiam medico & gu bernatori turpe fit mirari uelle, li quis febricitaret, aut fi aduerſus uentus exi Iteret. Memento mutare ſententiam, & re aệ & èmonentiobſequi,perindeeffe libe ri. Tua enim adio fecundum tui animi impetum fit atque iudicium, tuamo mentem. Siin tua eſt poteſtate,cur facis? linin alterius,quid repræhendis? atomósne, an Deuni? quorum utrungeſt cum inſa nia coniunctum.Nihiligitur repræhen dédum.Nam fi potes,uel eum qui cau ſa eſt,corrige,ucl,fi prius nequis,rem ip fam: lin neutrum,quid iamtibi profuit repræhēdiffe? atqnihil fruſtra faciédű. Quod moritur,non excidit è mun do:nam ut conftat, & mutatur, ita etiã diffoluiturin elementa, quẹtibifunt cũ mundo communia.atq hæc ipfa ctiam mutantur,negindignè ferunt. Vnum. quodgeſtad certum finem factum, ut uitis,equus.quid mirum? etiam ſol, & reliqui dij pofluntdicere,cuius rei cau fa facti funt. Tu ucrò cuius cauſa? num uolupta tis? uide an hocferat intellectus. Natura confilium inijt de uniuſcuiuſ quereitam finc,quàm initio & duratio nc. Si quis pilam inſublimçiacier, quid h nam ea uelcûm effertur, uclcum defert, aut cadit quid bonimaliucpatit?Quid bullæ boni accidit fi conſtet,autmaligi diffoluatur? Idem de lucerna poſsisin telligere. Cogita quidfiat corpuſculo Genelcat, ægrotet,fi ſcortetura Breuis uita cft & laudantis, & cius q laudatur, cius quimentionem facit, & eius, cuius mentio fit:prçterca fit hocin angulo portionis mundi, acncque ibi quidem omnes contentiunt, imò nelie bi quidem ipfi quifqua. Tota ucrò ter ra punctumeft. Animum aduerte ſubicctæ opinio. ni,actioniaut di&to. Meritò hçcpatcris, malles uerò cras bonus fieri quàm ho dic. Siquid ergo, id ita fit à me, ut ad benefaciendumhominib.referatur.Ac cidit mihi aliqd,referoidad Dcos, om niumg rerum fontem,& originé,à qua omnia inter ſe connexa dependent. Lauare,quæ tibires uidetur? Oleum, sudor, sordes, aqua, ſtigmenta: omniaab ominanda.Ita fe omnis pars mundi, om nisgres ſubiecta habet. Lucilla Verum, deinde Lucilla fecunda Vini, da Maximum.Secunda Diotimum,Fau Itinam, Antoninus hæc omnia. Cęterű Adrianum, inde Celer. * Vbi ucro auſte ri illi &uates, & inflaci? ut ex auſteris Charax, et Demetrius Platonicus, Eudemon, & fi qui alij tales. Omnia in diem durant.iampridem mortui ſunt:quorú dam ne minimo quidem tempore dura uit mcmoria: quidam fabula facti ſunt: ponnulli etiam c fabulis jam cuanue rűt.Idigiimemoriatenédú, g necelſeç rit autdiſsipari tuâmixturā, autextin guianimulă,autmutari,ctaliò trasferri. Læticia hois é, ut faciat quæciſuntp pria.Propria aút cius funt:beneuolétia crgaſuũ genus,cótéptusmotuúq ſunt in lenGb.diftin &tio inter uiſa pbabilia, cótéplatio naturæ uniuerfi, & corúqſe cundú că fiút.Itě tres refpeétus:unus ad cauſam pximā,alter ad diuină çaufam, à quaoíaoíbus cueniüt,tertius ad cose nobiſcü uiuút. Doloraut corporima lus é:ergo ipfum id pnúcict,autalo.Scd animuspoteft fuam tranquillitatem & ferenitatcm conferuarc, ncc dolorem pro malo ducere. Omnc enim iudici ým, omnis impecus,appetitio, & inclinatio intus eſt:ncq.ci dolorquicquam mali affert. Quare omnia uila tolle ex animo, Continenter te ipſum admone:Núc in mea cft poteſtate,ut in animo hocni hilfitmaliciæ,nihil cupiditatis, nihil. cu multus: accum omnia ita cernam, uti funt, fingulis utor pro ipsorum dignitate. Hoc tibi licere,memineris fecúdum naturam. Loquere & in ſenatu, & cum quibus cunghominibus compofitè.Sana ora tione non eſt apertè femper utendum. Aula Augufti,uxor,filia,ncpotes,po ſteri,ſoror,Agrippa,cognati,proping, amici,ſoror, Agrippa,cognati, propinqui, amici, Areus Mæcenas, niedici, sacerdotes: omnino totam aulam mors abripuit.Deinde etiam accede, ubinon unusmodò eſt mortuus homo.Defecit tota Pompeiorum gens:hincmonimen tis etiam inſcribi uidemus,fuiſſe aliqué cius familiæ ultimum. Quàm anxij uc rò fuere maiores cius, ut aliquě ſuccel forem relinquerent: & tam necesse eft aliquem efle ultimum. Vita componenda est ita, ut conftet uniuſcuiuſ actionis ratio. Quarum li unaquęg ſuum, quantum cius fieri po teſtpræſtet officium, contentus fis:at queid quominusfiat,nemo tibi obfta re poterit.Sedobftabit,inquis, aliquid extrinſecus. Nihil quidem, quodiufti ciæ,modcſtię &prudentiæ impedimen tolt. Atqui fortaſsis aliquiduim agen dihabens impediet? quin tu id impedi menti boni conſule, fico ftatim facto tranfitu adid quo conceditur moderá to,alia emergertibi adio, quæ ad cam, de qua loquimur, conſtitutionem qua dret.Accipiendumline faſtu, dimitten dum cum facilitate, Si quando uidiftimanum abſciſlam, uelpedem,capútuc amputatum alicu biſcorâmă corporciacere,cogita ei ſe adfimilarc pro uirilifuahunc, qui im pá bat ea quæipli eueniunt,ſeg à commu ni ſocietate feiungit,aut agit aliquid ab čaalienum, Ita tu te ipſum ab unitione Dáturali abrupiſti,cuius eraspars narº: nücuerò teipſum abfcidiſti.Id uerò fei tum eft, quòd iterum tibilicetei adiun  gi:id quod nulli alij parti deus concef fit, ut ſeparata & auulla rurſum inoleſce ret toti.Hicmihi bonitatem conlidera, quæ homini tantum honoris detulit. Nam & initiò iplius in manu pofuit,ac à toto auelleretur: & deinde, ut auulfus redier,iterug cócreſcerco locü partis recuperarepoſſet, dedir.Nãquéadmo dugngulç ferè rationis cópotes naturą ab ea cæteras facultatcs, ita nos quoß hanc ab ipſa accepimus. quemadmo dumenim ipſa omne id quod obftat & rcfiftit,cóuertit, & fato fubijcit, ſuam partcm efficit:ita animal rationc prædi tum poteft omne impedimentum pro ſua materia accipere,coğuti adid, qd intenderat. Note cogitatio totiusuitæ confuna dat: neq animum aducrte ijs,quæ mul ta uidentur dolorem poffe afferre.Sed ſingulis rebus oblatis à te ipfo quæro, quid náca in rc Gtintolerabile:id cnim pudebit te fateri.Deindememineris,ne que præterita tibi, ncquefutura ullam afferremoleſtiam, fed præſentia tantű. Achæc cxtenuantur,& fuis ca limiti, bus, determines, cogitationem tuam redarguas,fi ca tam cxiguæ reinó Grfo rendæ. Num iam domini tumulo adfident Panthca, aut Pergamus? Num Adriani sepulchro Chabrias & Diotimus? ridi culum hoc. Quid verò G adGderent, ſentiréntne illi? autuoluptatem cape Tent, fiquidem ſentirent? aut fi cam ce piſſent, an coimmortales eſſentreddi te? Nónnchis quoquefatum fuit,ut ſencs &uetulæ priùs ficrent, inde mo scrétur? Quidautem illi poftmodò fa ciét, his mortuis? Oia hæc fætida funt, & tabus in facco. Si acutèuidere potes,afpiccetquàm fapientiſsimè iudica,inquitille. In conſtitutionc animantis mente præditi nullam inueniouirtutem quæ iuſticiam cxpellat: Sed quæ uolupra. tem cijciat,uidco continentiam. Si tuam opinionem detrahas ab ea quod uidetur dolorem afferrc, ipfe in tutiſsimo es collocatus.Quisipſe? Ratio.Verùm ego, inquies, non ſumra tio.Efto.Proinde ratio ſeipſamnedolo re afficiat:Si quid aliudin te eſt quodlæ datur,ipſum de fe iudicet. Cùm impedit fomnus aut appetitus, idmalú accidit uegetatrici animæ: quæ &alia ratione offenditur. Ita fi mensim pediatur,fitcum damno mente prædi tę naturę.Hæcoía ad te tranſfer.Dolor, uoluptas,attinguntte?Si uiſus impedia tur quominuscernat,impedituriã fen ſus. Quòd fi abſos exceptione aliquid appetis,iamid cú rationis capacis par tis incommodo fit:lin communetibi p poſitum eſt, neg læſus es, nec impedi tus. Mentis quidem proprias actiones nihil aliud impedire poteft:nonenimac tingitur ab igni ferro,tyráno,autcalum nia,aut alia ulla talire. Sphæra cum fit,rotunda manet. Indignum eſt, me mihi ipfi dolorem afferre,quinullum unquam aliúlubens læferim. Alijs aliæ res læticiam afferunt:mihi, fi pars mei princeps fana ſit, ne auerſe tur quenquam uel hominem, uel humanum calum:Sed omnia placidis afpici at oculis, omnia accipiat, ijsý utatur uti dignum est. Difce præsens tempus tibiip, gratificari. Qui commendationem pofterita tis magis curant,nó reputant dos horú Similes futuros,quosnuncægrè ferunt, argipä сcia mortales. Porrò quid om nino tua intercít, a talibusi) uocibuste cantent,autita de te fèntiant. Tolle mc, & ponc quocung uoluc tis, ibi enim utar genio mcopropicio.i. cótéto,& habeat ſe &agar naturæ mica confequenter. Id uerò an dignum eft,ut malè props tereàhabeatanimusmeus, ac feipfo de terius?abicctus, appetens, anxius;per. territus? Ecquid co dignum inueniam? Homini dihilaccidere poteft quod nó fit humanum, nccboui,uiti,ſaxo quic quam, quod nonlit confentaneumcius naturæ. Quòd fi unicuigid contifigit; quod & cófuetum eſt,& naturale,quid eft cur indigneris? nihiliticoletabile ci bicommunisadfert natura. Sin propter cttrancam aliquam ré perturbaris: nó A illa tibi,fed tuum de ea iudicium, molc ſtiã affert: id uerò ut abolcás, in tua eſt poteſtate. Quòd fi quid eorú quæ in te ſunt, te moleſtat, quis eſt qui prohibe at,ncopinionem emendes? Similiter Gi doles te hocnon agere,prodeft cogi tare,curnon potius agasaliquid, quàm doleas: ſin aliquod potétiusobſtat,no li dolere, cùm nófiat tua culpa,neagas. At uidetur ujuendum non elle,nig hoc agatur: placidus ergo uitam relinque: quádo &is qui agit,moritur æquusim pedientibus. Memento partem tui principem ſu perari non poffe, cum in ſe collecta fc ipsa contenta est, neque quicquam pre ter uoluntatem agat, etiam fi noninftru eta ratione pugnam conferat. Quid er gò fier, li étà rõe parata, circúſpectè de reb.iudicet.Itaqmés ab affećtibus libe ta,arx é: nihil.n.munitius homo habet, quò refugiés fuperari nópót.Id qui nó uidit,indoctus est: qui uidit, ncq eòrc fugit, infortunatus. Siqd uiſa aut cogitationes tibi renú. ciāt,caue aliquid cu addas. Renunciacú 'cit, eft,aliquem tibi malè dixiſſe. Eftoid al latum,non taméid quo $,cflc teleſum. Video puerú ægrotare:uideo, sed g inpericulo Gt,non uideo, Ad hunc modú ſemper ingifte primis uilis, nihilipfein tus adijce:ita nihil mali erit.Imòhocad 1.dc,noſlete omnia quæ in mundo cuc niunt. Cucumis amarus cit,omitte cum: uc i pres in uia ſunt, declina cas:ncq uerò dicas, Cúrnam hæcin mundo sunt facta. Ridereris enim ab homine naturæ rerű indagatore, haudſecus quàm à fabro aut futore, damnares quòdinofficina ramenta & reſecamenta operum uide: res.Atquihi ca poſſunt aliquo abijce re: uniuerli natura nihil extra fe habet. Verùm hocin cius arte potiſsimùm mirari decet, q cùm ſeipſam circumſcri pâffet, omnia quæ in ſe habet, quæ ob noxia corruptioni,ſeniog, & nulli ele uſus uideantur, in ſeipſam tranſmutat, rurfus ex his alia noua efficit: ita utne que fubftãtiá extra ſe requirat, neqlo cum,quò uiliores res eijciat.Contenta eſtigitur ſuoloco,materia:& arte. Neqin rebus agendis flu & uandum eſt, ncqucin communi uita turbandú, ncquecogitatiouibus uagandum, nego omnino animus contrahendus, aut fü bito impetu efferendus,ncg uita occu pationibus inanibus attcrenda.Cædes peragunthomines, mactant,exccran tur: quid hęc poffunt,quominus mens tua permancat pura, prudens,modeſta, iufta? Quemadmodum fi quis limpido & dulcifontiaſsiſtens, eiconuicium fa ciat:illa quidem ob id non ceſſat purā aquam ſcaturire: quin &fi quis lurum, aut ftercus inijciat,tamen ſtatim illa dif fipabit atą eluet,ncgabijs obturabit. Quid ergo agendum, ut fontemper en nem habeas,non ciſternam? Compone te ipſum,ut fis ad oés horas liber, man fuctus,fimplex,uerecundus. Qui neſcit effe mundum, neſcit ubi ür. Qui neſcit, cuius rei cauſa fit natus, ncß quis ipſefit,neq; omnino mundú cflefcit.Quorum alterutrum cui decft, is cuius gratia extiterit,dicere ncqucat. Vter uerò tibi elegantior uidetur, isą plaudentium fugit laudem,anilli, qui ac negubi,nequc qui fint,cognoſcunt, Laudari cupis ab hic, & feipfum ſpa cio unius horæter execrat?placere uis homini, qui ne fibi quidem ipfe proba tur?nifi is probeturlibiipa,qui ferè om nium eorum, quæ egerit,poenitétia cor ripitur. Non iam tantùm unà ſpirandus eſt circumfuſus aër, fed & confentiendum cum méte quæ uniuerfa complectitur. Haud em minus uis intellectrix omni ci, quod cam trahere poteſt,circumfu fa eft, quam ſpiritus ſpirare uolenti. Generatim malicia mundo non ob eft:inſpccie auté,nihil lædit proximu: Soli ci obeltcui & conceflum eſt, ut cũ primüita uolucrit,liberari ea poſſit. Non magis ad meam uoluntas alie na pertinet, quam uel anima eius, uel caro.Nam etfi maximè uerum eft, una noftrûm cffc alterius cauſa natū, tamé principes noftrum partes,ſuum quæli. bet dominium obtinct.Etenim curalte rius malicia,mihieſſer malo? cum non Elit uiſum Deo,ut in alterius Gt potefta te, cſſemeinfelicemSol diffufus effe uidetur? atæ omni. no quidem fufus eſt, non tame effuſus, Fulio enim eius,cxtenſio.Itaq & fulgo res eius, quos nos radios,actinas ab ex tendendo Græci dicunt. Quod autem Git natura radij,uidere eſt, fi inſpiciaslu men ſolis per anguſtum in umbrofam donum immiffum. Recta enim im mittitur, & diuiditur ad obiectum foli dum corpus, quòd aërem intercipit:ibi ucrò permanct,ncq decidit. Ita &intel lectum fundiac difundi, non tamen ef fundi oportet: quippe utextendatur,ne quc ui & temerario impetu ad obiecta impedimenta impingat:ne concidat, fed perftet, & illuftretid, à quo acci pitur, id quidem, quòd eum transmit tet,ſplendore ſeipſum priuabit. Qui mortem metuit, aut amiſsioně ſenſuum timet, aut diuerfum fenfum, Quod& amitượt ſenſum,nihilutig ma lifenriet; lin alium ſenſum adipiſcetur, aliud erit animal, neg amittetuitam. Homines unus alteri cauſa natifunt, Diſccigitur,aut fer, Aliterjaculú,alitermens fertur.Hæc enim etâ cauta ſit, &in deliberatione uerſetur, rectà tamen fertur.ingredi in principem cuiuſuis partem: præbet au tem etiam alij unicuique ingredi in ſu am principalem partem. Viiniuſtè agit, impietatis reus eſt. Etenim cùm uni uer natura ratione prędi ta animantia eò effecerit ut quantum eius dignum eft,unum alteri profit,noceatautem ne quaquam: qui uoluntatem cius præua ricat, impius utißeſtin omniú dcorú primam.Acqui mentitur,etiam impic tatisin candem dcam fefe obligat. Na tura enim uniuerfi,corúcſt natura,quæ funt:hęc autem omnia interfecognata funt. Porrò autem cadem Veritas dicituf,uerorųý primaeft caufa. Quii. tagſtudiò mentitur, cò quod decipit, impius eſt: quinon dedica opera,eò, p ab uniuerh natura diſcrepat, &quòd præter decorum agit, repugnās uniuer, b naturæ:repugnatenim ei, quiin con frariam partem à ueris deflectit, prætop quam iplius natura ferat, quęcioccalio nes præbuit, quibus neglectis non pót jam uera à fallis diſcernere. Impietatis reus is quoque eſt, qui uoluptates tan, quam bonum appetit, dolorem utma, lum fugit.Hic enim peceſſe eſt ſæpenu merà incufet communem natura,quae ſi ça aliquid præter dignitatem bonis malísue tribuerit:ppterca, quod fæpe mal¡ uoluptatibus fruuntur,cag.quib. efficiútur eæ,poſsidet:boniuero dolo re afficiunt, & in caufas dolorişincidūt. Jam qui dolorem metuit mețuet aliquá do aliquid eorum,quçinmundo fient: įd uerò impium eſt.Rurfus qui uolupta tem confectatur,non abftinebit fe ab in juſticia:id uerò palàm impietas eít, O portet autě ad ea,quæ natura in utraq partem æqualia effecit (nca cnim utra que feciffet,niſi ad utranæ partem exx quoſe babuilſet)eum qui naturam uult lequi ducem, fimiliter æqualiter eſſe ef fectum,Ita & qui dolores & uoluptates, mortem & uitam,gloriam & ignomini am,quibusæqualirationcutitur natu 14, nonin eodem ponitmomento, pro culdubiò impiè agit. Quod auté dixi, Naturam communcm ijs exæquo uti, ita intelligendú eſt,qdea cueniút in u traque parté conſequentia quadam, iu xta antiquum prouidentiæ impetum, quo illa ab aliquo principio ſe ad res i ta diſponendas contulit,complexa ra ționes quaſdam corum quæ ellent futu ra, deſtinatis quibusdam facultatib. ex quibus nafcerentur ſubicctæ, muta ţiones, & fucceflus eorum, Gratiofius quidem crat, hominem mendacij, fimulationis, luxus & ſuper biæ omnis inexpertum mori: ſecunda (aiunt)nauigațio eft,fatietate horum af fcctum antemigrareè uita quàm illa ui tia probare. Nondum ne tene experien tia quidem docuit,utpeſtem fugias? Pestis enim eft ca intellectus corruptio, lo gè magis, quàm aëris quædam intempe' ries ifta &mutatio. Hæc enim animali peftis eft,quatenus uiuitillud: hæcho minum, qua ratione ſunt homines. Mortem non contemne, boni camć conſule, quippe remexijs unā,quasna turadecreuit.Qualcenim eftiuueneſco re, ſeneſcere, augerc, uigerc, dentes, barbam, canos ferre, liberos crcare, uterű ferre, parere, reliquæ $ naturales effe ctioncs, quas tempora uiteadferút, tale eft etrādiffolui. 'Hominis ita ßrationc utentis cft,mortem ncggraucm,ncquc uiolentam, neg contemnendam rem exiſtimarc,fed operiri eam, tanquam u nam è naturalibus actionibus:perinde atque nunc expectas, quando fætus ex utero tuçuxoris edatur, ita expectanda etiam hora, quaanimula tua ex hocre ceptaculo excidat. Quodfi rudequidé, ſed taméquod corattingere poſsit,do cumentum accipis,omninò ut facile fo ras mortem efficiet, fi cogites, quales ij fint à quibus diſcedas, & à quorum morum litanimus tuus ſeparandus col luuica luuie. Iraſci quidé ijs qui tecum uiuút, nequaquam debes, ſed corum curā gc rere,ijsý placidum te prebere:Cogitan dum tamē tibi eſt,te ab hominibusnon idem tecum fentientib. diſcedere. Hoc enim unam erat,quod poterat retinere in uita', G fuiffet homini datum uiuere cum ijs,quieademſentirent:Núc uides quàm laborioſa fitinter unà uiuentes diffenfio,ita ut dicas:ô mors, uenicele riùs,ne quádo ipſe quog meiipfius ob liuiſcar. Quipeccat,abiipfi peccat: quiiniuftè agit, & biipfi iniuftè agit, ſco malum efficiens ipſum,lædit. Sæpenu merò iniuriam facitis qui nihil agit, nó is modò quiagit. SiadGt certa de rebus fententia, & a ctio ſocietatem humanam ſpectans, & animus ita affe & us,ut boni cóſulat om nia quæ accidunt præter id quod eſt à cauſa profectum: hæcli adfint, ſuficiút ad opiniones tollendas, Gftendum im petum animi, extinguendum appetitú, &habendum paratam apudſeſc parté principalem. Vna uita brutis animantibus eft dis tributa:unamens, rationem adeptis. Qucmadmodum una eſt terrenorú ter ra, & unam lucem uidemus, unum aêre trahimus. quæcáqucuidendi & uiuédi uim habcmus. Quæ commune aliquid habent,con tendút ad id quod eft eiufdem generis. Omne terrenum ad terramuchit,omnc item humidum, aut aërcum ad ſuum iti dem genus,ita ut neceſſe fituiea inde in tercludi.Ignis furſum effertur, propter clemétarem igncm: omniuerò hic igni aliquid eſtparatum utinflammctur,ita ut omnis materia paulò ficcior facilè i gnem concipiat,quia minus eft in eius temperic id quod inflammationě pro hibeatItag & omnc, id quod commu nis mentis eſtparticeps, limiliter ad co gnatum ſuum contendit:atq etiam am plius. Quanto enim eſt alijs rebus præ Itantius, tanto &parațius ut cómiſcea tur cum co quod eiufdemcſt generis. I taquc apudipla ſtatim bruta inuenta ſunt examina, greges,pullorum educa tiones, atq id genusquali amores.Ani macnim iam in his eſt, ido quod ea in unum conduceret, apud præftantioré partem reperitur:id quodin plantis,la pidibus &lignis nó inuenitur.Atapud ratione õdita animalia,ciuitatcs funt,ct amiciciç, & domus, & concilia:ingbel lo pacta & induciæ. Apudpræſtátiora, etiam ex diuerfis modis unitio quædá conftat, ut apud aftra adcò aſcenſus ad fuperiora conſenſum etiam in de iua dis cfficere potuit. Atqui apud catan tùm, quæ mentem habent,obliuio mu tui ſtudij & conſenſus reperitur, & hic modònon uidetur quomodò adſe in uicem affluant.Quanquam etiam fi fu giant homincs hanc coniun &tioncm,ca men ab ea corripiuncur, naturanimirú præualente. Vidcbis autem id quoddi co, li animum aducrtas. Facilius cnim inuenies tcrrcum aliquid nulli terreno adiunctum, quàm hominem ab homini bus auulſum. Fructumfert &homo,& deus,&mú dus,fuo unumquodą temporc: quòd lconfuetum cſtin uite, ut luum fru & ű, nullum communem ferat, tamen ratio fructumfert &communem &propriú, naſcunturg ex eo alia quædam eiuſmo di, qualis est ratio. Peccataliquis.Sipotes,meliusillum doce:fin uerò, meminerismanſuetudi nem tibipropterea datam: nam & ipli dij illis ſunt clementes, qui& nonnul lis ad conſequendam fanitatem diuiti as, &gloriam,auxilium ferüt:adeò funt benigni. Id & tibi licet, neque impedit quiſquam Labora, non ut miſer, nec ut qui uel miſericordia,uellaudé conlequi ſtude as:idunum tibi fit propoſitum agere ſe cundum ciuilem rationcm. Hodie omni me periculo exemi,imò uerò omnia quæ uidebantur mala cie ci: nihil enim extrà erat,fed omniaintus in opinione mea. Omnia hæc, quæ in caducis funt, fa miliaria iam mihifecit experientia:du ratione autem ſunt diurna, materia for dida,omniatalia, qualia erat etiã apud illos, quosſepeliuimus. Resipfæ extrafores ſtát,nihilipfæ de feipfisnorūt, neß pnunciát. Quid igit deijs pronunciat?ratio. Negidperſua fione, fionc,ſed actione diſtinguit bonum & malum ciuilis animalis ratione prædi ti: ſicut ncßuirtusneg uitiú in perſua fione, fed actione. Lapidi in altum coniecto nihil mali accidit fi dccidat,ncg bonum, quòdin ſublime effertur. Introſpice corum animos, & uidebis quosij iudices timcant, & ut hi ſeipfos iudicent. Omniafunt in mutatione,ac tuipſe quog in perpetua alteratione, ac quo dammodo corruptione. Quin & totus mundus. Alterius peccatum ibi eſtre linquendum, ut firactionis defcctus,ap petitus,opinionis quics,ac quaſi mors. nihil mali. Tranfi nunc ad ætates, ut puericiam, adoleſcentiam,iuucatutem,ſenectam: horum omnium mutatio eft mors.aun quid mali?Trág deinde ad uită ſub auo acam,ſub matre, ſub patre: quinetiã ali as multas mutationes & fines inucni cs, quære ex teipso, an quid mali Git?Ad cundemmodum eſt etiam totius tuz ui sæ finis, quies,acmutatio. Perpende mentem tuam,uniuerfi,ac proximi:tuam,ut ea iuſtam reddas.uni uerfi ut recorderc cuius pars fis: proxi mi, ut uidcas fitnein ca igooratio,an uc rò incellcctus. Simul intelliges te factú ad explédum ciuile corpus,atqita om nem actionem tuam facere ad uitam ci uilem complendam.Etenim quecúquc tua actio nó ad focictatem humanam, tanquam finem uel propinquum uel remotum refertur,illa uerò uitam inter polat,& unitatem eius foluit; turbaso ciet,ficut in populo cam plebs ſeceſsio nem facit. Abhac concordantia. Pue. rorumirę,ludicra ſpiritus qui cadauera geſtant:ut co efficacius accidatidquod eſtin Necya. Vade adqualitatem cauſa, čamgå materia ſecretam confidera, tum quàm diu permanerc omnino pofsit ca pro pria qualitas. Paffus esinnumera, eò quod non có tentus fuiſti cua mente agere ca,ad quæ crat facta.Sed hæc fatis. Cum te alius repræhendit aut, odit, aut aliquid talcpronunciat,afpicecorú animulas: intra, & uide quales Gint.Cer nes nihil eſſe tibi laborandú, ut hocuel illud ij de teiudicent. Bene quidem ijs uelle debes: Datura em amicifunt, eos dij omni ratione iuuant,perinſomnia, uaticinia.Hæc quidem de quibus ijcer tant, circulus ſunt rerum mundanaa rum, quæ ſurſum deorſumgab unoz uoin alterum uoluuntur. Aut ad fingulas res uniuerſi intelle ctus ſe applicat, quod fi eftita, id, quò ca ſe applicat:approba. Aut ſemcltan tum impetüfecitipfa més, reliqua om nia conſequéter fiunt.* Et quid unum alicui. Quodam enim modoAtomi. Omninò autem, que Deus fit, recte omnia habent: ſiue temerè ſunt omnia; i nunquid & tu? lam nosomnesterra occultabit:poſt ipfa quogmutabitur: & res deindealię item in infinitum mutabuntur.Enimuc ro qui fluctusmutationum & motuum confiderabit, earumg celeritatem, is omnia mortalia contemnet. Torrentis inſtar cauſa uniuerſi rapit omnia. lam ó ipſa iſta ciuilia quàm ſuntuilia? & quàm k uidenturhomunciones iſti philoſophi cè agentes,pleni eſſe muci? Quid facien dum? quod nuncnatura poſcit,cò con tende îi liceat, neqcura,an fit aliquis mortalium hoccogniturus.Neo Plato nis remp. ſpera: Sed contentuseſto,G uel minimum procedat:hứcqueipſum ſucceſſum cogita quàm non fit exi guus. Mutat aliquis illorum ſuum placitum? atquiline horum mutatio ne quid eſt, quàm feruitus gementium, &perſuaſos ſe esse simulantium. Vade nunc et Alexandrum et Philippum et Demetrium Phalereum mihi dic, Vide rint an ſcierint quid communis uolue ritnatura, & an leipfos ſub diſciplina te nuerint.Quod ſi tragicè tantùm ſeſe o tentarunt,nemo me damnauit, ut co gar eos imitari.Opus philoſophiæ ſim-, plex eft, & uerecundum.Nolimeaddu cere ad faſtú, qui præſeferat grauitaté. Supernè contemplari infinitaarmen ta,ſacrificia,omnis generis diuitias, in tempeſtatibus & ferenitate: quæ facta funt,cum ijs nata, quæitem deceſſerút. Conſidera etiam uitam eorum qui ante te,& qui poſt te uiuét: horú ét, qui hodie apud Barbarosuiuút: @multico rum ne nomen quidem tuum sciant, mul ti ſtatim obliuiſcentur, mulu cũ te núc laudent, ftatim ſunt culpaturi. Deniz quam res nullius momehti lit memoria aut gloria, aut aliquid tale. Vacuitas perturbationum in his quæ ab extrinſe ca cauſa accidunt, iuſticia in ijs, quarū actionum tu es cauſa: hoc eft impe tus animi, & actio, quæ finem habe at ſocietatem humanam: id enim eft tuæ naturæ conſentaneum. Multa fup uacanea ex hisq te perturbát,precidere potes,q tota in tua ſunt opinione fità, multūý laxitatis et ſpacij tibi acqrere. Torūmundū alo cócipe,tuuğæuú per pēde, tú celeré lingularú rerú mutatio. né.breue.f.efſe tēpus ab ortu ad interi.. túid uerò q huncfequit,idó pillú prę ceſsit,infinitú. Oía quę uides,celerrime interibút: hi quo,quieorú interitú ui dent, ipfi quog mox peribunt. Qui decrepita lenecta moritur, idem ferer cum co, quiimmaturamorte cadit. Quænam ſunt eorum mentes, quib. rebus ſtudent,quæ habent in honore, quæ amant?iudicate nudas ipforum in tueri animas.Cum uituperando obeſſc, aut prodeſſe laudando ſe putant, quæ cítilla opinio? Amiſsio uitæ nihil eft aliud quàm mu tatio: hacautem delectatur natura uni uerfi, fecundum quam omnia fiunt rc te. Abæternoreseiuſdem formæ natæ ſunt, licg eritin infinitum. Quid ergo dicis omnia facta, & futura male. Ergo nullus inter totdeos repertus eſt, qui ca corrigeret,ſed damnatuseſt mundus ut perpetuis malis conflictetur. Vide quàm putris ſit omniú rerum materia,aqua, puluis,oſsicula,fætor: rurſus calli terræ,marmora:fęces, aurű & argentum:crines,ueſtis,fanguis, pur pura,omnia reliqua eiuſdemmodi. Eti am quæ fpiritu conſtant, alio modo ta lia, atq ex hisin hæcmutantur. Satis miſeræ uitæ eft, & murmuris, & & imitationis? Quid perturbaris? quid in hisnoui? Qui terret te?nú formala ſpicc cã.nú materia? afpiceilla. Extra hæc nihil eft. Quin &iam crga deos ſim pliciot &melior esfaćtus. Idem eft Gue tribus hæc, live centum annis ea diſcas. Si peccauit, malum apud ipſum eſt: fortaſsis autem non peccauit. Aut ab una aliqua mente tanquam onteomnia progrediuntur, quæ cor poribus accidunt:proinde pars non de bet euentis totiusfuccenfere. Autato miſunt omnia,confufio, & diſsipatio; quid ergò perturbaris?Menti tuæ dicis. Mortuus es?perijſti, efferatus es, ſimu las, cs in cætu, aleris? Aut nihil poffunt dij, aut aliquid. Si nihil,cur non compræcaris eos?Sin pol ſunt,cur non magis etiam pecis ut dét tibi, ne quid horum metuas, autexpe tas,ncque magis doleas ſi abſit,quam ſi adfit.Omnino cnim li poſſunt adiuua reij homines, etiam in hoc poterunt. Fortè dices,Dcusea in meapoſuit pote ftate.Efto. Nónne crgo præſtatteijs ģ in tua ſunt poteſtate uti libere, quàm de · ijs quæ non ſuntin tua man u pofita,ſo icitum eflc, animo feruili & abiecto 9 3 k 3 Quis autem tibi dixit, deos non in his etiam, quæ penes nosſunt,auxilium ad ferre?Incipe ergo precari de his, et uide bis.Precat alius, ut cum aliqua cubet: tu petę, ne eius rei appetitustibioriat. Alius petit, ut certa releuetur, tu, neca leuari tibi op' ft.Alius,ne amittat filiú: tu, ne idipfum metuas. Omninò adhuc modum uota concipe, & quid fitfutu rum uide. Epicurus ait fibicum ægrotaret, nul la fuiffe de corporis affectione cum ſu is colloquia,fed decaufis rerum natura lium præcedentibus diſputatum conti nenter.Eı rei ſe intentum, mentem ha buifſe perturbationum uacuam, ut quę motuum corpuſculi nullam partem ac ciperet, ſuum bonum cuftodiens,idea qúe ſe ne medicum quidem qui appli caret pharmaca adhibuiffe; Sed uitam benè habuiſſe.Tuquod is in morbo po tuit,hoc liquid alterius rei incidat,ob ſerua. Vt eniin non defiftere à philoſo phia propter quæuis negocia, neg cũ quouis uulgari homine nugari,omnib, Sectis é cómunc.lic in omniactione cie b h ti incumbendum ſoli, q ppoſitum eſt,in ftrumétog quoadidutimur. Si cui? impudentia offenderis,ftatim percótare teipfum, an poſsit fieri, ut nulli fint in múdo impudétes.nó pótaūt hoc fieri: neigitpoſtula id qd herinequit:alio quin ipse quoß un'eris eximpudétib. ijs, quos effe in mundo oportet. Idem de uerſuto,infideli,omnidenim quocú quemó uitiofo in próptu ſit tibi cogita re.Ná firecorderis neceſſarioid genus hominú efle, fingulos æquioré te prebe bis.Id quoq utileé,ftatimcogitare,quá homini natura uirtuté cótraid pecca tú dederit.Remediū.n.tribuit, cotra in gratos manſuetudiné,cótra aliud uitiū, aliud pharmacũ. Olo aút licet tibi in ui am reducere eu qui errauit: nā oís q pec cat, cò errat, pàppofito aberrat. Denique quid inde tibidamniallatú é:inue nies quidénullú eorú quib.iraſceris, tale quippiam fecisse, quomés tua fit futu ra deterior:atquiin hocunico fitú crat, ut malú tibi atg dánú accideret. Quid verò malum aut novum accidit, fi indoctus į homo agit suo modo: uide ne tu tibiip c 2 0 k 4 ſe potius ſisrepræfendis, quinon præ fenferis fore, utisi: a peccarct. Eenim anſam tibi omnino præbuit ut cogita res, confentaneum eſſe utis ita pecca ret.Ac tamen eius oblitus,miraris eum deliquiſſe? Maximè ucrò fi cui infi delitatis uel ingratitudinis cauſa ſuce cenſes, intra te conuertere. Proculdu bio enim à te peccatum eſt, fi eum ita affectum iudicauifti fidem feruaturum: aucl beneficium conferens,non eo có tentus fuiſti quod dederis, neque fru - & tum teipſa ex actione capere cogitaui ſti. Quid enim aliud requiris, cum ho mini bene facis?non cibi ſatis eſt,te tuæ naturæ conuenienter egiſſe, ſed & mer cedé inſup defideras, perinde ac fimer çede oculus poſcat,quia uiderit,autpe des ppter grellus. Quéadmodú enim hæc ad certūfiné facta ſunt,ita ut ſecun dúfuam conſtitutioné atą naturam ſi egerint, fuum finem adepta ſciamus:ita homo adbeneficentiam natus, & quid beneficij cótulerit, aut aliud quid ege rit,quod ſocietati humanæ conducat, fecitid,cuiusgratia eſt factus, conſecu tus cft id, quod ad eum pertinebat. Ris aliquando, ô anima, bona, simplex, unica, & nuda, ſplendidior corpo re tibi circumiceto. Gu ſtabis olim amoris affo ctum:plɔna eris,nullius indigens, nihil deliderans ncg animati neque inanimi ad fruitiones uoluptatum:ncqtempus requires: quo diutius fruare,neq locũ, regionem, aut aèris commoditatem, nec hominum conuenientiam.Sed có tenta eris præfenti ſtatu, dele & aberis omnibus quæ cruntin promptu, tibig ipfi perſuadebis,omnia tibiadeſſe,om nia cuareétè habere,omnia à Dijs tibial lata,probabisquæcúq ijs probabunt, ac quæ tibi ad perfe&ti animalis ſalu tem dabunt,quod bonum eft, iuſtum, honeſtum,omnia generat at continet & ample &titur, quæ diſſoluuntur cò, ut alia exiplis exiftant. Eris aliquando ta lis, utita cum Deo & hominibus uiuas, utne quid in ijs repræhendas, neg ab illis damneris.Obferuaquid natura tua requirar, quippe qui tātùm à natura gu berneris:id deinde fac &admitte, nifi tuanatura,qua animales, cò fiat deteri or.Secundo loco animaduertédumeſt, qd animalis natura quæin te eft, requi rat:idgo mne omittendum eſt, nifide terius tit habitura ea natura, ob quam rationis particeps diceris: nempe ciui lis, & rationalis. His uſus regulis, nihil ages fuperuacancum. Omni quod tibi euenit, aut ita euc nit,ut tu laturuses, aut ſecus.Si como do, quo tuid ferre potes, non fer ægrè, fcd utnatura tua te docet: fin cótrà, no litamen indignari, etenim ipſum peri bit.Enimuerò memento cam eſſe tuam naturam,ut omnia feras ca,quæ an into lerabilia iudicare uelis nécne, in tua eſt fitum poteſtate,ſecundum uiſa, qua id tibi prodeſſe aut conuenirc ducis. Siquis errat; docercillum debes benigne, & oftendere quid non animaduer terit.Siidneſcis,teipfumaccuſa,imò ne teipſum quidem. Quidquid tibieuenit, id omne abę. terno tibi deſtinatum eſt,atą à conne xu caufarum fataliter tributum. Nam &quod tu es, et quæ tibi cueniút, ab æ terno dependent. Siue ex impartilibus corpuſculis, fi uc natura mundus conftat, id primum conſtat,eflcte partem totius quòd à na ra gubernatur.Deinde,coniunctionem tibi quandam eſſe cum eiuſdemgeneris partibus.Horum memor,quatenus par tem me eſſe totius fentio, nihilægrè fe ram eorum, quæ à toto mihi tribuútur. Parti enim nihil poteft nocere, quod to ti prodeſt. At totum nihil habet, quod nóip6 profit.Id, cùm omnibu set có mune naturis, tú Vniuerſi naturæ hoc accedit, quod ne ab ulla quidemextrin feca cauſa poteſt cogi, ut aliquid fibi dá nofum producat. Quatenus uerò mihi cognatio quædam eſt cum partib. quę funt eiuſdem generis, nihil agam quod non refpiciat communitatem, imà ſemper ad communem utilitatem diri gammeas actiones, & à contrario auer tam.Hisita conſtitutis,necefle eſt uitá proſperos habere ſucceſſus: ficut & ci uis uitam profperam intelligeres,proce dentis per actiones ciuibus utiles, boniş consulentis quæcung ei civitas tribueret. Omnes partes mundi interire necef farium eſt, hoceft, alterari. Quod fi hoc etiam malumipfis fit,nónne uniuerfum malè poſsit perdurare, partibus ad inte ritum, &alterationem cóparatis. Vtrú enim natura inſtituitſuas partesmalè af ficere,malog obnoxia, & quidéneceſ ſariò,efficere?aut perimprudentia hoc admifit? Vtrung quidem non eft ueri li mile. Quin etiam ratione Natura omiſ ſa, ipfarum rerum naturam confideret, item ridiculum erit hóc. Simul enim di cere, quod mundi partes à natura factæ ſintad mutationes et carummutatio ncs quafi contra naturam euenientes mirari aut indignè ferre, abſurdum ſit: præſertim cum fingula ex quibus ſunt conflata, in ea etiam diffoluantur. Aut enim diſcretio fit clementorum, cx qui bus concretæ ſunt res, aut mutatio, ſoli di quidem in terram,aèrci autem in ae rem, ita ut hæc quoß aſſumantur in Ra tionem uniuerfi, fiuehoc certis conuer fionibus inflammabitur, fiue perpetuis uicibus renouatur. Solidas autem &ae reas partesnon opinare ab ortu te habc re: omnia iſta heri & nudiustertius ex alimento et inspirato aêre affluxerunt: hæcgmutanti, non id quod ex utero matris attulifti. Poneaut,hocte admo dum adiungere propriæ qualitati:nihil rcuera,puto,adid quod dicitur. Cùm fumpferis tibiipfinomina hęc, bonus,uerecundus,uerax, intelligens, prudens,alti animi,caucne quando ifta nomina,amittas,alijsg camutes. Celc riter ea aſo repete, acrecordarcnole in telligentis indicari ſcientia dc fingulis rebus percipiendi, & eú, qui cogitatio nibus alienis non occupetur: pruden tis uerò, uoluntariam approbationem corum, quæ communis natura tribuc rit:altitudine animi,mentis intentioné & ſublimitatem, ſupraleues & duros motus carnis, gloriam,mortem, aliasg res elatæ. Siigitur teipſum dignum his nominibus præftiteris,non id appetés, utab alijs ita appelleris,alius eris,alião ingredieris uitam. Nam talem te porrò elle,qualis hactenus fuifti,hoceftin hac uita raptari &inquinari, nimis ſtupidi eft hominis, & VITAM AMANTIS, fimiliso eorum, qui in pugna aduerfusferas fe meſi ſunt. Hicnim pleniuulnerum & ta bi,tamen hortantur, ut in craftinum fer ucntur,iterum pugnaturi aduerſus eof dem ungues & dentes. Itaq te paucisi ſtis nominibus accommoda, ac,& qui dem pofsis,ea tuere, perinde at hin In ſulas quaſdam fortunatas commigral ſes.Sin teinferiorem ijs eſſe ſentis, fece de audacter in angulum aliquem,utibi uictoriam obtineas: aut omnino è uita abi, non iratus,ſed Gimplici & libero ani mo, atæ uerecundo, cùm id unum in ui ta egeris,uteo modo difcedas. Vt auté memoriam illorú nominum retincas, haud exiguú tibi ad feret adiumentú, ſi recorderis deorum, atß eos nolle fe adulari,fcd hocuelle, ut ratione prædita animalia, ipforum quàm fimilima ef ficiantur. Ficus,canis,apis,ſuum quoduis offi ciumfacit: idem eft &hominis partiú. Mimus, bellú, terror,ſtupor,ſeruitus: hæc quotidic delebút facra illa tua pla cita, quæè contemplatione naturæ rc rum hauſta circumfers. Omnia autem, ita ſuntinfpicienda &agenda,ut & cir cumſtantijs fimul ſatisfiat, & cognitio inactioné uertatur,ferueturó animicó ſtátia ex earūſciétia accepta. Ignorat, non tñ cft abfcóditú Quando capies fru &tum fimplicitatis?qñ grauitatis? quan do cognitionis fingularum rerum? quæ: nimirum fiteius natura, quis in mundo locus, quandiu ferat eius natura ut du ret, quibus ex rebus conflata fit, quis eam poſsit poſsidere,quis dare autadi Aranca, ſi muſcamceperit, exultat: alius G leporem, aut piſciculum,aut fu cm, aut urſum, autfarmatas,nónne hi ſunt prædones? Si opiniones exami ncs, quomodo unumin alterum tranf mere. mPombaur,uiam ac rationem contempla di parabis.Continenter autem hucani mum aduerte, teý huic parti adlucfac: nihil eſt enim quòd perinde animum magnum efficiat.Corpus enim exue, in telligensgiamiam te ex hominibus di ſcedentem ifta omnia deſerturum,torů teipſum da iufticiæin actionib. tuis ſer uandæ, in reliquis quę eneniuntrerum naturæ totum te cómitte: quid alij uel fentiant de te, uel agant contra te, ne ad mentem quidem tibi tuam accidat. Duobushis contentus eſto, ut & iuftè agas in præſentia, & id quod nunc tibi obtigit,boniconſulas. Omnes alias oc cupationes,omnia ſtudiamiſſafac,huic modò intentus,ut rectà ſecundum lege ingrediaris, deum ſequens. Quis lituſusderebus tanquam ſuſpe Etis deliberādis hinc patet. Si quid age dum fit,uideasą id elle ex uſu, firmiter cò procedendum. Sın id nonintelligis, inhibendaactio, & optimis utendum confiliarijs.Quòd G alia his aduerſa oc currant,progrediendum eft iuxta præ fentes occaliones,animo ci quodiuftú uidetur intento. Optimum enim eſt cú áttingere ſcopum. Quietus fimul, & ad motus facilis, fi mul & lætus, & conftans eftis, qui ra-. tionem ubiq fequitur ducem. Interroga ex teipfoftatim à fomno ex pergefactus,nū tua interſit, fi quæ iuſta funt & reétè habent, in aliorum fint poteſtate?Nihilintereſt. Nunquid oblicus es, illi qui aliorum fermonibus & laudibusfeiactant,qua les in lecto fint,quales inméta quid? a gant,quæ fugiant, quæ confectentur? quæ furentur,quærapiant? non quidé manibus & pedibus, ſed precioſiſsima ipforum parte,qua acquiri poteſt (ſi qs uelit) fides, uerecundia,ueritas,lex,bo nusgnius. Omnia danti & recipienti naturæ p bè inſtitutus & uerecundus dicit: Da quicquid uis, aufer quicquid uis. Ne que hocaudacia elatus dicit, fedeio bediens, camś probans. Vitæ cxigua reſtat pars:uiue tanquá inmonte. Nihilem refert hîc ne fisuel illic,modò ſcias te ubig in mundo, tan quam in urbe eſſc. Videant, inquirant hominemhomi nes uerum ac fecundum naturam uiué tem.Sinon ferunt eum, occidant:præ ftat'enimhoc,quàm illo modo uiuere, Noniam præçerea tibidiſputandum eſt, qualísnam ſit uir bonus: fed curan dum, ut fis uir bonus. Subinde tibi ante oculos pone æuũ totum, & uniuerſam natura:cogita, uc res ſingulæ ratione ſubſtantiæ nuclei fint oliuarum,temporis,tenebri cóuer lio:1dý de ſingulis rebusindaga.Quem admodum exiam diffoluátur, finto in mutatione ac qualiputrefactione & dil ſipatione: utunumquodą ſuam ucluti mortem habeat.Quiſuntilli, qui nunc comedunt,dormiunt,coêunt,uentrem purgant?cum quiimperant alijs, ſuper biunt,indignantur,inferiores increpát? quibusilli paulò antè feruierunt, & qui bus de caulis?quieruntpaulò pòft? Vnicuiqid prodeft, quod naturau niuerG fert,atx co quidem tépore, quo ca fert. Expetit quidem pluuiam terra: expetit autem uenerandus æther cum eſt repletus nubibus in terram decide re,ita & mūdusid agere cupit,quod fit: dico itaqmundo,meei adſentiri. Itag & hocfit, & dicitur fieri, quod mundus uultita fieri.Authic uiuis, & te adſuefe ciſti, aut aliò te confers, & hoc uoluiſti: aut defunctus tuo munere moreris. Nihil eſt præter hæc. Bono ergo esa nimo. Semper fit euidens, hoc efſe agrú: 1 & quomodo omnia funt hieijs qui in ſummo luntmóte,autin littore, autu. biuis. Omnino enim inuenies Platonis illud, ftabulo in monte abditus: & ba lare. Quid eſt mens mca? ad quid nunc ea utor?Eſtne aliquid mentis uacuum? cftne aliquid à comunitate diuullum? num affixum & admixtum carni, ut il ludunàmPombaur? Qui dominum ſuum fugit, fugitiuus eſt.Lex autem dominus eft. Ergo qui cótra legem agit, fugitiuus eſt. Acdolo-, rem aliquis,iram, aut metumconcipit, propter aliquid eorum quod facūeſt, uçlât, uel fict ſecundum uoluntatem & eiusqui uniuerſum gubernat.Hic uerò lex eſt tribuens ſuum unicuif. Ergo 13 qui hoc modo timet, dolet, aut irafcit, & fugitiuuseft. Pater semine in uterum matris dimillo abijt. Inde ſuccedés alia cau ſa agit, & abſoluit facum,animaduerten dum eſt ex quo quid efficiatur. Rurſus cibus per fauces dimittetur,deindealia cauſaluccedens,ſenſum,appetitum,ui tam,robur,omniaģiſta aliaefficit.Ita ea, quæ in tanta occultatione fiunt, co Gderanda ſunt, facultasģita conſiderá da eft,ut& eam quæ deorſum, & eam quæ ſurſum uergit uidemus, non ocu lis quidem corporeis, fed haud minus tamenperſpicuè. Alsiduò conſiderandumeſt,quomo do omniahęcſint,qualia fuerint,aclint bulæ atqfcenæ earundem in ſpeciem rerum, quasuelexperientia uidiſti, uel exantiquahiſtoria cognouiſti,ut,aulá Adriani,totam Antonii aulam,totam Philippi aulam, Alexandri,CroG.Om nia enimhæc, talia erant. Tantú per alios animo tibi finge cũ, quialicuius rei caufa doletautindigna tur,fimilem efle porcello qui mactatur, & calcitrat at grunnit, Similisetiã ei qui gemitin lectulo ſolustacitè alliga tionem noftram. & quod ſolianimali ratione prędito datum eſt ut rebusque cueniütfpóte obſequat. Olo aut ſequi eas,oíbusé neceſſariū.In fingulis reb. rereexteipfo debes, fitnemors mala, proptereà quòd ea re te fit fpoliatura. Cuni alicuiusoffenderis peccato,fta tim ad te reuertere, ac cogita quain fi milire tu pecces: ut,Quòd argetum,uo luptatem,gloriolam in bonisducas. Id iram mox obliuione delebit: accedat autem & hoc,uteum inuitum peccare ſcias. Quid uerò faceret coactus? Tu; li potes,efficene cogatur, Cùm Satyronem uides,Socratium ti bifinge conſpectu dari:cùm Eutychen, Hymenem,uel Euphratem cervis, Eutychionem, Syluanum, Alciphronem, uel Trophæiferum imaginare: Xenophon. te uiſo, Critonem aut Scuerum: denis ſingulis aliquem priorum certa ratio ne limilem oppone. Simuluerò tibi ad animum accidat,Vbinamfuntilli? nusquam,autubicung. Ita nunquam non cernes res humanas fumum ellc & uani tatem.Maximè fi recorderis id quod ſe mel mutatum eſt, nihil fore in infinito tépore. Tu aut in quo tempore es? aut qui non ſufficit tibi, breue hoc honeſte exigere?quam materiam, o ſubiectum fugis? Quid enim ſunthęcoia,nifi ex ercitia rationis quæ accuratè perfpexiç naturam earum quæ in uița occurrunt rerum. Perduraigitur, dum eas res tibị familiares reddas: Quéadmodú ualid ventriculus oía fibi effiçit familiaria: & ignis ſplendidus quidad ei inijcias, fla mã ex co &fulgore edit. Nulli liccat uerè dicere,nó efſe te fimplicé et bonu: sedmentiatur, quicúq hocde te ſentit. Id uerò omne penes te eſt:quis enim pa hibeat,nelisbonus&fimplex? Tibimo ftet ſententia,nó uiuere,nifi talis ſis:ne que enim patiturratio te niâ talem. Quid Git, quod poſsit de propoſita materia rectiſsimè dici, uel agi, conſide ra:quicquid erit,facere tibi uel dicere li cet,nemine obſtate:neo prætēdete im pediri.Nexprius deſine ſolicitudiné, ita ſis affectus,ut qďuoluptuarijs ſunt deliciæ, id tibi fit actio in ſubiecta & ob lata materia, humanæ cóftitutioni co ſentanea.Oé.n.id qdlicet tibi agere ſe cundú natură, p uoluptatehabendú é: licet aút ubią.Nam cylindro quidem non datur,ut quouis loco feraturſuo,p prio motu, ut negaquæ, neg igni,ne alijs, quęànaturaautanima rationis ex pertereguntur:multa enim ſunt quęob ſtent eis, & intercipiant.Mensautem, ſi ueratio per omnia quæ reſiſtunt perge re poteſt ſecundum ſuam natura & uo luntatem.Hanc facultatem anteoculos tuos ponens, g mens per omnia poſsit ferri, ficut ignis ſurſum, lapis deorſum, cylindrus per decliue,nihilpræterea re quire.Reliquaimpedimenta aut corpo reiſuntcadaueris,autpræteropinioné, ipfius métisremiſsionénó lædunt,ne que ullú afferunt malū:Alioquin is qui impediret,malus confeftim fieret. Na reliquæ res omnes ita ſunt compara tæ ut fi qd eis maliaccidat,ftatim dete riores fiåt.At hîc, a oío dicédüeſt,meli or etiam fit homo, maiorique dignus į aude,fi rectè utatur ijs quæ occurrunt. Omninò autem memoria tenendum eſt,ei qui natura ciuis eſt,nihil poſſe no cumenti accidere, quod nonidem ciui tati noceat.Atqui huic nihilnocet,nifi quod obfit legi.Eorum uerò, quæ incó moda autinfortunia uocant, nihillegi officit:ergo neg ciuitati,ncg ciui. Qui morſus eſt à ueris dogmatibus, ei ad recordationem uacuitatis dolorú & metusſufficiet uel minimum. quale illud: Sternit humi uentus folia. Haud aliter genus humanum. Foliorum uerò rationem obtinent &liberi tui, &ij homines qui acclamát & collaudantita,utfidem mereri uide antur, aut contrà execrantur,aut tacitè repræhendunt & fubfannant. Foliorú rationem obtinent et hi, qui famam po ſteritatis excipient.Hęcenimomniana fcuntur tempore ueris:pòſt animus ea deijcit: inde alia ipſorum in locum ſyla ua producit.Breuitas uerò téporis om nibus eſt communis. Tu autem omnia perinde atque æterna fugis aut appetis, paulò pòft moriturus:& cum quite ef feret,alius lugebit. Sani oculi eft,omnia uiſlia cernere, & non uiridia tantum uelle, quòd faci unt ij, qui vitio aliquo oculorum laborant.Idem de sano auditu et olfactusentiendum, utriqomnia fui generis senli lia esse promptè appræhendenda: qua ratione etiam uentriculus ad omne a limétum paratus debet effe,inſtar mo læ, quæ ad quæcunque molienda para ta eſt.Proinde & més ſana parata debet eſſe ad omniaquæ occurrunt. Sed ea ģ hoc tantum curat, ut liberi fint ſalui, ut ab omnib.laudentur eius actiones, ocu lo fimilis eft uiridia, autdenti tenuia tan tum uolenti. Nemo eft adeò felix, cui mortuo non Gintadftituri quidam, qui malú quod ei obtigiſle putatur, haud malè lit con ſulturus:probus,dicent, & fapiens crat: nónne ad extremum aliquis dicet fe cum, Etipfe aliquando reſpirabo-ab hocpædagogo.Nulliquidem noſtrum erat grauis,fed feng tamen clam nos ab coſperni. Hæc de bono uiro dicentur. ant. Nobis quàm multa ſunt alia, ppter quæ multi ſunt, qliberari à nobis cupi Hæcmoriens li cogites, cò facili us diſcedes hinc, reputans te ex ea uita abire, ex quaijipli q ei' ſunt participes, quorum gratia táta certaminafuftinui, precatus ſum,pcuraui,meuolüt migra re,fortaſſe aliquid meamorte alleuatio nis fperátes. Quidé,curdiutius hic mo rari quæras? Nihilo tn minus benignus illis diſcede,morem tuum ſeruans, ami cus,beneuolus,propicius:negutis qui abripiatur,ſed quibenemoritur,animu la facilè ſe foluente è corpufculo. Eo modo & ab his diſcedendum eſt, quib. nos natura accommodauit & mifcuit. Difloluitnunc? diffoluor et à familias ribus abducor, non reluctans, non vim patiens. est enim et hoc unum corum, quç fiunt secundum naturam. Asvesce, utin omni re teipsum per con teris. Hçustu quorſum hocrefert? A teipso facinitium, teg primo examina, Memento facultatem motricem corporis intus latere. Hæc est facundia, hæcuita, hoc est, ut ita dicam, homo. Nunquam circumiecta vasa animo tibi propone et instrumenta hæc tibi afficta. Similia enini sunt dolabræ, cotantum differentia, quod adnata funt. Alioquin sine causa, quæ ea movet et continet, haud maio ri sunt usui, quàm radius te xtrici, calamus scriptori, flagellum auriga. Aec propria sunt animi ratione præditi. Se ipsum videt, se ipsum componit feipfumtalé, quale vult, efficit, fru &tus quosfert, ipfepercipit,(Erenim plantarú fructus, atg etiam animalium, alij percipiunt.) fuum finem conſequitur, quicung ui tæ fit terminus: nó utin ſaltatione, & a gendis fabulis,alijs id genus rebus fit, ut fi quid offendatur,tota actio fiat irri ta: fed is animus omni in parte, ubicuß depræhendatur, id quod oblatum eſt,e fedum & nullius rei indigum reddit, ita ut dicere poſsit ſeſuum habere.Con plectitur pręterea totum mundum, eiſ inanc circundatum,figuram eius, infini tatem qui, certis conuerlionibus con Itantem regenerationem uniucrſarum rerum contemplatur. Inde cognoscit, ncgnouum aliquid pofteris cuen turú,nem eos qui ante nos fuere,quica amplius nobisuidiffe:fed quod is qui è quadraginta annorú,fi méte utaturferè oía præcerita &fucura uidet in reb.eiul demformę.Hecquoß eifunt propria, amorproximi,ucritas,uerecundia, utni hil feipſa præſtantius ducat,quod qui dem ei cum Lege eſt commune,itaut ai hilinterfitinterreciam rationem, &ra tionem iufticiæ. Cantilenam iucundam,faltationem, & pancratium contemnes, Siuocélua uè fonantem diuidas in fingulos fonos, ata ſeorlim de fingulis ex teipfo quæ ras an ab co patiarete uinci:pudorcpro fe & ò afficieris.Idem dereliquis fuomo do intellige.Deniqin omnib.illis quæ nonfunt uirtus, nec à uirtute profici ſcuntur, memento ad partes corum re fpicere, diuifiones illa in cótemptum adducere: ids in uſum totius uitæ eft transferendum. Qualis eſt aia quęparata fit, fiiamde beat à corpore ſolui, & uel extingui,ucl diſsipari,uelconſtare.Vtautem licpara ta ſit, à peculiari iudicio uenit: non ut fimpliciter mortem aliquis ſubcatid Chriſtiani faciunt,fed bene ſubductisra tionibus & cum grauitate, ita ut & alte ri hoclincuerború cxaggeratione per, fuadere poſsis. Egi aliquid ad ſocietatem humana códucens: ergò utilitatem ſum cóſecu tus.Id femp occurrat, nequnquādebt. Quã tenes arte?Bonuseſſe. Quánam fic hocratione? Si contempler, partim na tură uniuerâ partimhominis ſtructurā. Initiò Tragoediæ prolatæ ſunt, quæ monerent de ijs quæaccidere homini bus ſolent, eam eſſe.rerum naturam, ut liceueniant.At uerò quib. in ſceną delectabamini, curijſdem offendimini in maioreuitæ humanæ theatro? Vide. ris quidem,quod ita hæcdebuerint per fici,quodý ea feruntetiam ij, qniclama uerunt. Id Cithoron. Et fanè quædam utiliter à poëtis dicuntur, quale eſtil ludin primis.: Quod li dijmenegligút, &liberos, Rationem habet illud.item. Nam reb. iraſciſanènihil expedit. Frugiferam utiſpicam meæ uitæ me tam. aliag id genus. Poft Tragedia uetus Comædia illata eſt,libertatédiſci plinæ accommodatam habens, cazip fa haud inutiliter nos monens, ne faſtu extolleremur. Cuius fimile aliquid etiã Diogenes uſurpauit. Poſthas &media quædã comedia & ad extremú noua aſſumptæ ſunt, haud alium ob finem, a ad ſtudiú artis imitando oftentandæ. Dici enim & ab hisipfis quædam utilia, nonignoratur: fed tota huius poëſeos & fabularum,ſcriptionis intentio qué nam finem reſpicit? Quomodoeuidens fit,non eſſe aliud uitæ propofitú ita có modú ad philofophádū,ut eftid, quod núc tenes?Ramusà pximoamputari ra monó pót, an & à tota arborere fecet: fic homo etiã ab uno auullus hoie,nó pornó écà toto excidiſſe cætu. Itagra mum quidem alius aliquis, homo feip ſum à proximo feparat, cum eum odit aut auerfatur:ignorat uerò étà tota ciui li ſocietate ſecadéroeabrumpitur. Ve runtamé hoc habemus munere louis, hác ſocietaté cóftituit,ut rurſum adcre ſcere pximo, & explere totú poſsimus: Ettamen ſi hæcauullio fæpius admitta tur,efficie,ut uniriiterum at coaleſce rehaud facile pofsit id quod erat auul fum:tum uerò, quòdfatent plátatores, non eadem eſt ratio rami qui ab initio floruit cum arbore,manfitgin ea,&e. ius qui amputatus;rurſus deinde eſt in fitus. Oportet igitur in eadem arborc elle, etfi nonidem cum omnibus ſentias. Qui tibi ſecundum rectam rationem procedenti impedimento funt,ut auer tere teà recta actionenópoffunt,ica ne que tua erga ipſos beneuolentia depel lantte:utrobiß teipſum eundem ferua, utnon modò iniudicado cóftantia, & agédo, fed &aduerſus eosqte phibere conantur, aut aliâs indignantur,māſue tudiné tuearis. Haudem minusinfirmi eſt illis iraſci, ô defiftere ab actione, & concideremetu perculſum: utrunque eft eius qui ordinem ſuú delerit, quod alter mctu facit,alter odio cognati fibi, &amicinatura. Nulla natura arte inferior eſt: quip PC cùm artes fint naturæ imitatrices. Quodſi eſt,utiq naturaomnium perfe & tiſsima &omnia compræhendens, ar tium folertiæ nequaquam cedet. Porro omnes artes præftantiorú gra tia faciunt uiliora:ergo & cómunis na tura. Acoz hic eſt ortusiuſticiæ: ab hac reliquæ uirtutes dependent:non enim conitabitiuſticia,ſi uelrebus ſuapte na tura neqz bonis nec malis nimium tri buamus,uel temerarij,ucl errori procli ues erimus: Non ueniunt ad teres eę, quarum fu ga uel appetitu perturbaris,fed tu quo dam modo ad eas accedis:iudiciumita la que deijs quieſcat,ita etipfçquieſcent, & & ne ſequeris eas,neg fugies. Animus globo ſimiliseſt, figuræ æ quabilis, quandones effertie, negcó trahit,ſed luminefulget, quo in omnib. & rebusueritatem cernit,& in ſe quoque Contemnorab aliquo: uiderit. ego ibi curabo,nequid contemptu dignum a gam autloquar.Oditmealiquis: uide ip rit.Ego quidem omnibus ſum placidus ces &beneuolus,atco ipſo promptus ad ne ch ere cm que ipſo. 100 god m oftendēdos alijs ſuos errores: neß hoc exprobrādi cauſa, aut ut patientiam o ftentem meam, fed ingenuè & pro bè. Quantus erat Phocion, nifi idip ſum præ ſe tuliffet. Intus enim omnia oportetrectèhabere, & à dijs conſpici hominem nullam rem indignè ferenté, autquiritantem. Quid enim mihi mali accidit,fi alius id agit, quod eſt naturæ tuæ commodum? nó accipies id quod nuncnaturæ uniuerfi eſt opportunum, cum ſis homo eò deftinatus,ut commu ni utilitati inſeruias? Qui contemnunt fe mutuò, ijdem mutuò ſe demerentur: & qui mutuò de primatu contendunt, mutuò libi con cedunt. Quam putiduseſt, & fallusille, qui dicit: Statui fimpliciter tecum agere. Quid agis? non erat hoc præfari opus: ipla reshocoftendet.Statim ipſo in uul · tuinſcriptus debet efTe fermo,acftatim ex iplis oculisapparere: Quemadmo dúex afpectu amatores ſenlum ſui ama fij.ſtatim cognoſcunt.Omninò uir bo nus & fimplex hircoli debet aliquld fi mile habere, ut qui ei adeft, uelit, nolit, tń cius fimplicitate depræhendat. One tatio aut ſimplicitatis, infidiæ ſunt te étæ:neq uerò quicộ turpius eftfubdo lis acinfidis congreſsib.Hocoím maxi mè fugito. Bonus,fimplex& manſuelº uir,hæc oíaí oculis habet, ncg calatét, Rectiſsimè uiuédi facultas é in tuo aío pofita,nimirú ut res neg bonas ne quemalas,in nullo ponas diſcrimine. Id fet, & unamquamlibet eorum conté pleris diuiſim, & rationetotius,memor nullam earúin animis noſtris de ſe poſ fe excitare opinionē, negadnos ueni re: sed ipsas quidem quieſcere,nosautem effe, q deijsiudicia faciamus apudnos, easýnobis quali depingamus:cú liceat tñ autoío no depingereillas, aut fihoc oío ſit admiſſum ſtatim delere. Exigui temporis attétio hæc eſt, indefinis erit uitæ.Quid obftas,quo minus hęcrectè habeant?Quęli ſuntſecundú naturam, gaudeillis, & erútfacilia:ſincótra natu ram,quære quid fit tibi fecundum natu ram,atpid contéde et si gloria careat. Ignoſcedūé.n.oīci, ſuuğrit bonum. Videunde uenerint omnia, ex quib. conſtent,in quod mutentur,qualia fint inde futura,tum nihilmalicis accidere. Primùm, quis mihi ad eos reſpectus. Nati fumusinuicéun ' alcerius gratia.A lia autem ratione natus fum utipfisprę ſim, ficut aries gregi, aut taurus ar mento. Rem altius repetc. Sinó conſtat mú dus ex atomis, utią natura cum guber nat. Quod fi detur, utiq deteriora præ ftantiorumgratiafunt: hæcuerò, unum propter alterum. Deinde, quales illi ſunt in menſa,le cto,alibi?Maxime autem quib. illi funt neceſſariò opinionibusaddicti, & qua to cum faſtu aguntſua. Tertium eft. Sircctè faciunt hæc, nó eſt indignè ferendum: ſinfecus, at non ſponte,ledignoratione peccant. Omnis enim anima invita privatur cum veritate, tum eo, ut possit cum uno quoli betut eſt dignum,uiuere. Itaque dolo reafficiútur,li iniuſti, ingrati, auari,om ninoſiniurij erga aliosdicantur. Quartum eſt.Ipfequoginmultis delinquis, es ipſorum ſimilis:ac tametG quibuſdam peccatis abſtines, tamen ha bitum ea faciendihabes, ac uel metus, uel gloriolæ conſectandem causa, aut aliud ob malum, abstines similibus peccatis. Quintunc hoc quidem ſatis ſcis, an peccent. Quædam enim ordinc fiút. Omnino autem multa experiri opusē, antè quàm certum aliquid dealiorum actionibus ſtatuas. Sextum.ut maximèſtomacheris,ta men uita hominum eftmométanca, ac paulò pòſtomncsmorimur. Septimum.Non actiones ipforúno bis moleſtiam exhibent, cùmeæfint in ipforum animis: fednoftræ opinioncs. Itaq tolle uoluntatem iudicandi de rc aliqua tanquam mala: limul ſuſtuleris iram.Quomodo, inquies,tollam? Sire putes,non eſſerem turpem.Namnig.fo la turpitudomalum eſſet,tu quogne ceffariò multis modis peccares,ficres latro, & omnia tentares. Octauum.Multò grauiora adferunt dolor & ira,quam obaliorum pecca: ta concipimus, quam ipla illa, ob quæ m 3 raſc imtur & dolemus. Nouú manſuetudo, li genuina fit, no adſcititia aut fucata,inuictač. Quid uerò uel extremæ libidinis homo tibi faciet, fi conſtantermanſuetudinem fer ues, acl res ita ferat, placidè eum hor teris ac doceas eo ipſo tempore, uacás huic reitum, cùm is te lædere nititur. Si dicas,Noli fili, ad alias res nati ſumº: ego quidem non lædar,ſed tu: ido eia pertè & integrè oftendas, neque apes, ullum aliud eorum quæad cætű apta funt natura animalium ita agere. Oportet autem neque irridendi,neque conuitiandi caufa hocfacere,fed aman ter, atq ita ut ne cor mordeatur, néue ccio abuti uidearis, acne quis adftans mirctur,fed ut cum ſolo, ita loqui de bes, etiam fi alijadlint. Horum nouem capitulorum memento, tanquam a Musis li ea dono accepiſſes. Acincipe tan dem homo efle, dum uiuis. Tam vero cavendum ne irascaris eis, quam ne aduleris. Utrunque enim a societate est alienum et damnosum. In promptu tibi fit ira accedente, non iram esse VIRI, fed man ſuetudinem: id ut humanius, ita & VIRILUS EST, requiritgrobur, nervos et fortitudinem: quænon ſunt apud indignan tes & morolos.Nam quanto proping or eftmanſuetudouacuitati affcctuum, tanto & potentia: acquemadmodum dolor,in impotétes cadit, fic & ira. Uter que enim uulnus accepit, &herbápor rexit. Quod fi lubet, etiam decimum à duce Muſarum donum accipe:nempe, Inſani eſſe,uellene praui homines pec cent.qui enim hocpetit, id petit, quod fieri nó pót.Alijs uerò cócedere ut fint mali, modònein tepeccent, ingrati eſt, et tyranni. Quatuor potiſsimum motus animi continenter ſuntobferuandi, ac, fi eos deprehenderis, inhibendi. Primò, ut dicas. Hæc cogitatio non erat neceflaria. Alterum,hocfacit ad ſocietatis diſſolu tionem.Tertium, hoc non ex te dices: nam non à le dicere, inter abfurdiſsima eft reputandum. Quartum: tibiipa ex probra, eſſe hoceius, quidiuiniorelui parte uincatur, & cedat ignobiliori & mortali parti, corpori ſcilicet &eius craſsis uoluptatibus. Aêreū, & oésigneęparticulæ quęcó miſtæ ſunt tuo temperamto, cth natu ra ſurſum efferantur,tamen ut obediãt ordini uniuerli,ab ipſa mixtione conti nentur.Similiter omne terrçumin te, & humidum,cùm natura ſua deorſum fe rantur, tamen in ſublimimanét, non in fuo naturaliloco. Adcò elementa uni verſo obtemperant, aca quò deſtinen tur per uim, manent, donec diſſolutio. nis rurſum canat claſsicum.Nonnc igi tur iniquum lit, ſolam tuam rationem nolle obedire,ſuumglocú indigne fer re.Etquidem nihil ei uiolentum impo nịtur: ea modò, quæ eius naturæ conue niunt. Et tamen ea non ſuſtinet, fedin contrarium fertur.Motusenim adiniu fticiam,luxuriem iram,dolores, & me tus, nihil aliud eft,quàm ſeceſsio à naru ra: & cùmanimusaliquid corum quęc ueniunt indignèfert, tunc quoqueluú locum deſerit. Etenim ad equalitatem & pietatem cóftructuseſt haud minus, quàm adiuſticiam: quia & hæ (pecies funt uirtutum,quibus benè defenditur focietas humana, imò etiam antiquio resiplis iuſtis actionibus. Quinon eundem per omnem uitam propofitum habet fcopum, is unus & idem eſſe,p totā uitam nequit.Non fa tis eſt, id quod diximus, niG & hocad datur, qualem eſſe oporteat eú scopú. Quemadmodum enim non eſt Gmilis de bonis utcunqueplurium opinio,ſed quæ eſt certorum quorundam commu nis:ita & ſcopus ciuilis, & communita tem reſpiciens eſt ſtatuendus, Adhuc qui oés fuos animi impetus direxerit, omnes actiones ſimiles reddet,cogmo ſemper ſuieșit fimilis, Murem montanum, et dameſticum huiusý pauorem & fugam, Socrates, & uulgi opiniones,Lamias uocabat,puerorum terriçulamenta. Lacedæmonij peregrinis ſub umbră fede adugnabāt in ſpectaculis, ipli quo uis loco fedebant, Socrates Perdiccæ quærenticur nő ad ipfum ueniret,refpondit:nc turpiſsi mointeritu peream.hoceft,ne benefi cio affectus, idnon poſsim compenſaa re. In Epheliorum literis crat hocprz ceptum, quod iubebat quotidie remi nilci alicuius ex antiquis, qui uirtutem coluiffent. Pythagorei manè nos coelum afpice se iubebant,ut recordemur eorum,qui femper fuum officium præſtant: ité or dinis,puritatis, & fimplicitatis nudæ:a ftris cnim nullum eft uelamentum. Memento qualis fuerit Socrates > củ pellem præcingeret, cùm Xáthippe uc fte fumpta procefsit:acquæ dixerit fo cijs Socrates pudorc affectis, ac recede tibus, cum uiderent eúin iſto ornatu. Núquàm fcribere &legere alios do. cebis: nih ipſe prius didiceris: id multò magis inuita eſt præſtandum.Seruus es, ratione cares.tú charũ cor mihi rifum fuftulit. Virtuti grauibus facient conui cia urbis. Infani eſt, ficus hyeme quærere.Tale eft puericiam quærere præteritam. Epictetus puerum oſculatus, interi us cum eo fe collocutum dixit. Fortaſsis cras mortem obibis. Abo minaris hoc: nihil dictu graue cft, ingt, quod aliquod opusnaturæ defignat:ni ſi abominere, quod fpicæ'metuntur: Vua primùm cruda,deinde matura fit, pòſt palla:hæc omnia rei ſuntmutatio nesnonin nihilum, ſed in id quodiam non eft. Nemo ut dicebat Epectetus latro eſt uoluntatis.Ars autem, aitidem, in ueniéda eft in adſentiedo, utgimpetus animiferuentur,ita uthabeátautadiun ctam exceptionem, spectét societatem et dignitatem. Cupiditate omnino abſtinendum çít, neque inclinandum ad ea quæ non ſunt penes nos. Itaq, inquit,non de leuire,ſed de in. fania certatur,nib SOCRATES dixit.Vultis ne compotes rationis animos habere, aut non?uolumus. Cuiuſmodi, bonos ne an prauos?ſanos. Cur ergo nó quæritis? Quia habemus. Quid igitur conton ditis? Mnia ista, quæ per circui tus temporum adipiſcio ptas,iam nunc habere potes, nifi tibiipfi invides: hoceft, Siomneid gpręte. rijt,omittast,uturum prouidentię com mittas,id modò quod præſens eſt,diri gens ad ſanctitatem & iuſtitiam: alte ram, ut boni conſulas ca quæ tibi fatū tribuit etenimid natura tibi attulit alteram, ut liberè ac fine ambagibus ueri tatem loquaris,agasok ſecundum lege, & ut dignum eſt. Non impediat autem teneg aliena malitia,aeg opinio,ncß vox,nequc fenſus circundare tibi carnis. Id enim curet, quod afficitur. Itaq jamio exitu cùm fis,tantummentem tu am,idç quod eſt in te diuinum,uenera beris:neo morrem metues,fed nequan do uiuere non fecundum naturam incipias. Sichomo eris dignus mundo quite protulit,nec amplius cris tan quam peregrinus patria tua, admirans ca quæ quotidie eueniunt,ncg de hac uclillare dependebis. Videt dcus omnia mentesnudas à ua lis materialibus & corticibus iftis repurgamentis.Sola enim fua intelllige tia ſola ifta cótingit, quæ abipſohucde fluxerút ac deriuata funt. Quodipfum tu quoque li facere afucſcas,magna cx parte efficies, ne ita circútrahare. Qui cnim nó aſpicit carncm circumicctam, occupaturin ueſte, domo,gloria, relia quisg exterioribus ac quali tabernacu lo contemplando. Tria ſunt ex quibus conſtas:corpus, anima, mens. Priora duo tátum ea ratio ne tua funt, quòd corum curam geris: Tercium folum ucrè tuum est, quod si separes à te. Quæalii dicunt aut faciunt aut quetuipſe,aut ģte futura pturbát, aut quæ corpori tibi circundato, uela nimulæunànatæ præter cuam uolunta tem accidunt, ac quæfluctusexterna. rum rerum uoluit:Ita ut intellectus ab illis rebus, quæ fato una sunt, exemptus libera apud feipfam uitā uiuat, agensiu Ita,probás euéta, dicens uera, fi inquam remoueas à menteres quæ ci conſenſu quodam naturæ adhærent, itemģfutu rum & præteritum tempus, efficies ex tcipfo globú, qualis illcEmpedocleus. Sefolo exultās,totus ceres atqz rotú dus:Diſces id tátú uiuereg uiuis, hocé. in præsentia.I ta fiet, ut ad fine ufo ui tæ tibi ſupereſt, pofsis abſque petürba tionibus generosè,& geniū tuú pbás atq amās exigere. Sæpenumeròmihi mirari ſubijt,quidnãeſſet rei, q homi nes cùm feipfos magis ĝ quenquam ali um diligat, iñ ſuam de ſeſe exiſtimatio nem minoris ducant quàm aliorum. Quòd fi quis Deus,aut prudens præ ceptor mandet, ne quid homo apud fe ipſum cogitet animóue concipiat, nisi id statim lit prolaturus, certè ne unum quidem diemid coleret: adeòmagis ue remur, quid proximus de nobis fit exi stimaturus, qusm quid ipsi nos. Qui fit, quod Dij, cum oía pulchrè & humaniter ordinauerint, hoc unu neglexerint,quod nonnullos homines apprime bonos, acin quos in plurimus ſuam erga deum pictatem quaſi teſſeris fecerunt teſtatam,unuinig lele familia res multis pijs actionibus et facrificijs effecerunt, femel fato functos nonredu cunt,fedomnia extingui finunt. Idaute Gita é,ſcias deos aliterinſtituturos fuif fe,& aliter fieri expediuiſſet.Nam fieraj iuſtum, erat utiq etiam poſsibile: ac di erat secundum naturam, certe naturaid tulisset. Quod ergò res nó ita habet Si tamen non ita habet,id tibi faciatfidem non fuiſſe ex uſu, ut aliter quàm eft fie ret.Vides enim ipſe quoquete, dúhoc fcrutaris, cum Deodeiure diſceptarc. Atqui non hocmodo cũ dijs colloque remur, nili cos optimos eſle &iuſtiſsi mos putaremus.Si autem tales funt, ni hil certè in rerum difpenfione iniuftè accontra rationem neglectumpręteric runt. Ad sue facte ad ea etiam, de qbus de ſperas.Etenim læua manus, cum adalia obeunda ſitinhabilis,propterca q non conſueuit: tamen frænumfortius quàm dextra continet. Qualete corripiecmorscorpore et ani mo?Conlidera uaftitatem æui quod an te & poft te est, brevitatem vitæ, materiæ imbecillitatem. Causas ipsas ab integumentis nudas inspice. Quo referantur actiones vide. Quid dolor, voluptas, mors, gloria, quis sibi ipsi occupationum sit causa.Neminem ab alioimpediri, omnia opinionibus constare. In uſu placitorum Gimilem oportetel ſe pancratiaftæ, nó gladiatori:hic enim enſem quo utit li deponit, interficitur, alter verò manum semper habet paratam, camg ut ex uſu eſt conuertit. Huiuſmodi res conſiderandæ ſunt, diuiſione earum facta in materiam, formam et respectum. Quanta est potentia hominis? Cui licet nihil aliud facere, qid,quoddeus sit laudaturus et amplecti omnia quæ ei Deusobtulerit. Quodad naturam conſequitur,eius cauſa dei non ſunt culpandi, nam nex volentes,neg inuiti peccant nec hoíes. Quamridiculus clt & perigrinus, qui ratur ca quæ in vita fiunt. Omnia funt aut neceffitas fatalis,at que ordo ineuitabilis, autprouidentia placabilis: aut confufio inanis & nul lum habés pręfectum.Quòdfi eft necef fitas ineuitabilis, quid reluctaris? fin p uidentia quę admittit placationcm, dignum præbe teipſum diuino auxilio. Sin confufio eft, cui præſtnemo,conté tus eſto, gin tanto rerum fluctuipſe in te habes mentem: quòd ſi te abripiat æftus,abripiat ſanè corpuſculú, animu: lam,acreliqua:mentem quidemnó ab ripiet. Quaſi uerò lumen candela tanti ſperluceat dum extinguatur, ne @ splendorem amittat: Veritas autem in te et iustitia et temperantia ante obitum tuú extingui debeat. Siquis deſe opinionem peccati præ beat, cogita:ecqd nofti, finepeccatú? ac fi peccauit:quid ſiipſe ſeipſum dam net, ide perindeeſt ac ſuum ipfius lædere oculum. Qui autem prauos pecca renon uult eius limiliseft, quinon uult ficum in ſuo fructu fuccum ferre, infantes plorare, equum hinnire: acli quz ſunt alia neceſſaria.Quid enim aliud faceret, quihuncfibi habitum contraxit. Si igitur trux eſt, cura eum morbum. Sinon conuenit,neagas:& non eſt uc rum,ne dicas. Tui animi motusita Gint compoſiti,ut omnia circunfpicias.Co gita, quid fit quod cogitationem tibi commouet: idğ excute dividendo in causam, materiam, respectum, tempus, intra quod ea resdesinet. Senti vel tan dem, elle aliquid in te præſtantius ac di uinius quam ca ſunt, quæ affectus ciét, ac quæ te mouent. Quid enim est intellectus? nummetus, nu suspicio, num CUPIDITAS, num aliquid aliud tale? Primò cogita nihilfruſtra eſſe agen dum, neq quod non aliquò referatur: deinde, ut non aliò ĝad ſocietatehuma nā referatur. Paulo post nusquam eris, nec quicquam eorum quæ núc cernis nco quisq eorû q núc uiuunt. Omnia cnim nata ſuntitaut mutétur, vertatur et pereant, ut in eorum locum alia na ſcantur. Omnia opinione cóſtát:hęc aúteſtin tua poteſtate. Tolle igit,cu lu bet,opinioné,eritộtibi tanĝ pronto riú præteruecto oía ſerena, & linus flu etibusuacans. Nulla, quçcung ca fic actio malú aliquid patitur,fi ſuo tempo re definat: icutnesis, qui agit, ca róc aliquid mali accipit. Itidem & corpus omnium in uniuerſum actionú, quod eſt uita,li ſuo tempore deſinat,nihilma li ea rationcpatitur:neqisquioppor tunè finem facit ſeriei iftiactionú,malú aliqd' fecit. Tepusucrò debitum et terminum natura costituit. Aliquamdo et privatim utin senectute. Oio aut univerli natura. Cuius quidem partib.mutatis, fem perrecens & uigesmundus perdurat. Seper uerò id pulchrū é & fpecioſum, o códucit uniuerſo.Finisita g uitæ, în gulis mala quidẻ có nó pót.gene cúnố fit turpis: quippe necuolútate ènoftra depédens,&àfocietate nó aliena. Bona aútfit: cú & opportune fiat reſpectu u niuerli, & profit, &diuinitus accidat. His cogitatis, tria hæcin,pmptu habe. Primúut in agendo cures, ne quid fru Itra agas, aut fecus quàna ipſa iuſtitia e giflet:in rebus extrinſecus accidentib. easfortunæ nutu,aut puidétiæ obtigif fe:quarú neutra éīcuſanda. Secundum, qua le unum quodlibetam privatioe fuéritufa dum animam accepit,indeý,donccca reddidit:ex quibus conflatum fit et in quæ diffoluatur. Tertium,ſurſum elato animo humanas res intuere, earumý multiplicem uarietatem: quàm multa circùm in aëre & inætheréhabitét:caſ te uiſurum, quoties in ſublime attolla ris: utſintomnia.unius ſpeciei, & breui tempore durent. Hisne superbimus? Eijce opinionem, & faluus es. nemo id prohibebit. Rem aliquam moleftè ferés, oblitus es omnia fieri fecundum uniuerfi natu rā; &quod peccatum fit alienum:præ terea omnia ita ut nuncfiunt, femper fa eta effe, & futura,núcý fieri ubiq:item quæ homini fit cũ uniuerſo genere ho minú coniunctio:nó ea ſanguinis autſe minis,fed mentis communicatio. Obli tus es etiam mentem uniuſcuiuſg eflc Deum et inde fluxiſſe: nihil cuiĝpro prium effe, ſed illinc & fætum, &cor puſculú & ipſam animulā ueniſſe.Obli t'es oía uerſariin opinione, gid tm qd præſenseít,unuſquitg uiuit, & amittit. Crebrò apud animú tuú recole cose certis de rebus nimium sunt indignati, qui maxima gloria,calamitate, inimicitia, aliáue quacüq fortuna effloruerút. Deinde quære, ubi nam sintista. Nempe fumus sunt, & cinis et fermo. Aut ne hoc ipsum quidem. Simulad mentem tibi accidat, qualia Gntomnia. Ut Fabius Cattullinus rure, Lucius Lupus in hor tis obijt, Stertinius Baijs, Tiberius Caprei, Velius Rufus Et omnino opinionis cauſa diſcrimě inrebus indifferentibus ftatutum.Tum quàm uile fit omne quod reliſtit. Item quanto magis fit philofophięconfenta neum, in data materia tueri iuftitiam, modeſtia,ac fimpliciterdijs obſequi.Fa ftus enim qui ſuperbiæ uacuitatem o ſtentando exercetur, omnium eſt gravissimus. Qui quærit cur Deos colas, quomo do eos uideris, aut elle deprehenderis, ei reſpondebis, primùm efle cos uigles: deinde absqz hocſit, tamen animam me am cum non uideam,nihilominusma gnifacio:ita Deosquoq ex uiribus co rum quas identidem percipio,cùm eſſe intelligo,tum ueneror. In cò ſita eſt uitæ falus, ut fingulas res totas intuea ris, quid in iis formæ sit, quid materiæ: toto ało ageut iufta agas et vera dicas: Quid enim superest, q ut fruaris uita bo nis bona annectédo,ita ut minimú ſpa cium intermittas. Vnú eftlumenſolis, ét fiintercipiaturparietibus, muris,alijs innumeris rebus. Vnaeſt communis na tura,etſi certo modo affectis corporib. infinitis diſtincta.Vna anima, et si naturis in numeris,proprijs circúſcriptio nibus diſtributa uideatur. Una étmens, etsi discreta uideat.Reliquæ proinde di ctorum partes,tanquam ſpiritus & ſub iecta inſenſata, & inuicé nihilcóiunctio nis habentia, tamen ipfa quoqà mente & eius potentia continentur.Atpecu liariter intellectuseiuſdem generis ad iungit ſe naturis, neo a societate divellitur. Quid quæris? Ut vivas? Id est sentire,appetere,creſcere,deſinere, loqui, cogitare. Quid horú deſideratu dignu est? Quod Guilia sunt oia hæc,ad extrc mú te cófer, népe ut fequaris rationem &Deú ducem. Sed utrum huic instituto pugnat, ægrè ferre aliquid, an uerò morsid abolet? Quanta pars immenſi infiniti ę ui attributa eſt unicuiq? celeriterea in æternitate euaneſcit. Quanta pars universi? Quantas est univers? quantula in glebula terræ repis? Hæc omnia tecum cogitans, nihil animo magnum conci pe, hoc tantum, ut ductu naturæ agas, &feras quæ communis fert natura. Id cura, quomodomens tua ſeipſa utatur. In hocenim ſunt omnia. Cætera fine à uoluntate dependeant,quc ſccus, mor tua ſunt, fumus. Id maximè ad contemptum mortis facit, phi ét,qui dolore in malis, &uo luptaté in bonis duxerüt, tamen ea dei fpexerunt. Quiid tantùmboninom nc dignatur, quod eft opportunum, ac cui perinde eſt pluresne an pauciores fecundum rectam rationem præftiterit actiones,negin aliquo ponit diſcrimi ne,lógioréné an brcuiori tempore mű dum contempletur, ei mors nequaqua eſt terrori. Heustu, ciuis fuiſtiin hac magna urbe, adattinet, utrum quinquénio? Etenim quod secundum leges, id omni bus est æquum. Quid ergo grave accidit, si te urbe emittit dominus. Non is quidem iniustus iudex, sed natura quæ te introduxit; perinde ac fi prætorhi ſtrionem emitrate theatro, in quod cum introduxerit. Quod fi is dicat, fenon quinque, sed tres modo actus recital fe, recte dicet. Atvero in vita tres actus fabulam implet. Finem enim is determinat, qui et concretionis olim fuit et nunc est dissolutionis autor. Tuneutrius es causa. Discedeigitur æquo animo. Nam. &is qui te dimittit, propicius tibi est. Riconosco da Vero, mio avolo, la piacevolezza de’ costumi e'l non adirarmi. Dalla riputazione e ricordanza di mio padre una modestia virile. Dalla madre, la pietà verso gl'iddii, la prontezza nel donare ed il contenerini non solo dall'onprar male ma dal fermarmi cicziandio col pensiero. Ancora la semplicità nelle vivande e l'esser lontano dal vivere dovizioso. Appresi dal bisavolo di non frequentare le pubbliche ragunanze, e di valermi in casa di buoni maestri, col conoscere che in questo è di mestiere lo spendere senza risparmio. Dall'aio, di non parteggiare ne co' prasiani ne co' veneziani, ne co’ palmulari ne con gli scutari. Ditrava gliar volontieri, d'abbisognar di poco, d'operare da me medesimo, ne di troppo infaccendarmi, e difficilmente ammetter le calunnie. Da DIOGNETO, di non perdermi in cose vane e non prestar fede a ciò chei prestigiatori e gli stregoni dell'inicantare e discacciare le demonia e di altre cose tali si vantano, di non nutricare coturnici ne perdersi circa si fatti trattenimenti, di sopportare l'altrui libertà del parlare, D'ESSERMI FATTO DOMESTICA LA FILOSOFIA, l'haver udito primieramente Bacchio, appresso Tandaside, Marciano, l'haver composto nell'era puerile dialoghi, e di contentarmi di uni letticciuolo e di pelle e di tutti altre cose alla greca. Da Rustico: di formar in me concetto che i miei costumi habbiano bisogno di correzione, e di coltura, di non divertirmi all'imitazione de' sofisti, di non comporre sopra MATERIE SPECULATIVE e di distendere orazioncine efore tative, overo con altrui stupore ostentare di esser huoino di A vita rigorosa e benefico, di lasciar la rettorica, la poetica e l'elegante parlare, e no andar con l'abito solenne per casa ed usar si fatte cose, e discriver letteruzze semplicemente, come da lui medesimo fu scritto da Sinoessa a mia madre, di rendermi senza indugio reconciliabile co’ quelli, che danno qualche disguſtoso commettono qual che errore, subito ch'e'volessero ritornare al buono, nella lettura non contentarmi di passarla superficialmente ma con accuratezza, di non esser inconsiderato in dar l’assenso a ciarle e che leggessi i commentarii d'Epitteto, prouedendomi d'un esemplare di quelli ch'egli teneva in casa. Da Apollonio, il proceder con franchezza, con una ferma costanza senza vacillare e non rimirare ad al ître por grande che fosse, che alla ragione e l'esser sempre il medesimo ne' dolori più acerbi, nella perdita della prole e nelle lunghe malattie, dal vivo esemplo di lui riconobbi che può l'huomo esser fiſo e inficmemente rimer ſo. Era egli non tedioſo nello fpiegare;e ſcorgeuafi vn huo. mio, che riputaua ben chiara mente l'infima delle ſue doti la pratica, e ſpedita maniera dello ſpiegare i Theoremi. Da lui ancora imparai come biſogni riceuer dagli amici le grazie, ſenza rimanerne perciò oppreffo,nemeno co me inſenſato ſprezzarle. Da Seſtola piaceuolezza el'eſempio d'vna.caſa guida ta con carità: Il proponimen to di viuere fecondo natura: Vna grauità ſenz'affettazio ne:L'inueſtigare attentamen te il guſto degli amici: Il tollerare gl'idioti, e quelli, che opinano ſenza conſiderazio ne:L'effer con tutti confacce uole, ficchè la sua conversazione aggradiua aſſai più di qualſivoglia anche luſinghe uole adulazione; ed era in quello ſteſſo tempo ſomma mente riyeriro da quelli, che feco erano: E di più yna ap prenſiua nell'inuentare,e diſ porre con buon ordine le maffime neceſſarie al viuere. Non moſtraua mai alcun fe gno ne dira,ne d'altro affetto maera aſfai lontano da tutte le passioni; ed inſieme eglice lebraua, e lodaua gli altri, ma ſenza ecceſſo; ed era di gran sapere senza ostentazione. Da Aleſſandro Gramatico, il non ilgridare, ne riprén dere ingiurioſamente, ſe al cuno cometteſſe Barbariſmo, o Solleciſmo, o altro,chenon bene fonaua; ma con bella maniera ſuggerire quel tanto appunto, che ſi douea dire, apportandolo per cagione di riſpoſta, di confermamento, o di conſiderazione ſopra la coſa ſteſſa, non ſopra la paro la, o con qualch'altro manie roſo, e coperto auuertimento, 9 Da Frontone imparai qual ſia il tirannico liuore, la frode, e la doppiezza;e come tutti quelli chiamati da noi “patrizi” sieno in certa manie. m A 4 ra disamorati. D’Alessandro il platonico,non iſpeſſo, ne ſenza ne ceflità il dire, o fcriuere ad alcuno di non hauer punto di reſpiro; e per tal modo ſpeſſo eſentarſi dalle conuenienze che per l'affetto ſono douute a quelli, che con noi viuono ſotto preteſto, che li negozi ciaſſediano. Da CATULO di non havere in poca stima le querele de gli amicisancorchè foffero ir ragioneuoli; maprocurare di ritornarli nel solito stato; CO, sì ancora di celebrar di cuo re li precettori;le quali coſe fi rammentano di Domizio, e di Athenodoto: Finalmente di amare con vero affetto i figli uoli. Dal mio fratello Vero l'affezione verso i domeſtici; l'amor della verità e della giuſtizia. E per fuo mezzo hebbi notizia di Traſca, Elvidio, CATONE L’UTICENSE, Dione, e MARCO BRUTO; c mi formai nell'immagina zione vn reggimento di Re pubblica, con leggi eguali a ciaſcuno, e di vn Regno, che antepone ſopra tutte le coſe la libertà de' ſudditi. Dal medeſimo appreſi la negli genza difeſteiro, e la coſtan za nel PREGIAR LA FILOSOFIA, anteponendola a ciascun'altra cosa; e la beneficenza e la liberalità, non mai intermessa, lo sperar sempre bene e l’asicurarmi di esser AMATO DAGL’AMIICI. Non taceva, lasciando di fare la correzione a coloro, che conosce la meritassero sicchè a quelli, A 5 che gli crano caduti di grazia non lo tene celato. E non bisogna alli suoi amici conghietturare intorno a quello ch'egli voleva o non voleua, ma la di lui volontà e apertamente palese. Fu eſortazione di Massimo esser padron di se stesso, non lasciarsi aggirare in cosa alcuna ed esser di buon animo in tutti gli altri accidenti, ancora nelle malattie. Esser ben aggiustato ne' costumi, foane e onorevole e senza querimonia esecutore delle cose proposteli. E che tutti credessero ch'e' PARLA COME SENTE e che nel fare in nulla male opera. Di niente si maraviglia terriua: in niuna cosa e frettoloso o tardo o perplesso, i ne s'at accdioso o si faceva befe fe o vero era collerico o sospettoso, ma benefico, indulgente, e verace, e pare ch'e'e più tosto retto per natura, che corretto per istudio, ne giammai alcuno si tene da lui disprezzato ne manco presume di stimarſi di lui migliore e ſe fu faceto fu con modo. Appresi dal padre addotivo, l’imperatore ANTONINO PIO, la mansuetudine e la stabilità nelle cose già con esaminamento deliberare, di non esser vanaglorioso negli onori di apparenza ma amatore della fatica, operando di continuo, e di eſſer pronto ad v dir quelli che hanno da suggerir cose PER UTILE COMUNE,  Iin mutabile in dare a ciascuno quello che ſecondo il proprio merito gli era dovuto, ed esser discreto ad usar il rigore, come la moderazione, dove bisogna. Non era egli distratto con l'affetto verso de giovani ma al pubblico totalmente intento. Non merte GLI AMICI in necessità che feco cenassero ne bisogna che lontano peregri nafiero per lui, però lo trovano l'istesso quelli che per qualche necessità erano rima Ai indietro. E ricercatore ne'consigli esquisito e fermo. Non s'attacca ad ogni sufficiente indagazione delle opinioni che gli occorreno. Attento e a conseruarsi GLI AMICI de quali mai non si attedia ne pazzamente amavali e si contenta d’ogni cosa con volto sereno. L’antiuedendo, e preordinando di lontano, eziandio le coſe minime senza strepito. Non vuole sentirsi d'attorno ne acclamazioni ne adulazioni. Tenendo in buona guardia le cose necessarie al principato, e sempre provveduto di ciò che a quello fa mestiere, sopportando con pazienza se di questi e simili rigori viene tacciato. Non e superstizioso circa gl'iddii ne quanto agli huomini troppo popolare, cattando l'aura della plebe, ma in tutto attento, e ſodo, non dimenticando mai il convenevole. E quelle cose che conferiscono in qualche modo agli agi della vita delle quali la fortuna gli tera stata liberale;vfaua ad un’ora senza fasto, e iſchiettezza, dimodo ch'egli godeua indifferentemête del le preſenti, non bramando ciò chenon haueua. Non vi fu alcuno; che diceſſe di lui che fosse Sofista, o Caſalingo o pedante; mavn perſonag gio maturo,perfetto,ſuperio. re alle adulazioni, capace a gouernar ſe ſteſſo e gli altri; ed oltre ciò onoraua quelli, che veramente eranoFiloſofi; tuttauia non dileggiava gli altri.Era di più nelle conuer fazioni huomo compagncuo le, egrazioſo, peròfenza te dio.Del proprio corpo tene ua cura quanto conueniua, non come huomo del tutto dedito a prolungare la vita, o per fare il bello, però ne meno con traſcuraggine, ma in maniera tale, che col propio riguardo aſſai rade vol. te haueſſe biſogno di medi camenti, o al di fuori epitçi marſi. E ſpezialmente cedeua ſenza inuidia a que’tali, ch'e rano dotati di qualche facul tà, come a dire, o di ben lare, o dinotizia per via d'if toria, foſſe di leggi, o foſſe di coſtumi, o di altre fi fatte co ſe; anzi ſtudiauaſi che ciaſcu ņo ſecondo il proprio talen to acquiſtaſſe nome e crediato. E facendo ogni coſa ſe condo gl'inſtituti de'maggio. ri,non perciò veniua ad appa fire rigido guardatore dell' antichità, non efſendo amico di muouerſi leggiermente, ſuariare,ma di diinorare ſem pre ne'medeſimi luoghi, ed affari. E dopo i paroliſmidem dolori di teſta tornania ſubito freſco, e vigoroſo alle ſue ſoli te operazioni.Egli non hauea ua di molti arcani, ma po chiſſimi, molto radi, e queſti ſolamente circa gli affari del comune. Andaua con pru denza, e miſura nel conce dere gli ſpettacoli, nelle fab briche pubbliche, e congia rij, e ſimili opere, fi come colui, che riguardava a quel to, che conueniuà di fare e non alla gloria, che dal te coſe fatte ne era per ri fultare: Non vſaua bagni fuor di tempo,non era vago di edificarc, non inuentore di viuande, ne di teſſiture, etine ture di drappi, ne ambizio fo di ſeruirù di bella preſen za. A Lorio ýſaua la tonica cheſe gli prouuedcua dalla balla villa, e così sſana ordinariamente per Lanuuio: ma nel Tuſculano per ſoprauue fta yn tabarro; e di tal licen za ne faceua come ſcuſa. Era inſomma tale il ſuo tenor di viuere, non diſguſteuolc, non iinmodefto, non eccedente nelle ſue azioni, ne comeſi dice in prouerbio, Infino al ſudore; ma tutte le coſe fue ſi annouerauano così ben dif poſte, come ſe foſſero fatte a bellagio, placidamente, or dinatamente, con ogni vigo re, e conſonanza fra diloro. Onde a propoſito di lui ſi po teua dire, ciò che di Socrate ſi racconta ch'egli poteua aſtenerſi, e goderſi di quelle coſe, delle quali molti, e ncll? aftenerſi s' indeboliſcono, e nel goderle ſi moſtrano in temperanti. Ma l'eſfer padro 3 nic di ſe, e lo ſtar ſaldo, e sobrio nell'vno e nell'altro, è da huomo, che ha l'animo ben aggiuſtato, ed inuitto, come ſi vide nella malattia di MASSIMO. Dagl'Iddij riconoſco l'haucr hauuto buoni auoli, buoni genitori, buona ſorel la, buoniprecettori, buoni dimeſtici, parenti, amici, e quaſi ogni coſa buona: che, niun di loro inconfiderata mente io offendeſfi, benchè con tal natural diſpoſizione', che ſe foſſe venuto il caſo, io vi farei traboccato. Tuttauia per grazia degl'Iddij non ſe gui tal combinamento di co le, che ſi diſcopriſſe queſta mia inclinazione: E che io no foſſi più lunga mente alleua to appreſſo la concubiņa di mio auolo, come dell'hauer conferuata immacolata la mia pubertà; e che io non mi riſentiſsi d'eſſer in età virile prima del tempo, anzi in ol tre d'hauer indugiato dopo che io peruenni a quell'età: L'effereſtato ſoggetto ad un Principe padre, il quale era per farmi por giù ogni altcri gia, e per farmi appréderc che ſi può viuere in Corte ſenza che ſieno necaffarie le guardie, le veſti ſegnalate, le cerimonie delle fiaccole, e delle ſtatue, o altro ſimile ap parato; ma che ſia lecito il trattarſi sù l'andare di priua to,ne quindi auuilirſi, o de primerli per far quello, che conuiene ad vn Principe in riguardo del pubblico go uerno · Ancora d ' efformi tocco in forte vn fratello tae le, che poteua co’ſuoi coſtu. mi eccitare in me vn eſatta cura di me ſteſſo, mentre in-: fieme con l'onore, e con l'a more mi ricreaua: D'hauer hauuto figliuoli d'indole non tralignante, ne di corpicciyo lo mal fatti: Che io non fa ceſſi maggiori progreſſi nella Rettorica, e nella Poctica, o in fi fatti ſtudij, ne'quali for fe mi ſarei troppo ſuagato, ſe mi fofſi auuiſto che in quelli felicemente m' auanzaua: Che io preueniſſi di colloca re nelle dignità i miei edu catori, concioffiecoſa che mi pareua eli lo defiaſſero, non nutrendoli di ſperan za, come che cffendo ano cora giouani poteſſero al pettare quello che poſcia io era per fare: Parimente d'ha uer io conoſciuto Apollonio, Ruſtico, e Maſsimo: Che ſo uente, e chiaramente mi li presétaſse nell'immaginazio nc la forma della vita c011 ueniente alla natura. Onde', per quanto appartiene agli Iddij per le ammonizioni,as ) iuti, ed iſpirazioni da eſsi co partitemi, non vi è ſtata coſa, che mi tolga il viuere rego lato alla natura, o che'l man camento non proceda al tronde, che permia colpa, e per non offeruare io gli au uertimenti, de'quali fui da lo ro come addottrinato: Che: il corpo mio fia durato nella ſorte divita, che io ho menato: Di non mieſſer non ſolo accoſtato ne a Benedetta, ne a Theodoto; mache ancora dopo dalle paffioni ' amore ho conferuato la men te fana: Che ſpeffe volte tro uandomi adirato con Ruſtico io no fia traſcorſo tantoltre, che me ne habbia hauuto a pétire:E che giacchè mia ma dre era per morir giouane, io viuuto ſia cô eſſa inſieme ne glivltimi anni ſuoi.Ogni vol ta che io habbia voluto fou uenire il pouero,o qualunque altro biſognoſo, non vdij mai che i denari, co’quali poteffi ciò fare mi mancaffero; ne mai accadde tal’vrgenza, che io da altri gli accattaffı. D’ hauer conuerfato con vna moglie tanto riuerente, tan.. to amoroſa, e tanto ſchietta: Che ho haluto buona forte negli educatori per li figliuo li: Che in ſognomifieno ſtati fuggeriti molti rimedij, prin cipalmente quello allo ſputo del fangue, e quello alla ver tigine; di ciò hebbi la grazia in Gaeta ed anco in Chre fa: Che, eſſendomi io dato al l'acquiſto della Filoſofia, non m'abbattei in qualcheSofiſta; ne conſumai il tépo in iſqua dernare ſcartafacci, ne in or dire, e ſoluere fillogiſini; ne mi ſmarrij tra le quiſtioni meteorologiche. Queſte co fe tutte riconoſco dall'aiuto degl'Iddij, e dalla loro for tuna; dimorando io nel pacſe de' Quadi preſſo il fiu me Granua. Di bel mattino ho così da predire a me ſteſſo: E’faci le che io m'incontri in tale, che ſia o importuno, o diſ grazioſo, o proteruo, o malizioso o invidioso, o nemico di ogni comunanza. Tutti queſti difetti prouennero in eſsi dall'ignoranza del bene', e del malc; ma hauendo io notizia della natura del be ne, che è l'eſfer'oneſto; e del male, che porta al no oneſto; ed eſſendomi inſiememente nota la natura di chi nel male pecca, poſciachè egliè a me, cõgiunto no tanto per la ſimi. gliáza del ſangue, e della ge nerazione, quanto per la mé te, la quale è comeporzione, della diuinità, ne ho da trar re conſeguenza,che non pof lo rimaner leſo da alcuno de detti difettuoſi;concioffiecofa che niuno mi auuilupperà cô le ſue ſconueneuolezze; e non ho da ſdegnarmi con chi è a me congiunto neodiarlo, im perocchè ſiamo fatti a fin di cooperare, come li piedi, le mani, le palpebre, e de i den til'ordine di ſopra con quel di ſotto. Il contrariarſi dun que l’yno all'altro è contro all'iſteſſa natura, e l'adirarſi, e lodiarſi è vn contrapporſi. Tutto quell'eſſer mio ſi ri ſolue ad vn pezzo di carnuc cia, ad vno ſpiritello, ed al la parte ſuperiore, ch'è la mente. Laſcia da parte i libri, ne coſa alcuna ti diſtragga. Ciò non t'è permeſſo: ma co me sul'orlo della morte ſprez za quella carnuccia, che con ſiſte in ſanguuccio, oſſetti, ed in vna teflitura tramata di nerui, venette, ed arterie. Conſidera ancora che ſia lo ſpirito? aura che mai non ri mane ľifteffa; ma ognora B fuori ſi ſpira, e reſpirando di nuouo li attrae.La detta terza parte dunque di noi è quella, che ci gouerna, circa della quale così hai da diſcorrere, Se' vecchio non hai da com portare che queſta più viua in servaggio. E che ſia più per violenza ſtraſcinata dall' im peto, ch'è alieno dall'huma na comunicazione; e che non fi prenda più faſtidio di quello, che cagioni il fato al preſente, o in auuenire. L ' opere degl'Iddij tutte fon ri piene di prouidenza; e quelle della fortuna non ſono ſenza concorfo della natura, o del la coordinazione, ed intrec ciamento delle coſe guidate dalla prouidenza. Quindi tut to ſcaturiſce. Aggiugni anco ra, che così èneceffario, conferendo all' vniuerfo Mondo, del quale tu se porzione e ad ogni parte della natura è buo no quello che porta la comu ne natura; e ciò che s'affà al la di lei conferuazione - Però con feruano il Mondo così le mutazioni degli elementi,co. me quelle de compoſti. Que Ite coſe a te ſieno ſufficienti, e perpetui decreti. Caccia ľ auidità de'libri per non mori re fufurrando, ma con vera placidezza, ringraziando di tutto cuoregl'Idddij. Ammcntati da quan to tempo in quà se? andato differendo queſte co ſe; e quante volte de termini, a te aſſegnati da gl'Iddij, non ti ſe’valuto.Biſogna vnavolta che tu riconoſca di qualMon do ſij parte; e da qual Rettor del Mondo deriui: E come ti è ſtato circonſcritto yn termi ne di tempo, il quale, ſe tu ben non te ne varrai per tran quillarti, trapaſſerà, e tu con esso, leſſo;ne ritornerà più. 2 Sta totalmente, e in ogni tempo intento, come conuie ne ad yn Romano d'animo forte, e maſchio, ad ele guire quello, che hai tra ma no, con attenta, e non affet tata grauità, con humanità con libertà, con giuſtizia, con dar poſa a te ſteſſo, rimo uendo ogni altra immagina zione; E allora la rimouerai, quando facendo qualche a zione riputerai eſer l'vltima della tua vita, lontana però da ogni temerità, e da ogni appaſſionata auuerſione alla retta ragione, dalla diſſimu lazione e dall'amor di te ſteſ ſo, e da qualſiuoglia diſpia cenza alle coſe a te per fatali tà congiunte. Tu vedi quan te poche ſiento quelle coſe, le quali poffedendo, potrà vno viuere felice, e diuina vita; poſciachè gl'Iddij niente di più domanderanno a colui, che queſte tali coſe oſſerua 3. Rimprouera, o anima,rim, prouera a te ſteſſa, come t'è ſcorſo il tempo per propria mente honorarti, eſſendo che la vita comunemente ſe'n fugge;ela tua è già quaſi su I'vltimo, riponendo la tua fe licità nell'opinione degli ani mialtrui. 4 Perchè fe diſtratto dagli ac. cidenti ch'eſtrinſecamente di foprauuengono? Proccura del l'ozio a te ſteſſo, per appren dere qualche bene; e ceſſa da aggirar la mente. Inoltre hai da guardarti da vn'altro ſua. ria mento: Imperocchè alcu, ni quaſi delirano con le loro aziani: cioè quelli, che tra uagliano aſſai nella vita, ne hanno fine certo, doue indi rizzino ogni inclinazione, e tutta quanta la loro imma ginazione. $ Non fi vedrà facilmente alcuno eſſer infelice, perchè non comprende quel, che ſe gua negli animi altrui: ma è Forza cheinfelici fieno quelli che non offeruano i moui menti del proprio animo. Egli èmeſtiere che ti ri cordi fempre delle coſe ſe guenti: Qual fia la natura de principij vniuerfali, e quale la propria; ecome ſi riferiſca quefta a quella, equal parte ellaſia, e di qual vniuerfo: E cheniitno impediſce, che tu del continuo non facci, e non dichile cofe congruealla na B · til tura, della quale tu ſe'parte. Filosoficamente diſcor re Theofraſto intorno al far comparazione de'peccati, fe condo che più comunemente fi vſa tal paragonc, afferendo efſer più graui quelli,che per la concupiſcibile fi commer tono, di quelli, che per l'ira fcibile. Imperocchè l'adirato con qualche dolore, e occulto raggricchiamento dell'animo pare che ſi diſcoſti dalla ra gione; doue quegli, che pec ca per la concupiſcenza, vin to dal piacere, dimoſtra che in certo modo più da intem perante,e più da effeminato fdruccioli nel peccato. Retta mente dunque, e da filoſofo proferì, maggior colpa incora rere chi pecca con piacere, che qucgli, che pecca con dia ſpiacere: E in ſoinma l’ynos" assomiglia più a colui che per innanzi habbia ricevuto qual che ingiuria, e che, forzato dal dolore, entra in collera;l altro ſpontaneamente fi muor ue all'operare ingiuſtamente, portato a ciò fare dalla con cupiſcibile. 8 In tal modo hai da con durre P opere, ei penſieri, come tu foſſi in punto per vſcir di vita. Ne il dipartirti dagli huomini ti ha dapeſa re; poſciachè, eſſendoci gl'I & dij, quefti non poſſono mai indurre al male; fe poi gl'Iddij non ci foſſero, o nonhaueffen ro alcun penſiero delle coſe humane, che mi giouerà di viuere in yn Mondo manche: uole degl'Iddij, e doue mans chi la prouidenza?Ma e gl'Id BS dij cifono, ea cura loro ſono le coſe humane; e acciocchè lº huomo non cadetle in quello che veramente è male, il tut to ripoſero nel ſuo volere. Nell'altre coſe, ſe vi fofle del male, haurebbero pure in torno a queſto prouueduto, a cagione che niuno mai vi pericolaffe. E in vero quello che non può render la perfo na peggiore, come potrà far peggiorela vita ſua?La natura dell' vniuerfo ne ignorante mente, ne ſcientemente, ma per non poterle preferuare,ne taddirizzare le haurà trafcura te Ella certamente non com miſe sì enormepeccato, oper mancanza del potere, odel fapere, che i beni, eimali ac cadano vgualmente, e indif ferentemente agli huomini buoni, e a imaluagi;giacche la morte e fæ vita la gloria e'l disonore, il trauaglio e I pia cere la ricchezza e la pouertà; e così fatte coſe auuengono vgualmente agli huomini si buoni, si cattiui, non hauen do elleno in ſe nedell'oneſto ne del difoneſto; dunque non portano feca ne bene, ne male O come il tutto ben pre fto ſuamiſce!NelMondo i pro prij corpi, e dopo anche col tempo le memorie di effi fi dileguano. Di tal condizio ne fonotutte le coſe ſenſibilis e ſingolarmente quelle, che adefcano col piacere', o che atterriſcono col tranaglio, o per lo faſto ſono applætrdite, quanto fonovili,diſpregevo Li, fordide, e facili acorrom B 6 perſi,e già boccheggianti? 10 Tocca alla facultà intel lettuale l'auuertire, che coſa fieno quelli, nelle opinioni, e voci de'quali fi conftituiſce la gloria: Che coſa ſia il morire; il quale, fe alcuno il contem pla per ſe ſteſio ſolamente; e conla diſgiunzione della con: fiderazione ne ſepari tutte l? immaginazioni, che con effo vengono rappreſentate, com prenderà non eſſer altro, che yn opera di natura: Onde da fanciulletto è l'atterrirſi ad vi opera della natura; e pure il morire non ſolo è opera + zione della natura, ma molto a quella conferente: Come s? vniſce l'huomo a Dio; e con qual parte di ſe, e con qua ! maniera ancora tal particella dell'huomo all' ora è affetta e diſpoſta.  II Niuno è più miſerabile di colui che s'aggira per tut to a rintracciare ogni coſa, e Va razzolando comecolui dice fin nelle viſcere della terra; e an cora va cercando per con ghietture quello, ch'è negli animi altrui, non accorgen doſi che gli ſarebbe a baſtan za di paſſarfela bene col ſuo genio, e riuerentemente ſe condarlo, eſſendo dentro di lui. Queſta offeruanza però conſiſte nel preferuarlo puro dalle paſſioni, dall'eſſerarro gante, dalli diſguſti,che ſi pi gliano per quello che venga da gl'Iddij, o dagli huominis concioſliecoſa checiò, che vi: ene dagľ Iddij per la virtù s? ha da venerare;quello cheda: gli huomini, s’ha da amare per la congiunzione della natura: anzi alle volte in yn certo mar do fono degni di compaſſione, per non conofcere il bene, e il male; ne queſta ignoranza è minore dell? offüfcazione di poter diſcernere il bianco dal nero. Eziandio che tre mila anni ti rimaneffero a viuere e di più altrettante decine di migliaia', nondimeno ricor dati che niuno perde altra vita, che quella, cħeviue', ne altraviue;che quella cheper. de.. Al medeſimo dunque fi riduce così la vita funghiffima, comela breuiffima. Perchè quello, ch'è preſente, a tutti & vguafe,benchè quello, ch'è perduto, a tuttinon è va guale; ecosì quello, che & perde, pare chefiavn attimo folo. Imperocchène il paffatoy, neil futuro da niuno ſi perde; concioſliecofa che quelloche non ſi ha, come può eſſere tolto da veruno? Però dique ſte due coſe è da ricordarſi: l'vna, che dall'eternită tutte le cofe fono ſtate ſimili, vol. tandoſi in giro, e non v'è niu na differenza, ſe per cento, o per dugento anni, o pure per tempo indeterminato vedrai le medefime coſe: La ſecon da è, che colui, che lunghiſſi mamente ville, come quegli, che preſtiſfimo muore, refta no pareggiati nella perdita, mentre non vengono a rima ner priui, chedelpreſente, il quale ſolo hanno, eciò, che non fiha, non ſi perde. Ogni coſa ſta nell'opia nione, il che appariſce mani feſto dalli diſcorſi con Monimo Cinico. E chiaro farà l've tile di queſti diſcorſi, ſe da quelli ſe ne coglierà il midol lo della verità. Oltraggia ſe ſteſſa l'ani ma dell'huomo:Primieramen te allora che, quanto è per 0 pera fua, diuenta yn’apofte ma, o ghianduccia delmon do;mentre che chiunque mal volentieri prende quello, che il tempo porta, è vn ' diſtacs camento della natura, in par te della quale le nature di cia. fchedun degli altri ficonten gono:Secondariamente,quan. do ſi ha auuerſione a qualche huomo, o ſe gli opponeper danneggiarlo, come fanno que', che ſi adirano: Nel ter żo luogo tratta male fe me deſimaallora, che ſi arrende al piacere, o al dolore: Nel quarto, oue diſſimulando fina tamente,e ſenza verità, qual che coſa fa, o dice: Nel quin to, quando non indirizza l' azioni fue, eiſuoi moti à niun ſegno; ma opera a cafo, e ſenza congruenza; effendo neceſſario che ancora le coſe minutiſſime habbiano rela zione al lor fine. Ora il fine degli animali ragioneuoli è di ſeguire la ragione, e la leg ge della Città, e dell'anti chiſſimo gouerno. Il tempo dell' humana vita è vn punto: la ſoſtanza fluſſibile: il ſenſo caliginoſo: e la coagulazione di tutto il corpo facile a putrefarſi:lani moyn continuo rigiro: la for tuna difficile a conghietturarm fi: la fama vna incertezza  E per recare le inolte parole in vna: tutte le coſe corporali vna corrente, quelle dell'ani ma vn ſogno, e vn fuina d'ac qua: la vita yna guerra, e vor pellegrinaggio di vn viandan. te: e la famapoftuma farà di menticanza. Checofà è dun que, che pofſa fare durare 1 huomo Una sola  la Filosofia; e queſta conſiſte nel con feruare l'interno genio inno cente e ſenza taccia,ſuperio re a ' piaceri, e a ' dolori; che niente operi temerariamente, ne con bugiane con finzione: e che non habbia biſogno, che altri faccia, o non faccia. In oltre, che ben ricetia ciò, che auuieneso impoſto gli ſias come di là tutto auuenga, donde egli medeſimo è ve nuto; e ſopra tutto cheaſpetti la morte con animno ſërena, non: nonla confiderando, che co mevn diſcioglimento degli clementi, de'quali qualſiuo glia animale fi compone. E ſe agl'iſteſſi elementinon è ma. lala mutazione continua,che ſi fa di ciaſcuno di eſli in vn altro, per qual ragione hafli a temere la mutazione, e il di fcioglimento di tutti inſie me, giacchè è conforme al la natura e niente è male, eſſendo conforme ad effa? Fin qui a Carnuto. Ccoveredt gde jeunesse eos POS. Non è ſolamente da confiderare che la vitaſi va di giorno in giorno conſumando; e che di eſſa ne rimanc il meno; ma quel lo ancora fi vuole andar ri penſando, che quantunque yno viueffe eziandio d'au uantaggio, pur reſta quegli incerto ſe ſia per durargli la mente habile alla buona in telligenza degli affari, e di quella ſpeculazione, che ri chiede nel trattare le coſe humane, e diuine: Imperoc „chè fe comincierà perauuen. zura l'huomo a delirare, non perciò gli mancheran forze, ne il reſpiro, ne la facultà del nudrirſi, ne l'immaginatiua, ne gli appetiti,ne ſimili altre potenzc; ma s’eſtinguerà ben ſi affatto in lui quella del po terſi di ſe ſteſſo valere, e di perfettamente adempiere le parti del ſuo miniſtero, e di chiaramente ſpiegare i con cetti dell'animo, e di confi derare altrui, fe tal volta debba a ſe medeſimo dare la morte; e tutti finalmente quci ſimiglianti affari, i quali per ben riſoluere richiedel vn perfetto, e raffinato di ſcorſo.E'dunque da non iſtar fone a bada, non ſolo perchè la morte ſempre più s'appref ſa, ma perchè in oltre il ra ziocinio, e l ' intelletto noi fpeffe volte abbandonano innanzi alla morte. E'ancora da oſſeruare,che tuttociò, che alle coſe già dal la natura prodotte ſoprattuie ne, aggiugne loro yn certo che di bellezza, edi grazia; comeper eſemplo, quando il pane ſi cuioce, infrangonfi, e in varie guiſe apronfi four? eſſo alcune particelle di cro ſta, che fuor della creden, za, ed arte del fornaio co sì ſcrepolate con particolar compiacimento muouono P appetito. Così a i fichi, quan dogià ben maturi rompeſi la camicia; e allylive ſtagiona te, mentre principiano a pu trefarſi, fi viene ad accreſcere in tal particolare alletta mento: le ſpighe, che per lo pelo s' inchinano, il ſopraci glio del Lione, la baua, chc1 Cignale ſchiumando getta dal grifo, e altre coſe, delle quali, ſe ciaſcuna riguardaſi da per fe, appariſce lontana da ogni bellczza,per lo effe re all'opere della natura con giunte, recano a queſte orna mento, e agli animi deri guardanti diletto; Ondechi ha l'affetto e la conſiderazio ne intenta intorno a ciò, che vien prodotto nell' vniuerſo, quafi niente troverà anco nel le cofe, che a quelle addiuen gono, come neceſſarie pendi ci, che con qualche buona grazia non le veda congiu gnerfi. E così i veri digrignan ti grifi de viui animali non con ininor piacere rimirerà, che quelli, che con iſcherzo dalla pittura, e dal rilieuo ſo no rappreſentati; e vn certo vigorc, e vna certa maturità d'vna vecchia, o d'vn vec chio, non che la venuſtà de? fanciulletti, potrà con ben purgata viſta rimirare; e mol te ſimili cofe, che non ad ogn’vno ſaranno accette; ma ſolo a colui, che finceramen te ne'ſegreti,e nell'opere del la natura ſi ſarà internato. 3 Hippocrate, che haueua fanati molti infermi', amma latoſi egli ſe nemorì: I Cal-, dei a molti prediſſero le mor ti, ed eſſi poſcia furono dall: ora fatale portati via: Aler ſandro, Pompeo, e Caio Ce fare, hauendo intiere Città del tutto, e tante volte di ſtrutte, e tagliate a pezzi in battaglia molte decine di migliaia d'huomini tra fanti, e caualieri, eſſi ancora alla fi ne vſcirono di vita: Heracli to, dopo hauer con diſcorſo naturale trattato dell'incen dio del Mondo, gonfio le vi ſcere d'acqua, rauuolto in iſterco bouino, finì i ſuoi gior ni: Democrito da i pidoc chi, Socrate da altri vermi reſtarono eſtinti. A che quc ſti racconti? Entraſti in bar ca, nauigafti,approdaſti: Eſci fuora, e ſcendi; ſe pervn'al tra vita, iui ancora faranno gl'Iddij, eſſendo quclli per tutto "; ſe reſterai ſenz'alcun ſenſo, ceſſerai d'eſſere.ratte nuto tra i trauagli, ed i piace ri, e di feruire ad vn vaſel letto tanto inferiore, quanto la porzione è ſuperiore a quello, a cui ella ferue. Poi chè queſta è la mente, e il genio, doue quello terra, e putredine. 4 Non conſumare queila parte di vita, che ti riinane nel darti inipaccio,o penſiero de? fatti altrui, quando quelli non riguardino all vtile comune; altrimente tu reſterai impac ciato in coſa da te aliena, ro fiſticando, che faccia il tale, cd a qual fine e che dica, o penſi, o macchini, e altre co ſe ſimili, le quali ci fanno de uiare dall' offeruanza della parte, ch'è la propria di cia fcuno reggitrice. Concioffie coſa che biſogni nel diuilare ľ immaginazione, sfuggire ogni penſiero intempeſtiuo, e vano, e molto più quello, che habbia del vizioſo e del maluagio: Alucfare ancora vuolſi ſe ſteſſo a penſare ſolo a quelli particolari,de' quali, chi all'improuiſo t’interro gaſſe, che penſi tu adeſſo? tu polla con franchezza riſpon dere, ſenza interporre tempo di mezzo, queſto, e queſto; dalle quali riſpoſte ſubito manifeſtamente appariſca che i penſieri tutti ſono in te ſchietti, manſueti, come conuiene a i viuenti per l'hu mana comunicazione; e che, tu non ſei applicato ' a i piace ri, ne a qualſifia voluttuoſa immaginazione, non alle conteſc, non all'inuidia, o a i ſoſpetti, o ad altro, per lo che tu ti hauefli da arroſſire, diſcoprendo quello, che tu couaui per auuentura nell' C 2 animo. Giacchè vna perſona, così coſtituita, è quaſi vno degli ottimi, qual facerdo te, e miniſtro degl'Iddij,ſer uendoſi di quello, che den tro di lui riſiede Questo rende l'uomo illibato e libero da i piaceri, illeſo da ogni trauaglio, intatto da ogni ingiuria e ſenza vn mini mo ſentore di malizia, cam pione del maggior combat timento, da non eſſer ab battuto da paſſione alcu na, intinto nella giuſtizia in fino all'intimo, che con tut to l'animo ben riceue quanto auuiene, e quanto per defti no gli venga compartito. Non iſpeſſo ne, fuori che in grandi neceſſità, e che ſpet tano all' vtile comune, ri flettente a quello, che altri ſi dica, o faccia, o penſi, ſolo da vn canto intento a ' proprij affari, e dall'altro continu a mente attento a ciò, che per le contingenze dell' vniuefo a lui tocchi; acciocchè s'in duſtrij di rendere quelli di bella oneſtà compiuti, queſto reputi colmo d'ogni vtile e d'ogni bene. Concior ſiecoſa che, quanto a ciaſcu no viene dal fato deſtinato, fia portabile, e del bene ſeco portante. Ed egli tenga a mente, che a lui effcr dee fa migliare tutto quello che ha del ragioneuole, e che la natura dell'huomo richiede, e che dee applicare alla cura di qualunque ſi ſia degli aleri uomini.  Però non ha a vo ler dipendere dall' opinione così d'ognuno, ma ſolo di C 3 coloro, che viuono conforme alla natura; e dee offcruare quali ſieno quelli, che diuer famente viuono ilmodo, che tengono in caſa, e fuori, il giorno, e la notte, e quali, e con quali conuerſando ſi me ſcolino; Eper ciò non ſi ha ď hauer in alcun grado la lode di coſtoro, che ne meno fe fteſli contentano. Non opererai come con tro tua voglia, ne come ſcor dato del bene comune, ne ſenz' hauer prima ventilato efattamente l'affare, ne ritro fo; ne attenderai con bellet ti di vago dire a vanamente liſciare i tuoi concetti, non effendo ciarlone, ne troppo faccendiero. Iddio, ch'è in te, preſieda al tuo viuere da perſona virile, e nell'età auanzata, e di vita politica, e da nato Romano, e chema neggia gouerno. Sta in mo do tale apparecchiato e diſ poſto che alla prima chiama ta tu ſij pronto di ſtaccarti da i viui fi intero, che ti fia data credenza senza tuoi giuramenti o teſtimonianze altrui. Queſt'vno non manchi, ch'è tal ſerenità nell'animo, che non occorrono conforti efterni, ne di effere tranquil lato per opera d'altri: s'ha dunque ad cſſer per ſe ſteſſo retto, e non raddirizzato. 6 Se nella vita humana tu trouerai alcuna coſa migliore della giuſtizia, della verità, della temperanza, della for tezza, e in fomma fe altro meglio, che l'eſſer l'opera zione della tua mente sufficiente a ſe ſteſſa, acciò ca gioni, che tu operi ſecondo la retta ragione, e in ciò, che non può dipendere dal pro prio tuo conſiglio, al fato tu ti accomodi: ſe meglio dico di ciò tu truoui, od iſcopri,a quello volgiti con tutto l'a nimo, e godi dell'ottimo, che haurai ritrouato. Ma fe nulla t'appariſce, che ſia inigliore dell'iſteſſo genio, che in te riſiede, il quale habbia sottomessi a se stesso i proprij mori de'tuoiappetiti, ed eſamini le coſe. immaginate, e che dalle perſuaſioni, o alletta mcnti de' ſenſi, come Socrate dicea, ſia diſtratto, e con 1 affetto attento agli huomini, fi fia fubordinato agl'Iddij: Se di queſto trouerai eſſere ogni altra coſa inferiore, e più vile, non dar luogo nclla mente tua ad altra cofa veru na, alla quale vna volta che tu o propendendo, o decli nando aderifli, ſareſti ferma mente impedito a poter libe ramente preferire ad ogn'al tro il ſingolare, e proprio tuo bene; non eſſendo giuſto che al bene ragioneuole e operatiuo ſi contrapponga qualſiuoglia altro, che ſia in diuerſo genere, come fareb be l'applauſo della moltitudi ne, o la dignità, o le ric chezze, o il godimento de piaceri;tutte coſe le quali ha. uendo apparcnza, ancorchè in minimo, di adattarſi a noi, repentemente preuarranno, e ci rapiranno. Ondeio ti di co, attienti fchiettamente, e francamente al meglio; e С aderiſci a quellos e il meglio è quello, che a'te è di profit to; però ſe ſi confà, come a perſona ragioneuole, queſto riſerbati; ma ſe ſolo, come. ad animal viuente, riggetta lo, e ſenza gonfiartene,cuſto diſci il fologiudicio, per po ter formare vn eſame certo, e ſicuro. Non iſtimare giam mai, che ſia coſa conferente a te ſteſſo quella, che tal vol ta forzeratti a traſgredire la fede, mancarc all honore, odiare alcuno, ſoſpettare maledire, fintulare, ed ambi re qualche coſa, laquale hab bia biſogno di naſcondimen to di muri, e di velami. Im perocchè chi ſtima fopra tut to la propria ſua mente, e il genio, e l'operazioni della ſua virtù, quegli non fa azione da tragedia, non pia gne, non hannà biſogno di Itar folitario, ne della com pagnia di molti. Esquel che più importa, viuerà ſenza de fiderare, e ſenza sfuggire co fa alcuna; ne farà molto ca fo, ſe dell'anima circondata dal corpo ſe ne ſeruirà per più lungo, o per più breue tempo: acciocchè qual ora s'haueſſe a dipartire, così franco ſe ne vada, come ha ueffe a disbrigarfi di qualche affare, che gli conueniffe efe guire con decoro, e con ogni modeſtia: ofſeruando queſto folo puntualmente per tutta la vita, che i fuoi penſieri s. aggirino attorno qualche co fa, che ſia propria de viuen ti razionali, e ciuili. 7 Nella mente di perſona C 6 ben aggiuſtata, e purgata non trouerai niente di guaſto, niente di marciume, o che v'habbia fatto ſaccaia. Simil. inente. non troncherà il fato la vita di coſtui imperfetta, come ſi direbbe dell'Iſtrione, fe,auanti di finire, e compire il Drạmma,gli vditori all'im prouiſo piantaſſe. Di più non trouerai nulla di feruilc, ne di affettato, ne di appicci cante, ne di diſciolto che habbia biſogno d' eſſer corretto, ncd'eſſer ricoper ne to. Habbi in venerazione la facultà, che forma l'appren ſione, dependendo da queſta il tutto;acciocchè niuna opi nione s' inſeriſca nella tua mente, che non confcnta colla natura, e colla coſtituzione di viuente razionale: E queſta profeſſi di non cor rerc alla cieca, e che l'huomo fi confaccia con gli huomini, e verſo gl’Iddij ſia offequiolo. Rigettate dunque tutt'altre coſe, imprimiti ſolo queſte poche, e ſpesſo rammenta ti che da ciaſcuno ſi viue il ſolo momento preſente, il re fto l'ha gia viuuto, o gliè af fatto ignoto. Piccola adun que è l'età di ciaſcuno: Pic colo è il cantoncino della terra, dove ſi viue, e piccola, benchè lungi s'eſtenda, è a ' poſtuni la fama, proceden do queſta dalla ſucceſſione di homicciuoli, che preſto ſe ne vanno a morire, i quali non conoſcono le ſteſſi, non che colui, il qual di già lungo tcmpo morì. A'già eſpoſti auvertimenti s'aggiunga ancora di far ſem pre vna diffinizione, o de: ſcrizione di quello, che vie ne dall’iinmaginatiua rappre fentato acciocchè qual'è nudamente nella propria ſo ſtanza, e il tutto per tutte le parti diſtintamente, tu rico noſchi,e ſia a te ſteſſo eſpreſ ſo. e paleſato qual ſia il ſuo proprio nome, e i nomi di quelle parti, delle quali è compoſto, e nelle quali ſi ri foluerà. Perchè non è cofa, che a ſolleuare la generoſità dell'animo ſia più poſſente; quanto l'eſaminare con me todo, e verità ciaſcuna coſa che può accadere nella vita ': c riguardarla del continuo in tal modo, che tu comprenda inſieme a qual Mondo, qual vſo porgano, che poſto tena gano in riguardo dell’yniuer fo, e quale in riguardo dell' huomozil quale è cittadino di quclla ſopraniſlıma Cittade di cui le altre ſono come.abi. tazioni di famiglie: Che co fa ſia, o di quali principij ſia compoſto, e quanto tempo fia per durare quello, che al preſente m’imprime tale im inaginazione; e qual virtù in torno quello s'habbia da vla re: come a dire della manſue tudine, delle fortezza, della verità, della fede, della ſchiet tezza della contentezza, del la propria ſorte, e d'altre fi mili. Per lo che biſogna dire di ciaſcheduna coſa: Queſto viene da Dio, ma questo per fatale ordinazione, e conneſ fione delle cose del mondo o per una tale congiuntura, e fortuna: E queſto altro pro cede da vn tuo proſſimo, e congiunto, e teco conuer fante, ignaro di quello, che a lui pernatura ſi conuiene. Ma io che lo ſo m’auuaglio d' effo, fecondo le leggi naturali della comunicazione, con af fetto benigno, e giuſtizia; e inſieme nelle coſe indifferen ti, o mezzane mi ſtudio d' andar conghietturando, qual ftima a quelle habbiaſi a da re. Se tu, della retta ragione feguace, opererai quello che haurai dauanti ſtudiofa mente, validamente, placi damente, e non mirando ad altro che all'intrapreſo nego zio, anzi conferuerai il tuo genio puro, e conſtante, co me ſe già ti abbiſognaſſo di renderlo. Se dunque queſto offeru.crai, a niente altro at tendendo, niente fuggendo; ma nell'operazione, che hai tra le mani, conformandoti alla natura, e contentandoti d'eſprimere con verità eroica tutto ciò, che a dire intra prendi, tu viucrai felice. In vero non v'ha chi ti potra quefto impedire. u Comei Maeſtri del cu rare hanno ſempre alla mano gli ſtrumenti, e i ferri per ogni inopinata cura così habbi tu pronti i decreti a ri conoſcere per mezzo d'effi le coſe diuine e l'humane, in tutto ciò, che, quantunque mi nimushaurai da operare; ben ricordcuole come queſte fia no amendue tra di loro con giunte, non potendo far nulla, che appartenga agli huo mini, che per mera corriſpon denza al Cielojne per lo con trario. 12 Non andar più vagan do, mentre non haurai più da leggere i tuoi libretti di me morie, ne i fatti degli an tichi Romani, e Greci, ne le raccolte, che hai eſtratte da varij ſcrittori, le quali riſer bate t'haueui per la vecchia ia. Affrettati adunque ver ſo la fine, e abbandonando, mentre che t'è lecito, le va ne ſperanze, porgi ogni aiu to a te ſtello, ſe tu fe'a cuore a te medeſimo. 13 Gli huomini volgari non fanno quanti ſignificati hab biano le voci rubate, femina re, comperare, ripoſare; ne fanno diſcernere quello, che s'ha da operare: il chenon ſi fa con la viſta degli occhi, macon altra perſpicacia. Habbiamo il corpo, l'a nima, c la mente: Al corpo appartengono i ſenſi, allani ma gli apperiti, alla merite i decreti. Si formano le imma ginazioni ancora dagli ani inali bruti; ma il laſciarli trarre dagl'imperi degli ap petiti a guiſa di pupazzi tira ti con cordicelle, è cofa da beſtie, e da effeminaci, e d ' yn Falaride, ed'vn Nerone. L'applicarela reggitrice men: te all' apparenti conuenienze è ancora di coloro, i quali non tengono, che ci ſiano gl’Iddij, e che alle occaſioni abbandonano cziandio la pa tria, e che quando han chiu te le porte, fanno di tutto. Se dunque l'altre coſe ſono comuni alli già detti, reſta proprio dell'huomo dabbene l'amare, e abbracciare ciò che a lui auuenga, e che dal fato gli fia compartito, come il non rimeſcolare, e confon dere il genio, che nel mezzo del petto riſiede, ne pertur barlo colla moltitudine dell' immaginazioni: ma conſer varlo placido, e come a vn Dio, decenteinente portar gli riuerenza, ed oſſequio. Non proferendo mai parola, che tutta yera non ſia;ne fuo ri del giuſto facendo cofa al cuna. Se poi tutti gli huomi ni non crederanno, ch'egli fchicttamente, e oneſtamen te, e tranquillamente ſe ne viua, non però fi crucсerà con chi che ſia di loro; ne vſcirà mai dal dritto ſentiero, che lo conduce al fine della vita, al quale fa di meſtiere giugnerepuro,quieto, c pron to a diſcioglierſi, e acco- - modarſi di buona vo glia al proprio de ſtino. Nell interno che domina in noi quando ſi confor ma alla natura, reſta sì indif ferente a tutti gli auueni menti, che ſenza ripugnanza ſempre prontamente ſi tra fporta a ciò; ch'è poſſibile, e conceduto; Imperocchè non s'obbliga a materia deterininata; ma è facile verſo ciò, che gli venga propoſto, ben che con qualche eccezione; e quello, che in luogo dell eſcluſo è introdotto, s'appro pria come ſua materia, in guiſa del fuoco, quando nel le coſe, che incontra predo mina; dalle quali vna picco la lucernctta verrebbe e ſtinta,la doue vna gran fiam ma trasforma in ſe preſta mente tutto quello, che in nanzile è poſto, e lo conſu ma, e di quell'iſteſſo diuiene maggiore 2 Niun'opera ſi faccia a ca ſo, ne altrimente ſi eſegui ſca, ſe non conforme agli ammaeſtramenti di perfezio ne dell'arte. 3 Proccurano le perſone di ritirarſi nelle campagne,alla -50 he 9 or it 71 za 2. e 01 marina, e ne' monti, e an co tu queſti ſe' stato particolarmente ſolito d'amaro e queſta è coſa ordinarijfſima agl'idioti; eſſendo a te lecito in qualſifia tempo, che ti pia cerà, ritirarti in te ſteſſo. Ne c'è luogo per l'huomo di più quiete, e più lontano dalle faccende, per ritirarſi di quello del proprio animo; particolarmente ſe haurà in ſe formato tali concetti, che in quelli internandoti pron tamente rimanga in vna to tale tranquillità. Ne altro dico eſſere queſta calma che l'animo ben compoſto: Ritirati dunque ad oraad o ra, e rinnuoua te ſteſſo. Si eno però breui, è ordinati que' ricordi, i quali ad vn tratto fouuenendoti, ſaran no ſufficienti a liberarti dio gni moleftia, e di rimetterti nelle tue operazioni; alle quali ſenz' annoiarti farai ri torno. Poſciachè di qual co ſa pigti tu noia? forſe della maluagità degli huomini? Rammentati di quel decreto, che i viuenti ragioneuoli ſo no prodotti a pro \ vno dell'altro; e che il medeſimo ſofferire è part e della giuſti zia dell'huomo: e che quelli, che delinquono, no'l fanno di buona voglia; e quanti dopo hauere eſercitato l'oſti lità, i ſoſpetti, e gli odij, e trafittiſi ľ.yn l'altro, ſono morti e diſteſi ridotti in cene, re? quietati dunque vna vol ta. Ma tu non t'appaghi di quello, che dall' vniuerſo ti è ſtato diſtribuito. Richiama: D però nella memoria la pro porzione diſgiugnéte, che ci è, o la prouidenza, o gli atomi, o anco altre coſe, donde ben fi conchiude che il Mondo è in guiſa di ordinata Città. Se poi t'aggrauono le coſe cor poree, tu quì confidera che la mente, dopo che vna vol ta ſi ſarà in ſe ſteſſa raccolta, e haurà riconoſciuta la pro pria dignità, non ſi meſco ſerà con iſpirito, che venga ad eller morbidamente, o ru uidamente agitato. Aggiu gnidi più tutto quello, che del dolore, e del piacere tu hai vdito, e l'hai approuato. Mala gloricota ti diſtrarrà? Da vno ſguardo, come pre fto va il tutto in dimenti canza, e nel chaos dell'euo da amendue le parti immen fo, e nella vanità d ' yn rim bombo: e quanto mutabili, e ſenza giudicio fono quelli, che di noi poſſono formar concetto, e in quanto poco luogo tutto ciò li circonſcri ue; mentre tutta la terra è yn punto, e di queſta non è che yn cantoncello la noſtra abitabile; e quanti, e quali fono quelli, che ſieno per lo darti. Ricordati dunque di ritirarti in quella particella di te ſteſſo; e ſopra tutto di non ti diftrarre, e di non far refiftenza; ma fij. franco, e ri guarda l'opere da PERSONA VIRILE, D’UOMO, da cittadino, da viuente mortalc. Ma tra i ricordi più pronti e ſpe diti, i quali hai da conſide rare, fieno queſti due. L'yno, che le coſe iftcffe non s'at D 2 taccano all'anima, ma ſtan no al di fuori immobili; e che le turbazioni deriuano ſolo dall'opinione interna: l' altro è, che quanto vedi, queſto non iftarà guari a mu tarſi, e più non ci ſarà; e con fidera a quante mutazioni già tu ti ſe trouato, e di con tinuo tieni a mente, che il Mondo ſta nell'alterazione, la vita nell'opinione. 4 Se l'intelletto è comune, comune ancora è la ragione, mediante la quale noi ſiamo ragionevoli. E ſe è vero que ſto, eziandio la ragione, che comanda quello, che ſi deb ba, e che non ſi debba ope rare, ſarà coinune. E ſe è cosi, ſarà comune la legge; il che ammettendoſi, verre mo noi ad eſſer Cittadini; donde è, che hauremo da par ticipare di qualche Cittadi nanza; e conſeguentemente reſta il Mondo eſſere come vna Città. Concio ffiecofa che dirà alcuno: qual'altra Cittadinanza fitruoua fi co mune, della quale tutto il genere humano partecipi? E da queſta comune Città deriua l'iſteſſo effer noſtro in: tellertilo, e ragineuole, e le gale. O se quindi non ès-don de è perciocchèſi come quel lo, che è di terreſtre in me, da qualche terra a me ſi com, parte, el eſſere vmido da vn altro elemento, e l'eſſere fpiritale da qualche ſcaturi gine di ciò, e'l caldo, e l'i gneo da qualche altra pro pria ſorgente; imperocchè nulla prouiene dal nulla, co D3 me ne meno ritorna in quel che non è così anche l'intel lettiuo da qualche luogo fi comparte. 5 Tale è la morte, quale è la generazione, e ſono degli arcani della natura; queſta è miſtura degli elementi, e quel. la è diſcioglimento ne'mede fimi: In ſomma non ſe n'hà d'hauer vergogna, poichè non è contra la conuenienza del viuente intellettuale, ne repugna alla ragione della di lui conſtituzione, 6 La natura porta che queſte cofe da tali ca gioni nafcano neceſſaria mente; il che, ſe ad alcuno non piacerà, vorrà che'l frutto del fico non habbia lattificio. Quello in tutto, e per tutto rimanga nella mente, che tra breuiſſimo tempo tu, e quel tale vi morrete, e tra poco non ci ſarà, ne pu re il voſtro nome. Leua via l'opinione, che ſarà tolta la querela, che dice, IO SO NO STATO OFFESO, leua queſto dire: IO SONO STA TO OFFESO, e verrà tolta l'offeſa. Quello, che non fa peggiore in ſe l'iſteſſo huo mo, non renderà peggiore la di lui propria vita; e ne in ternamente, ne efternamen te l'offenderà. 7 La natura ad operare in tal modo per lo comune vti le fu neceſſitata. E ciò, che auuiene, giuſtamente auuie ne: il che ſe attentamente of feruerai, trouerai eſſer vero; ne per ſola conſeguenza di co, che è queſto, ma perchè D4 così vuole il giuſto; venen do da colui, il quale ſecon do il proprio merito, diſtri buiſce a ciaſcuno il ſuo.Of ſerua dunque tu queſto, co me hai dato principio; e nel fare qualunque coſa ado pera con qucfta oſſeruazio ne, e con lefſere huomo dab bene; ina di quella maniera, come s'intende propriamen te l'hucmo dabbene. Tutto ciò oſſerua in ogni tua ope razione. 8 Non farai concetto del le cofe fecondo il giudicio di chi t'oltraggia; ne come e quali eſſo vuole che tu le giudichi; ma conſiderale, quali eſſe veracemente ſono. 9 Debbonfi ſempre hauer in pronto queſti due punti: primieramente di non operare in modo diuerſo da quello che la ragione, Rcina, e leg gislatrice per l'vtile degli huomini fuggeriſce; ſecon dariamente d'effer facile a mutarti di parere, ſe qual cuno fi corregga, e rimuoua da qualche opinione; però queſto rimouimento s'ha ſempre d'appoggiare alla perſuaſione, che porti del giuſto,o del ben comune, O di coſe ſu queſto andare,non per compiacimento, ouero per apparenza di gloria. Hai tu la ragione? la tengo: Per chè dunque non te ne ſeruia Che vuoi cu altro, che que ſta, mentre ella fa quello, che è proprio di lei? 10 Come parte di queſto vniuerſo già ſe'ſtato conftitu ito, così tornando a chi t'ha DS fat 82 LIBRO QVARTO fatto, diſparirai, o più toſtoy con qualche mutazione, fa rai ripoſto nella ragione fe minále di quello. Di molte granella d'incenso su Piſteffo altare vna cade prima dellº: altre, purchè ſi conſumi mula la importa. Tra dieci giorni tu parerai vn Dio a quelli alli quali ora ſembri vna be ftia; e yna ſcimia, fe ritorni a ri pigliare i decreti, e la vene mazione della ragione. Non fare i conti come fe hauefli ancora a viuere più migliaia d'anni. Il debito fatalc fou raſta, mentre viui,mentre ti è permeſſo diuenta buono.. II Quanto di quiere d'ani mo guadagna chi non bada a quello, che'l vicino diſſe, o fece, o pensò, ma ben fi ſolo a quello, ch' egli ſteſſo fa, acciocchè l'opera ſua ſia giuſta, e pia?, nericercando va ſe altri ſia di buoni, o rei coſtumi, ma corre a dirittu ra per la linea, ſenza punto da efla ſcoſtarſi? I2 Chi dietro alla fama apoſtuma ſe ne va,come ſtor dito, non conſidera come cia fcuno di quelli, che di lui li rammenteranno, anch ' egli preſto ſe ne baſirà, e così di nuouo quegli ancora, chea queſto ſuccedera, finchè ogni memoria, per mezzo di huo mini, parte ſtupiditi, parte già morti continuata ſi ſpen ga.Mapreſupponi tu, che quelli che terranno di te me moria fieno immortali, e la memoria rimanga immorta le? ciò che gioua a te 2 ne ora parlo di quando tu fa D 6 rai nh ada Te ef 1 rai estinto, ma del preſente mentre tu viui. Che è la lo de ſe non certamente yn tal condeſcendimento d'huomi ni. Tralaſcia dunque, come inopportuni i doni della na tura, mentre che dipendo no dal giudicio d'altri. Del reſto tutto quello, che in qualſiuoglia maniera è buo no per ſe ſteſſo è buono, e in ſe ſteſſo fi riſtrigne; ne tra le fue parti annouera la lode; onde non diuiene ne miglio re, ne peggiore. il lodato. Queſto dico ancora di ciò, che volgarmente ſi chiama buono: quali ſono le coſe, che o per la materia, o per l' operazione dell'arte tali fi ftimano. Ed in vero quello, che è realmente buono, di che ha biſogno di nulla più certamente che la legge, di nulla più che la verità, di nulla più, che la buona mente, che la modeſtia Quale di queſte per lo eſſer lodata diuiene buona, o bia-, fimata ſi corrompe? forſe di uenta peggiore lo ſineralduc. cio, ſe non è lodato? non di rafli il medeſimo dell'oro, dell'auorio, della porpora, del pugnalett, del fiorellino, dell'arbuscello? Se l'anime ſempre du rano, come fin dall' eternità le può contenere in ſe l'aria? e come la terra i corpi rac chiudere de' ſepolti di tanti ſecoli: Poichenell'iſteſſo mo. do, che la mutazione, e la re ſoluzione di queſti danno luogo ad altri cadaueri,dopo eſſer per qualche tépo quag. giuſo ſtati, così l'anime poi chè ſono ſtate traggettate nell'aria, e trattenuteuifi al quanto, fi tramutano, e ſi ſtruggono, e s'abbruciano, ri tornando nella ragione ſemio nale del tuttoje in tal modo fanno luogo ad altre, che appreſſo vengono a ricongiu gnerſi. A queſto ſi riſponde, che ſuppoſto che l'anime du rino, biſogna non ſolo con cepire la moltitudine de'cor pi così ſepolti, ma quella an cora degli animali, che cia fcun giorno da noize da altri animali ſi mangiano; poichè quanto numero le ne confu ma, ecosì in yn certo modo ſi ſeppelliſce nelle viſcere di quelli, che ſe ne cibano de tuttauia capono in questo luogo per la traſmutazione in in sangue, in aria, e in fuoco. Qualeè intorno a que ſto la notizia della verità il. diuiderſi in materiale, e cau-, ſale. Non fi vuole andar con aggiramenti vagando, ma in ogni appetizione dell'animo deefi aſſegnare il giuſto; ed in ogniimmaginazione con feruare quello, che ſi è compreso. Tutto quello, che a cé, o Mondo, è conueniente, a me ancora ſta bene. Nulla è a me acerbo, o tardivo, che a te ſia ſtagionato; ogni coſa, che portano le tue ſtagioni, è a me frutto. O natura, da te deriua il tutto, in te è il tutto, e a te il tutto ritorna. Diffe colui; Amata Città di Ci tropese tu non dirai,Amata Cit tà di Gione? Intrigati di poco, diſſe, se tu vuoi ſtare coll' animo quiero Non è miglior cola, che far ſolo ciò, che è neceſſario, e quello, che la ragione all ' huomo,nato per la vita ciui le, detta, e nel modo, che lo detta. Imperocchè queſto non folamente reca la tran quillità, che dal ben fare procede; ma quella ancora, che dal poco operare.ti au uiene. Concioſliecoſa che; fe la maggior parte di quello che ſi dice, o lifa, non eſſen do di neceſſitade, alcuno ri ciderà, egli ſe ne ſtarà int maggior ozio,c meno ſturba to. Perciò biſogna in ciaſcu na coſa in particolare ricor darſi che forſe ella ſi è vna di quelle, che non lon neceſſa rie. Biſogna in oltre non ſo lo toglier vią l'azioni, che non ſon tanto neceſſarie, ma ancora l'iſteffe immagina zioni, perchè così non ſegui ranno azioni ſuperfluc. Fa prova, come ti rie fca la vita d'vn huomo dab bene, cioè, cheſi contenta di ciò, che dall' Vniuerſo gli vien aſſegnato, che ſi ſoddis fa del proprio operare giu ſtamente, e della ſua man fuera diſpoſizione.Hai confi derato queſto.2 rimira queſt altro; non ti turbare, habbi l'animo tuo aperto. Chi pec ca, contro di fe pecca. Ti au uenne qualche bene? Dal principio dell'uniuerso ti fu ciò deſtinatose intrecciato in ſieme ognaltro auuenimena to.In ſomma la vita è breue. Vuolſi guadagnare il preſen te gote con feguire la retta ragio ne, e la giuſtizia. Sta attento di non rilaſſarti. 18 O il Mondo è vna bel la ordinanza,o'vn meſcuglio confuſo, tuttauia & Mondo. Ora ſe in te ſteſſo qualche Mondo,cioè,comeper efem plo,vna venuſtà può conſiſte. re, haurà poi da eſſer yn'im monda ſconuenenza neli'yni. uerfo, mentre in effo tutte le cofe fi vedono così diſtinte, c dilatate, con effer inſieme reciprocamente affette? 19 Ci ſono coſtumi negri, coſtumi effeminati, ferrigni, ferini, e diquelli, che ſono fimili a'brutali, e a ' fanciul leſchi, inſenſati, affettati, buffoneſchi, tauernieri, e ti rannici. Se fireputa pellegri no nel Mondochi non faciò: che in eſſo ſi truoua, molto o più pellegrino è colui, che ignora ciò, che in eſſo ſi fac cia. Fuggitiuo farà chi fugge 0 dalla ragione ciuile, è cieco chi ha chiuſo l'occhio dell' intelletto, mendico chi ha neceffità d'altri, e non ha ap " preſſo di ſe tutto quanto gli è neceſſario per vſo della vi ta. Eyna apoſtema del mondo, chi ſi diparte, e fi difrom pe dalla ragione della comu ne natura, non accomodan dofi agli auuenimenti; men tre gli produce quella mede fima, che ha te ancora pro dotto.E vna ſtracciatura del la Città, chi diſtacca la pro i pria anima dalla mente r & ei gioneuole, che è vna. 20. Ci è chi filoſofa ſenza tonica, e chi ſenza libro, vn' altro mezz'ignudo. Non ho del pane, diffe, e nonmipar to dalla ragione. Io non ho il cibo degl'inſegnamenti, e pur in eſſi perſcuero: Affe zionati all'articella, che im paraſti, e in quella acqueta ti.Mena il reſto della vita tua con riporre negl'Iddij la cura d'ogni tuo affare, e ciò con tutto l'animo: e dhuomo, che viua,non ti fare,ne tiran i no, ne fchiauo. 21 Conſidera, verbi gratia, i tempi di Veſpaſiano, tu vi vedrai tutte queſte medefi me coſe, cioè huomini, e far.nozze, ed educar figliuoli, ed ammalati, e morienti, e com battenti, e feſteggiantise mer. catanti, e agricoltori, e adu latori, e arrogantemente par Janti, e ſoſpettoſi, e infidiatori, e deſideranti la morte, e delle coſe, che ſuccedeuano ha lamentantiſi, e innamorati, e at intenti ad ammaſſar teſori, e e ambizioſi di Conſolati, e di 1 Regni; tutti fparirono, e della loro vita già non vi rcſta 1 nulla. Appreffo traſportati all'età di Traiano; di nuouo I rimirerai tutte le medeſime cofc, e pur la vita di quelli non ci è più.Similmente con ſidera altri ſegnalati inter ualli de' tempi e delle intere nazioni; e offerua,come tanti, e tanti allora gonfiati l' vno * contro l'altro,dilì a poco ca e dettero, c fi dileguarono ne gli elementi. Specialmente B t'hai da rammentare di quel li, che tu ſteſſo hai conoſcill ti, che vanamente affannati hanno tralaſciato d' operare  conforme alla propria diſpo fizione, e d'aderire tenace mente a quella, e di quclla foddisfarli. E neceſſario an cora di rammentarti,che l'ap plicazione in ciaſcuna azio ne ha la ſua propria conue nienza, e proporzione; per chè così tu non ti dorrai; ſe tu non più di quello chepor ta il pregio in queſte coſe minori, ſarai occupato. 22 Le voci già correnti, ora fono diſufate, e richie dono chioſe; così i nomi di quelli già tanto celebri fono in yn certo modo al preſente fimilia derte voci: tale è Ca millo, Cefone, Volefo,Leon.nato; e poco appreffo Scipio ne; e Catone; dopo anco Auguſto, c indi Adriano, e Antonino; perchè ogni coſa ſua Ct colla 211 ap 10 16 ber Ol ſuaniſce, e tofto paſſa in fa uoleggiamenti, cben preſto dentro d' yna totale obbli uione reſta ingoiata.E queſto dico di quelli, che a maraui glia yna volta riſplenderono; poichè gli altri nell'iſteſſo lo ro fpirare reſtarono ignoti, e niuno più ne domanda. Che coſa è dunque queſta eterna memoria? Tutto vanità. In torno a che dunque s'ha da porreil noſtro ſtudio in que ſto ſolo; che la mente ſia giu ſta, l'azione diretta al co mun bene,tale la ragione che mai non reſti ingannatå, el animo così diſpoſto, che ciò, che gliaccada, abbracci, co me foſſe a lui neceſſario, e co me famigliare, e come dall' ifteflo comun principio, e fonte deriuato. Di buon ani til zie id 700 DITI OP ON DC1 او و mo gettati nelle braccia del fato; permettendogli che e inuolga in quelle coſe, che a lui parrà. Il tutto va a giorni, e chi rammenta, e'l rammen tato. Mcdita del continuo, come tutto ciò, che ſi fa a per mezzo delle mutazioni fi fa; e auuezzati a conſiderare, che nulla ama così la natura del l' vniuerſo, come di mutare gli entie far delle coſe nuo ue a quelle aſſomiglianti. Perchè in vn certo modo o gni coſa, che è, ſemenza è di quella, che da eſſa s'ha da produrre; e tu t'immagini ef ſer ſoli ſemi quelli, che ſi traſ mettono nella terra, o nell' vtero. Coteſti fono penſieri da perſona molto idiota. Già ſei all' orlo detta morte e ancora non se' diue hel nen ZIO pe TI che can de nuto ſchierto, e libero dalle rei perturbazioni, da’ſoſpettid' eſſere dagli eſterni leſo, ne bi placido inuerfo tutti;ne ſtimi la prudenza eſſere il ſolo giu ftamente operare. 24 Rimira la mente conducitrice degli altri e ciò, che veramente fuggano e fe de guano i prudenti. Il tuo male non consiste nella mente d'altri o ne' rivolgimenti o variazione dell'ambiente Doue dunque la doue tu hai l'opinionede'tuoimali. Per di ciò non opinare queſto, che il tutto andrà bene; ancor chè il corpicciuolo, che a f quello è propinquo,fi ſeghi,fi abbruci, marciſca, ſi putre faccia; purchè rimanga quie ta la particella, la quale for ma l'immaginazione di que dit + C. ef E Ite ſte coſe, cioè che non giudi chi eſſer ne bene, ne male ciò, che può accadere, tanto all'huomo dabbene, quanto al cartiuo, Concioſliecoſa che quello, che ſimilmente auuiene a chi viue, secondo la natura, e a chi viue diuer ſamente, non è ne secondo la natura ne contro di essa. Conſidera del continuo il mondo come un' animale, composto d’una sostanza e di un'anima, e come all ynico ſenſo di quello tutte le coſe ſi riportino, e come con vn'im peto il tutto operi, e come tutte le coſe tra fe di tutto quello che ſi produce, ſon co. muni cagioni;e quale ſia l'in trecciamento, ola teflitura. Sei un'animuccia, che porta un cadauero; diceua Epitteto. A quelli, che ora ſono ali nella mutazione, niente è di male, come niente è di bene a quelli, che nella mutazio ne ſuffiſtono. 28 L'euo è come un fiume, e come yna corrente violen ta delle coſe, che ſi fanno, perchè, ſubito che ciaſcuna di quelle compariſce, è rapi ta, e altra ne compariſce, e queſta ancora ſi traſporterà. Ogni accidente è così ſolito, e famigliare, come nella pri mauera la roſa, c nella ſtate i frutti. perciocchè tale è la malattia, la morte la maledi cenza, l'inſidie, e ciò che rallegra i pazzi, o gli contri fta. Quello, che proſegue, ſempre ſi connette accon ciamente agli anteceden ti. poichè non è vna nume 1 orazione di coſe tra loro dif crete, e ſuſſiſtenti per necef ſità ſolamente di calculo; ma èyna congiunzione, ſecondo la ragione; e come ſono coor dinate, e ben congiunte tut. te le coſe che eſiſtono, così quelle, che ſifanno non han no vna ſemplice ſucceſſione, ma dimoſtrano vna certa ma rauiglioſa famigliarità, che è tra di loro. 29 Habbiaſi ſempre a mente quel detto d’ERACLITO. La morte della terra eſſere quando diuenta acqua; e la morte dell' ac qua, quando diventa aria; come del l'aria, quando fuoco, e così per l'oppoſito. E ancora da ri cordarſi di colui, al quale era ignoto,doue la ſtrada condu ceſſe; e di quelli, che ſpecial mente, e del continuo con uerſano con la ragione, la quale ogni coſa amminiſtra, e nondimeno da quella dif ſentono, e che quelle coſe, nelle quali ogni dis’abbat tono, a loro paiono ſtranie re. e che non biſogna fare, e fauellare in guiſa quafi di dormienti,perchèallora anoi ſembra difare, e di dire; ne fi hanno da imitare i fanciul li, i quali dicono con ſempli cità: Così habbiamo appreſo dai noftri maggiori. « 30 Se alcuno degl' Iddij ti diceffe, che hai da morire la domane,o al più lungo por domane, non molto ti im portarebbe, che foſſe più to ito domane, che poſdomar nc, ſe non le d'animoin eſtre mo tralignante. Imperocchè E 3 quanto ſi è l'interuallo d'vn giorno cosìno iſtimare gran coſa le fia più toſto dopo moltiſſimi anni che domane. Ripenſa contimamente teco medeſimo; quanti medici ſon morti, che ſpeſſo hanno le ci glia inarcate ſopra de i ma lati? quanti matematici, che come yn gran caſo le morti d'altri prediffero 2 quanti Fi loſofi dopo mille, e mille contefe della morte, e dell' inmortalità? quanti prodi in armi, che molti vcciſero? quanti tiranni,checon gran de preſunzione della loro potestà sopra l'anime ſi feruiro no, quaſi chenon foffero e glino ancora mortali? quan te Città ſono, per così dire, affatto morte? Elice, Pom pei, Erculano, e altre innu nie merabili. Traſcorri ancora quanti hai tu conoſcuti l'yno appreſſo l ' altro morti. Que gli dopo hauer fatto i fune rali dell'altro, ha ſteſo egli morendo le gambe, e dopo lui yn'altro. Tutto ciò in bre de tempo. In ſomma ſempre fono da conſiderare tutte le coſe humane,come d'vn gior no, e di prézzo viliffimo: ieri vn pochin di mocci,domanc falſume, o ceneri. E perciò queſto momento di tempo paffalo viuendo, ſecondo la natura, e muori tranquillo, come l'vliua, che fatta ben matura cade laudando la ſua producitrice, e rendendo gra zie all'albero, dal quale fpuntò. 31 Sij ſimile a vn promon torio, nel quale inceffante E 4 mente l'onde s'infrangono; e nulladimeno egli ſta ſaldo, e intorno a lui fi abbonacciano gli orgogli dell’acque. Infe. lice me, perche ciò mi è au uenuto l’anzi al contrario, me ſelice, che essendo miciò accaduto, me ne ſto ſenz'al cun dolore, nedal prefente offeso, ne temendo l'auueni re. imperciocchè queſto po teua ad ogni altro accadere, manon ognuno l'haurebbe ſopportato ſenza dolerſi.Per chè adunque più toſto quello infelicità che queſto felicità farà da noi giudicato? echia mi tu a pieno infelicità dell' huomo corefto, che non è difauentura alla natura hu mana? E diſauucntura della natura humana pare a te, che ſia quello, che non è contra ilvo il volere di lei? Quello che ella voglia, l'hai tu appreſo? Non é impediſce dunque queſto accidente, che tu non ſij giuſto, magnànimo, tem perato, prudente, conſidera to,,verace, modesto, libero, con le altre qualità, le quali efſendo preſenti, la natura humana gode ogni ſuo pro prio. Quanto al rimanente ricordati, ogni volta che al. cuna coſa t' induce ad attri ſtarti, di valerti di queſta ſen tenza. Che queſto, che t'è accaduto non ti è d'infelici tà, ma di felicità, foppor tandolo generoſamente. 32 Per certo è volgare aiu to, ma tuttauia efficace, per diſprezzar la morte, il ri membrarſi di quelli, i quali, attaccati al viuere, lungo Es: tempo durarono. Che hebbe, ro più queſti di quelli, che in eri acerba morirono?Giacor ciono ſenza dubbio in qual che luogo Cadiciano, Fabio, Giuliano, Lepido, e altri fi mili, i quali, dopo hauer fat ti i funerali a molti, eglino ancora furono poſcia ſepolti. Finalinente ci è poco d'inter ftizio, il quale con quante moleſtie, e con quali ſten ti, e in qual corpicciuolo vien ſofferto? Dunque non ne far gran conto į rimira però indietro all'immenſità dell'euo, e a te dauuanti yn altro infinito. In queſto, che differenza è tra vno morto a capo di tre giorni,e d'vn Ne ſtore di tre ſecoli? Per la ſcortatoia corri ſempre, e quella via, che ſi conforma alla natura, è la fcortatoia saluteuole. Però dì, e fa ogni coſa nella ma niera più ſalateuole. Impe r occhè queſto propofito libe ra dalle fatiche, da i com battimenti, da ogni ſimula zione, e da ogni oſtentazione. Vando dal ſonno neghittofamente la mattina ti fue gli, habbi in pronto. lo mi fueglio all'opera dell'huomo; ancora dunque ripugnanza fento, ſe io vo a fare quello pere, alle quali ſon nato, e per le qualiſono ſtato intro dotto nel Mondo forſe ſono ſtato ordinato, acciò tra piu macciuoli giacendo io mi riſcaldi? Maciò è di maggior guſto. Dunque a pigliarti gu ito, e in ſomma non al fare ne all'operazioni ſei nato? non vedile pianterelle, i paſ ferotti, le formiche, i ragnis l'api comecooperano all' or namento delMondo, e tu non vorrai fare quello, che ſpet ta all'huomo e non accorri a ciò, ch'è conforme alla nå tura tua? Ma biſogna pure ripoſarti. Biſogna.Ed in que ſto la natura aſſegnò lemiſu re; e diedele ancora, ed al mangiare, ed al bere; e non dimeno tu pafli oltre alla mi fura, e oltre alla ſufficienza. Non però così nell'opere; ma affai meno di quello ſi puote; concioffiecoſa che tu non a mi te ſtello, che quando ciò foffe, amereſti la natura, e'l di leivolere. Altri, che amano le loro arti, ſi conſumano ne’lauorij di quelle ſenza go der de bagni, e ſtando digiu ni. Tu fai men conto della tua natura, che il tornitore non fa dell'arte del tornire, o il ſaltatore dell'arte del fal tare, o l'auaro dell'argento, o il vanagloriofo della glo rietta; e quando queſti s'af fezzionano a cotalicofe, alle qnali ſono inclinati, abban donano più preſto ilmangia re, e il dormite, che il laſciar d'accreſcerle. E a te l'azioni fpettanti alla comunicazione humana appariſcono di più baſſo pregio, e men degne ď accuratezza. Quanto è facile lo ſcace ciare,elo fcancellare ogni turbolenta immaginazione, onon conueniente, e ſubito metterli in iſtato d'ogni tran quillità? Reputa te ſteſſo de gno d'ogni diſcorſo, e d'ogni azione, che lia conforme alla natura, ne ti ritragga il ri chiamo d'alcuni, o il biaſimo, che ne ſegue; masſe farà coſa oneſta da operare, o da dire, non te ne ſtimerai indegno. Imperocchè hanno quel li la propria loromente, e v fano della propria inclina zione, alle quali tú non hai da riguardare, ma dei cam minare per la diritta, ſegui tando così la propria comela comunenatura, delle quali amendue èvna via. Io cammi. nando me ne vo per le coſe, che ſono ſecondo la natura, finchè cadendo io mi ripoſe rò, e ſpirando in quello,don de ciaſcun giorno reſpiro, e si cadendo in quello, donde il ſemuccio da mio padre, e il fanguuccio da mia madre, e il lattuccio dalla inia nutri ce furonoraccolti; e del qua le per tanti anni ogni di mi paſco, e m’abbeuero, che mi foftiene mentre lo calco, e dello ſteſſo in tanti modi in '. abuſo. 3 Non hanno in chemara uigliarſi della tua acutezza fia così. Ci fono molte altre coſe,delle quali non puoi ne gare, che in te non ſia l'abi lità Mettidunque in opera quelle, che ſono tutte a tua. diſpoſizione, l'eſſere ſincero, grauie,tollerante della fatica, non amico del piacere, non, quereloſo della tua forte, biſognofa di poco, placidos libero,moderato, serio, e magnifico. Non t'accorgi quan te coſe tu hai poter di fare, per le quali tu non hai prete ſto, che la tua natura non fia atta, o abile; nondimeno di propria elezione te ne reſti, comedappoco al diſotto? forſe inetto per natural diſpo ſizione ſe neceſſitato a inor morare, ad eſſere tenace, ad adulare, ad incolpare il cor picciuolo, o a luſingarlo, ad effere vano, ed a cotanto nel l'animo agitarti d'eſſer natu ralmente inetto, e dappoco? Non per gl' Iddij. Ma però già vn pezzo fa di tutte que Ite coſe tu eri da te ſteſſo pof ſente a libcrarti.E ſolamente, ſe però è così,poteui ellerac cuſato come più tardo, e du ro ad apprendere. Ed in que ſto ancora ti doueui eſercitare, non trasuolando altroue con la mente, ne godendo della pigrizia. 4. Euni chi, quando ha vſa to qualche amoreuolezza in riguardo d'alcuno, glie lo di chiara incontanente per gra zia: eď emui ancora chi, ſe non vſa ſeco tal prontezza in ri conoſcerla, nondimeno ap preſſo di ſe penſa, quanto quegli li ſia debitore, e cono ſce molto bene quello, che egli haoperato. Fuui ancora chi in vncerto modo non co noſce quello cheha operato; ma è fimile alla vite,laquale, prodotto il grappolo,null’al tro di più richiede, dopo ha uer yna volta dato il ſuo frut to. Il cauallo, cheha corſo il cane,che ha cacciato; l'ape, che ha lauorato il mele; 1 * huoc huomo, che ha ben opcrato, non cerca acclamazioni, ma procede ad yn altr'opera, co me la vite torna a produrre dinuouo alla ſtagione vn al tro grappolo. Fra queſti dun que biſogna in un certo mo do eſſere, come chi ſenza ba dare opera? fi per certo. Nul ladimeno a queſto iſteſſo s'ha da badare.  Perciocchè, dirà alcuno, è proprio del comu nicatiuo che s'auuegga d'o perare, conformealla comu nicazione; ma perciò ſi vuole, per gl'Iddi, che anco quegli a chi fi comunica, fe n'accor ga. E'veriffimo coteſto, che tu dì, ma ſe tu non compren di quello, che'ora ſi dice, farai per tanto vnodi qnelli, de'quali ſopra s'è fatta men zione: concio ffiecoſa che ancora quelli da certo probabi le diſcorſo'fi diftraggono, ma ſe tu vorrai comprendere quale vna volta fia quello, che s'è detto, non temere; ne perciò laſcia d'operare per beneficio comune. Erano le preghiere degli Atenieſi: Pioni,pioui, ocaro Gion u éjsopra i campise gli orti degli A tenieſi. Però o non bisogna pregare, o farlo con iſchiet tezza, e con libertà. A quello, che comune mente ſi dice: ESCULAPIO ba oi dinqto a queſti il canalcare, o il lauarli con acqua fredda, d'andar a piedi ſcalzi;è fimile anco queſto che la natura dell? vniuerſo ha ordinato a quegli la malattia, o la ſtor piatura, o qualche perdita, o altro ſu queſto andare: poi chè nella parola, Ha ordinato, vi è vn tal ſenſo, che coſti tuiſce queſto in ordine a que ſto, come per riferirſi alla fa nità, e così qui quello, che accade a ciaſcheduno, è con ſtituito per relazione al deſti no. E però diciamo queſte coſe conuenirſi nel modo, che gli artefici dicono le pietre quadrate per le mura, e per le piramidi conuenirſi tra di loro in tale commetti tura combaciandoſi. Perchè in fatti l'armonia è viia, e ' fi come da tutti i corpi ſi viene a compirc vn tal corpo, che è il mondo, così di tutte le cagioni vien ad esser il fato vna tai cagione compita. Comprendono ciò, che dico anco le genti affatto idiote. imperocchè così fauellano. Queſto huyenne a colui, dun que queſto a colui douea ar rivare; e ciò era dal fato or dito a queſto. Prendiamo dunque ſi queſte coſe, co inc quelle, ſecondo che Eſculapio ordinò - Perchè molte coſe in vero in fc ſter ſe ſono aſpre, e nientediine. no noi l'abbracciamo per la ſperanza della ſanità. Penſa alle coſe, che per la comune natura auuengono, la perfe zione, e il compimento effe re, come a te la ſanità. E così tuto quello, che vien dato,benchè ti paia vn po co più aſpro ", abbraccialo, perchè conferiſce alla sanità del mondo, c agli proſperi auuenimenti, e beneficenza di Gioue. Concioſliecoſa che queſti non produſſe mai coſa alcuna, fe non per giouare all'vniuerſo; giacchè qualſifia natura non produce niente, che non ſia congruo al go uernato da lei.Però biſogna che per due ragioni tu amio gni qualunque coſa ti auuie ne. Quanto all'vna, perchè per te ſi fece, e a te s'ordinò, e a te in certo modo attiene, deſtinato da ſourane, e anti chiſime cagioni. Quanto all' altra, perchè al reggimento dell' voiuerfo ancora quel particolare,che a ciaſcuno au uiene, è cagione del progreſ ſo, e della perfezione, come anche in verità dell'iſtella per inanenza. Perciocchè ſi ſtor pia l'integrità del tutto, fe qualſifia particella tu tronche rai della conneſſione e conti nuanza,così delle parti come delle cagioni; e, per quanto è in te, lo tronchi, quando non ben lo riceui, ed in vn certo modo lo toglivia. Non s'ha da maledire, non da ſmarrirſi,nc ſtomacar fi, ſe volendo tu operare, ſe condo la rettitudine de'pre cetti, in ciaſcuno di quelli non ti rieſce; ma ancorchè ſij abbattuto, torna di bel nuouo ad eſſi, e ad abbrac ciarli nelle coſe, che hanno maggiormente dell'humani tà; e affezionatia quell'azio -ne, alla quale tu riedi. Nc ſi ha da tornare alla filoſofia, nel modo, che ſi fa al pedan te, ma come glinfermi d'oc chi ricorrono alle ſpugnette e all'youo, o come altri all' impiaſtro, e altri al lauamen to. Imperocchècosi non ostenterai d' eller lignoreg giato dalla ragione, ma di ri poſare totalmente in eſſa. Ri cordati, che la Filoſofia ſolo vuole quello,che la tua natu ra vuole:ma che tu hai voglia d'altro diucrſo dal voler della natura. Qual coſa ha più di queſte deldiletteuolc? poichè il piacere non ingan na egli noi per mezzo di quelle? ma tu conſidera, ſe più diletto dia la magnani-, mità, la franchezza, la ſchiet tezza, l'equità, la ſantimonia. E qual coſa vi è, che ſia più diletteuole della prudenza, quandoben conſidererai,che ſia il non fallire, e l'eſſer ben docile in tutto quello, che tocca alla facoltà dell'inten dere, e del ſapere? 8 Sono le coſe in yo certo F modo così ricoperte, che a non pochi Filoſofi, e queſti non ignobili. parue che del tutto fieno incomprenſibili. Anzi agl'iſteſſi Stoici ſembra rono difficili a comprenderſi. Ed eſſendo ogni noſtro aſſen ſo ſoggetto a cadere, e mu tarſi, in che luogo dunque fa rà l' immutabile? Riuolgiti però col penſiero a queſte co ſe preſenti;e cöſidera quanto ſieno momentanee, e di po ca ſtima: ch' elle poſſono ef ſere poſſedute da vn zanze ro, da vna meretrice, da vn aſſaſſino. Dopo queſto tra paſſa a i coſtumi di quelli che teco viuono, tra quali anco il più da te gradito, malage uolmente da te vien compor tato, per non dir che l'huo mo appena comporta ſe ſtesso. In queſta perciò caligine e immondizia, e in tal Auſli bilità della ſoſtanza del tem po, del moto, e di tutto quel, che ſi muoue, non potrà im maginarſi qual ſia quello che poſſa eſſer degno affatto di ſtima, e d'affetto. Dall'altro canto però biſogna confor tarſi ad aſpettare il natural diſcioglimento, e non dolerſi del rattenimento, ma ac quietarſi in queſte due ſole coſe: L'yna ſi è, che nulla mi auuerrà, che non ſia confor me alla natura dell' vniuerſo; e l'altra, che ſta in mio pote re di non operare contro il mio Dio, e genio:'concioſ fiecoſa che niuno ci forzi a traſgredir queſto. A che finalmente mi va glio ora dell'anima mia? Ad ogni momento ho da in terrogaré me ſteſſo, e ricer care che ſi fa adeſſo da quel la porzione, che reggitri ce viene chiamata? Di chi dunque preſentemente porto l'anima? per auuentura d'vn: bambolino, o d'vn fanciullo forſe dyna donnicciuola, d'vn tiranno, o d'vn giumen to, o d'una fiera? Quali ficno i beni, che alla moltitudine paiono tali; lo potrai quindi comprende re;poſciachè ſe vno concepi fce nell'animo efferui alcuni veramente beni, come a dire la prudenza, la temperanza la giuſtizia, la fortezzá, chii haurà con la conſiderazione concepito queſte tali cöfe, non potrà più dar luogo ad alcun'altra, che a queſto bene non ſi conformi. Ma ſe nella mente ſi faran concepi te quelle, che con faccia di bene agli più piacciono, da rà luogo, e facilmente rice uerà il detto del comico.Co sì fin il volgo immagina ſimil differenza;perchè altrimen te quel detto non offende rebbe, e non ſarebbe con if degno mal preſo. Per lo con trario l' ammettiamo come propriamente detto, quando cade ſopra delle ricchezz e, e de cominodi per lo luffo, e per la pompa. Passa più ol e interroga, ſe queſte coſe hai da pregiare, e ſtima re,quando di eſſe li truoua ef ſer detto con gaiezza, e gra zia, che al poſſeditor di det te coſe per la gran copia manca doue egli yoti il triſto facco. Sono ſtato compoſto di cauſa, e di materia, e ne l'vna, ne l'altra fi dilegucrà nel nul. la; giacchè di nulla non fu prodotta. Dunque ognimia parte mutandoli rientrerà in qualche parte del Mondo; e di nuouo queſta in vn'altra parte del Mondo ſi traſmute rà, e così in infinito. Per mezzo di queſta mutazione ed io ſon venuto, ed i miei genitori; e così retrogradan do in vn altro infinito. Ne ci e chi proibiſca di così parlare, ancorchè per peri odi terminati la macchina mondiale ſi regga. La ragione, e l'iſteſs'ar te ragioneuole ſono facultà a ſe medefime, e alle opere loro proprie ſufficienti. Muo uonli dunque dal loro proprio principio; e camminano dirittamente al propoſto fine. Per lo che ſi dicono rettifica zioni così nomate queſte azioni a ſignificar la rettitu dine del ſopraddetto cam mino. Neſſuna di queſte co ſe è da dir, che ſia dell'huomo la quale non conuenga all' huomo, come huomo, ne ſi richiedono dall'huomo, ne quelle profeſſa la natura del l'huomo, ne ſono perfezioni della natura humana. Non è dunque ne meno il fine dellº huomo ripoſto in quelle, ne meno il bene, che è il compimento di quel fine. Se pure qualche cofa di queſte foſſe conferente all'huomo, non gli apparterrebbe ne il diſpregiarla, ne il contrariar la: ne farebbe da lodarſi chi si moſtraſſe non hauer biſo gno di elle, anzi chi ſtudiaf fe priuarſi d'alcune di quelle, non ſarebbe buono, mentre quelle foffero buone. Ora però quanto più l'huomo ſi leua queſte coſe dattorno, 0 altre ſimili; o permette, che ſe gli leuino, tanto più buo no è. Tale farà la tua mente quali ſaranno le coſe, che ſpeſſe volte ti ſono paſſate per la fantaſia:reſtando l'ani ma colorata dall'immagina zione. Immergila dunque in fi fatte continuate immagi nazioni; delle quali yna ſi è quella che doue ſi puòviuere, iui ſi può anco viuer bene: ma nella Corte ſi può viucre, a dunque nella Corte puoſſi feuza dubbio ben viuere. E dinuouo queſt' altrà, che cia ſcheduna, coſa a qualche co ſa è diſpoſta, e dou' è di ſpoſta ſi porta, e doue fi porta conſiſte il ſuo fine, e doue è il fine, iuiè l'vtile, e il bene di ciaſcuno. Sicchè il bene del viucnte ragion euo le è la comunanza; e men tre teftè s'è dimoſtrato che perla comunanza ſiamo nati, non è euidente, che l'inferior bene per lo meglio è fat to, come vn meglio per l'al tro meglio?ma migliori deg! inanimati ſono gli animati, e degli animati li ragioneuoli. E da furioſo il profe guir le coſe impoſſibili: ma impoſſibile è che i cattiui non facciano alcune tali co fe. Niente auuiene a niuno, che non gli ſia ſtato dato a portare dalla natura; ma le medeſime coſe ſuccedono a gli altri, i quali o non com prendono l'accaduto loro, o per oſtentar la magnanimi tà, non ſi muouono dal lor fefto, e lieti ſe ne ſtanno Onde ſtrano parrà che l'in gnoranza, e la propria com piacenza fieno più poſſenti della prudenza. Le coſe per fe fteffe in niun modo tocca -no l'anima; anzi non hanno in quella l'introito, ne poſſo no piegarla, o muouerla. El la ſola riuolge, e muoue ſe ſteſſa: e le coſe, che le fo prauuengono fono tali, qua ſi ella ſe ne forma i giudicij. 15 Per vn altra ragione la natura degli huomini è a noi famigliariſſima, in quanto che noi dobbiamo far loro del bene, e tollerarli; in quanto poi alcuni relifto no all'operazioni, che a noi conuengono, l'huomo a me diuiene come vna coſa del le indifferenti non meno del fole, del vento, delle beſtie. Da queſti ſi può impee dire qualche operazione; ma non ſi può dare impedimen to, ne all'appetizione, ne al la diſpoſizione, a cagion della eccezione, e del ri. uolgimento.Conciosfiecoſa che la mente riuolge, e tra muta in coſa a ſe proporzio. nata tutto quello, che all? operare le da impedimento, e quello, che ratterrebbe l'o pera, l'iſteſſo diuiene opera, e quello che innanzi era oſta colo al cammino, ſe le fa. cammino. Di tutto quello, ch'è nel Mondo tu venera l' otti mo; e que to è quello, che, feruendoſi del tutto, il tut to gouerna. E così parimen te di quello, ch'è in te, onora l'ottimo,hauendo queſto fin golar relazione a quello.. Concioſliecoſa che, eſſendo in te, fi vale delle coſe tue, eſotto il di lui gouerno è condotta la tua vita. Quello, che non è di danno alla Città, non nuo ce al Cittadino.Applica que fta regola in ogni occorrenza in cui tu reputi d'eſſer offeſo. Se da queſto la Città non ri ceue nocumento, ne io lo ri ceuo; e fe la Citrà riceueffe nocumento, non biſogna, che tu t'adiri contra chi l'ha daneggiatta. Ma moſtra in che egli ha traueduto. Conſidera ben fouente la preſtezza,con la quale li por tino via, e ſi fottragghino tutte le coſe, che ſono, e ſi van facendo; poſciachè la ſo ſtanza a guiſa d'yn fiume è in continuo fluſſo, eľ opera zioni in non intermeſſe mu tazioni, e le cagioni ſogget te ad infinite riuolte. Nec è quaſi coſa alcuna, che falda ftia, e che non ſia vicina ad yn'immenſità infinita, sì del paſſato,come del futuro,ncl la quale il tutto ſpariſce.Co me dunque non è pazzo chi di queſte coſe ſi gonfia,o fe ne trauaglia,o ſi querela dicoſa, che per iſpazio di tempoan, che pochiſſimolo conturba 2 Ricordati della ſoſtanza vni uerſale, della quale tu partecipi per vna minima parte, e del vniuerfal tempo,del qua le vn breue ſpazio, o momen to te n'è aſſegnato; e nella ſerie fatale che parte fai? Alcuno pecca: che impor ta queſto a me? Egli ſe lo ve drà. Egli ha la propria diſpo ſizione, la propria operazio ne. Io al prefente ho quello, chela natura comune vuole, ch'io adcfſo m’habbia, e fo quello, che la mia propria natura vuole, che io adeſſo faccia. 18 La reggitrice, e domi, nante porzione della tua ani maſia immutabile, e inarren. deuole a i moti della carne, o morbidi, o aſpri che ſi fieno; ne vi ſi rimeſcoli,ma conten ga ſe ſteſſa, e confini quegli affetti dentro i ſuoi meinbri. Quando poi per vn'altra ſim patia ſi rinnalzaſſero alla mente, per effer ella vnita al corpo, ſtante l'eſſer il ſen ſo connaturale, non haſli a contraſtare con violenza, pe rò la mente reggitrice da ſe ſteſſa non v'aggiunga l'opi nione inrorno al bene, o al male. S'ha da viuere con gli Iddij. Viue con gl'Iddij chi loro fuela continuamente la fua anima effer contenta del diſtribuitole, ed operando tutto quello, che vuole il ge nio, dato a ciaſcuno da Gio ue per preſidente, e rettore, come parte a ſe medeſimo preſa, e queſto è la mente, e la ragione di ciaſcuno. 20 Non ti adiri tu con co Jui,al quale puton l'aſcelle? E con quegli altresì,che man da fuor dalla bocca fetente fiatore? che ti farà coſtui? Egli ha vna bocca ſi fatta, e l'aſcelle di tal condizione: Forza è, che ſimili eſalazioni eſcano da ſimili parti; Mal huomo, mi dirà alcuno, ha la ragione, e può s' egli au uerte conſiderare in che egli difetti. Buon prò ti faccia. Dunque per hauer tu ancora la ragione rifueglia la ſua ra gioneuole diſpoſizione con la tua, inſegnali aminoniſci lo. Perchè fe quello t'aſcol-. terà, lo riſanerai, e ſarà fu perflua ogni collera. 21 Non fare ne da rappre fentante tragico;ne da mere trice: Nella maniera che tu diſegni vſcir di vita, così ti lece ora di vivere? <a quando non te lo permetteſſero, allora eſci di vita, ma però, come da niuno infortunio abbattuto,ma quaſi tu dichi: Qui c'è del fumo, e io me ne vado. Ti par queſto gran coſa? mentre nient'altro mi fa vſci re rimango con la libertà, e niuno mi vieterà di far quel lo, che io vorrò. Vorrò però quello, ch'è conueniente al la natura dell'huomo ragio neuole, e nato per la vita cos mune. 22 La inente dell'yniuerſo è comunicatiua; e perciò hafat te le coſe peggiori in ordine alle migliori, e le più princi pali tra di loro ſcambieuol mente compoſe • Vedi come le ſubordinò, come inſieme le ordinò, e come quello che cra conueniente detre a cia ſcuna e le più principali con reciproca concordia con giunſe? 23 Come ti ſei portato fin ora con gl'Iddij, con i geni (tori, co fratelli, con la mo glie, con i figliuoli, co * pre cettori,co'nutricatori, amici, domeſtici, e ferui? hai tu fin ora oltraggiato alcuno di - loro, o in fatti, o in parole? -Ricordati di più per qualico fe ſe paſſato, e quali ſe ſtato fufficiente a tollerare,e come di già per te è adempita la • ſtoria della vita, ed è finito il miniſterio.E quante coſe bel le hai vedute? e quanti pia -ceri, e dolori hai diſprezza ti? quante coſe d' apparente gloria hai neglette? a quanti fconoſcenti ti dimoſtraſti benigno? Per qual cagione l’ani me ſenz'arte, e fenza ſcienza conturbano il perito nell'ar te, e l'erudito? quale dun que farà l'anima perita nell' arte, ed erudita nelle ſcicn • ze? quella, che ha notizia del principio, e del fine; e di quella ragione, che pene trando ogni ſoſtanza dell' vniuerſo, per tutta l'età, fe condo i periodi ordinaci,reg. ge il tutto. 25 Or or tu farai cenere, é carcame, ' o ſolamente no 1 me,ma ne pur nome, ridu cendoſi il nome in vn poco di ſtrepito, e di riſonanza; e certamente quelle coſe, che in queſta vita s ' hanno in i grandeſtima, ſono vane,pu tride, ſcarſe, e in guiſa dica gnolini, che ſi mordono, e di 2 putti, che contendono, e ri dono, e ad vn tratto paſſano al pianto. Ma la fede, la mo deſtia, la giuſtizia, e la verità Da ilarghi ſpazi della terra alCielo s? innalzarono. Che coſa adunque qui ti rattienca ſe le coſe ſenſibili, ſono faci liffime a mutarſi, e non ſon conſiſtenti, e gli organi del fenſo oſcuri, e facili a ri ceuere falſe impreſſioni, e l' iſteſſa animuccia del ſangue yna eſalazione, l'acquiſtar gloria appreſſo queſti tali è vanità. Che dunque aſpetti? Aſpetta placido o la eſtin zione, o la traportazione. E finchè il teinpo arriui di que ſto, che coſa a te farà ſuffi ciente che altro ſe non il ri uerire gl’Iddij, e lodarli, e be neficare gli huomini, sopportarli e aftenerſi da quelli? E quanto coſe ſono fuori del confine della carnuccia dello ſpiritello ricordati, che non ſono tre, ne ſotto il tlio comando. Potrai profpcrarti per. fempre, e ben incamminarti, e con buon ordine apprende dre, e operare. Queſte due co ſe ſono comuni così all'ani ma di Dio, come a quella de gli huomini', e d'ogni ra gioneuole viuente, cioè di non poter eſſere impedito da che che altro fi fia, e di porre nella giuſta affezione, e azio ne il ſuo bene; e in queſto ri ftrignere ogni ſuo deliderio. Se ne queſto è malizia naia, ne meno l'operazione procede dalla mia malizia, ne il comune viene offero, perchè di ciò mi trauaglio? e qual è il danno del comune? Non ti laſciar così totalmen te rapire dalle immaginazio ni, ma aiutati quanto puoi, e conforme alla conuenienza; e ancorchè nelle coſe mezza ne ſieno diffettoſi, non iftima re perciò, che queſto ſia dan no;perchè auuiene da mala conſuetudine. Ma come yn vecchio andandoſene richie deua la trottola del ſuo allies uo, ricordandoſi che al fine era vna trottola, così tu quì, o huomo, quando hai fatto ne’roſt ri qualche coſa di bel lo, non ti ricordi, che coſa queſto fia? me ne ricordo. Ma quello è pregiato da co loro; perciò dunque hai an che tu da impazzare? Impaz zauo già vna volta ſoprap preſo, douunque io foſſi, ed ero fortunato; e l'oſſer fortu nato, conſiſte nel dare a ſe hafteſſo vna buona forte: le buone ſorti ſono i buoni mo uimenti dell'animo, le buo ne inclinazioni, le buone azioni. La sostanzia dell'universo è ben ubbidiente e maneggieuole. E pur la ragione, che la reg ge, non ha in ſe cagione al cuna di mal fare; perchè non ha malizia, ne opera malamente, ne da eſſa coſa alcuna riceue leſione; ma il tutto conforme a quella fi fa e s'affina.  Sia a te indiffcrente d'operare quello, che ſi conuiene; ſe tu ti ſenti freddo o caldo o pur ſonnacchioſo o fazio di dormire o fc di te bene, o male ſi parli o tu ftij ſulmorire o in qualche altra azione, mentre pure quello è vno degli atti vitali per i quali noi finiamo. Baſta. dunque, e in queſto ben disponi il negozio preſente. Guarda al di dentro, ac ciocchè ne la propria qualità, ne il merito di coſa alcuna fenz ' auuedertene ti scappi. Tutto ciò, che hai dinanzi affai presto si cambierà, o di leguandofi, se la sostanzia consiste per via d'vnione, o dissipandoſi La mente reggitrice conosce bene con che disposizione e che cosa e in qual materia opera. s Belliſſimo modo di ven dicarſi con chi t'offcfe, è il non aſſomigliarſi a lui. In vna ſola cofa hai da godere, e d’acquetarti, cioè di paf ſare da vn atto conueniente alla comunità humana ad vn altra azione, pur conuenien te alla medeſima, con ricor darti, che ci è Dio. 6 La facultà reggitrice è quella, che ſe ſteſſa eccita, e volge, e forma ſe ſteſſa in quella guiſa, che ella voglia, e tutto ciò,cheauuiene ſi rap preſenta, quale più le piace. Ciascuna cosa si conduce a fine conforme la natura dell'universo e non secondo altra natura, che si fia, o esteriormente ambiente o al di dentro riſerrata ouero al di fuori ſeparata. Il mondo o è vn imbro glio, e auuiluppamento, e diſſipazione, ouero vnione, eordine, c prouidenza: Se i primi, per qual cagione deſidero io di conuerfare con questa massa confusa, e cotal nieſcolanza? a che m applico io ad altro, che ad eſſere per qualche modo ter ra? che ſto a perturbarmi? Concioſliecoſa che qualun que coſa io mi faccia la dif ſipazione al ſicuro m'arriue rà: ma ſe è l'altro detto in fe. condo luogo, io riueriſco co lui, che il tutto diſpone, e in lui m’acqueto e confido. Quando gli anuenimen ti eſtranei ti violentano per qualche verſo a perturbarti, prontamente ritorna in te ſteſſo; e non vſcire dal tenore, e concerto più diquello, che la neceſſità ti ſpigne. Im perocchè cóſeruerai più con fonanza, ſe toſto in eſſa ti ri metterai. Se inſieme tu ha uelli la matrigna, e la madre, tu quella feruireſti, e niente dimeno del continuio alla madre fareſti ritorno. Non altro a te è ora la Corte, e la Filoſofia: a queſta ſpeſſo ri torna, e in eſſa acquetati, per mezzo della quale le cofe, che in quella occorrono, ti parranno più tollerabili, e tu nell' iſteſſe coſe farai da tollerare. 10 O comeè bene formar ſi nell'immaginatiua intorno alle viuande, e altre cole ſi mili comeſtibili: che queſto ſia cadauero d'yn peſce,quel l'altro cadauero d'vn' vccello d'un porcello. Simil mente, che il falerno ſia pic cola gocciola d’yn grappo lino d'vua, e lo ſcarlatto pe luzzi di pecorella intinta col fanguuccio di vna conchi glia. Così ancora nelle coſe intorno al congiugnimento carnale, che fia vn diletico dell'inteſtino, e conqualche conuulfione yna egeſtione di yn moccino.Ora come queſti fimili conceputi penſieripe netrano je toccano il fon dodelle coſe in modo, che ſi vedano talis quali elle fono in queſta maniera biſogna ſeruirſi di queſti in tutta la vita, e doue le coſe paiono più degne di fede, dinudarz le, e riguardar la loro viltà e ſuilupparie dalla pompa, con la quale foſſero poſte in G 3 alterigia.Poichè l'apparenza è vnagrande ingannatrice e maſſime quando tu penſi di trattare le coſe ferie, allora più che mai t'affaſcini. Mira dunque a quel, che diſſe Cratete di Senocrate. Il più delle coſe, che la inolti tudine degli huomini ammi ra, ſi riduce generalmente a quelle, che hanno dalla na tura le forme, o dall'arte fon loro aggiunte; per cfemplo, le pietre, le legne, i fichi, le viti, e gli oliui, e quelle, che vengono ſtimate da huo mini alquanto più moderati, fi riducono alle coſe animate, ome a dire, gregge, ar menti: ma quelle, che ſono pregiate da perſone di più garbo, ſono le dotate d'a nima ragioneuole, non già di quell'anima, che è dell' vniuerfale, ma di quella, che fi val dell'arte, o altri mente come con ingegno penetra, o per dirlo ſempli cemente tutto tiene ſogget to, in guiſa d'una quantità diſchiaui. Però chi dell'ani ma ragioneuole, vniuerfale, e ciuile fa conto, non bada a nient'altro, ma ſopra il tutto conferua la propria anima di ſpoſta, e ſemouente ragione uolmcnte, e alla comunica zione humana, é con l'vni uerfale, ch'è del medeſimo genere, coopera. II Alcune coſe s'auanza no al lor facimento, e altre s'auanzano al lordisfaci mento; e di quello, cheſi va facendo, vna parte già è ſpas rita. I corſi delle coſe, e l'al G 4 te terazioni continuamentc ri nouellano l'infinita eternità, cd il Mondo; nella maniera, che il corſo non mai man cante del tempo lo rende ſempre recente. E chi è que gli, che in queſta corrente poſſa affezionarſi ad alcuna di quelle coſe, che via traf ſcorrono, mentre in quella non può arreſtarſi a queſti fa + rebbe in guiſa d'vno, che ſi metteſſe ad amare vn paſie rotto di quelli, che col volo trapaſſano, dopo che già dal. la viſta foffe fcappato. La vi ta di ciaſcheduno è come lo ſuaporamento del ſangue, e'l reſpirardell'aria. Poichè. qual'è l'attrarre dell'aria, e il renderla, che del continuo ciaſcuno fa, tale è ogni fa cultà reſpiratiua, che ieri, o ieri 1 ieri l'altro nafcendo fi rice uè, e l’ha da irimandare là, donde primafu colta. 12 Stimabil coſa non è, ne l'efferc fuentolati, come le piante, ne il reſpirare,come le beſtie, e le fieregne il riceue re l'impreſſioni nell'immagi nazione, ne l'effer tirato dal l'impėto delle paſſioni, ne lº adunarfi inſieme,ne l'alimen tarſi; poichè queſto è il me deſimo, che lo ſcaricar il fo prauanzo dell'alimento. Di che s'haurà da far conto de lo sbattimento delle mani? Non già. Dunque ne meno dell'applaufo delle lingue; poichè gli applaufi, ele ladi della moltitudine altro non fono, che ſtrepito di lingue. Mentre tu dunquc leui via queſta glorietta che ci riina G 5 ne da pregiare? Io per me re puto,che ſia il muouerſi, e com tenerſi fecondo la propria conſtituzione là;doue gli ftu dij,e l'arti conducono.Poichè ogni arte ha queſto per mira, che quello, che appreſta, lia abile all'opera, per la quale è diſegnato. Queſto pure ri cerca il lauoratore della vi gna, ed il cozzone de' pule dri, e’lcanattiere. E ledu cazione de' fanciulli, e glin. ſegnamenti a che altro s'in dirizzano? Qui dunque con ſiſte il pregio, e, ſe ciò ti ſta rà bene, di niente altro ti curerai. Cheſe non ti quie ti, e ſtimeraipiù altre coſe, allora non goderai della li bertà, ne ſarai ſufficiente a te ſteſſo, ne immune dalle paſſioni; conciofficcola che ti D ti ſarà di meſtiere d'eſercitar Pinuidia, e l'emulazione, e'l ſoſpetto verſo quelli, che habbiano potere di priuarti delle dette cofe; e anco di macchinar contro quelli » che le da te ftimate poſſiedo no. Onninamente è neceſſa rio che ſi conturbi chi ďal cuna di dette coſe è biſogno fo, e che in oltre ſpeſſo faccia doglienza degl' Iddij. Ma chi la ſua propria mente ris ueriſce, e pregia, compiace rà a ſe ſteſſo, e a quelli, che fecocomunicano s'adatterà, e fi conformerà con gl'Iddij, cioè loderà quanto eſli defti nano, e diſtribuiſcono. Le moſſe degli elemen ti ſono in giù, in fu, e in giro: però il monimento dellavirtù non confifte in niuna di que G 6 ſtę; + R ng  ſte;ma come coſa più diuina, per via malageuole a cõpren dere felicemente s'auanza. Che è quello, che fan no glihuomini? ricuſano di lodare coloro, che nel me deſimo tempo, e inſieme con effi viuono, e poi queſti iſteſ fi fanno gran conto d'eſſer lodati da’ poſteri, i quali ne mai conobbero, ne mai vec dranno; ed è quaſi lo ſteſſo, che fe tu ti doleſli, che da gli antepaſſati in lode tua non foſſe ſtato mai parlato. Non perchèate ſteſſo quello fia difficile a confe guire, hai d'apprendere,che Via impoſſibile all'haomo; ma ſe queſto all'huomo è pofſi bile, e conuencuole, Itima che anco tu lo poſſi arriuare. 16 Negli eſercizij corpo rali 1 DIMARCO rali, ſe vno con l'vnghie graffia, o vrtando il capo ha urà fatto piaga, non perciò glie la ſegnamo, ne ce n'of fendiamo, ne ombra ne prendiamo come d'inſidia tore; ancorchè ci guardiamo da lui, non, come da nimi co, ne con ſoſpetto, ma piaceuolmente ſcanſandoci. Queſto medeſimo s'vſi da noi ancora nell'altre parti, che reſtano della vita noſtra, do ue ci affatichiamo aſſai, co me contro quelli, che con noi s'eſercitano; perchè vn può, come ho detto, fcan fargli ſenza ſoſpetto, e odio. 17 Se alcuno potrà cor reggermi, o moſtrarmi, che io dalretto m’abbaglio con l'opinione, e con l'opere, di buona voglia mimuterò, essendo in me brama della vee rità, la quale non nocque mai ad alcuno: ma egli vien leſo dal proprio errore, e dalla ſua ignoranza, nella quale egli perſiſte.Io fo quel lo, ch'appartiene al mio of ficio; l'altre coſe non mi di ſtraggono, perchè ſono ina nimate, o irragioneuoli, o che errano e non riconoscono la strada. De viuenti irragioneuoli, e vniuerfal mente di tutte le coſe, e dem ſoggetti tu come ragioneuo le ſeruitene con grandezza d'animo, e franchezza, giac chè ragione non hanno; ma degli huomini, perchè eſ hanno la ragione, ſeruitene nel modo, checonuiene alla focietà humana. E ſopra tutto inuoca gl'Iddij, e non ti pi 1 gliar penadi quanto tempo tu haida porre in queſta o pera, perchè tre fole ore fo no baſteuoli. Alessandro Macedone, e 'l ſuo mulattiere, ora che ſon morti, ſono in tutto ri dotti al medeſimo. Auue gnachè o ſono aſſunti nell' iſteſſe ſeminali ragioni del Mondo 20 parimente ſono difperfi ne gli atomi. Conſidera quante coſes. dell'animo, o del corpo in yn momento di tempo in qualſiuoglia di noi tutte in ſieme fi facciano; ed in tal guifa non ti marauiglierai, fe molte più coſe, anzi tutto quello, che ſi fà, in queſt vno, c yniuerfo, che noi chiamamo Mondo, parinen te ſufliſtano.in 2Se alcuno t'interro ga, come fi ſcriua il nome & ANTONINO, proferirai tu appuntatamente ciaſcu-. na delle lettere? Che dun que s'egli entrerà in colles ra,entrerai ancor tu in collera? Anzi più toſto profe guendo non conterai tu ad vna ad vna con piaceuolezza le lettere? Però queſto ti ri durrai nella memoria, che ciò, che è conueniente, da alcuni numeri riceue il ſuo compimento.Queſti biſogna offeruare, e ſenza turbarſi, ne ſdegnarſi contro quelli, che prendeſſero Idegno, ter minar la faccenda per lo pro prio cammino. E' come yna crudeltà il non permettere agli huomi ni che ſi diano a far quello, che pare a loro s'adatti, e conuenga. Il che in vn certo modo tu vieti loro di fare, quando, peccando eſſi, tu ti diſguſti, e ti ſdegni; auuegna chè allora ſon portati a quel lo come a coſa, a loro conuc niente, e profitteuole. Ma la cofa, mi dirai, non va così. Dunque tu inſtruiſcili, e ciò dimoſtra loro ſenza alterarti. 22 La morte fa cellare l' impreſſioni, che da i ſenſi si cagionano., le commozioni violente per l'affezioni, co me ancora gli aggiramenti mentali, e ogni ſeruitù ver ſo della carne. Diſdiceuole coſa è, che in quella ſorte di vita, nella quale il corpo non s'infiacchiſce, l'anima prima del corpo s'infieuoliſca. Guarda di non inccfa rirti, per non intriderti, che così fuole auucnire. Però conferua in te ſteſſo la ſchiettezza, la probità, l'inte grità,la conueneuelezza, l'in genuità, l'amore del giuſto, la pietà, la piaceuol ezza, l'humanità, la fermezza nell operare cofe comuenienti. Sforzati di mantenerti tale, quale fu l'intento della Filo ſofia di formarci. Venera gľ Iddij, protegi gli huomini. Breue è la vita, e l' vnico frutto del viuer in terra è vna ſanta compoſtura d'ani mo, ed il far opere indirizza te al comun bene degli altri. In ſomma fa ogni coſa da vero allieuo di ANTONINO, Rio cordati, come egli sempre sta in un retto tuono d'operare ſecondo la ragione dell’uguaglianza ſua in tutte le cose della santità, della serenità della faccia della soauità, del diſprezzo della vanagloria e dell'attenzione nell'apprender gli affari. E come egli non haurebbe trapaſſato coſa alcuna, ſe prima non l'haueſſe ben co noſciuta, e perfettamente confiderata; e come egli comportaua quelli', che di eſſo a torto ſi lamentauano, ſenza ridolerſi diloro; e co ine in coſa alcuna non s'af frettaua, c non ammetteua calunnie; ne de' coſtumi, o dell'azioni era curiofo fpia tore, ne rinfacciatore, non timido non ſoſpettoſo, non ſofifta; ecome conten tauaſi del poco sì nell'abi tare, sì net dormire, sì pel 0 e veſtire, sì nel mangiare, si nella ſeruitù; come, pronto trauagliaua volontieri nel le fatiche, e con longanimi tà; e in qual modo fe la paf ſaua fin alla ſera con leggier riſtoro; non hauendo biſo gno fuor delle ore conſue te delle folite egeſtioni. In oltre conſidera la fermezza di lui fenza niuna variazio ne nell'amicizie; e la tol leranza' di chi liberamente contradicena a’fuoi pareri, e't godimento, fe venina da al tri moſtrata cofa migliore; e come era, religioſo ſenza fuperſtizione: acciocchè nel l'vltinio punto della tua vita ti truoui con fi buon co noſcimento di te fteffo, me'anuenne a lui. Riſuegliati e richiama te fter D fteſlo, e di nuouo fuori del fon no conſidera che i ſogni ti perturbauano, Torna riſuc gliato a rimirare queſte coſe humane, come miraui quelli. 25 Son compoſto di cor picciuolo, e d'anima. Al corpicciuolo dunque ogni coſa è vna, poichè egli non può farui differenza; maall? intendimento tutto quello è indifferente, che non è del le ſue proprie operazioni Ora le ſue operazioni tutte ſono nel di lui potere; e fra queſte, quelle che al preſen te folo maneggia: mentre quelle dell'auuenire, o quel le del paſſato anche eſſe già a lui ſono indifferenti. Non è fuor di natura la fatica alla mano, e al piede, finchè il piede fa quello, che ha da fare il piede, e la ma no quello, che la mano. Co sì ancora all'huomo, come huomo, non è fuor di natu ra la fatica quando opera quello, che ſi ſpetta all’huo mo; c ſe ciò a lui non è fuor di natura, non gli ſta male. Quanti piaceri ſi goderono i maſnadieri, i zanzeri, i par ricidi, i tiranni? Non confi deri come i mecanici artiſti infino agl'idioti in vn certo modo s' accomodano nientedimeno ſoſtengono la regola della loro arte, ne comportano, che da quella ſi manchi, Non farà coſa ſconueneuole, che l'archi tetto, o il medico riſpettino più la ragione della propria arte, che l'huomo la ſua, la quale gli è comune con gli Iddij? L'Asia, l'Europa ſono angoli del Mondo: tutto ľ Oceano vna gocciola del Mondo: il monte Atho una zollerella del Mondo: ogni tempo, che corre yn punto dell'eternità. Tutte ſon coſe piccolc, facili a mutarſi, che preſto fuaniſcono là, donde procedono, deriuando tutte dal comun direttore. Sicchè il grifo del Leone, e'l vele no, e ogni maleficio,come le ſpine, ela mota, ſono giun te forucnute da quelle coſe degne, e buonc. Dunque queſte coſe non reputar alie, ne da quello, che tu riueriſci, ma riuolgi nella tua mente il fonte di tutte le coſe. 28 Chi vede le coſe pre fenti, l'ha vedute tutte, fieno quelle, che furono per tutti i ſe 70 12 lle of chi in ori ſecoli, o quelle, che per gli infiniti ſaranno;eſſendo tutte dell'iſteſſo genere, e confor mità. Conſidera bene ſpeſſo la congiunzione di tutte le coſe mondane,e l'abitudine; o il riſpetto, che vna ha con l'altra; giacchè in certo mo do tra ſe tutte le coſe ſono intrecciate, e così tra di loro, ſecondo queſto, ſi affeziona no, poichè vna ſeguita l'al tra, o ſiaſi per lo moto loca le, o per la coſpirazione, o per l'vnione della ſoſtanzia. Adatta te ſteſſo a que' negozij; che ci ſono toccati in forte, ea quelli huomini, co’quali ſei deſtinato d'eſſere, poni affetto, ma di vero cuo re. Gl'iſtrumenti, gli arneſi, e ognivaſo, ſe a quello, ache è stato ordinato s'accomoda, è buono; ancorchè quegli', che lo fabbricò no vi ſia più. Ma di quelle coſe, che ſotto la natura ſi contengono den tro vi è; eperſeuera la facult tà che le diſpoſe. Perciò tanto più deeſi quella vene rare; e ſtimare, perchè ſe tu opererai, e ti gouernerai conforme al voler di quella, il tutto ti riuſcirà, ſecondo la tua intenzione; così an cora ad ognuno le cofe - rie ſcono, fecondo la mente di lui. 30 Quando fuor di quello, che cade ſotto la tua elezio ne hai a te ſteſſo preſuppoſto o bene, o male', è neceffa. rio, ſecondo l'auuenimento di detto male', o miſauueni mento di detto bene, lan H mentarti degl'Iddij, e anco ra odiar ' gli huomini, che ſieno ſtati cagione, o che a te ſieno ſoſpetti, come che poteſſero eſſer cagione di detti miſauuenimenti, o au uenimenti. E per queſta dif. ferenza verremo pure a peca car molto. Ma ſe folo giudi chiamo le coſe buone o cattiue, che ſono in noftro potere, non ci rimane niuna cagione, ne di dolerci di Dio, ne di contro gli huo mini con oſtil ſedizione op porci - 31 Tutti cooperiamo a compiere l'iſteſſo ouraggio, alcuni ſapendo, e compren dendolo alcuni ſenza ſaper lo. E quindi, al mio parere, Heraclito chiama operarij, e cooperarij nel facimento di tutto quello, che nel Mondo ſi fajanco da'dormienti.Altri in altro modo coopera, e molto largamente ancora quegli, che ſi querela, e que gli, che ſi sforza d'opporſi, e di diſtrugger le coſe,che ſi fanno: concioffiecoſa che, di ciò hebbe meſtiere ilMon do. Reſta dunque, che tu intenda tra quali di queſti tutti annoueri; poichè l’ ordinator del tutto in ogni maniera ſi ſeruirà bene di te, e ti riceuerà in qualche parte di quelli, che cooperano, 0 poſſono operare; ma tu fa di non hauer tal parte, quale nel dramavn vile, e ridico lo verſo mentouato da Cri ſippo. Forſe che'l sol ambiſce far da pioggia? ed Eſculapio da terra fruttifera? Non vedi com 3 li H 2 me ciaſcuna ſtella, quantun que dall'altre diuerfa, nien tediineno al facimento di vna, e iſteſſa coſa concor re 32 Se dunquegl'Iddij han no deliberato dime, e delle coſe, che a me ſono per au uenire, la deliberazione non farà, ſe non buona: hauena do in fe repugnanza il penſar yn Dio ſenzaconſiglio. Qual cagione lo mouerebbe a far mi del male? Poſciachè a los ro, e all'vniuerſo, del quale hanno ſpezial promuidenza, da ciò che ne riſulterebbe? ma ſe intorno a me non de liberarono, certamente in torno dell' vniuerfo hanno deliberato, per cui conſe guenza eſſendo queſti auue nimenti ordinati, debbo ab bracciarli, ed eſſer contento. Se poi di nulla ſi pigliano cura, il che è empio a crede Te, non facrifichiamo noi? non porghiamo preghiere? non giuriamo? e non faccia mo altre coſe, le quali tutte agl' Iddij, come ſe foſſero prefenti, e conuerſaſſero con noi; indirizziąmo? E ſean cora niente in riguardo no ftro deliberano, farà lecito ch'io pigli deliberazione di me ftcflojie la mia riſoluzio nenon farà altro, che intor no a quello, che mi torna 'bene;maquello torna bene a ciaſcheduno', che è fecon do la ſua conſtituzione, e nåtura. Ora la mia natura è ragioneuole, c cittadineſca. La Città, e la patria è a me Roma, in quanto ſon ma in quanto ſon huo. mo è il Mondo. Dunque quelle coſe, che a queſte Cittadi sono d'vtile, quelle fole ſono a mebuone. Quello che a ciaſcuno auuiene, conferiſce al' tutto. Queſto doueua effer fufficientes ma ancora di più quello in ogni maniera con perfpicacia of feruerai, che ciò, che acca de conferente all'huomo, anche agli altri huomini conferiſce. Ma al preſente s'intenda queſta parola Eup Os pov nelle coſe mezzane in ſenſo comune al bene, e al male. Come quanto ti ſi rap preſenta nella faccia del Theatro, o di ſimili luoghi, fe in vn modoſempre ſi ve de, e non mai cambi l'aſpetto, diuiene ſazieuole alla vi fta, l'iſtella apprenſione ſi fa negli auuenimenti per tutta la vita. Poichè ſottoſopra tutte le coſe ſono le medeſi me, e dalle medeſine ca gioni. Sin doue dunque? Conſidera del continuo tuto te le ſorti d' huomini, e ď ogni ſorte di profeſſione, e di tutte le nazioni, quei che fono morti, con arriuare fi no a Filiſtione, Febo, e Ori ganione. Paffa adeſſo ad al tre nazioni. Colà hauemo da tragettare, doue traget tarono tanti graui oratori, tanti venerandi Filoſofi. He. raclito, Pitagora, Socrate, tanti Eroi primieramente, e poi tanti condottieri, e ti ranni: e appreſſo a loro Eu doſſo, Hipparco, Archimede, e altri di perſpicace ingegno, magnanimi, amatori della fatica, Scaltriti, arroganti: e quelli ancora, che di que fta vita humana caduca, e giornaliera ſi ferono beffe come Menippo, e ſimili. Tut ti queſti conſidera che già yn pezzo fa giacciono. Ora che male è a loro queſto, e che male a quelli ancora, che in tutto ſono ſenza niuna no minata? Vna coſa iui è dc gna di ſtima, il viucr tran quillamente con li bugiardi, e gl'ingiuſti, vſando la veri, tà,e la giuſtizia. 34. Quando tu vogli ralle grarti, riuolgil'animo all’ec cellenze di quei:, ché teco viuono: come a dire all'atti uità di quegli, alla modeſtia di queſti, alla liberalità d? vno e così ad altra virtù di qualche altro. Non ci effen, do cofa, che tanto rallegri, quanto le ſomiglianze delle virtudi alviuo rilucenti nelli coftumi de contemporaneiig le quali tutte in vn tratto in fieme a noi rappreſentano. Per lo cheper quanto è pof fibile, le hai d ' hauer ſempre alle mano. Forſi tu ti duoli, che fei ſolamente di tante libbre, e non di trecento di Nell' iſtefla maniera, che fino a tanti anni prolungherai la vita, e non più. Perchè co me della ſoſtanzia corporea in quanto the determinata e acquieti, così fa ancora del tempo. 36. Sforciamoci di render gli huomini capaci: però o pereremo ancora qualche cofà contra guſto loro, quan do la ragione del giuſto così richieda.E ſe qualcuno vſan doti violenzati si oppone, trapaſſa alla placidezza fen za dolerti; e dell'impedimen to feruitene per vn'altra, vir tù; e ricordati che tu deſideri le coſe con dell'eccettuazio ne, non appetendocofe im. poflibili. Che coſa dunque appetiſco? quel certo defi derio regolato; e queſto tu ottieniquando, arriua quel lo, che primo, e principal mente viene deſiderato. L'amator della gloria dall'opere d'altri ſi perſuade il proprio bene; quegli, che ama la voluttà, dalle ſue pafſioni: ma chi ha ceruello, dalla propria operazione! E' in tuo potere ſopra ciò non formarne opinione, e non perturbarti nell'animo. concioſliecoſa che niuna co fa ha vna natural poffanza ſopra i noſtri giudicii. Auuezzate ſteſſo ad apo plicare attentamente a quel le coſe, che da vn'altro fo no dette; e più che puoi in ternâtinell'animo di chi fta parlandoti. 40 Quello, che non è gio. neuoleallo fciame, ne' meno gioua alla pecchia.  Se i marinari parlaffe Fo male del loro piloto, 0 gli ammalari del loro media co, forſe per ciò ad altro ar tenderebbono, che all'opera re, quegli per la ſaluezza de' nauiganti, e queſti per la fanità di quei, che fi ciira no? Quanti fon già morti diquelli, che meco ſon en trati nel Mondo? -43. Aglitterici pare ilme-, le amaro: e a ' morſi da ani mal rabbioſo l'acqua è di terrore: e alli putti è coſa bella il palloncino. A che dunque io m'adiro? forſi.pa re a te, che habbia minor forza quello, che falſamen te s'apprende, di quello cheha la bile nell'itterico, o'l veleno nell'arrabbiato a Non t'impedirà perſona, che tu non viua ſecondo la condizione della tua natu rà: e niente t'amierrà fuori della ragione della natura dell’vniuerfo.. 44 Quali ſono quelli, alli quali ſi deſidcra d'andar a verſo, e per qualiauuenimen, ti, e con quali opere? 0 quanto preſto i ſecoli ogni coſa copriranno, e quante han di già ricoperte! Che coſa è la mal nagità? è quello, che ſpeſſo hai veduto; e ad ognicoſa, che ti ſoprauuenga, prontamente rappreſon tati, eſſer lo ſteſſo, che ſpef fo hai veduto. Vniucrſala mente nelle coſe ſuperiori, ed inferiori, trouerai le me deſime, delle quali ſono pie nele Storie antiche, e quelle di mezzo tempo, e lemoder ne, e ora ne ſono piene le cittadi, e le caſe. Non ci è niente di nuouo, tutto è vſa to, e di corta durata. I dogmi, in qual' altra maniera ſi potranno in te cancellare ſe l'immagina zioni., che a quelli ſono con formi non ſi eſtinguono, le quali, a te ſta di continua menté rauuiuare? Reſta in mio poter di fare intorno a ciò quel concetto, che ſi conuiene: e ſe ſta nel poter mio, a chemi turbo? Quel lo, ch'è fuori della mia men te, non ha che fare in modo alcuno con la medeſima mente. Queſtoſia il tuo ſen timento, e cositu ſei retto. 3 Pofciache in tua balia è il ritornare in vita, riconoſci le coſe nel modo, che le hai già vedute; perchè in ciò conſiſte il ritornare in vita: Tali ſono la vana curioſità delle pompe, le rappreſen tazioni nelle fecne, i bran chi d'animali, le mandre, i giuochi d'arme; vn ofſetto gettato a cagnolini; i minuz žoli di pane buttati nel viua io de' pefci, i trauagli, e il vettureggiare delle formi che, le corfe in quà se'n là de toperti ſpauentati, i bam bocei, a quali ſi fanno far de moti con cordićelle. Bi fogna dunque tra queſte coſe fermarſi con animo tranquil lo, e ſenza ſtrepito: e confe guentemente apprendere, che tanto ciaſcun vale,quan to vagliono le coſe, intorno alle quali s'affanna. 4 E' neceſſario attendere nel parlare parola per parola a quello, che ſi dice: e nell' operare ad ogni moto: e nel l'vno riguardare ſubito a qual fine ſi rapporti; e nell? altro oſſeruare quello, che venga ſignificato 5 E' ſufficiente il mio intel letto per queſto, o non è? s' egli è ſufficiente io me ne vaglio come d'inſtrumento datomi dalla natura dell'yni uerſo nell'opcrare; se non è ſufficiente, o io cedo l'ope ra a chi poffa meglio di me condurla a fine, ſe non foſſe a me ſteſſo ſpettante, o vero la fo come poffo, feruendomi dell'aiuto di quegli, che può cooperando col mio intellet to effettuare quelloche ſia di preſente opportuno, e vtile alla comunione humana:per ciocchè ciò che fo, o da per 3 2 3 ine me ſolo, o con altri, dee ſolo indirizzarſi a quello ch'è pro ficuo, e più proporzionato al comune. Quanti, che ſom mamente furono celebrati, di già ſono paſſati nell'obbli uione? E quanti, che li cele brarono già tempo fa, ſono ſpariti a Non ti vergognar d effere aiutato; poichè ti con uiene operare quello, che ti appartiene, come ad vn ſol dato nell'affalto d'vna mura glia. Che dunque fareſti, ſe azzopppato non poteffi ſolo aſcendere fu i merli, e con yn altro poteſſi farlo? 6 Quello, che ha da auueni re non ti ſgomenti, perchè giugnerai a quello, fe ſarà di vopo, fornito dell'iſteſſa ra; gione, della quale tu ora ti ferui in ciò, che t'è preſente. olo bro gal ]l DO ď ti -7 Tutte le coſe ſono tra di loro auuinte, ed il nodo è fa cro, e quaſi' niuna è all'altra ſtraniera. Concioffie cofa che tra fc sono ordinatamente disposte, e adornano l'istesso mondo, poichè di tutte le coſe queſto è vno, e Dio è vno per tutto, vna la natura, e yna la legge, vna la ragio ne comune a tutti i viuenti intellettuali, e la verità yna, doue pure vna è la perfezio ne di quelli, che ſono dell' iſteſſo genere, e di quei, che della medeſima ragione par ticipano. Ogni coſa materia le preſtamente va a ſuanire nella ſoſtanzia dell'vniuerfo: e ogni cagione'efficiente pre ſtamente è aſſorbita dalla ragione vniuerſale. I ſecoli ancora dentro di fe ſeppelli ſcono lo ni. che id at to s ſcono preſtamente la mc moria di ciaſcheduno, s,is:: 8 L'animal ragioneuole ha la medeſima opcrazionéry fe condo la natura se ſecondo la ragione, o retto o raddirizzato. Con qual? abitudine fi riguardano i membrivnitid vn corpo con tale fi confans no gli enti ragioneuoli, ben chè diſuniti, PER HAVER DISPOSIZIONE A CONCORRERE IN UNA COOPERAZIONE. E maggior mente ti s'imprimerà l'intelligenza di queſto, ſe ſpeffe fiate diraia te ſteffo « Io ſono membro di queſto, aduna mento di razionali. Ma ſe col mutamento d'yna lettera dip'sno, cioè membro, farai fe'egos, che fuona parte, non di cuore porterai amore agli huo INC die a re ſteſſo. id -11 huomini, ene anche tu non ti compiacerai fenz hauere altro fine della beneficienza f operando per 'mera conue polo nienza, e non come per far beneficio. 10 Accada ciò che ſi vuole i d'eſteriori arucnimenti ſopra a coloro, che poſſono patir queſti accidenti, e quelli pa tendo ſi querelino pure à lor e voglia: che quanto a me, se io non reputo che ſia male l'auuenuto accidente,non ne reſto lefo: ora da me dipen de il non reputarlo. II Qualunque coſa altri ſi faccia, o ſi dica, tocca a med eſſer huomo dabbene:non al trimente, che ſe l'oroj ouero lo ſmeraldo, o la porporaco si delcontinuo diceſse; Che che altri ſi faccia, o dica; a na or el file 7110 Nad fe -em are di col me 1POC fuc da са ) ſim bil vie La 011 me tocca d ' eſſere ſmeraldo, e di ritenere il mio proprio colore. La porzione, che è in noi reggitrice,non è a ſe ſteſ ſa moleſta, cioè à dire, ella non s'atterriſce ne s'affige con la cupidigia, e ſe altri è poſſente d'atterrirla, ò di contriftarla, lo faccia. Certo è cheda per ſe ſteſſa con l'ap prenſione non fi riuolgerà a tali commouimenti. Alcor, picciuolo ſi laſci il penſiero, che non patiſca coſa alcuna, ſe potrà; e ſe patiſce lo dica. Però l'animuccia, che teme, e s'attriſta, e riceuc total mente l'apprenſione, niente patirà; concioffiecofa che non procederà mai al giudizio di cose simili. Quanto a ſe ſteſſa la por qu Id nd CC n  A 0 porzione in noi réggitrice è fuori d'ognibiſogno, ſepure da ſe ſteſſa ella non ſi fabbri ca la neceſsità, e nella mede fima maniera è imperturba bile, ed incapace d'impedi mento, fe da ſe ſteſſa non vien perturbata, o impedita. La felicità è il buon genio, o l'iſteſſo bene. Che dunque quì fai o fantaſia? deh pergľ Iddij, vattene comevenifti, nonho vopo di te.Seivenuta conforme all'antica vfanza: non m'adiro teco; ma vatte ne vna volta. 14 Alcuno ha paura della tramutazione; e qual coſa può eſſere ſenza tramutazio ne, e quale è più di lei ami ca, o domeſtica alla natura dell'yniuerfo? Ti potreſti tu lauare, ſe le legne non ſi tra 2 1 21 -2 al che d 1 mil 1mutaſsero? ti potreſti nutri re, ſe i camangiari non ſi tra mutaſſero? che altro fi com pierebbe di neceſſario ſenza la mutazione?Non vedi dun que come ancora il tuo tra mutarti è confacerole, e pa rimenre neceſſario alla natu ra dell'yniuerſo?. Per l'effen za di queſto trapaſſano quaſi per yn torrente tutti i cor pi connaturali; e cooperanti con l'yniuerfo, almodo che le parti noſtre tra di loro cooperano. QuantiChriſippi, quanti Socrati, quantiEpit teti il tempo s'è inghiottito? l'iſteſſo in fatti ti ſouuenga di qualunque huomo, e di qua lunque coſa. Vna coſa fola cruciandomi mi ſcontorce, cioè, che io non forſe faccia quello, che la conſtituzione dell'huomo non vuole, o nel la maniera, che non vuole, o come al preſente non vuole. Tra poco tu ti ſcorderai di tutti, e tra poco tutti ſi ſcor deranno di te. 15 Proprio è dell'huomo amare anco quelli, che erra no;e queſto ſi fa, ſe nel mede ſimo tempo ti ſouuerrà, che quelli, che peccano, ſono a te congiunti; e che o per ignoranza, o non volendo, peccano; e come tra breuil ſimo tempo, e tu, e quellive n'andrete: e ſopra tutto per chè non ti ha leſo, mentre la porzione tua principale non l'ha deteriorata più che per linnanzi ella ſi foſſe. 16 La natura dell' vniuerfo dall'eſſenza vniuerfale, come ha ora formato vn ca: 3. da cera, 194 LIBRO SETTIMO caualluccio, e poi, quello di ftruggendo, ſe n'è valuta per materia d ' yn albero di poi d'vn homicciuolo, e appref lo per qualch' altra coſa; e ciaſcuna di queſte ha durato per cortiffimo ſpazio. Non reca al caffettino molcftia if diſcomporlo, ficome non gliela recò ne meno il fabbricarlo. La ſdegnoſa torbidez za del volto è oltre modo fuordel naturale; perchè fa fpeſſe fiate ſuanire la gratia di quello, ouero alla fine in guifa l'eſtingue, ch'ella non poſla giammai più ràuuiuarſi: Dunque, per queſto iſteſſo sforzati di apprendere che quello è fuori della ragione; poſciachè, ſe il riſentimento contra il peccare fi perde, a che gioua il viuere? 18 Le coſe, che tu vedi, tutto tra poco le muterà la natura, che gouerna il tutto; e dall'eſſere di queſte pro durrà altre cofe, come di nuouo altre dall' effenza di quelle, acciocchè il Mondo di continuo ſi conferui in giouentù. 19 Quando vn commerta errore contro di re, toſto conſidera, che coſa egli pec Cando s'immaginò di bene, o dimale: perchè,conoſcen do queſto, lo compatirai, ſenza marauigliarti, o adi Tarti. Pofciache o formerai l'isteſſo concetto del bene ch' eſſo formò, o altro ſimi le a quello concepirai, on de fia neceſſario perdonar gli. Ma quando anco tu non 1 3 2 I 2 facefli lifteffo concetto del bene, o delmale, ti renderai più facilmente benigno ver fo colui, che ha traueduto. 20 Non s'hanno da conſi derare le coſe aſſenti nel ino do di quelle, che ora ſono: ma fi dee ſcegliere delle preſenti le più abili, e ricor darſi con quanto ſtudio quc fte fi cercherebbono, fe non foſſero preſenti. Però è inſic me da guardare cheper trop. po gradirle non ti auuezzi a ſtimarle vantaggioſamente., a ſegno tale, che, ſe ti inan caffero, te ne turbaſſi. 1.21 Raccogliti in te mede mo. La parte ragioncuole, e principale, è di tal natura, ch'è ſufficiente a ſe ſteffa, quando giuſtamente opera; e in ciò truoua la sua quiere. Scancella l'immaginazione, arreſta la violenza delle par fioni, circonfcriui il prefente del tempo, riconoſci quello, che auuiene così a te, come ad altri: diftingui, e partiſci quello, che ti ſta fra mano nelle fue cagionimateriali, e caufali: figurati l'vltima ora: laſcia l'errore comineffo a quello, e dove fu l'errore. L'animo dee star applicato a quanto si dice e la mente dee internarsi nelle cose operate, e negli operanti: Abbelliſci te ſteffo colla ſemplicità, è vergogna, e coll indifferenza, ch'è in mezzo tra la virtù, e'l vizio. Ama il genere humano, con formati con Dio. Quegli diſſe, ogni coſa eſſer ordina ta con legge certa, ma gl’elementi soli muoverſi con mouimento incerto, e for tuito. Baſta hauer nella me moria tutte le coſe eſſere rc golate con legge fiſſa, c po chiffime andare a caſo.. 23 Intorno alla morte: 0 è diſipazione, o atomi, o euacuazione, o eſtinzione, o trapaſſo. Intorno al dolore: fe non è ſoffribile porta via ſe fi allunga nõ è inſoffribile; e l'animo nel formare i con cetti conferua la ſua pro pria tranquillità, e la parte ſuperiore non peggiora: le parti affitre dal dolore, ſe poſſono,palefino il loro ſen timento. Intorno alla glo ria: riguarda gli animi di co loro, quali ſieno, e qualico fe abborriſchino, e qualiap petiſchino: e come l'arene de i lidi, che vna ſopra l'al tra venendo a ſoprapporſi naſcondono le prime, fimil mente nel noſtro viuere le coſe antecedenti ſono dalle foprauuenute ben preſto ca cellate. 24 Da Platone. Penſi tu dunque, che quegli, che ha penfieri da magnanimo colla fpeculazione d'ogni tempo, e d'ogni ſoſtanzia faccia gran concetto del viuere dell'huo po? Non può eſſer che ſia, riſpoſe. Dunque ne queſti potrà reputare che ſia male la morte. Non per certo. Detto di Antiftene. E' coſa da Re operar bene, e riceuer ne biaſimo. E ' ſconuenelio le, che'l noſtro volto obbe diſca, e ſi regoli, e s'abbel liſca, come la noſtra mente I 4 or 200 LIBRO SETTIMO ordina, e che queſta per fe medeſima non ſi regoli, ne ſi abbelliſca. Se con le cofe diſdegnar ti vuoi Che non curan diſdegno, il tutto è vano. A i mumi da cui morte va lontano Diaſi allegreza,e diaſi pur'a noi. Che ſi tronchi la vita, come ſuole Matura Spiga, e un viua, e un ' altro mora Che di me cura, e de' miei figli 'ancora Non ſi prendan gl'Iddij, ragion il vuole. 26 Da Platone. Io riſpon derei con giuſta riſpoſta. Che tu, o huomo, non ben diſcorri, ſe penſi douere fti mar coſa di gran momento il viuere, o il morire dell huomo, per poco ch'effo va glia, e non più toſto queſto solo confiderare, cioè, ſe quando opera, operi coſe giuſte, o non giufte e da huo mo buono, o cattiuo. Così il vero ſta, o citta dini d ' Athene: fe alcuno reputando il poſto cfler otti mo vi ſi collocherà Principe vi farà collocato, " conuiene, come a me pare, ch'iui ſi fermi, anco che vi foſſc pericolo, non facendo conto ne della morte d'altro, fuori che della brut tezza. Ma poni cura, o galant huomo, ſe altra coſa è l'effer buono, e generoſo, che'l faluare altri, e faluare ſe Ateffo · Concioffiecoſa che non è da deſiderarſi dall ' huomo veramente prodc la vita lunga,ne dee ftare appiccicato al yiuere, ma rimet terſi intorno a tutto ciò in Dio, credendo alle donne, che neſſuno può ſcanſare il fato; e in conſeguenza qui ha da premere in qual ma niera poſſa impiegare, per ottimamente viuere, il tem po, che gli reſta da viuere. Offerua il corſo delle ſtelle, comeſe tu giraffi in compagnia loro e confide ra del continuo le vicende uoli tramutazioni degli ele menti; perchè coll' appren fioni di queſte coſe fi purifi cano l'immondizie della vi ta terrena. Bene ne i diſcorſi dell'huomo fu da Platone af ſerito che ſi debbono con templar le coſe terrene, co me da alto in baſſo, le con greghe, gli eſerciti, i lano ri et is 20 90 7.1 her III le in ri de'campi, i congiugnimen ti de' parentadi, i diſciogli menti, le nafcite, le morti, gli ſtrepiti de' tribunali, i paefi diſertati, le varietà del te genti barbare, le feſte, i pianti, imercati,il rimeſco famento del tutto, e l'abbel limento del Mondo per le coſe tra di loro contrarie. Riuedi conſideratamen te le coſe dianzi ſuccedute: le tante mutazioni degl'Im perij. E lecito ancora preue dere le coſe future: perchè a tutti i modi hauranno l' iſteffa ſomiglianza, c non trauſeranno mai dall' ordine di quelle, che al preſente ſi fanno. Quindi auuione che il miſurar la vita humana con anni quaranta non ſia diffe rent e dal miſurarla con an 1 fir 1 0 I 6 ni 204ni diecimila. Perchè qual coſa vedrai tu di più? Vanno indietro le coſe, e ciò che diede La terra in terra, e nel celefte templo Ciò che venne dall'etera ſen riede Ouero queſta è, yna riſolu zione degl'intrecciamenti de gli atomised vna diſſipazione degli elementi, che non ſog giacciono à paſſione. Con beuande,con cibi,e con magia Della morte cerchiam ſuolger la via. Conuien Soffrir con ftenti, e ad occhi afciutti Il vento,ch'a noiSpira dagl'Iddi 29 Rieſce vno più di te de ftro nella lotta per atterrare gli altri: ma non ſia più co municatiuo, non più riſpet toſo, non più compofto ne gli accidenti, non più benigno verso gli abbagliamenti de ' profſimi. 30.: Douc, secondo l'intendimento comune agl’Iddij, e agli huomini,ſi può condurre vn'opera à fine, iui non è del male: auuegnachè doue è le cito di trouar l'vtile per l'o perazione, che proſpera mente s’auanza, e non trali gna dalla ſua diſpoſizione, iuinon s'ha da ſoſpettar di danno. In ogni luogo, e in ogni tempo ſta in re il pren der a grado, con la douuta pietà, quello, che preſente mente accade, e di portarti con glihuomini, li quali con te conuiuono, giuſtamente, ed eſaminare efattamente quello, che fi rappreſenta all'immaginazione; accioc chè non vi fubentri qualche coſa, che non ſia per prima bene compreſa. 31 Non inueftigare ciò che ad altri paſſa per la men te, ma riguarda diritta mente à quello, a che la natura ti conduce, o ſia quel la dell'vniuerfo, per le coſe che ti accadono, ouero la tua, per l'azioni, che da te dependono. Ora quellos? haurà a fare da ciaſcuno, che conſeguentemente corriſpo de alla ſua diſpoſizione. Per rò tutte l'altre coſe ſono diſm poſte per quelli, che ſono ragioneuoli, come in ogni altra l'inferiori in riguardo delle migliori, e le ragioner. uoli l'vna per l'altra.Dunque il primo e principale nella: diſpoſizione dell'huomo ſi è l’essere COMMUNICATIVO. Secondariamente non arrenderſi alle corporali inclinazioni. Concioſliecoſa che proprio del mouimiento ragioneuo le, e. intellettuale è dicir confcriuer fc fteffo, e non laſciarſi ſottomettere da mo. ti ſenſuali, o impetuolis poi chè tanto gli yni, quanto gli altri hanno del beſtiale. Ma la intellettiua vuol la preininenza, e non eſſere do minata da quelli: e a ragio ne; perchè è fatta per feruir ſi di tutti quelli. Il terzo nel la ragioneuole conſtruzione, è di non trauedere, nc d'ef ſer ſoppiantato. A queſte co ſe dunque applicata la men te proceda a dirittura, e co si conſeguirà quello, ch'è fuo proprio. 32 Come tu non hauefli havuto a uiuere, che fin ora, e già foffi morto, queſto fo pra più che c'è dato diuiuere, dourai viuerlo fecondo la natura, folamente contento di quello, che ti auuenga, e che ti è deſtinato dal fato, imperocchè qual coſa ti può efferpiù couveniente? 33 In ogni accidente vo glionfi hauere auanti agli oc chiquellija' quali occorſero cafi fimili, e che poi fi dole uano, e ſembrado loro ftrano fi lamentauano. Doue dun que ſono eglino ora? in niun fuogo. Vorrai tu dunque fare altrettanto? Perchè non la fci gli altrui rigui alli rigi ranti, e rigirati?: e non te ne ftai tutto intento come ti habbi da ſeruire di tali acci denti? Te ne feruirai dunque bene, e quelli ti ſerui ranno per materia. In ogni coſa, che farai; non hai da applicare ad altro, ne altro proccurare, che d'effer a te Iteffo buono. Nell' yno, e -nell'altro (fia di ciò, che hai da ſcanſare, o ſia di ciò, che hai da fare ricordati che'l foggetto dell'operazione è indifferente. Con perspicacia rimira dentro te stesso, che la fonte del benc è dentro di te, la quale non ceſſerà mai di ſca turire, ſe tu di continuo la terrai ſcanata. 35 Il corpo ha da ſtar fiffo, e non ſi ſtorcere, o fia nel moto, o fia nella poſtura. Perchè nel modo, che l'ani mo imprime vn certo che nella faccia, ferbandola ſe 7 1 Il ria, e ben composta, al trettanto ſi dee ricercare che ſegua intieramente nel corpo; e tutte queſte coſe s'hanno da offeruare fcirza affettazione. Il noſtro modo di viuere è più da affomi gliarſi alla Paleſtra, o lotta, che all'Orcheſtra, o al ballo; douendo alle coſeche ſopra uuengono, e non ſono pre ucdute trouarſi appareccħia to, e fermo pernon cadere. Giammai non laſcerai d'eſaminare quali ſieno quel li, dalli quali tu brami le te ſtimonianze, e quali l'inten zionidella loro mentc: per chè ne accuſerai quelli, i quali peccano inuolontaria mente, ne ricercherai la lo ro teftimonianza, fc rimire rai da qual fonte ſcaturiſco no 10 a,al ercare ate ni € fcuzi mode allomis Torta ballo lopera t no le loro opinioni, e i loro appetiti. Niun'anima, diſſe que gli, di ſua fpontanea elezio ne ſi priua della verità. L'i ſteſſo s'ha da dire intorno al la giuſtizia, alla temperanza, alla benignità, e a tutte le ſi mili.Però è fommamente ne ceffario di non mai ſcordar d'ognuno ſarai più benigno. In ogni coſa penoſa, che ti ſucceda, ti fouuenga prontamente che quella non ha bruttezza, ne può peggiorare la mente in noi reggitrice; poichè non le nuoce, nene in quanto è ragio neuole, ne in quanto è co municatiua; e nella maggior parte de dolori ti venga in mente quello d'Epicuro; Che to pre cchia dere ulcera quel let inter: per Uli, / taria a lo mit rico no 2 I 2Che non è intollerabile, o non è eterno; ricordandoti però di laſciarlo ne' ſuoi termini fen za aggiugnerui altro con la tua opinione. Ancora quel lo hai da hauer a mente, che molte coſe, che partecipa 110 propriamente del dolore, copertaméte ci trauagliano: come è l'hauer ſonnolenza, lo fmaniar di caldo, il patir faſtio di ſtomaco '. Quando dunquc alcuna diqueſte coſe maltolenticri ſopporti, con feffa a te fteffo d' ellerti arre ſo al dolore. Auuerti di non hauere tal volta quell' auuerſione agl'inhumani, che gl'inhu manihanno agli huomini. 40 Donde argomentiamo, che Socrate foffe illuſtre, e di diſpoſizione d'animo migliore? Mentre non baſta, che haueffe vna morte delle più glorioſe, c più acutamen te co ' Sofiſti diſputaſſe più ſofferentemente ſopra'l ghiaccio pernottaſſe, e co mandato a condurre quel Salaminio, più d'ogni altro generoſamente fi moſtraſſe renitente, e che per le ſtrade andaſſe con graue contegno. Intorno a che era aſſai da in ueftigare le così era vera mente. Maquello è neceffa rio conſiderare, qual ' animo s'haueſſe Socrate, e ſe egli po teſſe appagarſi d'effer giuſto inuerſo gl’huomini, e fanto inuerſo gļIddij,nő iſdegnan doſi temerariamente contro la malizia, ne punto feruen do all'ignoranza d'alcuno, ne accettando come ſtranie Fit Ho fe je. Te ne ng€ ra uc PC PE ra alcuna cofa datagli dall' vniuerſo, o ſopportandola come intollerabilc: në hauef ſe mai acconſentito, c piega to l'animo alle paſſioni della carnuccia. La natura non in fi corporò talmente il compó fto, quaſi che l'huomo non poſſariſtrignere, e regolar ſe lo medeſimo e far le ſue proprie VE coſe foggiaceré a ſe feflo. 41 Può eſſere facilmente, in che vn diuenga huomo diri no, e non fia conoſciuto da alcuno. Ricordati ſempre di queſto: e in oltre di quello, 1 che?l viucre felicemente conſiſte in pochiſſime coſe. E non perchè habbi tu per duto la ſperanza d' eſſere Dialettico, o Fiſico, ti ſtime rai rigettato dal poter eſſer libero, pudico, comunicati uO. E I uo, e oſsequente a Dio. 42 Senza alcuna violenza potrai trapaſſare la vita in vna piena giocondità, an corchè tutti ſtrepitino,come fi voglino, ancorchè le belue ſtrappino i membricciuoli di queſta mafsa, che t'è cres ſciuta addoſſo, perchè, che vieta in tutte queſte coſe ala l'animo di conferuar ſe ſteſso in tranquillità, e nel giudi cio vero delli circonſtanti accidenti, e collyſo pronto i delle coſe preſenzialmente ayuemute: in modo che poſsa il giudicio ſentenziare ſopra è quello, che vien accadendo: queſto fe' in ſoſtanza, ben chè lecondo l'opinione, al tro appariſci; e l'vſo poſsa di re all'accidente: tu fe' quel lo, ch'io cercaua. Perchè fem - 01 te elle est sempre quello, ch'è preſen te, ferue per materia della virtù ragioneuole, e ciuile; e inſomma è materia dell'ar te dell'huomo,ouero di Dio. Laonde tutto quello, che auuiene ſi fà famigliare a Dio o all'huomo; e non è coſa nuoua, ne intrattabile, ma conoſciuta, e maneggieuo le. 43 La perfezione de'coſtu mi porta feco queſto; ch? ogni giorno ſi trapaſſi come fe foffe l'vltimo, non ſi com mouendo a coſa alcuna, ne con iftordimento, ne con fi mulazione 44 GI'Iddij eſsendo immor tålicnon hanno a male, che in tanti ſecoli ſia a tutti lo to neceſsario comportare ta li, e tanti fcelerati, anzi han Q b f Uella bile ar Dio. che Dio cola m2 Cuo hanno in oltre di quelli vna total cura; e tu che ſtai già per mancare ti ſtracchi, non oſtante che tu ſij vno degli ſcelerati? è da riderſenc; tu non fuggi la tua propria mal uagità, il che è poſſibile, ę fuggi quella deglialtri, il che t'è impoffibile. 45 Quello, che la facultà ragioneuole, e ciuile truoua, non fecondo l'intelletto, ne ſecondo la ſocietà, con buon dettame lo giudica più viledi fe ftefla. 46 Quando tu hai benéfica to, e vi altro ha riceuuto il beneficio, oltre di queſto che terza cofa pretendi,comefan no i pazzi, di parer d'hauer fatto bene, e d'hauer a rice uere il contracambio? niuno s'affatica, mentre riceue vtili K tå, oſtur ch 9 come COM 2, ne ont 7mor s che tti lo are ta anzi 9 Tantà, e mentre l'vtile è azione ſecondo la natura; non ti af, fannar dunque riceuendo yti lità in quello che tu ſe'di gio uamento agli altri. La natura dell’yniuerlo per proprio inſtinto venne alla fabbrica del mondo, donde è che ora tutto ciò, che ſi va facendo, procede in ſeguime to di quello; ouero le coſe principaliffime, alle quali la mente reggitrice del Mondo ha:vna particolar inclinazio ne, ſono ſenza ragion prodot te. Se tu ciò a memoria ha urai, ti renderà più tranquillo in molte cse. E è azione non tia4 ndowe 'digia erloper e alla Ponde fi va imé coff lila 1 do 1 10 ota 1 Vello ancora è gio ueuole contro la vanagloria, con fiderare, che non iſta più in tuo potere l'eſſer viuuto tutta la vita, o almeno la paſſata dopo la giouentù, filoſofica mente: ma a molti altri, e a te medeſimo hai dato a co nofcere, che tu ſeben lonta no dalla DALLA FILOSOFIA. Dunque ti truoui imbrogliato: perchè K 2 1 1 # oramai non ti è più facile.d ' acquiſtare ſtima di Filoſofo, ſenza che ti è contraria ancor ra la tua profeſſione. Se adun que tu penetraſti veramente fin doue conſiſte ľaffare, non ti curar quale tú habbi da ef ſer riputato, ma baſtiti ſe tu il reſto menerai della vita,fe cõdo il dertame della tua na: tura. Conſidera dunque quel lo,ch'eſſa ſivoglia, ne altroiti diſtragga: perciocchè hai già prouato per quantecoſe ſe'i to vagando, ne mai in niuna hai trouato il ben viuere, ne nel fillogizzare, ne nella ric chezza, ne nella gloria,nenei piaceri, ne in che ſi fia. Don ue dunque farà? nell'operare ciò, che richiede l'iſteffa na tura humana. Come dunque queſto li eſeguirà? quand'v no faciled Elofoto ta anch eader zmente y101 dach fetu 2,fe na no haurà nell'animo fermati queidogmi, dalli quali han no origine gliappetiti, elo pere. E quali ſono queſti do gmi? quelli, che appartengo no ai beni, e a i mali, come nulla eſſer bene all'huomo, che non lo renda giuſto, tem peratoforte, liberale, enulla male, ſe non quello, che ope ra il contrario delle coſe ſud dette, 2 In ogni operazione in terroga così te ſteſſo: in qual maniera queſtaa me fi confà? forfe appreffo non ine ne pen. cirò a Di qui ' a poco io farò porto, e ogni coſa fuanirà. Che coſa di più ricerco, ſe no che l'azione preſente cõuen ga ad animale ragioneuole, e comunicatiuo, e che nella legge ſi conformi con Dio? Alessandro, Caiose Pompeio, che coſa ſono appetto a DIOGENE, ERACLITO, E SOCRATE? Queſti penetrarono le coſe, e le cagioni,e le materie, e tali erano le menti loro: ma quelli a quanti haueuano da prouedere? a quanti haueua no da ſeruire? 4 Ancorchè tu crepaffi tutttauolta gli huomini fará no l'iſteſſe coſe. Al bel primo non ti ſtare a turbare; poichè tutte le cole, fuccedono fe condo la natura dell'vniuerſo; e tra poco tempo tu farai nič te; ed in niun luogo, come non é Adriano, ne Auguſto. Appreſſo fiſſandoti nell'opera ſteſſa, conſiderala, ed inſieme riducendoti a memoria che ti biſogna eſſere huomo dab bene, e ciò che la natura del l'huomo richiede, fa ciò, che tu ti proponeſti con inuaria bile fermezza, e parla come giuſtiflimo ti parrà; però con placidezza e con rispetto e senza ſimulazione. Questa é della natura dell'uniuerso l'opera e'l ministero. Le cose che ſono qui traſportar colà, tramutarle leuarle di quà, ed iui riporle. Ogni cosa è mutazione, non però sì, che s'habbia da te mcre di nouità, andando il tutto ſecondo il conſueto; anzi le diſtribuzioni delle co fe fono eguali. Ogni natura ſi ſoddisfàdi ſe ſteſſa, s'ella cà. mina per la propria via. E la natura ragioneuole cammina bene, quando nelle immagi nazioni non conſente al falfo, o all'incerto; e negli appetiti, quando alle ſole opere co munali gli dirizza; e nellide fiderij, e nelle auuerſioni, qua do le reſtrigne a quelle coſe fole, che ſtanno in noſtro ar bitrio; e abbraccia volentie ri tutto quello, che dalla na tura comune le vien datos poichè è parte di quella, co me la natura della foglia è parte della natura della pian ta, ſe non che iui la natura della foglia è parte di natura, che è ſenza ſenſo, e ſenza ra gione, e che ſi può impedire: doue la natura dell'huomo è parte della natura ad impedi mento non ſoggiacente, in tellettuale, e giufta; mentre eſſa, ſecondo l'egualità, ei meriti, diſtribuiſce a ciaſcuno i compartimenti de' tempi, delle ſoſtanzie della cagione,  dell'operazione, e delle con tingenze. " Anuertiperò,che non trouerai in niuna coſa, conſideratele ad vna ad vna, queſta vguaglianza pari ad vn tutto;maſi bene accumulata mente, conferendo il tutto dell'vne col tutto dell'altre. 6 Non te conceduto di poter leggere,maè in tuio po tere il non far delle ingiurie, -il vincere i piaceri, e idolori, l'effer ſuperiore alla glorietta: di più,il non alterarti contro de i difenfati, e degļingrati: anzi tè conceduto l'hauere etiandio cura di loro. Niuno ti oda querelarti del viuer nella Corte, neme no di quello, che tocca a te. 8 Il pentimento è vna tal riprenſione di te ſteſſo per yn ytile traſcurato. Ora il bene de' efſere qualche vtile, e de eſſere procurato.dall'huomo dabbene, e di buoni coſtumi. Ma neſſuno huomo dabbene, e bene accoſtumato haurà pen. timento di hauer traſcurato qualche piacere. Non è dun que coſa vtile, ne buona il piacere. 9 Che cofa è queſto ſecon do te ſteſſo nellapropria con ftituzione? Quale è il ſuo ſo ſtanziale, e materiale? Quale è il ſuo caufale? A che serve nel mondo? E quanto tempo fulliſterà? Quando ti ſuegli con di fguſto dal ſonno ricordati ciò etſer conforme alla tua conſtituzione, e fecondo la condizione naturale dell'huo. mo di produrre operazione a prò dell humana focietà: dove il dormire è comune an cora agli animali irragiuneuo. li. Quello perù, ch'è naturale ad ognvno, quello è più pro prio, e più comodo, ed è più giocondo. II Continuamente, ed in ogni immaginazione, giuſta tua poffa, eſamina la ſua na tura, ricerca le fue paſſioni, e dialetticamete intorno a quel. la diſcorri. In chiunque t'ab batti, prontamente diſcorri dentro di te; Queſti che maf fime può hauere intorno al bene, e intorno almale?. Im perocchè, fe ha tali, e tali maſſime intorno al piacere, e al dolore, e le cagioni dell’y -no, e dell'altro, intorno alla gloria, all'ignominia, alla morte, e alla vita, non mi ma rauiglierò, ne mi parrà coſa K 6 ſtrana, s'egli opera tali coſe; e mi rammenterò, che quegli è violentato ad operare in fi mile maniera. Rammentati, che come è coſa difdiceuole lo ſtimare ſtrano, che'l fico produca fichi così che'l Mon do produca quelle coſe, delle quali è fecondo. E ſimilmen te ancora farebbe vergogna al medico, ed al piloto il pa rer loro ſtrauaganza, ſe viene ad yno la febbre, e fe il ven to ſoffia in contrario. 12 Ricordati, che tanto il mutarſi quanto il conformar fi a chi ti corregge, non ti to glie l'eſſer libero; perciocchè l'azione è tua, e ſecondo il tuo appetito, e giudicio, co me anco conforme al tuo in, tendimento, ſi riduce a fine. 13 Se depende da te, pers ché in chè lo fai? ſe depende da al tri, di che ti lamenti? degli atomi, o degl'Iddij? mentre così l'vna, come l'altra è paz zia. Non dei querelarti d'al cuno: perchè ſe è in tuo po tere queſto, correggi l'iſteſſa azione; ma ſe quello non tuo potere, a che gioua il do lerti, giacché non conuiene far coſa alcuna inuano? 14 Ciò che morì non caſca fuori del Mondo:ſe reſta dun que qui, e qui fi muta, anco qui ſi riſolue nelle coſe pro prie, le quali ſono elementi del Mondo, e tuoi; e queſti pure ſoggiacciono a mutazio ni, nc fi qucrelano. Ciò che è, per qualche coſa è fatto, come a dire il ca uallo, la vite.Di che ti maraui. gli? Il Sole pure dirà, per qual'effetto ſon fatto, e così gli altr’Iddij. Tu dunque per qual coſa per pigliarti piace re? conſidera ſe l'intclletto lo comporta. La natura s'ha preſo pen fiero diciaſcuno, non meno del fine, che del principio, e della durata dellavita. 17 Quando alcuno tira in alto vna palla, che di bene ne riporta fa palla quando va balzata in alto, o che di male quando fcende, e quando ca de in terra? E che di bene n'auuiene alla bolla dell'ac qua, ſe dura in eſſere, e che di male, ſe fi dilegua. In que ſta guiſa puoi ancora diſcor rere della lucerna. Riuolta il corpo, e vedi quale è, e in uecchiandoſi, quale diuiene, o pure cadendo in infermità, o dap  o dappoi che s'ha preſo i ſuoi guſti carnali. 18 E ' di breuc durata echi loda, e chi vien lodato: il men touato, e chi lo mentoua.Ag giugniui, che ciò ſuccede in yn cantone di queſta regione, ne in quello ancora tutti ſono del medeſino ſentimento; ne pur yno è ſempre del medeſi mo con ſe ſtcffo.E tutta la ter ra è finalmente yn punto. 19. Applica l'animo a quel lo che ti ſi appreſenta, o al de. creto, o all'operazione, oal fignificato. Giuſtamente que ſto patiſci, perchè vuoi diffe rire a domane a diuenirc huo. mo dabbene, più roſto ch'er ſerlo oggi? 20 S'io fo coſa alcuna, la fo riferendola a bencficio d'huo. mini. Se m'auuiene qualche? l 1 P cofil 232coſa la riceuo, riferendola al.. tresì agl Iddij, e al forte d'or gni coſà, dal quale tutto ciò che auuiene inſiemederiua. Che ti pare che ſia il la uarſi? olio, fudore, fucidu, me, acqua', ſtrofinacci, coſe tutte difpiaceuoli: I ale èogni parte della vita, e tutto quel lo,che a noi fotto ſta. 22 Lucilla ſeppelli Vero, appreſſo morì Lucilla. Secon da fepellìMaflimo, appreſſo morì Seconda. Epitinchanó Diotimo, appreſſo Epitinchano. Antonino ſeppellà Fauſti na', appreſſo morìAntonino. In tal modo cammina ogni cofa. Celere ſeppellì Adria no, appreſſo morì Celere. Quelli anco d'acuto ſpirito, o indouini; o fuperbi, doue ho ra ſono? come Charace, Demetrio il Platonico, Eudemone, e altri ſimili d'acuto spirito tutte le coſe ſono tran. ſitorie in yn giorno, e di già morte, e mancate: alcuni ne meno per poco rcſtarono nel la memoria: altri trapaſſaro no in fauole; altri già dall'i ſteſſe fauole ſcancellati, Quel lo dunque non è da ſcordarſi, che biſogna o diſſiparli queſta tua compoſizioncella, o eſtin guerſi lo ſpiritello, o traſpor tarſi, e altroue riporſi. - 23 La conſolazione dell' huomo conſiſte nell' operare ciò, che appartiene all’huo mo; e appartienſi all'huomo il voler bene a quello, che gli è ſimile per natura: ſprez zare i moti delfenſo, diſcer ner le probabili apparenze, contemplar la natura dell'y Olli" ello 300 ha 710 on te ho DP niwer niuerſo, e tutto ciò, che in quella ſi produce. Tre fono le abitudini, l'vna alla ca gione,che circoncigne, l'altra alla cauſa diuina, dalla qua le il tutto a tutti deriua, la terza a quelli, che con noi vi uono. Il dolore o è male del corpo, el corpo ſia quello, che lo paleſi, o è dell'animo: ma l'animo ha in ſua balia il conſeruar la propria tranquil lità, e ſerenità, e di non rcpu tar, che quello fia male. Per chè ogni giudicio, e inclinac zione, e appetizione, e de clinamento ſta nel didentro e da indi non afcende male neſſuno. 25 Scancella l'immagina zioni del continuo dicendo a te fteffo: Ora è in mio potere, che in 10 tra 12 10 vi del 09 70: che in queſt'anima non hab bia luogo alcuna maluagità, ne la cupidigia, ne qualſiuo glia turbolenza: ma cono fcendo ciaſcuna coſa, fecon do il ſuo eſſere, mi ſerua di ciaſcuna per quanto vale. Ri cordati di queſta facultà a te conceduta dalla natura. 26 Parla nel Scnato, e con ciaſcun'altro in particolare co decoro, e non con troppa li fciatura, ma vſa vn modo fa no di parlare. La corte d'AUGUSTO, la moglie, la figlia, i nepoti, i defcendenti; la ſorella, Agri pa si parenti, I famigliari, gli a mici, Ario,Mecenate, i medici, i sacerdoti, tutta quel la corte è svanita con la morte. Mettiti poi a conſiderare altre famiglie,nelle quali non trouerai la morte d'vn huo mo ſolo, ma di tutte, come dei Pompeij. Mancò quella, e ne' fepolcri iſteffi leggiamo chi fu Byltimo di quella gen te: come anco. quello, che viene ſcolpito ne'monumen ti, vltimo della ſua gente. Conſidera poi quanto fi tra uagliarono i loro antenati, di laſciar yni fucceſſore, e pure fu di neceſſità, che alcuno for ſe l'vltimo, e qui parimente conſidera la fine di tutta quel. la gente. 28. S'ha collazioni ad vna ad yna a compor la vita; e ſe ciaſcuna vi ha la ſua parte, Thuomote nºha đa content - re; e che quella non habbia il ſuo pienoaſufficienza, niuno lo potrà impedire.Se poi s'op- ' poneſſe qualche cofa eftra nea?1€ lagi 110 11 Pr di 24 nea? niente al certo s'oppor rà al giuſto, modefto, e confi derato. Ma forſe qualche al tra operazione l'impedirà?Pc rò ſe tu prendi a grado l'iſteſ fo impedimento, e trapaſſe rai coll'animo ben aggiuſtato a quello, che ti vien dato ti ſi furrogherà vn'altra operazioa ne, che quadri a quella com poſizione d'animo di cui ora ſi parla, che veramente firice na ſenza fato, e fi laſci pure con facilità 29 Se mai vedeſti vga ma no, o vn piede troncati, avna tefta dal reſto del corpo reci fa in qualche luogo giacere; a queſti ſimile per quanto a il Luiſta ſi rendechiunque ricu fa le coſe ch’auuengono, e ſe ftetſo quafi tronca, o fa quel ſa lo, chenon ſi confaccia al be ne of Tele nd f noto iF ne degli altri, col diucller i in certo modo dall' vnione della natura; mentre tu effen do nato parte di cffa, da te ſteſſo te ne fe'reciſo, ma qui cade in acconcio il dire, che in tuo potere ſta di ritornarti a riunire: il che Dio a niuna altra parte ha conceduto, che ſegregata,e reciſa, di nuouo fi tornaffe a congiugnere. Però confidera la fouranz bontà, che tanto onore conceffe all' huomo. Poichè nel principio poſe inſuo potere il non di uel'crſi dal corpo intero, e dopo diuelto, il ritornare, ed il ricongiugnerſised il ricupe rare il poſto di parte. 30 Come ciafcuno de'ragio. neuoli ottenne dalla natura tutte l'altre facultà quaſi qua to è capace la condizione del. boz fa  € 1li ragioneuoli, così ancora da lei riceuemmo queſta facultà, la quale è, che in quel modo, che quella tutto ciò, che le reſiſte, e le oſta, lo conuerte, e rimette nel fato, e lo fa ſua parte, così l'animal ragione uole può d'ogni impedimen to farſi propria materia, e ben vſar di quello, a che ella per iſtinto e portata. 31 Non ti confonda l'imma ginazione di tutta la vita Non iſtare a ghiribizzare pen ſando quanti, e quali trauagli poſſano ſoprauuenirti; ma in qualunque delle coſe, che ti ſi preſentino,interroga te ſtefa ſo: in queſto fatto,che ci è d'incomportabile, che ci è d ' intolerabile? Concioſliecofaa che t'arroſſirai di confeſſarlo. Appreſſo ricorda a te ſteſſo, che 7 ge 10 14 fel 2 t C a C che ne il futuro,ne quello che è paſſato t'aggraua, ma ſem pre quello che è preſente; é queſto ſiſminuiſce,ſe diſtinta mente lo ſeparerai, e la men te tua riprenderai, ch'ella non fia baſtante a reſiſtere a que ſto ſolo. 32 Forſe aſſiſte per ancora al ſepolcro del ſuo Signore Panthea, o Pergamo? o pure a quello di Adriano Cabria, o Diotimo? E ' da riderſene, E ſe aſſiſteſſero, ne haureb. bono ſentimento? E ſe ne ha uefíero ſentimento, haureb bono godimento di queſto E ſe haueſſero godimento, fa rebbono diuenuti per queſto immortali? Non portò il f to, che ancora queſti prima diueniſſero vecchi, e vecchie, ed appreſſo moriſſero? Che dun il 762 en 101 JUICE Con 701 dunque erano perfare quelli, dopo che queſti foffero mor ti 2 Il tuttoè puzza, e mar cia in yn ſacco. 33 Se tu haiacuta viſta, adoprala, difle quegli ſauia mente, nel giudicare. 34 Non vedo, che nella conſtruzione dell'animal ra gioneuole ſia virtù alcuna re pugnante allagiuſtizia: ma fi bene vedo cffer repugnante al piacere la virtù della con tinenza. 35 Sea quello chepare ap porti a te meſtizia, detrarrai la tua apprenſione, tu ſteſſo ti ſe’poſto in ſicuro. Chi è quel tu ſteffo? la ragione. Ma io non ſono la ragione. Così fia: dunque la ragione non tra uagli ſe ſteſſa. Maſe qualche altra coſa in te patiſce del L male 16 han Foi [ um 10 The  male, ella medefima ne formi il fuo concetto. L'impedimento del fen ſo è male della natura vitale, e ſimilmente è male della na tura vitale l'impedimento del l'appetito: ed ecci eziandio vn altro parimente impedi mento, e male della conftitu. zione vegetatiuas. Così duna que l'impedimento dellamé te è male della natura intel lettiua; applica: tutte queſte coſe a te ſteſſo. Il dolore, e? I piacereti co muotono? il ſenſo fę n'auuer. drà. Nell'apperire ti ſi poſe oſtacólo ſe tu ti folli moffo fenza ſottraimento, e rifertias allora farebbe male delura: gioneuole;mia fe tu lo riceuí, come coſa comune tu non fe'dannificato, ne impedito, po es el Bio di tu né ele poſciache nigni altra cola ſuo le impedire le coſe proprie della mente: perchè in quieta la ne fuoco, ne ferro, ne ti ranno, ne maledicenza, ne altra coſa del Mondo può pe netrare:che cheſi faccia della palla, eſſa ſempre rimane tony da.:' 37 E' coſa indegna il mole ſtar me ſteſſo, mentre a niun? altro mai di proprio volere ho dato moleftia Altre coſe cagionano allegrezza in altri; io m'allegro, ſe la mia facul tà guidatrice ſtarà fana, la quale non habbia auuerſione ad alcuno huomo, ne adal cuna coſa di quelle, che fuc cedono agli huomini, mail tutto rimiri con occhi placi di; e riceua ciaſcuno, e dieſſo fi ferua,fecondo il ſuo pregio. L 2 38 Ve có LIF CA Mo It This 700 TO: Vedi di ſpendere a tuo prò queſto tempo preſente. Coloro, che più affettano la fama apoftuma, non conſidc rano, che quelli, da’quali la ſperano ', faranno tali, quali al preſente ſono coloro, che a lor non piacciono, poichè eſſi ancora ſono mortali. In ſom ma che t'importa, ſe quelli con tali, o tali voci ftrepitino, o habbiano di te queſta, o quella opinione? 39 Prendimise gettami do ue vuoi: poichè iui ancora trouerò il mio genio buono, e propizio, cioè a dire a me ſufficiente, purchè habbia e operi quello, che è confor me alla propria fua condizione. E' forſe coſa che meriti, cheper eſſa s'incommodi l'animo mio, e peggiori ſe ſteſ ſo con auuilirſi, appctire, confonderſi, e ſgomentarſi? E che trouerai, che tanto ine riti? Non può auuenire coſa a vn huomo, che non ſia acci dente, che non habbia dell? humano; ne al bue che non ſia accidente, che egli non habbia del bue; ne alla vite, che non ſia della vite; ne alla pietra, che non ſia proprio della pietra. Se accade dun que a ciaſcuno quello, che è folito, e connaturale, perchè t'attriſti? mentre non è intol lerabile quello, che la natura comune a te contribuiſce. E ſe ti pigli moleſtia per qual che coſa eſtranea, non certo efla ti moleſta,mail tuo giudi cio intorno a quella. E pure il cancellar quello depende da L 3 te. E ſe ti trauaglia qualche cofa nella diſpoſizione del tuo animo, chi è quegli, che ti vieta di rettificare il tuo concetto Con tutto ciò ſe tu ti affanni, perchè non operi tu ciò, che a te pare ben fat to? Perchè più toſto non ope ri, che contriſtarti? Mavna coſa più valeuole mi oſta Dunque non ti affannare; poi chè non proccde da te la ca gione del non operare. Ma non par che conuenga di più viuere, fe ciò non fi fa. Dùn que placidamente finifti la vita: mentre ancora quegli fa qualche coſa, che muore benigno eziandio verſo colo ro; che gli fanno oſtacolo. Osserva che la princi pal parte dell'huomo resta inespugnabil, quando in ſe Iter ko fel he UNO steſſa ritirandoſi di ſe ſi con tenta non facendo quello che effa non vuole, ancorché ſi metta in battaglia ſenza la. iuto della ragione. Che dun queſarà, quando coll'aiuto della ragione prudentemen te giudicherà qualche coſa? Per queſto la mente libera delle paſſioni è come vn'alta rocca, giacchè l'huomo non ha coſa più forte, nella quale ritiraro rimanga poi ſempre incípugnabile. Chì dunque queſto no comprende è igno rante: chi l'ha comprefo, non ſe ne vale,difgraziato. 42 Niente di più ſuggeri fci a te ſteffo di quello, che portarlo Ic mere priine ap prenſioni. T'è ſtato riferto, che il tale dice malc di te; queſto è vn rapporto. Ma L 4 che tu ſij ſtato, offeſo, non ſi contiene nel rapporto. Veg gio, che il figliolino è am malato, queſto ilvedo, ma che ſia in pericolo nol vedo già. Dunque reſta ſempre ne gli primi apprendimenti della immaginazione, e non v'ag. giugnere dentro da te ſteſſo niente d'autantaggio: e così niente ti ſopragiugne; anzi aggiugni, che non ti viene nuoua qualunque coſa, che nel Mondo accade. Il cóco mero è amaro, laſcialo; le fpine ſono nella ſtrada, ſchi fale, baſta; non iſtar a fog giugnere: e perchè queſte co fe ſono ſtate fatte nelMondo concioffiecoſa che ſi burle rebbe di te ogn'huomo, che fia inueſtigatore della natura: come appunto ſareſti derifo da of 12 do De le SI da vn fabbro, o da yn coiaio, ſe tu li condennafſi, per ve dere nella ſua bottega fca muzzoli, e ritagli delle coſe, che effi lauorano. E pure que gli hanno doue gittar queſte coſé; il che non può fare fuori di ſe la natura dell'vni. uerſo: maciò che recamara uiglia di queſta ſua arte è, che circonſcritta in ſe ſteſſa, quan to dentro di fe fi corrompe, e s'inuecchia, e appariſce non eſſer più ad alcun yſo, tutto in ſe ſteſſa tramuta, e di nuo uo di quelli forma cole recen tizin tal guiſa, ch'ella non ri cerca ſoſtanzia eftrinfeca, ne ha biſogno di luogo per git tarui le coſe più corrotte. Così le ſono baſteuoli la ſua regione, la ſua materia, e la propria arte. Dzi De TC O le Dj D D? 7 0 L 5 43 Non andar vacillando nelle azioni; e nelli congreſi non far confufione. Nelle immaginazioni non andar ya. gandojne in modo alcuno con Panimo o angoſcioſo, o trop po impetuoſo, non accupare ja vita in fouerchie faccende. Se ammazzano, fe mandano a fil difpada, fe con efecra zioni infeftano, che nuocono quefte coſe al conſeruarti Ja mente pura, prudente, contes nente, e giuſta? fiati per e fcmplo: le vno auuicinatofi ad vna fonte di dolce; c limpi da acqua,a quella diceſſe del le ingiurie,non perciò ceffereb be di porger l'acqua da bere, e fe ancora vi gettafle del fan go, ' e dello ſterco, immanti nente ella lo ſegregherebbe, e diffiperebbe, e in neſſun modo Llande agreb Nelli dara 1000 Otrop CINK cord ndan Mocht OCOMO artil СОЛь modo fe n'imbratterebbe.. Come farai dınque per hauer vna fontana ſempre viua; e non vn pozzo d'acqua fta gnante? Merci te ſteſſo ad ognora in libertà, ſtando con l'aniino trãquillo, ſchiet to, e modeſto. 44 Chì non sa, che coſa ſia il Mondo, non fa doue egli fia.E chi non ſa a che fine egli medelino fia ſtato fatto, non få ne qual'egli fi lia,ne che co. fa ſia il Mondo. A chi manca vna di queſte coſe, non può dire a che fine egli fia fatto Chi dunque pare a te, che ftia più contento, quegli, che fugge le lodi degliadulatoris o quelli, che nonfanno doue, o quali eſli fi fiano Ti com piaci d'effer lodaro da vnos che tre volte l'ora maledice Del & zarob limpi edel flerech berty bhe cfiun do L 6 se ſteſſo? Vuoi piacere ad huomo, che ne pure ſoddisfà a ſe ſteffodroddisfà a ſe mede ſimo quegli, che in tutte quafi le azioni, alle quali pon ma no, ſi pente? Avverti per l'avvenire non ſolo di reſpirare nell'am biente dell'aria, ma ancora di conformare i tuoi penſieri con l'intelletto, che tutte le coſe contiene. Concioffieco fache non meno queſta facul tà intellettuale fi diffonde, ed entra in quello che la puòat trarre, che quella dell'aria in quello, che può reſpirare. 46. Generalmente la mali zia non danneggia il mondo; e quella che riſguarda il par ticolare, non fa danno ad vn altro, ma a quel folo e noci ua, al quale ancora è conce duto read Idishi med quafi ma enie l'am ncora ofieri tele eco cu duto di libcrarſene, qualun que volta egli ſia pronto a volerlo. Al mio arbitrio è indift ferente egualmente l'arbitrio del proſſimo, ficome anco il fuo fpiritello, e la carnuccia: Imperciocchè fe bene ſiamo fatti principalmente l'vno per l'altro, niétcdimcno ciaſcuna delle menti noftre ha il fuo dominio particolare; altri mente ſeguirebbe, che la ma lizia del profſimo foſſe il mio male, coſa che non è piaciu ta a Dio, acciò non dependa da altri il far il mio ſtato in felice. Il Sole par, che fià dif fuſo, c veramente per tutto fi fpande, ma non però con queſto Ipandimento fi fparge, e perde; perchè queſta ſua ef fuſio Ged at iain ali doi par yn ci ce fuſione è vn diſtendimento': che però gli ſplendori ſuoi, o raggi ſi chiamano in Greco con parola, che viene dallo diftenderk. Ma quale sia la natura di queſto raggio, tu la potrai conoſcere,fe riguardila luce del sole penetrata per qualche feſſura in vna ofcura ftanza imperocchéciò ſi fa di rettamente, e quaſi vien diui fose ſquarciato da ogni corpo folidojin cui s'incontri no am * mettente più oltre l'aria: e qui ſi ferma,nc inciampa, ne cade. Tal effuſione, e diffuſione del eſſere della mente, non ell çuamento, ma diſtendimento; ficche agl'impedimenti chein. contro le ſi parano non violen. temcntene temerariamente re fifta, mà refti ſtabile, e illumi. ni ciò che la riceue. Imperoc chè  llo be 1 ih pier lill chè priua fe ſteſſo di luce, quegli, che non l' ammets te. 49 Chi teme la morte, o te me la perdita de'fenſi, o qual che altra forte di ſenſo, ſe non haurà niun fenſo, non fentirà male alcuno. Se poſſederà vn'altra ſorte di ſenſo, farà yn altro animante, e non reſterà di viuere. 50 Gli huomini ſono fatti P'yno per l'altro; Dunque in ſegna, o ſoffriſci. Altrimente la faetta, al trimente ſcorre l'intelletto. Ma l'intelletto e quando cau tamente procede, e quando alla conſiderazione ſi volge, non meno ſi porta per diritto, ed al berſaglio. S'ha da penetrare den tro alla mente di ciaſcuno e per DO 1] Te te } 0 re e permetter altresì ad ognu no di penetrare dentro la pro pria tua mente. Chi fa ingiuſtizia fa vn atto d'empietà. Im perocchè, hauendo la natura dell' vniuerfo fabbricato gli animali ragionevoli, vno a prò dell'altro, acciocchè, ſe condo il douere, vno gioui all'altro, e in niuna guiſa gli muoca, chi traſgrediſce tal decreto di queſta, commette manifeſta empietà contro il nume' antichiſſiino tra gľ Id dij. Concioffiecofache la natura dell' vniuerſo è natura di enti, e gli enti hanno vna coral fratellanza con tutte l'altre coſe eſiſtenti. Di più queſt' iſteſſa fi noma verità, ed è prima cagione di tutte le cofe vere. Onde chi ſponta neamente mentiſce è empio in quanto con l'inganno fa in. giuſtizia, come ancora chi in uolontariamente mentiſce, in quanto difcorda dalla natura dell'vniuerfo, e in quanto ca gion deformità, ripugnando alla natura del Monda. Im; perocchè ripugna quegli, che per ſe ſteſſo è portato alla contrarietà delle coſe vere: giacchè haueua innanzirice uuto dalla natura alcuni in ſtinti, i quali poi eſſo traſcu rando, non può ora diſcerne re le coſe falſe dalle vore. E pure chi ſegue i piaceri, come coſa buona, e fugge il traua glio, comemale, commette empietà. Perchè è neceſſario, che coftui fi quereli ſpeſſe vol te della comune natura, qua fi ch'ella faccia diſtribuzioni di beni a traſcurati, ed a fol leciti contra il lor merito; effendo che fouente i traſcu rati fieno di piaceri abbon danti, e di quelle coſe ond'ef fi deriuano; ed i ſolleciti al l'incontro fieno da dolori op preſli, e cadano in quelle co fe, che dolore cagionano • In oltre chi teme i dolori, ha urà ancora in orrore qualchu na di quelle coſe, che hanno da ſucceder nel Mondo; e ciò fimilmente ha dell'empietà. chi va dietro a’piaceri, non s'afterrà dal far'ingiuſtizia, e qucſto Lira Ck Ho che all te: Ice FCH E re queſto è chiaramente empie tà. Biſogna, che a quelle co ſe, alle quali la natura comu ne egualmente ſi porta (per chènon haurebbefatta l'vna, e l'altra, fe all'vna, e all'altra di queſte coſe indifferenti non foffe ftata vgualmente pro penfa ) quelli, che vogliono eſſere ſeguaci della natura, hauendo i medeſimi ſenti menti, con eſſa ſiano vgual mente affetti. Dunquc chi a' dolori, ed a'piaceri, o alla morte, e alla vita, o alla glo ria, e al diſonore, delle quali egualmente fi vale la natura dell'vniuerſo, non è per fe ſteſſo parimente affetto, chia ra cofa è, che fia empio. Io però dico valerſi di queſti v gualmente la natura comune, in luogo di dire, che auuengono vgualmente per certa conſeguenza alle coſe, che ſi fanno, o che vanno ſucceden do conforme allancico im pulſo della prouidenza, col quale ſi moſſe ſin dal princi pio ad ordinare queſta bella macchina mondiale, hauendo concepute alcune ragioni del. le coſe future, e determinate le facultà feconde dell'eſi ſtenze, delle traſmutazioni, e di fimili fuccedimenti. 2 Migliore, e più deſidera bil coſa certamenteper l'huo mo ſarebbe ch'egli da quefta vita partiſſe digiuno affatto; così dire,del mentire, del ſimulare, del luſſo, e della fu perbia: defiderabile dopo ciò (quaſi come vna ſeconda men profpera nauigazione) ſareb be, che almeno vno già fazio 1:22 il alla to ali UTA per f j 10 j” 19 21 di queſte coſe,voleſſe più to fto morendo fpirare, che nel la prauità continuare viuen do". E non t'inſegna ancora l'eſperienza a fuggire dalla peſte? e la corruttela dell'a niina è aſſai peggior peſte a riſpetto di quella, che dall intemperie, e mutazione del l'aria, che d'intorno fi fpande, e fpira: poichè queſta peſte è degli animali in quanto fo no animati: e quella è degli huomini in quanto fono huo mini. 3 Non diſprezzar la morte, ma fija quella ben affctto, ef ſendo ancor eſſa yria delle co ſe; che la natura richiede; poichè quale è la giouentù; la vecchiaia, il creſcere, l'in uigorire, il naſcere de’denti, la barba, i canuti, il genera re100 nel ICP 1000 dali ell Mei de ant re figliuoli, portargli nel ven tre, e partorirgli, e altre ope re naturali., le quali prodịco, no le ſtagioni della tuavita, tale è ancora il diffoluerfi. Dunque queſto è da huomo, che ben ſi ſerue della ragione ne ſuperficialmente, ne impet tuoſamente, ne ſuperbamente fiporta verſo la morte;, ina l'attende come yn'opera del la natura. Nel inodo che tu ora, aſpetti o cheſca il fe to del ventre ditua moglic,.com hai da caſpetar l'ora, nella quale la tua animuccia diqueſto ricettacolo eſca ca dendo. E fe vuoi ancora vn conforto cordiale, benchè volgareztirenderàſoprammo do prontoalla morte l'appli cazione alle coſe preſenta nec, dalle quali douraieſſere ſe A oto des Tak ler jed Simi Jä Teni Nem If feparato, e a'coſtumi di colo ro, con i quali non t'haurai più da meſcolare: tuttavia con quelli non s'ha da rompe re, ma ſtudiare di curarli, e placidamente ſoffrirli. Onde hai da rammentarti, che que ſta ſegregazione s'ha da fare da huomini, i quali non han no teco glifteſli ſentimeriti: mentre queſto folo potrebbe ſeruirci di contrappeſo,e rite nerci in vita, ſe ne foſſe con ceduto il conuiuere con quel li; che haueſſero gl'iſteſifen timenti. Ma tu- ora vedi quanto malageuole ſia il con uiuere in tanta diffonanza de' conuiuenti. Sicché ſi può di re: Sollecita o morte a veni re, accioché io non arriui a fcordarmi vna volta di me ſteffo. 4 Chi  rola aurai mpe afait har caini ebbe 4 Chi péccas contro le ſtefi ſo pecca • Chi opera ingiu ftamentega ſe medeſimo nuô ce, rendendo maluagio ſe ſteſſo; è ingiuſto ſpeſſe volte, non ſolo chi opera alcuna co fa, ma ancora quegli, che nonfa qualche cosa. Basta la presente opinione apprensiua e la preſente operazione comunicativa e la presence disposizione, che fi compiace d'ogni cosa, che da principiocauſante prouen. ga; per iſcancellar l'immagi nazione arreſtar l'impeto de gli affetti, temprare gli appe titieper mantenere nella ſua facultà la parte principale. 6 Fra i bruti viuenti è diui:. ſå vnà fòl'anima: c tra i viuen. ti ragioneuoli è compartita vn’animà intellettuale: fico. M me COlle auch Tere vad COll ade bel oni qili? mi me a tutte le coſe terreftri è vna ſola terra, e tutti quanti habbiamo facultà di vedere e facultà diviuere, con vna lu cc vediamo, c d'un aria respiriamo. Tutti quelli, che partecipano d' vna coſa co mune a quella, che è del me deſimo genere, anſiofaniente fi portano. Ogni coſa terrc ſtre inchina alla terra. Tutto l'ymido va inſieme ſcorren do,ogniaereo ſimilmente: ſic chè biſogna diuidergli a for za. Il fuoco s'erge a cagione del fuoco elementare. Tutto il fuoco, ch'è quà giù, è così pronto ad ardere con l'elc mentare, come ogni materia le alquanto più ſecco è facile ad accenderſi pereſſere meno abbondante di quello, che impediſce l'accenderſi. Dun que  letes re CO me In 170 za que tutto quello che è parte cipe della comune natura in tellettuale, corre ſimilmente verſo il ſuo connaturale, anzi più;: perchè quanto è meglio degli altri, tanto è più diſpo fto à miſchiarſi inſieme col ſuo famigliare - Anticameji te dunque furono tra i bruti inuentati gli fciami, le greg ge > i pollai, e quaſi ynioni d'affetti; imperciocchè ancor? efli hanno animais ecosi la virtù congregatiua tra i min gliori ſpicca maggiormente, il che non è nell'erbe, non è ne faffi, non è ne’tegni. Ma tra gli animali ragioneuoli fi truouano leRepubbliche;lean micizie, le famiglie leraunan ze, e in tempo di guerra le paci, e le tregue. Anzi nelle coſe piùveccellenti, benchè M 2 ell fit 01 DINE TTO OSİ [ 7110 Fle 70 7e tra ſe lontane, in qualchemo do vi è vnione, come a dire, tra le ſtelle, così il deſiderio d'auanzarſi al meglio ha po tuto operare la ſimpatia ezian. dio tra le coſe diſtanti. Vedi dunque quello che ora ſi fa. Perchè foli gl'intellettuali ſi ſono ſcordati del conſenti mento, e dell'affetto tra loro; e queſto concorrimento in effi ſolamente non ſi vede; e nien tedimeno, ancorchè fuggano, reſtano accerchiati, e preſi, poichè la natura in ciò pre uale. E vedrai queſto, che di co, offeruando, che più preſto trouerai qualche coſa terre ftre non congiunta ad altra terreſtre, che vn'huomo dall' altr'huomo totalmente diſ giunto. 7 Producon fruttto e l'huomo dire deria apo 2126 Vedi fifa. alii enti. oro; mo, e Dio e il Mondo; e ſi pro duce ciaſcun frutto nelle ſue proprie ſtagioni; e ſe la con ſuetudine principalmente ſi ferue di queſto modo di dire nelle vitije altre ſimili piante, cið poco importa: però la ra gione produce il frutto si proprio, come il comune; e da quella fi propagano altre tali cofe, della condizione delle quali è ancora l'iſteffa ragione. 8 Se tu puoi, inſegna ſem pre il meglio a quelli, che er rano; e ſe non puoi, ricordati che per ciò fare t'è ſtata data l'amoreuolezza, e che gl'Id dij ſon amoreuoli verſo que? tali, e tanto ſon benigni in alcune coſe,ch'e'dan loro aiu to per la ſanità,per le ricchez ze, e per la gloria. E queſto a neft viera 2110 vrela pre edi ceſto erre Ultra dall ' dile 10 M 3 te lice, o ſeno, dichiara, chi te lo vieta? 9 Trauaglia, non come vn tapino, ne meno a fine di pro cacciarti compaſſione, o mara. uiglia: ma vn folo fia il tuo fine di muouerti, e di fermar ti, fecondo che la ragione ci uile richiede. 10 Oggi vſcij d'ogni mole ftia, anzi ſcacciai fuori tutte le moleſtie; poichè quelle non erano eſterne, ma couauano dentro nelle opinioni. 11 Tutte queſte coſe fami gliari per l'yſo di vn fol dì quanto al tempo, fordide per la materia, ſono ora tutte le medeſime, quali furono a tem po diquelli, che habbiamo ſepolti. 12 Le coſe ſtanno in ſe ſteſ ſe fuori, per così dire, delle por ch meni dipro mara il 2016 Amal onec 1270 tutte porte, е da per ſe medeſime, niente fanno del ſuo eſſere, e niente a noi fanno apparire. Che dunque è quello, che le diſcuopre? la ragione. Non nella perſuaſione, ma nella operazione conſiſte il bene,e'l male dell'animal ragionclio le ciuile: ſicome ancora la vir tù, e’lvizio di queſto non è nella perſuafione, ma nell'o perazione.Alla pietra fcaglia ta non ſuccede male ſe caſca, ne bene, tirandoſi in alto. 13 Entra più addentro nelle menti degli huamini, cſcor gerai quali giudici tu tcma, e quali ſieno elli giudici intorno a fe ſtelli. 14 Tutte le coſe ſtanno in continua mutazione, e tu ſtef fo in vna continua alterazio nc, c in vn certo modo cor jenon Lidlo fami Cold de pe urtel atem bilam ' efter dell corruzione, e così ancora tut to il Mondo. 15 L'errore d’yn altro biſo gna laſciarlo doue è. 16 Il finire della operazio ne, il ceffare dell'appetito, e dell'apprenſione, e quaſi la loro inorte, e nulla nuoce: Fa ora paſſaggio all'età,qual'è la pucrile, alladolcfcenza,al la giouentù, alla vecchiaia. Ogni ſcambiamento di cia ſcuna di queſte è morte. E per ciò ne auuiene danno? Paſ. fa adeſſo ricercando il tempo, che ſe’viuuto fotto l'auolo; appreſſo, quello, cheſotto la madre, dopo ſotto il padre, e trouando altre molte diuerſi tà, mutazioni, e termini, di manda a te medefimo, ſe ve alcun' nocumento. Dunque fimilmente pe manco nel finire, nel ceſſare, e nel mutarfi del total tuo viuere. 17 Rifletti alla propria tua mente, e a quella dellyniuer fo, e a quella d'altri; alla tua per farla giuſta, a quella del I'vniuerſo per rainmentarti di chi ſei parte, a quella d'altri per conoſcere, le viene da ignoranza, o da animo deli berato; e nell'iſteſſo tempo fa tua ragione, che colui e a te congiunto.Sicome tu ſe'ſtato fatto per dar compimento al la conſtituzione d’yn corpo ciuile, così ogni tua azione compia la vita ciuile, Dun que qualſiuoglia tua amone, che non iſtà in tal modo che o proſſimamente, o remo tamente non ſi riferiſca a quc. ſto comun fine, quella fcon certa la vita, ne le permette, che continui l'iſteſſa; ed è di M 5 più fedizioſa, quale è colui nel popolo, il quale diſtrae il fuo partito da fimile concor dia. 18 Riffc, e giuochi di figlio letti, e ſpiritelli foftenenti cadaueri; acciocchè con più efficacia fi rapprefenti il Dra ma del martorio. Applica alla qualità del la cagione; c conſiderala aftratta dalla matcria, dopo preferiui il tempo, in cuitale, è tal coſa in particolare ſia per più lungamente durare.: 20 Haiſofferto mille coſe per eſſerti nö ſoddisfatto del la tua mente operante quello, in ordine a cui ella fu fatta: ma queſto baſti. 21 Quando alcuno ti biafi ma, o t'odia, o con ſomiglian ticoncctri di te ſparla, rifletti all'animucce di cotoro pene tra 1 nione? 3 tra dentro, e ſcorgi quali quel. le filiano. Vedrai, che non bi ſogna trauagliarti per l'opi ch'elli hanno dite, ma è neceffario voler loro be ne, ftante che, ſecondo la na tura, foto amici, e gl’ladij in ogni manicra li foccorrono con fogni, e vaticinij, ancora in quelle coſe, nelle qualief fi difſentono. 22 Queſti fono i rivolgi menti fotto e fopra del Mon do, da vn ſecolo all'altro.. E la mente dell' vniuerſo oli applica alli particolari, e fe ciò è, riceir volentieri ciò che quella ti porta: ouero, ſe vna volta dette la molla, e l'al tre coſe camminano per con ſeguenza, e come vna è nell' altra; perchè queſti in qual che maniera o ſono atomi, a M 6 corpi 276 LIBRO NONO corpi indiuiſibili: e in fom ma, ſe ci è alcun Dio, ogni coſa ſta bene: ſe il tutto è a caſo, e tu non le'a caſo? Fra poco la terra naſcon derà tutti noi; appreſſo anco ra eſſa fi muterà, e quelle co fc, in cui eſſa s'è mutata, in in finito fi muteranno, e quelle di bel nuouo fi cambieranno in infinito. Perciò chi conſi dera queſti maroſi delle mu tazioni, e alterazioni, e la ve locità di quelle, diſprezzerà ogni coſa caduca. La caufa vniuerfale è vn torrente, che rapiſce il tut to. Quanto vilc e ancora queſta politicheria, e queſte faccende humane, ſe filoſo ficamente vno le conſidera, quanto ſono piene di mocci? O huomo fa yna volta quello che ora la natura richie de. Se ti da facultà accorriui, e non riguardare fe alcuno ſe n'accorge: ne hauere fperan-. za di vedere la Repubblica di Platone: ma contentati ſe la cofa, ancorchè mcnomiffima, ti rieſce profitteuole, e l'eſito di quella conſidera non come coſa piccola. Imperocchè chì mutcrà i loro deliberamenti? e ſenza la mutazione delli de. liberamenti, che altro farà che yna feruitù di lamentoſi, e di fimulanti di obbedire in Ora paffa auanti. Raccontami d'Aleſſandro, di Filippo, e di Demetrio il Falereo:vedran no eſſi ſe conobbero quel lo, che voleua la natura vni uerfale, e ſe inſtruirono bene ſe ſteſſi, o fe pure fecero da recitanti di Tragedia, Niu j -1 no m'ha condannato ad imi tarli: l'opere da Filoſofo fona fincerità, e modeftia; non mi traſportare alla faftoſa graui tà. 25 Conſidera per lo paſſato gregge d'Armenti fenza nu mero, innumerabili ſacrificij e nauigazioni d'ogni forte, e nelle procelle, e nelle bonac ce; e diuerſità di coſe, che fi fanno, che inſiemefi fanno, e che ſi disfanno. Conſidera ancora la vita già viuuta ſot to d'altri, e quella, che dopo te s'haurà da viuere, e quella, che oggidi fra barbare genti ſi viue. E quanti vifono, che non ſanno ne manco il tuo nome? Quanti pure prefto fe lo ſcorderanno? E quanti, che ora ti lodano, di qui a po. co t’incolperanno. E coine non è da fare ftima, ne della gloria, nc d'altro tal, qual a fia. Sij tu imperturbabile in torno a quello, che da cagio ne eſtrinfeca ti auuiene, ela giuſtizia fia nelle operazioni, delle quali tu ſela cagione, cioè a dire, che habbiano i moti dell'animo, ele aziciri da terminare nell'operare conforme al ben comune, co me quello, che a te appartie ne, fecondo la natura.1 526 Molte coſe fuperflue, che ti trauagliano, puoirife gare, le quali ſono ripoſte to talmente nella tua opinione: e così yn molto ampio cam po a te ftcffo dilaterai. 27 Concepifci nella tua mē te l ' vniuerfo Mondo, e va conſiderando il ſecolo, nel quale ſci; e medita la preſta mutazione di ciaſcuna cofa; e particolarmente come è bre. ue il tempo dalla naſcita al diſcioglimento; quanto è im menſo quello, che è ſtato a uanti al naſcere; e come pa rimente infinito è quello, che ha da ſeguire dopo il diſcio glimento. Tutte le coſe, che tu vedi periranno preſtiſſima mente, e quelli, che al pre fente le rimirano perire, pre ftiffimamente anch'eglino pe. riranno. E quegli, che nella decrepità fi muore, paſſerà a Atato pari con quegli, che muore immaturamente. 28 Quali ſono le menti di coloro, e a quali coſe atteſe rose per quali cagioni le ama no, ele onorano? Reputa 11!. de l'animucce di queſti tali; perchè hanno apparenza di C nuocere, mentre biaſimano, e di giouare,mentre lodano. O quanto è vana queſta im maginazione ! 29 Il perire non è altro che mutazione: e di queſta gode la natura vniuerfale, in con formità della quale tutte le coſe bene ſi fanno. Ab eter no tutte le coſe ſono ſtate dell'iſtetfa forma, e così in in finito altre coſe ſaranno. Per chè dunque tu dì, che tutte le coſc fatte, e tutte quelle, che ſi faranno ſempre faranno mali? E tra tanti Iddij non mai s'è trouato niuno di tanto va lore, che poteſſe vna volta correggere queſte coſe? ma è ſtato condennato il Mondo ad eſſere coſtretto da mali che mai non ceffano? 30 La putredine della materia, che è ſoggetta a ciaſcu na coſa, è acqua, poluere, of ficelli,immondezza, o pur cal li della terra, come i marmi; o feccia,comeè l'oro, e l'ar gento; o peli, come la veſte; o ſangue, come la porpora, e tutte le altre cofe fimili. Elo fpiritello,benchè altro, è tale, e di queſto in altre cofe ſi tra finuta. 31 Sc'viuato affai in queſta vita trauaglioſa, di mormora rione, e alla ſciiniatica. A che ti perturbiè che ci è di nuouoa che ti fa attonito. Lacaufiri, guardala. O forſe la nateriale riguarda quella, fuori di que fte non è cofa veruna: mna vna volta inuerfo gPIddij diuieni e migliore, e più piaceuole. 32 Il medefimo è, che tu habbi conoſciutoqueſte coſe per  CH sof cz. mi te; o 2,6 Elo tra per cent'anni, o per tre. 33 Se quegli peccò, egli ha ilmale, ma forſe non peccò. Certamente, come in yn corpo, da vna fonte intellet tuale tutte le coſe deriuanose non biſogna, che la parte fi quereli delle coſe fatte a pro del tutto; ouero fonoatomi, e nient'altro: ouero yn me ſcuglio, e diſſipazione, che ti conturbi dunque? Alla men. te tu dì ſe'morta, fe’perdutå, ſe'rigettata, ti congreghi, e a modo di armenti ti pafci? O gl’Iddij non poſſono far niente, o lo poſſono. Se non poſſono a che li preghi? ma ſe poſſono, perchè più preſto loro non dimandi, che ti concedino di non temere coſa alcuna, che ſi ſia di queſte, ne di bramare quella, ne di do clie 012 che 2012 VII CITI leer le dolerti di qualſiuoglia di effe più toſto, perchè eſſe non ſi habbiano, che acciò fi hab biano.Imperocchè,ſe nel tut to poſſono foccorrere agli huomini, poſſono ancora in torno a queſte coſe giouare. Ma forſe dirai. Poſero gl'Id dij queſte coſe in mio potere. Non è dunque meglio valerſi con libertà di quello, che de pende da te, che laſciarti di ſtrarre con feruitù, e baſſezza intorno a quello, che da te non depende? Machi ti diſſe, che gli Iddij non aiutano in quelle coſe, che ſono in no ſtro potere? Comincia dun que a pregargli intorno di effe e vedrai. Prega il tale diccn. do: come potrò io godere co. lei? tu anzi dì; come potrò io non deſiderar di goderla? vn altre dichi 11001 Thebe elcut e agli Ora in Quare 8 !!!! Orere valení hede altro: come mi libererò io da colui? tu dì: come non haurò biſogno di priuarmene? vn al. tro: come non perderò il fi gliolino? tu dì: come non temerò di perderlo? In ſom ma in queſta maniera indirizza le tue preghiere, c conſidera che ne ſuccede. 36 Dice Epicuro: Nella malattia i ſuoi diſcorſi non ef ſere ſtati intorno alli pati menti del corpicciuolo i ne meno con quelli, chelo viſi tauano hauer di coſe ſimili fa. uellato: ma hauer ragionato filoſofando ſopra la naturą delle coſe premeditate; tutto intento a queſto, cioè, come. partecipando la mente di co tali mozioni, ch'erano nella carnuccia, ſteſſe imperturbabi. le conſeruando il proprio be ortida lezza dar idilli 110 i in no dur dielli dicas reca troi tre ne. Ne hauer dato occa fiorea' medici, che ſi vantaſſero d'ha uer operato qualche coſa, ma che contuttociò ſe n'andaua tirando'auanti la vita tran quillamente,e bene.Il medeſi. mosch'egli fece in quella ma lattia, tu hai da fare, ſe ti ſen. tiffi male, o ſe ti trouaſſi in al. tro trauaglio. Poichè il non partirſi dallaFiloſofia in qual fiuoglia cofa, che vada acca dendo; e il non applicare alle bagattelle degl'idioti', e fofi fti è comune diqualſiuoglia fetta, è di ſtar fiffo ſolo nella coſa, che al preſente l'huomo fase nello ſtrumento permez zo del quale ſi opera:" ) 37 Se vienioffeſo dalla sfac. tiạtezza di alcuno, ſubito in: terroga te fteſfo: Può forſe il Mondo essere senza sfacciati non 0 ca fara ' cobs vanda ta tra ētiles trinal non può. Non ricercare dunque l'impoſſibile: poſcia chè queſti è yno di quelli sfacciati, i quali è neceſſario, che ſieno nel Mondo. L'ifter ſo ſia del macchinante, e del l'infedele, e di qualſiuoglia vizioſo. Habbi qucſto ſempre in pronto; Quando ancora ti ricorderai eſſere impollibile, che tal forte di gente non ſia, tu ſarai più placido iuuerfo ciaſcuno di eſſi. Sarà pari mente gioueuole il conſidera. re ſubito qual virtù habbia dato la natura all ' huomo contra di queſto vizio: men tre ha dato, come antidoto contra l'ingratitudine, lc mã, ſuetudine, come contra d'vn altro qualche altra virtù. E ſopra tutto t'è lecito di diſin gannare chi errò. Ora ogni aqual 1107 ve all chat uoghi JOMO m.cz sfac it feil nii 10,no,che erra, Si deuia da quel, che gli fu propoſto, e va va gando. E poi in che ſe'ſtato danneggiato? poſčiachè tro uerai,, che niuno di coloro, contro de'quali tu ſei eſacer bato, habbia operató tal fat to,dal quale la tua inenté po teiſe cffere peggiorata; men tre in queſto è ogni ſuſſiſten zadel tuo dannose malé.Che đi male, o di ſtrano è ſtato fatto, ſe vn'ignorante opera da ignorantc?Guarda,che tu non habbi più toſto a ripren dere te ſteſſo del non hauer hauuto riguardo, ch'egli for: fe per commettere tal man camento; done tu haueui i motiui della ragione à conſi derare, ch'era veriſimile; che quegli in tal modopeccaſſe: E nientedimeno ſcordato ti maAtato 170 1001 opo per ter marauigli, ch'egli fia caduto? quel principalmente quãdo tu l'ac. the cuſi, come d'infedele, o d'in. grato, rifetti in te ſteſſo:con cioſliecoſache più che manis oros feſtamente l'errore é tuo, ſe credeſti, che yno sin tal mort fue do diſpoſto, e haueſſe ad of feruare, la fede; e ſe facen dogli delle grazie, non le haidate coinpitamente, ne in che modo da riceuere dall'iſteſſa tua azione tutto il frutto ſu bito. Perchè qual coſa più deſideri, che di hauerbenefi cato vn'huomo? e ciò non ti baſta, che tu hai operato coſa conforme alla tua natura? e di quefto ricerchi lamercede? come ſe l'occhio domandafle la ricompenfa, perchè vede, ei piedi perchè camminano. E fi come queſti membri ſo N no 7210 Toy tell for 2014 alf che Te ! 2 ho farti a queſto effetto, e ſe condo la loro conſtituzione operando si ne ritraggono quello che è loro proprio: così l'huomo dalla natura pro dotto benefico, quando be nefica, o nelle coſe mezzane coopera, ha operato, ſecondo la fua condizione, e ottiene quello, che a lui ſpetta. Fine del Libro Nono. LI 10 291 180,CH tituziar TAGION propri cura on do be 70272 cond l’Anima ſarai tu mai Ovna volta buona, e ſemplice, e vna, e quda, più ſplendida del corpo, che ti circonda guſterai tu giammai della diſpoſizioneamicabile e caritatiua quando farai pienamente fornita,e von bi. fognofa, e di niente altro de fideroſa, e di niente o ani mato, o inanimato anida, per N 2 prender piaceri? ne di temo Po, nel quale più lungamen te habbi da fruire: ne di luo go, o paeſe, o buona tempe. rie d'aria: ne d'huomini au uenenti; ma ti compiacerai del preſente ſtato, e goderai di tutte le coſe a te preſenti, e inſieme perſuaderai a te Itefla, che tutto ciò, che ti fia dauanti, tutto bene ti ſtia, e che dagl'Iddij a te venga, e ti parrà bene tutto quello, che a loro piacerà', e quello, che da loro ſi concederà s'in riguardo della ſalute, e con ſeruazione d'vn animal per ferto, buono, e giuſto, ebel los é quello, chetutte le co fe genera; contiene, circon da, e abbraccia, le quali fi diſſoluono, generando altre cofe fimili. Sarai dunque finalmente talc, che tu ſij atta à viuere in cittadinanza con gl’Iddij, e con gli huoinini in modo che tu non c'habbi da dolere di quelli in coſa alcu na, ne quelli t'habbiano a condannare. 2 Oſſerua quello, che la na tura tua richiede in quanto dalla mera natura vien diret to: poſcia fa quello, cab ) braccialo, fe la natura tua, 7 come diviuente, per queſto non ſia da peggiorare • Ha urai daoferitare appreffo,che 1 coſa richieda la natura tua, come di viuénte, e tutto ciò f hai da riceuere, ſe da queſto la natura tua come quella d'un animal ragioneuole,, nó fia perdiucnirne peggiore, e'l ragioneuole, nell'iſteſſo tempo ancora ciuile. Ditali 01 N 3 regole ſeruendoti non andar cercando altro curioſamente. 3 Tutto ciò, che e ' auuie ne, o in modo ti fuccede che ſij per natura abile a com portarlo, o pure a non com portarlo. Se dunque t'accade nella maniera, che puoi fof. ferirlo, non l'haucre a male ma ſopportalo,fecondo chefe naturalmente idoneo'; fe poi non fe'idoneo per fofferirlo, aðn ti diſguſtare: perciocchè, confumando té, confumerà fe parimente. Niente dimet no ricordati, che tu ' se fatto per fofferirc ognicoſa; ' eche ſia in potere della tua opinio ne di farla tollerabile, cfof. feribile, fecondo il concerto che farai, che quello ti conferiſca, o che ti conuenga ſofferirlo. Se qualchuna erra man fueramente s'ha da inſtruire, e moſtrargli quello, ch'hab, bia traucduto. Però ſe ciò non ti rieſce, la colpa è di te ſteffo, anzi ne meno di te ſteſſo. 5 Qualunque coſa c'auuie ne, queſta ab eterno ti ſi prc. paraua, e l'intralciamento delle cauſe fin dall'eternità fi aggomitolaua inſieme con Peffer tuo, e con quelli au venimenti. 6 O fieno gli atomi, o ſia la natura, ftabiliſcafi primie ramente che io ſon parte dell'yniuerfo, che la natura gouerna; appreffo, che io ho vna famigliarità in vn certo modo con le parti della me deſima forte; pofciachè ricor dandomi di queſte coſe, in quan 40 TO ON ng N quanto io ſon parte,non pren derò a male coſa alcuna, che venga compartita dall'vni uerlo: concioffiecofache ni ente, che conferiſca all'vni. uerfale può nuocere alla par te:imperocche non vi è coſa, che all'vniucrfo non conferi ſca.E ciò hanno comune tutte le nature; e quella del Mondo ha queſto di più, che da niu na cagione eſtrinſeca può ef ſere forzata a produrre cofa alcuna a ſe nociua; e ſecondo quella ricordanza, che io fon parte di talvniuerfo, mi com piacerò ditutto ciò, che au uiene; e ſecondo che io ho fi fatta famigliarità colle parti, della medeſima forte, non o pererò coſa, che non ſia co municatiua con queſte, ma più toſto porrò mira alle parti della medeſima forte, e condurrò ogni mia inclina zione all'vtile del comune, e dal contrario me ne ritrarrò Queſte cofe così da te con dotte, ne ſegue neceffaria mente, che ci traſcorra la vi ta felice,quale ſtimereſti quel. la d'vn citttadino, che gui daſſe il ſuo viuere in azioni vtili a i cittadini, c.abbrac ciaſſe tutto quello, che dalla città a lui determinato viene. 7 A tutte le parti dell'vni uerſo, quelle dico, che il Mondo contiene, è di necel ſità il corromperſi,cioè a di re, l'alterarſi, ma ſe aggiungo, ciò, che loro è necellario, el fere dannoſo, non ſi gouerne rebbe bene l'yniucrfo, eſſen do le parti di lui nell'altere zione diſpoſte a corromperſi in diuerſe maniere Diremo N dunque, o che la natura ftef-. ſa intraprendeſſe a fabbricare il male alle ſue parti, e le fa ceffe fuggette al male, e che di neceſſità caſcaſſero a far il male, o'che inconſiderata mente non s'accorgeſſe, che le faceffe tali: ma ne I'vno', ne l'altro certamente è da credere. E ſe qualcheduno laſciando da yn canto la nas voleſſe dir, ch'effe ſom no così nate, quanto ſarebbe ridicolo nell'iſteſſo tempo il dire, che la naſcita loro le porta, come parti dellyni uerſo,alle mutazioni, e in ſieme marauigliarſi, e hauer ciò a male, come ſe auuenifs ſe fuori della natura dell'yni. uerfo? Tanto più, che la dif ſoluzione vien fatta in quel le coſe, delle quali ciaſcuna è compoſta, e conſiſte. Im perocchè, o è diſgregazione degli elementi, dequali le coſe eran permiſchiate, o conuerſione del folido nel terreſtre; o dello ſpirituale nell'acreo, in modo, che queſte coſe fi ritornino nella ragione dell'vniuerfo: o è che dopo più periodi di temu ро ſe ne vada in fuoco, o po re con perpetue viciffitudini fi rinnuoui. E queſto folido, e queſto ſpiritale, non t'im maginar, che fia dalla prima naſcita, perchè tutto queſto l'altro giorno, o al più tre di fa dall'alimento; e dall'aria attratta riceuè l'accreſcimen to. Dunque queſto, che ri ceuè fi muta, non quello che la madre partori; e,fupponi, che - quello ti riduce affai N 6 vicino alle qualità del ſug getto particolare, che a ri ſpettodi quello, che ora fi dice, ſecondo la mia opinio, ncé nicnte. 8 Quelli titoli, che ti se poſto dibuono, di modeſto, di verace, d'accorto, dipru dente, di magnanimo, au uerti che giammai non ti ſi cambino, e,ſe li perdi, ſolle citamente torna a ripigliarli. Ricordati, che col nome d'ac corto ti ſi ſignifica l'attenzio ne, che tu deiporre per com prendere diſtintamente ciaf cuna coſa ſenza abbarbagliar. ti la mente: con quel di pru dente, la ſpontanea approua zione delle coſe, che dalla natura comune vengono di Itribuite: con quel di magna. nimo, l'alcanzamento della particella del fenno ſopra i moti della carne, ſieno aſpri, o morbidi, intorno alla glo rietta, intorno al morire, o a coſe si farte. Se dunque tra queſti nomiriſtrigni te ſteſſo, e di riceuer queſti titolida al tri non ambirai, farai yn al tro, e darai principio a dif ferente vita. Concioſliecofa che il proſeguire d'eſſer come finora ſe'ſtato, e ſtraſcinarti in tal vita, e imbrattarti, è da troppo inſenſato, e da in namorato del viuere, e da fi mile a quelli che, combatten do colle beſtie, reſtano ſmoz zicati, i quali,pieni di ferite, e di marciumi, ſi raccoman dano ad eſſere riſerbati fin ål giorno ſeguente,per rigettar fi di nuouo, così come ſono alle medefime'vnghie, e zan ne. Interna dunque te fteffo nella confiderazione di queſti pochinomi, e ſe puoi man tenerti in quelli,fermati, qua fi traſportato a ſtanziar' inal cuna dell'Iſole Fortunate.Ma fe t'accorgi chetu ſcappi fuo. ra, e non reſti ſuperiorez riti. rati con ardimento in qual che cantone, doue fignoreg gerai, quero in tutto eper tut to eſci di vita, non iſdegnan doti, ma con ſemplicità, li bertà, e modeftia; mentre non hai pretefo altro in queſta vita che di cosi vſcirne. A conſeruarti peròla memo ria di queſti titoli grande mente t'aiuterà il rammentar. ti degl'Iddij; e come quelli non vogliono eſſere adulati, ma chei ragioneuoli tutti so afſomiglino a loro. E come ! 1 il fico fa quello, che appar tiene al fico, e'l cane opera da cane, e l'ape da ape, così Phuomo da huomo. 9 Il giullare, la guerra, lo, sbigottimento, il terrore, la feruicù ſcancelleranno coti dianamente da te que' ſacri decreti,che tu eſaminator del la natura ti fe'nella mente tra ſmeffo coll'immaginazione. Però abbiſogna conſiderare il tutto, e operare in modo che inſieme s'habbia da adempie re quello, che la congiuntura porta, e che nell'iſteſſo tempo ciò che s'è fpeculato ſi metta in opera; e la franchezza, che s'acquiſta dalla ſcienza in torno a ciaſcuna coſa, fi con ferui occulta sì, ma non - for terrata. Dunque quando go derai della ſemplicità? quai do della grauità d e quando della notizia di ciaſcuna coſa in particolare, quale ſecondo la ſua ſoſtanzia ella fi fia, e qual luogo habbia nel Mon do, e per quanto debba du rare, e di quali coſe ſia com poſta, e chifia' per hauerla, e chi fienoquelli che poſſono darla, e ritoglierla a · 10 Il ragnetto grandemen te s'infuperbiſce per hauer predato vna moſca: ma vna perſona pervn leprotto, altri per vn'alice prefa nella rete, e altri per i porcaftri,. vn'al tro per g’orſie altri per i Sar. mati. Non faranno queſti la droni fe eſaminerai i conce pimenti della mente loro? 11 Seruiti del metodo fpe culatiuo, oſſeruando, come tutte le coſe in fe RECIPROCAMENTE fi trafinutano, e di con. tinuo ſta applicato,e intorno a queſta parte eſercitati; im perocchè niuna coſa ti cagio nerà altrettanto la magnani mità. Del corpo ſi Spogliò. E conſiderando, come ben pre ſto partendo dagli huomini, gli biſognerà laſciar'il tutto, ſottopoſe intieramente ſe ſteſ ſo alla rettitudine ', nell'ope rar quello, che da luidepen de, e alla natura dell'vniuer ſo negli altri accidenti. Ma che dica alcun di lui, ouero creda, o faccia contro di lui, ne pur colla mente vi bada: contento di queſte due coſe, dell'operare giuſtamente ciò che al preſente opera; e di compiacerſi di quello, che a lui preſentemente vien diſtri buito, e libero da ogn'altra occupazione, e ſtudio, non altro vuole che paſſarſela dirittamente in vigor della legge e ſeguir Dio,che a dia rittura cammina. Perchè hai da vſare il ſoſpetto, quando ti è lecito di conſiderare quel che ſi dee operare e fe lo conoſci, proſeguirai in quel lo dibonariamente, e fenza mai voltarti indietro: ma fe tu non lo conoſci, trattieni il giudicio, e feraiti di confi glieri ottimi. Se poi ii ſucce dono in contrario di queſto altre coſe, cammina pruden temente fecondo l'occaſioni, che ti s'offerifcono,adcrendo al giuſto, che fecondo l'appa renza ti fi porge innanzi: per chè è boniffima coſa arriuare a quello, nel quale il non ac certare ſia caduta. Quegli, che in tutto ſegue la ragione è inſiememente agile, e poſa to, e vnitamente viuace, e co Itante. 12 Subito che dal forno ſe fuegliato interroga te fteffo, ſe hauratti a importare, che quello che è giuſto é, retto, da qualch'altro fi efeguiſca? Non t'haurà a importäre. Ti fe'forſe ſcordato, che queſti, i quali ſi vanagloriano nelle lodi, e ne biafimialtrui, tali ſono nel letto, e tali nella menfa: e quali coſc fanno, quali fuggono, quali ambi fcono, quali naſcondono quali rapiſcono', non con le mani, o'con i piedi, ma con la digniffima parte di loro, colla quale,volendo jacqui ftar potevano la fede, la mo deſtia, la verità, la legge, e'l buon genio. 13 Il ben diſciplinato, e modefto,dice alla natura,che da il tutto, e riceue: Da ciò che vroi,ritogli ciò chevuoi:ne queſto dirà con tracotanza, ma con pura obbedienza pienezza di gratitudine verſo quella. 14 Poco è quello che ti re ſta;paſſalo come tu ſteſſi in vn monte: imperocchè niente importa che qui, o lì fi ftia, quando doinunque fi fia, s'ha da viuere nel Mondo, come in vna Città. Veggano, eri conoſcano gli huomini yn huomo vero, che viua con forme alla natura. Se non lo ſopportano, l’ýccidino: per chèqueſto èmeglio che viuer nella maniera di quelli. !! 15 Tu non timpiegherai più tutto in difcorrere qual fia, l'huomo dabbene, ma proccurerai d'eſſer tale. 16 Conſidera del continuo tutto l'euo e la ſoſtanzia vni uerſa; e comeognicoſa par ticolare riſpetto alla ſuſtan zia è come vn granello di mi glio; e riſpettoal tempo vn roteare di trapano: e appli. candoti a ciaſcuna delle coſe prelenti, conſiderala già nel disfacimento, e nellamuta zione, e comenella putrefa zione,o diſlipazioncs o ſecon do che ciaſcuna coſa è ſtata fatta in ordine al finire. Con. ſidera quali fono quelli, che, mangiano,che dormono, che attendono alla generazione, che mandano fuori gli cſere menti, t. altre coſe fimili: appreſſo quelli cheſignoreg: giano gli huomini, e s'inſu perbiſcono, o li ſdegnano, e come fuperiori inſultano, e pure poco innanzi a quanti feruiuano, e per quali occa fioni, e di quì a poco in che fi ridurranno 17 Ad ognuno conferiſce quello, che apporta a ciaſcu no la natura dell'vniuerfos, e allora conferiſce quando ella l'apporta. La terra ama-cer. tamente la pioggia, amaque ftaianco l'almo etera, amai Mondod’eſeguire quelloche ha da effere lo dico dun que al Mondo: '10 ti Tono compagno nell' amore. Non fi fa ancora queſto se fi dice; che s'ama di far quefto; 0 quello 18 O quà tu viui, e a queſta vita fei di già accoftumato, o elci di effa, e ciò era quello, che tu voleui, e hai finito l'officio tuo; fuori di queſto non c'è altro. Dunque ita di buon animo. 19 Habbi ſempre per cui dente, che ogni luogo è fi mile ad vna campagna, e che tutte le coſe rieſcono le me. deſime a chi ſtia fopra ad vn alto monte, o sul lido del mare, o douunque ti piaccia. Perchè chiaramente incon trerai da pertutto quello che diſie Platone: la greggia Ata torniata di fiepi? ful monte 501 Che coſa è in me la mérite mia 2 e quale ora io la fac cio? Ache di quella di pré fente mi ſerito a forfe, che è qualche coſa vacua d'ogni in telligenza? forſe è qualche cofa diſciolta, e diſtratta dalp accomunamento di forfu qualche coſa liquefatta,e me ſchiata nella carnuccia,ſicchè habbia da commutarſi con quella? 20 Chi fugge dal padrone chiamafi feruo fuggitiuo: la legge è la padrona, echi ope ra contro la legge, é fuggiti. uo. E inſieme, chi ſi da alla malinconia, o alla collera, o al timore, per qualche coſa delle ordinate, che già ſon fatte, o fi fanno, o ſono per farſi da quello, che governa il tutto, che è legge, così det ta dal diſtribuire a ciaſchedu no quello, che gli vienę. Chi dunque fi daal timore; o alla malinconia, oall'ira è feruo fuggitiuo 21 Depofto che alcuno ha lo ſperma nell'utero, fi dipar tegte appreſſo, qualch'altra cagione raccogliendolo, lo perfeziona, e compie il feto: di qual materia? è quale è? ſimilmente tramiſe l'alimento per la gola, e poi qualche altra cagione raccogliendolo, produce il ſentimento, l'ap petito, la vita, e la robuſtez za, e altre coſe (c quante, c quali? ) Biſogna dunque, che tu contempli quelle co fe, che ſotto tal copertura ſi fanno, e in queſta manicra ri conoſcere la facultà come noi vediamo, c quella cheaggra ua, e quella cheſolleua, non con gli occhi, ma non meno euidentemente. 22 Del continuo conſidera, come tutte le coſe ſono tali, quali ora ſi fanno, e già ſono ſtate; e conſidera quelle, che ſono per eſſere, erappreſen O tatele auanti agli occhi come intiere fauole, e ſcene, cun forme alle coſe le quali o per tua eſperienza, o per antichi racconti ti fono note. Verbi gratia tutta la Corte di Adria no, tutta la Corte di Antoni no, tutta la Corte di Filippo, di Alessandro, di Creso, poi chè tutte quelle erano l'iſteſ fe, che queſte, variando ſolo ne'perſonaggi. Immaginati, che que gli, il quale per qualſivoglia coſa ſi rammarica, e s'afflige, è fimile ad vn porcello, che fi macella calcitrante, e gru gnente; ne è diuerfo chì pian. ge solo ſopra il letto con si lenzio la noſtra dappocaggi ne; e immaginati, che al fo lo animal ragioneuole è con ccduto d'accomodarſi volon ta  hi volontariamente agli accidenti, e l' accomodarli ſemplicemen te è a tutti neceffario. 24 In ciaſcuna delle coſe, bi che tu operi applicando a parte a parte la mente, in tcrroga te ſteſſo, le la morte 01 pare terribile a cagione, che habbiamo a reſtare priui di e quella tal cofa. 25 Subito, che tu ti offendi per l'altrui peccare,, rientran do in te ſteſo, fa tua ragione, 111 ſe in caſo fimilcru erri: come a dire giudicando, che ſia co fa buona la moneta, il piace re, e la glorietta, e altre co ſe sì fatte. Perciocchè con fi qneſta conſiderazione preſta mente ſmorzerai la collera, venendoti inſieme in mente, che colui opera forzatamen te. Che ha egli dunque da fare? ſe è in tuo potere, libe ralo dalla violenza. Vedendo Satirione, vno de Socratici, immaginati o Eutichete, o Himene: e ve dendo Eufrate, immaginati di vedere Eutichione, o Sil uano: e vedendo Alcifrone, di vedere Tropeoforo; e ve dendo Senofonte, immagi nati Critone, o Seuero: e ri mirando te ſteſſo, immagina ti qualcheduno de ' Ceſari, e in ciaſcun altro qualche coſa {imile a proporzione. Ap preſſo ti ſouuenga, doue ſo -no dunque quelli? o in nilt no, o in qualſiuoglia luogo. Così di continuo vedrai le coſe humaneeffer fummo, vn nulla; maſſime fe eandrai rammentando, che il mu tato vna volta per tutta l'infinità de'ſecoli non tornerà ad accadere. E tu quanto tem po ſtarai a mutarti? perchè dunque queſto breue tempo non ti baſta per degnamente paſſarlo? qual materia, e qual foggetto abborriſci? che al tro ſono tutte queſte coſe, che eſercizij della ragione, la quale accuratamente ha con fiderato, e diſcorſo ſopra la natura di quello, che è nella vita? Perſiſti dunque finchè tu ti renda famigliare queſti, in guiſa d'vn gagliardo ſtoma co che ognicofa abbraccia, e come il chiaro fuoco di qua lunque coſa, che tu gli butti dentro ne forma fiamına, e fplendore. Non poſſa alcun veritie ro dire di te, che tu non se {chietto, o huomo dabbene. Il Do le ai 0 3.ma mentiſca chiunque di te ha fimile opinione. E rutto queſto è in tuo potere. Per chè chi t'impediſce, che non fij huomo dabbene, c ſchiet to? A te folo ſta lo ftatuire di non voler viuer più, ſe tik pon farai tale: imperocche non comporta la ragione, che tu non ſij tale. Che coſa è, che ſi pora fa intorno a queſta materia rettiſſimamente operare, je dire? qualunque coſa queſta fia è lecito di farla, e dirla, e non metter préteſto d'effe re impedito. Non prima cef ſerai di lamentárti, che tu ſij ridotto a queſto, che quale è agli huomini voluttuoſi il luſſo, queſto è a te l'operare nella ſoggetta, e ſommini Itrata materia, conneniente alla conſtituzione humana Imperocchè s'ha da concepi re perdelicia tutto quello, che farà lecito d'operare con forme alla propria natura, e queſto è lecito in ogni luogo. Perchè al cilindro non è con ceduto di portarſi per qualſi uoglia luogo col proprio mo. to, come ne meno all'acqnas ne al fuoco, ne ad altre coſe, le quali ſono rette dalla na tura, o dall'anima irragione uole; eſſendo molti li rat tenimenti, e gli oſtacoli:ma la mente, e la ragione può. penetrare pertutti gl'impedi menti, ſecondo la ſua natura, e a ſuo beneplacito. Queſta facultà, poſta che tu te Phai innanzi gli occhi, fecondo la quale la ragione potrà portar fi per tutto, come il fuoco in 04 alto, come la pietra al baſſo, come il cilindro per dio, nicnt'altro ricerca. Per chè gli altri impedimenti che. procedono o dal corpo, ch'è yn cadauero, o ſenza l'opi nione, e inchinamento dell' iſteffa ragione, non fanno. leſione, ne apportano danno alcuno, altrimente a yn trat toil patiente di quello diuer rebbe cattiuo: perciocche in tutti gli altri apparatid'opera, quel danno, che ad alcuno auuiene rende peggiore quel lo, che lo patiſce. Ma quì, le è lecito il dirlo, ſi fa l'huo. mo migliore, e più degno di lode, ſeruendoſi rettamente di queſti incontri. In ſomma ricordati, che a colui, il quale è per natura cittadino, nien te nuoce, che alla Città non 1 nuoca: e a queſta non fa dan no chi alla legge non fa dan no. E niuna di queſte, che chiamano difgrazie offende la legge. Quello dunque che non offende la legge, non offende ne la Città, ne il cittadino, - 29 A quello che gia è toc co da veri dogmi, è fuficien te ogni piccoliffimo, e ordi nario incontro per ricordarli di sbandire ogni dolore, e ti more. Quale è queſto? Delle foglie altre il vento a terra abbatte, Altre produce il verdegiante bosco; Quando la primauera fa ritorno. Cosi ſuccede alla natura lumana', Che mentre Spriiita l’vil, l'altro; dien em. Fogliucce fono i tuoi figlio lini: fogliucce ancora que fti, alle acclamazioni de qua 70 ol 70. di ite yle 00 05 322 quali ſi da tanto credito, e che parlano bene del fatto tuo; o pure per lo contrario quelli, che maledicono, o tacitamente biafimano, o di leggiano:fogliucce ſimilmen te ſono quelli, i quali aderi ranno alla tua fama dopo la tua morte. Perchè tutte que fte coſe naſcono al tempo della primavera, dopo il ven to le butta a terra, e appref fola felua in luogo loro altre produce. La breuità del tem po'è a tutti comune. Ma tu ogni coſa fuggi, e appetiſci tutte le cose, quafi chefoffero per eſſer perpetue. Tra poco tu ferrerai gli occhi, e vn al tro piangerà quello, che ben preſto ti porterà alla ſepoltu. 30 L'occhio fano è dime ra. Itie ftiere, che veda tutte le coſe viſibili; e non dire: Amo ve dere il verde, che queſto è perchi patiſce di viſta; e l'v dito fano, o l'odorato biſo gna, che ſieno pronti a tutte le coſe da vdirſi, e da odorar fi; e lo ſtomaco ſano a tutte le cofe, che nudriſcono: pa rimente, come yna macina dee eſfer ammannita per tuta te le coſe da macinare, nell' ifteſſo modo la mente ſana dee effer difpoſta a tutti gli auuenimenti; maquella, che dice: Sieno faluii figliolini, e tut ti lodino quello, che io farò; fono occhio, che cerca il verde, o denti, che cercano il tenero. Niuno è talmente feli. ce, che qualcuno di quelli, che ſi truouano alla ſua morte O 6 non ſia per godere di qucl. cattivo accidente. Era egli di valore, era fauio? non fa rà alla fine chi del medeſimo fra feſteffo dica? reſpireremo pur una volta da queſto pedante, Non era faſtidioſo con alcuni di noi, ma io m'accorſi, che tacitamente ci riprendeua. E queſto d'vn huo mo di valore;main noi quan te altre coſe ci ſono, per le quali molti bramano liberarſi da noi? queſto dunque confi dererai nel punto del morire; e meno trauaglioſo ti riuſcirà diſcorrendo come ſegue. Da quella vita io parto, dalla quale quelli, che meco co municano, e per li quali ho trauagliato intante cofe, ho pregato, m'ho preſo tanti penſieri, quegl'iſteſſi deſide rano ich DO 100 Ilo son O le rano, che io me ne vada, fpe randone facilmente da que ſto qualche ſollieuo. Chi dunque non saccomoderà a non far più lunga dimora in queſte parti? Non partirai per ciò da quelli men verſo foro benigno; majconſeruando il proprio tenore, amoreuole, beneuolo, e propizio: e non come ſe foſli per forza ſtrap pato, ma come a quegli, che felicemente trapaſſa, facil mente l'animuccia ſi diſtacca dalcorpo, così biſogna, che fi faccia queſta ſeparazione. dalle coſe preſenti; giacchè la natura con quelle ci vnì, e congiunte. Doue ora ti diſ giugne? mi diſgiungo perciò, come da famigliari, non già con renitenza,ma fpontanea mente; poichè queſto anco rfi [ rà 12 y 0 0 ti ra è vna delle coſe conformi alla natura. 32 In tutti gli atti, che da ciaſcuno ſi fanno, cerca d'af fuefarti, per quanto c'è poſsi bile, di ricercar dentro di te: Il tale fa quefto, per qual ca gione? comincia però da te medeſimo, e printieramente eſamina te fteſso. Ricordati, che, comequelle cordicine, che tirano i bambocci, non appaiono, così quello, che t'addolora, è dentro nafco fto. Quello è la perfuafiga, quello è la vita, quello, ſe conuiene cosi dirlo, è l'huo mo.Non fantaſticar dunque di quello, chea guiſa di vafo ti circonda, e di queſti inſtru mengucci, che attorno a te fono formati; poichè queſti ſono ſimili all'aſcia, folo in 1 1 ciò diffcrenti, che ſono con naturali. Mentre ſenza la ca gione, che gli muoue, e rat ticne, non è maggior l'vtile, che da queſti membri s'ha, di quello, che ne ha la teſli trice dalla fpola, gli ſcrittori dalla penna, e dalla fruſta i ! cocchicro. E proprietà dell'anima ragioneuole ſono, il ri mirare ſe ſteſſa, ſe ſteſſa minu tamente ricercare, fare fe fter ſa quale più a lei piace:il frut to,ch'ella produce lo produce a ſe ſteſſa (giacchèi frutti del. le piante, e ſimilmente quelli degli animali, altri godono ) in qualunque luogo le ſoprau uenga il termine della vita, arriua ella al fuo proprio fine: non come ne i balli, e nelle rappreſentazioni, e in fimili coſe, nelle quali, ſe qualche impedimento s'intrapone,tut ta l'azione rimane imperfetta: ma ella in qualſiuoglia parte, e douunque s'interrompa,ren de tutto quello che ſe le pro pone innanzi perfetto, e non biſognoſo di coſa alcuna; ſic chè può dire; lo poſſiedo il mio. In oltre, traſcorre per tutto il Mondo, e per lo va cuo, ch'è intorno ad eſſo, e al la di lui figura: ella s'eſtende nell'infinità de'ſecoli, eleri generazioni di tutte le coſe, che a certi giri de' tempi ſi fanno, comprende, intende, e diuiſa, che niente più di nuouo ſono per vedere i po ſteri, e niente di più videro i. noftri aſtepaſſati: ma in certo modo chi haurà quaranta an ni, s'ha fior d'ingegno, haurà veduto tutte le coſe paffare, future, per la ſomiglianza tra effe. Di più è proprio del l'anima ragionevole amare il proſſimo, effer verace, mo deſta, e non iftimare niuna co. ſa più di ſe ſteſſa. Il che è proa prio ancor della legge. In queſta maniera tra laretta ra giòne, e tra la ragione del la giuſtizia non è differen za. 2 Sprezzerai il canto Infin gheuole, il faltare, e'l pan crazio, cioè l'eſercizio degli atleri: ſe tu ſpartirai la voce armoniofain ciaſcuno de'tuor ni, e in qualſiuoglia di quelli interroga te fteffo: Se da quel lo tu refti vinto; perchè in ve ro te ne vergognerai. Nell' eſercizio del ſaltare farai l'i ſteſſo a proporzione, a cia ſcun moto, egefto; il medefi mointorno al pancrazio. In ſomma, in tutto quello, che e fuori della virtù, o da quel la non deriua, ricordati di traſcorrerlo a parte a parte; e con la diuiſione di quelle ver rai a vilipenderlo. E queſto l'hai da traſportare allvſodi tutta la vita 3 Quale è l'anima, che ſta pronta, fe già bifognaffe, a fcioglierſi dal corpo, o eſtin guerſi, o diſliparfi, o a rima nerui? pronta, dico, ma che tal prontezza prouenga da vn particolare diſcernimento di mente,non da vna nudacapar. bietà, comeè quella de'Chri ſtiani, mi conprudente diſ corſo, e maturità da poter ciò perfuadere ad altri ſenza tragica impreſione, 4 Operai qualche cofa ap partenente al comune? Dun que n'ho ritratto dell'vtile. Queſto ſia fempre alla mano in ogni occorrenza,fenza mai traſcurarlo. Qual'è il tuome ſtiere? l'eſſer buono; ma que fto non ſi fa bene, ſe non per mezzo delle fpeculazioni, e maſſime, o intorno la natura. dell'vniucrfo, oltero intorno la propria conſtituzione della huomo. 5. Al principio furono in trodotte le Tragedie, per rammemotar agli huomini gli accidenti; e che queſti così naturalmente, loro fogliono auuenire. E acciocchè quelle coſe, che ſu le ſcene vi ricre aſſero l'animo, non vi contri-, ftal ila NO jai 76 il Her e ftaffero nella ſcena maggio re, Perchè vedete eſſer così neceſſario che queſte coſe in cotal modo ſi terminino; e così le comportano quelli, che eſclamano:Oh CitheroneE fi dicono alcune coſe vtil mente da quelli, che com pongono ii Drami, quale è particolarmente quella. Che di me cura, ne de’mieifigli uoli. Non ſi prendan gl'Iddi ragion il vuole E parimente Che con le coſe diſdegnar non lice. E Cheſi mieta la vita,come ſuole Matura spiga. 119 e altre coſe ſimili. Pure dopo la Tragedia fu introdotta l'antica Commedia hauente vna libertà di maeſtreuol 10 2 Blo cer li si 0 mente correggere, rammen tando non inutilmente col fuo retto parlare la modera zione del faſto; al quale me defimo fine in qualche modo Diogene ſe ne valeua. Dopo queſta conſidera quale è la Commcdia mezzana; e ap preſſo la nuoua, a che fine fu poſta in vſo, o come a poco a poco per l'arte, e applica zione dell'imitare ſubcntrò; mentre ſi ſa, che anco da que TE fte fi dicono alcunecoſe gio fe ueuoli; ma l'vniuerſale inten to di tal forte di poeſia, o rappreſentazione mimica a qual ſegno hebbe la mira? C 6 Come truouafi euidente non ci eſſer altro modo di vi PE vere tanto a propoſito per fi po loſofare di queſto, nel quale VE tu se'di preſente? to ta 7 II zenu co TIE • H 0 - Mode 7 Il ramo non ſi può ſchian tare dal vicino ramo, ſe non fi diſtacca inſieme da tutta la pianta; cosìyn huomo non ſi può difceuerare da vn altro huomo, ſe non ſi ſepara dalla comunione. Il ramo dunque Jo diuide vn altro, ma l'huo mo li ſegrega da per ſe ſteſſo dal proſſimo, con odiarlo, e renderſigli auuerſo. Però non ſi auuede, come dalla gene rale cittadinanza ha ſeparato ſe ſteſſo E nulladimeno quella è yn dono particolare di Gioue il quale ha conſtitui to queſta comunicazione. Concioffiecolache è lecito di nuouo ricongiugnerſi col proſſimo, e dinuouo incor porarſi colla perfezione dell' vniuerſo; ma ſe ſimile ſepa razione fi fpeſſeggia, fi rende ľu più niC di le ds.81 tra tutduqunat più dificile il riunirſi, e'l tor nar a rallignarſi. In ſomma il ramo, che da principio ger minò con l'altro, e como conſpirando conſiſte, non é fimile a quello, che dopo il taglio vn altra volta è ſtato inneſtato. Il che pur dicono gliagricoltori. Biſogna effe re dell'iſteſſo germoglio, ma non dell'iſteſſa lembianza. 8 Quelli, che ad impedirti ti ſi frappongono, quando tu cammini conformealla retta ragione, ſi come non ti po - tranno trauolgere dalla fana operazione, così non t'han no da ritirare dalla buona vo lontà verſo di loro: ma cuſto diſci te ſteſſo egualmentenel I'vno, e nell'altro; ne folo colcoſtante giudicio, ecol l'azione, ma col portarti per9 all anttö ting allaOr? allo tejla -1 man zumail coloro, che ſtudiano d'impe manſuetamente ancora verſo 1 tor ger COM 1100 opo il Stato, ma d. dirti dirri, o in altro modo ti mo leſtano Imperocchè così è da animo iinpotente lo sde gnarſi contro di quelli comeil tralaſciar di operare, e abbat cono i tuto arrenderſi. Perchè amen. effe due abbandonano il poſto, queſti intimorito, quegli alie nato dal congiunto, camico per natura, 9 Niuna natura è inferiore retta all'arte; concio liecofache le arti imitano le nature. Sc pe Cana rò queſto è, la natura perfet tiffima tra tutte l'altre, e che il tutto abbraccia, non cederà Ao alla più atificioſa induſtria. Ora da tutte le arti in ordine alle coſe migliori ſi fanno le inferiori.Dunque anco dal la natura comune; donde é, P che Jo tu ipo han vo nel ! olo 04 arti  ſo & 11 re M che da quella deriua la giu ſtizia, e da queſta poi tutte le virtù hanno la ſua ſufiften za. Perchè non ſi conferucrà il giuſto, fe o alle coſe di mez zo troppo attribuirem'o, o fa remo facili a prender errore, ead cſſer temcrarij, e muta bili. 10 Se non vengono a te le coſe, delle quali il proſegui mento, o la fuga ri perturba 110, ma tu in certo inodo a quelle ti conduci, dunque il giudicio intorno ad eſſe s'ac quieri, e quelle rimanghino immote, e tu non ſarai vedu to, neappetirle, ne fuggirle. La sfera dell'anima è luminosa, quando ella non ſi eſtende fuori a qualche co fa, ne dentro ſi ritira, o fr conſtipa, ma riſplende con P d d. a 0 fc PE 9 mi ch ch quel a Giv tutti Tilter TUOTI Legii proccurerò di eſſer manſueto, quel lume, col quale ſcorge la verità di tutte le coſe, e quella, che è in lei medesima.Mi fprezzerà talvno? ſe n'accorgerà cgli. Io mi guarderò bene, che niſſuno mi truoui o opcrare, o parla re coſa degna di diſprezzo Miodierà? guardiſi egli. Io mez ot TOTE, MUT tele urb.2 do 1 quei rhino reche e di eſſer di buon volere verſo di ognuno, e con queſto me deſimo ancora pronto a farlo accorgere detfuo trauedere, non per modo di rinfacciare, o di far moſtra della mia fof. ferenza; ma con ingenuità, e probità, nell'iſteſſo modo di quel Focione, ſe pure non fi mulaua. Perchè così biſogna, che ſieno le coſe interiori, e che l'huomo ſia veduto dag! P 2 Iddij irle 1.2 € 1101 CO 0 h C011 I iddij, così diſpoſto a non ri ceucre coſa alcuna con iſde. gno, con querele. Poſcia. chè di che danno è a te, ſe tu fteſſo fai al presére quello, che e proprio della tua natura? non accetterai tu ciò, che ora è opportuno alla natura dell' vniucrlo, o huomo ordinato per far qucllo, che conferiſce al comune 13 Quelli, che l'vn l'altro fi difprezzano, l'un l'altro fi luſingano: e quelli, che cer cano diſoprauanzar l’yn l'al tro, l'vn all'altro ſi ſottomci tono. Quanto rancido, e non ſincero èil dire: Miſono propoſto di portarmi teco ſchiettamente. Che fai, o huomo? non è di me ftiere far queſto prologo: apparirà da per ſe. Nella fronte iſtekla dce eſſere ſcrit ta la voce. Quello, che hai dentro, ſubito viene eſpref fo negli occhi, come nel lo ſguardo degli amanti il tutto fubitamente conoſce Pamato. Tale inſomma biſo gna, che ſia il fincero, e buo no, che ſappia vn poco di ca prino; acciocchè chi ſe gli ac coſta, nell'iſteſſo primo in contro voglia, o non voglia, al fiuto lo riconoſca. L'affet tazione della femplicità è vn ferro traditore. Niuna coſa è più brutta, che l'amicizia lu pina. Fuggila più di ogni al tra. Gli occhi del buono del ſemplice, del manfueto han no queſto chenicite in quel li ſi naſconde. 15 La facultà di vinere ot timamente è poſta nell’anima. Se pur le coſe indifferen ti le piglia indifferentemente: e le prenderà indifferente merte, ſe ciafcuna di quelle contemplerà ſeparatamente, e con riguardo al tutto ricor dandoſi, che niuna di quelle può formae in noi l'opinione di ſe ſteſſa, ne a noi venire: ma quelle ſtanno ferme,e noi fiamo quelli, che formiamo i giudici di quelle, come in noi dipignendole; mentre è lecito laſciar di dipigaerle, è lecito ancora,ſe furtivamente s'infinuaffcr, o di ſubito ſcan cellarle. Che queſta attenzio ne ſarà per corto tempo, e appreffo terminerà la vita. E che difficultà ci è in ben pi gliar queſte coſe concioſie cofache ſe ſono ſecondo la naturai, habbile care, e ti 8 a I rega antes cate uck Ente; ca uelle vant 1 enoi moi ne if färanno facili; ſe ſono contro la natura, cerca quello, che ſia ſecondo la tua natura, e intorno a queſto ſtudiati, an corchè ſia ſenza gloria, eſſen đo da vſare indulgenza con chi cerca il proprio bene. 16. Conſidera donde ciaſcu na coſa è venuta, e di quali fubbietti ciaſcuna conſiſta, e in quali ſi muti, e mutandoſi quale ſarà, c come non ſog opere di giacerà a dannoniuno. E pri ma qualabitudine ſia in me verſo di quelli, eſſendo che ſiamo nati vno a prò dell'al tro; e ſecondo vn altra 'ragio ne ſon fatto per preſedere a quelli, come ariete al greg: ge, o toro all'armento. Poida queſto paſſa a raziocinar più alto ', che ſe non è vn concor fo diatomi, è la natura, che: legi ente car Slicet ndo ed P4 il tutto regge; e ſe ciò è, l'infe. riori coſe ſono fatte per le mi gliori, e queſte l'vna per l'altra. Secondo offerua, quali ſie no nella menfa, quali nel letticciuolo, e in altri luo ghi, ma ſpezialmente quali neceſſità apportino loro i dog mi, che effi fi ſono profiſſi, e con quanta preſunzione met tino in opera quegl' ifteffi lo ro decreti. Per terzo. Se quelli retta mente queſte coſe operano, non è da diſpiacerci; ma fe non rettamente, chiara co fa è, che operano per for za, o per ignoranza; perchè ogni anima dimala ſua voglia reſta priua come del vero,co sì di comportarſi con ciaſcu no fecondo la ſua conucneuo lezza; e perciò prendono a ma , afe ml 12 fit re 110 cal 105 et FO male l'eſſer chiamati ingiuſti, ingrati,auari,e al tutto procli ui al peccarecótra de proſſimi. In quarto luogo. Che tu ancora fai di molti errori, e come yn aftro di loro pecchi; ſe da alcuni errori ti aſtieni, tuttauia hai l'abito di com mettergli, quantuinquc per cagione di tinore, o di glo ria, o d'altro ſimile vizio tu ti rattenghi da si fatti crrori. Per Quinto. Che manco hai ben penetrato, ſe errano: auuenendo molte volte, che lo fanno diſpenſatiuamente; c in ſomma è neceffario d'ap prendere molte coſe auanti di pronunciare aſſeuerante mente delle azionialtrui. Per feſto.Che quando fuor di miſura tir ti degni,o da im pazienzia fei prcfo,fouuenga DI H ľ ¿ 2 P 5 tia 346 [ f fi ti, che la vita humana è mo montanea; e che tra poco tut ti ſtaremo diſteſi. Settimo. Che non ſono l'o perazioni loro ', che ci pertur bano; imperocchè eſſe ſono nelle menti di quelli, ma ben sì i noſtri apprendimenti. Deponili dunque, e conten tati di laſciarne il giudicio, come di coſa a te graue; e la collera farà ſùanita. Or bene in qual maniera li deporrò? diſcorrendo;che non té inter. venuto niente di diſdicevo le; poichè ſe non foſſe fe nori quel ſolo ', ch'è diſdice uole,male', néceſſario fareb be, che tu in molti modi pec cafſi, diuenendo ladro, e af fatro ſcelerato. Qttauo. Quanto fono coſe più graui quelle, che apport tano C t t C te al more f per le 30 tano per cagionc loro i cor rucci, e languſtie dell'animo, che non ſono le coſe i, quali ci contriftiamo, c adi riamocon quelli. Che la manſuetudine.è inuincibile, quando ſia fincera, e non affettata fimulata. Che ti farà vno per fouerchieuoliſſimo, che cgli fi fia:, ſe tu perfeueri d'eſſere con lui piaceuolc? E, ſe così t'auueniffe, placidamente l'aer uertirai ', e meglio l'inſegne rai', attendendo a ciò quieta mente in quell'iſteſſo tempo ni che colui fi ftudia di fare a re il male, dicendogli tu:: Non figliuolo, noi ſiamoprodottiat altre coſe. Io non rimarrà l'offeſo, ma tu bon fi,figliuolo; e con de ſtrezza e fommariamente gli moſtrerai, che la cofa paf P 6 ſa cosi. E che ne le api ciò fanno, ne niuno di quegli animali, che per lor natu ra inſieme ſi congregano E però di biſogno, che ciò ſi faccia lontano dall'irriſione, o dall'improperio; ma ami cheuolmente, e ſenza mor dergli l'animo, e non come nelle ſcuole, ne acciocchè altri, chepreſente ſia, faccia delle marauiglie, ma a ſolo a ſolo, quantunque alcuni altri vi ficno intorno. Queſti noue capitoli tiengli a mente, come doni a te fatti dalle Muſe: e yna volta, men. tre se'in vita, da principio ad eſſer huomo. Però biſogna guardarſi egualmente, come di non adirarti contro quelli, così di non adularli; perchè l'vno, e l'altro ſono contro l'hu D. l'humana comunione, e tira no al danno. Ti ſia in pronto, mentre ti traſporta la collera, che non è da prode huomo l'adirarſi; ma la placidezza, e la manſuetudine, quanto più fono da huomo, tanto più hanno del maſchio; poichè. queſti partecipa più della for tezza, e della neruoſità, e det vigore, ma non già chi è ſdegnofo, e diſamoreuole. Perché quanto più queſtoè proprio della tranquillità dell' animo, altrettanto è ancora del vigore. E come la triſtez za è de deboli, così è la col lera. Poſciachègli vni, e gli altri ſono feriti, e ſi arrendo no. E ſe ti piace, dal principe delle muse riccuiancora que ſto Decimo dono: Che è da furioſo il non volere j, che i cit 350 1 cattiui pecchino, concioffie colache in ciò fi pretenda l'impoſſibile.Ora il concede re, che verſo gli altri ſieno tali, e il volere, che contro di te non pecchino", è cofa da: huomo- ftolido, c.da tiranno. S'ha del continuo da of ſeruare', eſfer principalmente quattro i moti dell'anima. E quando tu li ſcoprirai, gli hai da ſcancellare; dicendo fra te ſteſſo ſopra ciaſcuno. Queſta immaginazione non è necef-. ſaria: Queſto diſcioglie la co -- munanza: Queſto non lo di rai di capo tuo;perché il non dirlo da fenno, reputalo tra le coſe ſtrauagantiſſime: II quarto è, che tu a te ſteſſo rimprouererai queſto eſſere yn dare per vinta la portione più diuina, che in te è, e fot to و in te è, bench cometterla alla parte più i gnobile,e mortale del corpo, e alle ſuematcriali voluttà. Il tuo spiritello e tutto quello d'igncos che è in te miſchiato,diſua natura tende 1 in alto', nondimeno per ob bedire all'ordinanza dell'vni uerſo dentro del miſto ficon tiene. Ancora', tutto quanto di terreſtre, e d'humido, che tuttauia refta ſollevato', e ſta non ſecondo il natural ſuo ſito. Così gli elementi ancora obbediſcono alle cofe vni verfali, quando, douunque fieno traſportati, reſtano per forza,finchè dinuouo lorven. ga fignificata la facultà di di fciorli. Dunque non è egli mal fatto che la ſola tua par ce intellettuale ſia dura all'obbedire, e che ſdegni la ſua re gione? e pure non ſe le ordi na niente di violento, ma ſo lo quello, che é ſecondo la natura fua; tuttauia non vi s'accomoda, ma corre al con trario. Concioffiecofache on gni commozione verſo l'in giuſtizie, le lafciuie, i ran cori, c i terrori non è altro che vna riuolta contro la natura. E quando la mente piglia mal volentieri qualche coſa di quelle, cheauuengono,allo ra abbandona il ſuo poſto; giacchè quella è fata diſpoſta all'equanimità, e pietà verſo gl’Iddij, non meno, che alla giuſtizia; perchè queſte ſono d'yna tal forte, che tendono alla buona comunanza, e fo no più antiche delle iſtelle opere giuſte. A cui non è ſempre vno, e'l medeſimo fine della vira, non può eſſer vno, e'l medeſi mo per tutto il tempo della fua vita.Ma non baſta quefto, che s'è detto, ſe non aggiu gni à quello, quale dee effere queſto fine. Imperocchè co me non è ſimile l'apprendi mento di tutte le coſe, che in qualſiuoglia modoalli più pa iono buone, ma di quelle di vna tal forte, cioè di quelle, che ſon volte al comune, così anco il fine dee eſſere diretto alla vita comune, e ciuile. Perchè chi a queſto indirizza - tutti i proprij appetiti, rende rà vniformi tutte le azioni, ed egli in tal modo farà ſempre il medeſimo. Conſidera il topo nion tagnolo, el domeſtico, e la 4 Vand S vana paura, e fuga di queſto. Così l'opinioni del volgo chia. maua Socrate lamie, e spaventacchi de'putti. I Lacedemonij negli ſpettacoli poneuano i fora ſtieri ne ſedili all'ombra; effi ſedeuano doue a forte loro toccaua.. 22. Socrate riſpondendo a Perdicca, perchè non andaua da lui, diſfc; Acciò io. non periſca di così infame morte; mentre non po teſſi corriſpondere alla grazia, che riceueſji. Tra gli ſcrittide gli E feij taua vn auuertimento y che ſpeſſe volte ſi ricordaſſero di qualcheduno degli anti chi, i quali haueſſero eſſerci-. tato la virtù. I pitagorici ordinavano, che di mattino si riguardatſe: ili 8 po fe BE il Cielo; acciocchè ſempre ci ricordaſſimo di quelli, che ſempre ſimilmente, e nell'i ſteifa maniera compiono l'o pere loro e dell'ordine, e del la purità, e difuelamento; im perocchè niun velo hanno le feller 25 Ti fouuenga quale cra Socrate cinto d'vna pelle, quando Santippe coperta del la di lui veſte vſcila fuori di caſa; e' rammentati quello, che diffé Socrate alli compa. gni, che fi vergognauano, e ſi ritirauano, quando lo vidde ro in tal'abito: 26 Non far il maeſtro di fcriuere, e leggere ad altri, in nanzi che ſij ammacſtrato ciò è da oſſeruare molto più nella vita. Seruo tu Lei peròparlar non dei. Allora io di buon cuo re me ne riſto Rampognan la virtù con aſpri det ti. 27 E' da pazzo domandar i fichi l'imerno. Tale è chì quando non è più tempo d'ha: uerne, deſidera yn figlioli no. Epitteto ammoniua quc gli, che baciaua il figliolino, che diceſſe tra di fe: domanefor fi morrà. Sono parole di mal augurio coteſte? Non è, di ceua cglig parlar di male au gurio vſar parole ſignificanti qualch' opera conforme alla natura: altrimente il mietere le ſpighe, ſarebbe yn cattivo augurio, L'vua è prima agre ſto, poi matura, e poi paſla. Ogni coſa foggiace a mu tarſi, non nel non eſſere, ma in quello, che di preſente non è. Detto è d'Epitetto, che Ninno è ladro della volonti. Vn arte, diſſe egli,s'ha da ritro uare d'aggiuſtar gli affenfi, e in materia degli appetiti biſo gna conſeruare l'attenzione, acciocchè ſieno con eccezio ne, e che s'indirizzino al be. ne comune, e ſecondo la con ueneuolezza e totalmente aſtenerſi dall' auide voglie e non iſchifare coſa alcuna, che non ſia in noſtro arbitrio. Non è dunque, diſſe egli, la conteſa intorno ad vna coſa ordinaria; ma intorno all'ef fer pazzo, o ſauio. Diceua Socrate, che anime volete ha uere, de'ragioncuoli, o degl'ir. ragioncuoli de'ragioneuoli. Di quali ragioneuoli, de’lani, o de’deprauati? de'fani. Per chè dunque non le cercate? perché le habbiamo:dunque a'che contraſtate, e diſcor date? Fine del Libro Vndecimo, CO b pa te fa fa PI all ace Vie LI 359 INO cercarei curse dike op. G là fta in tuo potere di poſſeder tutte quelle coſe, alle quali anſioſamente bramafti con aggiramenti di peruenire, ſe tu non inuidij a te ſteſſo: cioè a dire, ſe tu non farai più caſo di tutto il paf fato, e 1 futuro laſcerai alla pronuidenza,e'l preſente ſolo bu indirizzerai alla ſantità, e alla giuſtizia. Alla ſantità, acciò tu ami quello, che ti vien deſtinato; concioffieco C1 facció 0 li fache la natura ha portato quello a te, comc te a quel to. Ma alla giuſtizia liberamente fuori d'auuilup pamenti tu dica parlando la verità, c operi ſecondo la leg fi ge, e la conueneuolezza. E non ti ſia d'impedimento ne l'altrui maluagità, ne l'opi nione, ne le ciarle, ne meno ti il ſenſo della carnuccia teco connutrita. Però, chi pati- re. ſce, cipenſi. Se tu dunque tú quando in qualſiuoglia tem po t'approſſimi all’yſcita, ab bandonando tutte l'altre co ſe, solo stimerai la tua mente, e quello che di divino è in te; e non temerai il cessar vna volta dal vivere, ma il non haper cominciato giammai a vivere secondo la natura, ſa rai huomo degno del Mondo, che le TOLE to mi che wani DI110 ne Oi 70 c0 ti chet ha generato, e nonſarai più foreſtiere nella patria, e non ti marauiglierai,come di coſe inopinate, di quelle, che alla giornata auuengono,'e finiraidi rimaner ſoſpeſo per queſta, o per quell'altra co fa. 2 Iddio ſcorge tuttelemen. ti diſpogliate de’yaſi materia li, delle corteccie e lordu re. Poichè con la ſua ſola vir tù intellettuale attigne quel le coſe, che da eſſo ſcaturi rono, e deriuarono in queſte eofe materiali. Il che,ſe tu ti auuezzerai di fare, ti liberc rai da molti ſpafimi. Percioc chè chiriguardo non haalle carnucce chelo circondano,fi tratterrà forfi a badare al ve ſtito alla caſa, alla gloria, é a fimili abbigliamentie arredi? Tre ſono le coſe, delle qualitu fe conpofto, 'il cor picciololo fpiritello, vela mente. Di queſte le prime duefono cue, finche ta dilo To habbi cora. La terza fo la è propria rerire, tua. Setu fequeſtrerai da te, cioè dalla tua confiderazione in tutte quelle coſe che alla faccia no, o dicano, e quelle,'che Tu hai-detto e fatro, e que te,'che,comefe falfero per auucnire, ti- boiterbhojne quelle ancora cheper lo cort picciuolo, che ti circondala per Minneſtæto " piritello tohi tro tua vogliati fuccedchos de quelle, che intenten einer hohen mente con vina contratttváre tiğine ſi rivolgonoi, fieche; rendendo la potenza santé fertuale efente delle cofejohe fono inſieme fatali, pura, eili ibera viuerà in fe fteſfa', ope rando: le cofe " giufte, te rice uendo volentieri gli auueni menti, e proferendo la veri tà: Se tu ſeparerai, dicdi, da quefta potenzaquefte. cofend elfæaderentiper graditimpa zia, edaltempo, quelleche hanno da auuenire appreffo.. pilepaffate, etiformerairale, qualeè la palla sfericadiem pedocle; Chestutta titanda guide della-poluere, ch'attornojpelte rigiza, attenderai ſolo alviuere, the gu viui, cioè al preſente, e po tmisfio alla morte viuendo trapalaretuttoquello che ti reſta imperturbato gencroſa mente si emanſuetamente, fet condo il tuo genio. Speffo miſonimarauiglia TO:, come ciaſcuno più di tut Q:2 ti  ti ami ſe ſteſſo; e come non dimeno tenga in minor conto l'opinione propria intorno a ſe medeſimo, di quella degli altri. Se dunque Dio ſoprau uenendo, o vn macſtro pru dente, comandi ad alcuno, che nulla dentro dife penfi, o diſcorra, che ſubito l'ha conceputo, non lo palefi, non lo razterrebbe ne pure per vn giorno. Cosìpiù temiamo di quello, che i proſſimi giudi cano di noi, che di quello, che noi medeſimi giudichia mo.: 5 Come farà mai, cheha uendo ordinato il tutto gl'Id dij bene, e con carità verſo l'huomo, queſto folo habbia no traſcurato,che alcuni degli huomini, e molto buonije che colla diuinità hāno tenuto co me  01 700 011 22 TU 101 olis ha On di me ſpeſſi commercij, e che ſouentemente per l'opere fan te, e ſacrificij ſi ſono reſi à quella famigliari, queſti, vna volta morti, non ſi facciano ritornare, ma rimangano del tutto eſtinti? Queſto, ſe pu re così ſta, tu hai da ſapere, che fc altrimente biſognaſſe, che foffe; l'haurebbero fat to. Concioffiecoſa che ſe era giuſto, era poſſibile, e ſe era ſecondo la natura, l'haureb be prodotto la natura. Dal non eſſer così, ſe così non è, tu ti hai da perſuadere non eſſere ſtato neceſſario, che al trimente fi faceſſe. Imperoc chè tu ſteſſo t'auuedi, che ciò ricercando, tu entri a con tendere in giudicio con Dio. Ma noi non diſcorreremmoco sì con gl’Iddij, ſe ottimi, e Q 3 giufillimi non foſſero. E ſe così è, nicnte ingiuſtamente hanno traſcurato, e irragio nevolmente negletto nellab Tellimento dell'vniuerſo.. 6 Afſucfatti ancora a quel le coſe, delle quali non bene ſperi.Imperocchè la mano fi miltia inabile per non eſſere aylata all'altre coſe, reggeil freno più fortemente, che la deſtra, e queſto perchè vi s'e ZUL Czzata. Penſa quale biſogna, che tú ti truoui,e del corpo,e del Panima, ſopraggiunto che fą rai dalla morte: la breuità della vita, la vaſtità de'ſecoli ayanti, e dopo, la debolez za d'ogoi materia. Content pla ſpogliate d'ognicorteccia le caufalità, le relazioni dold' opere; che fią la fatica, che'l piacere, che la morte, chela gloria: chi ſia a ſe ſteſſo cagio ne deltrauaglio, e coine niu nofią impeditodaaltrise che ognicoſa lia opinione. & Nell'vſo delle tue maffime è neceffario, che tų fij, limi le non all'accoltellatore, ma al combattente maneſcamen. te con le pugną. Concioſſie cofache quegli, ſe pone giù la 1pada, della quale ſi ſerue, re fta vcciſo, ma queſti ſempre ha la mano, nę gli biſogna nient'altro, che ſerrarla. 9. Di queſta fatta s'hanno a riguardar le coſe, diuidendo ke in materia, forma, e rela zione Quanto potere hą l'huomo a non faraltro, faluo quello, che Dio ſia per gradi re, e riceuere tutto quello, che Dio gli diſtribuiſca, con Q 4 forme all'ordine della natu ra. To Non s'ha da querelarſi degl'Idij, mentre non ſono, nevolendo, ne non volendo, ſoggetti ad errori; ne meno ſono da áccufare gli huomi ni; perchè non peccano, fe non contra voglia, Diniuno dunque s'hanno da far querele. Quanto è ridicolo, e ftra niero chi s'ammira di qualſi uoglia coſa, che nella vita occorre! Oviè la neceſſità fatale e ordinazione inuiolabile, o prouuidenza piegheuole, o confuſione temeraria ſenza gouerno. Se è neceflità iné witabile, a che ti contraponi? ſe è prouvidenza che ammet tc eſſer piegata, fa degno te ſteffo del fuſſidio diuino: ſe è confuſione ſenza reggimen to, rallegrati, chein queſta tempefta tu medeſimo hai in te ſteſſo per gouernatrice qualche mente: e ſe la tem peſta t'aggira, fia traportata la carnuccia, lo ſpiritello, e l'altre coſe, ma la mente non farà traportata. Il lume della lucerna, finché fi ſpenga, 'ri luce sì, e non perde lo ſplen. dore: ma la verità, che è in te, e la giuſtizia, e la tempe ranza, anticipatamente s'e ſtingueranno? Dove l'immaginazione concepiſca, che vno ha peca cato, rifletterò donde ho,che queſto fia peccato, e ſe que gli peccò, ſe fi fia egli reſo reo per quell'atto? perchè ciò ſa rebbe quali vn lacerarſi il proprio volto. Poſcia rifletti, che chì non vuole, che'l cattivo, pecchi; è da raſſomigliarſi ad VCO, che voglia, che l'arbo re de i fichi non produca il lattificio, e i bambini non piangano, ei cauallinon ani triſching, e altre coſe taliche feguono di neceſſità. Pero, che coſa ha da fare, hauen do contratto " va cotal mal abito? Dunque, ſe ti ſenti da ciò, riſanalo. Se non conuiene, non do fare. Se non è vero, non lo dire, ma l'appetito dia fox, to dite per conſiderare il gut to che è quello, che fa im preſſione nella tua immaginas zione, e diſcutilo, diuidenz dolo nel formale, nel mate, riale nella relazione neltem po, dentro al quale quello ha da Vis petto? forſe cupidigia a forfe da finiie. Riconoſci una vol ta, che in ce è vna coſa più eccellente, e più diuina di quelle, che te paffioni in te cagionano. E in ſomma,quan te cofefono,che in qràge in la in guiſa d'un bamboccio con de cordicelle ti abburattano. Che’çoſà è ora il mio penfie rodforfe timore? forfe for. cofa alia fimile: 15 Primieramente penfais che niente è a caso e niente, senza relazione. Secondaria mente chea niun altro fine, che a quello della focictà fi riduc. Che non molto dopo niūno in niun loco farai, ne pur cofa alcuna fari di tutte quelle, che orá vedi, ne al cuno di quello che ora: vi -91 I Qo NOuono; conciofficcofache tut te le coſe ſono nate per mu tarſi, trasformarſi, e perire, acciò altre per ſucceſſione ſe guano. Ogni cosa è opinione,e queſta depende da te. Togli dunque, quando tu vuoi, l’opinione; e, come chi volge al ridoſſo d'vn promontorio trouerai ferenità ferma di tutte le coſe, e vn ſeno tran quillo.: -18 Vna, e qualſiuoglia fi fia operazione che a ſuo tem po finiſce, nonpariſce danno niuno, perchè finì; ne l'ope rator di quella, per hauer finito, patiſce mal alcuno. In ſimil modo dunque il ſiſte ma, o fabbrica ditutte l'ope razioni, che è la vita, ſe in qualche tempo finiſce, non rice etut or me erine Quel one, Togh oila ageal torio ma Stra / di riceue alcun danno, percioca chè fini; ne quegli, che in tal tempo terminò queſta ſerie, fu malamente trattato. Il tempo, e'l termine fono dále la natura conſtituiti, talvolta dalla propria,come nella vec chiaia; ma generalmente dal I'vniuerſale, le cui parti con tinuamente mutandoſi, reſta tutto il Mondo ſempre nouel. lo, e vigoroſo. Tutto ciò del continuo è buono, e oppor tuno, che all'yniuerfo.confe riſce. Dunque il finir del vi uere a chiunque tocchi, non è coſa cattiua, perchè non è vergognofa, come non de pende dal noſtro volere, ne contraria al comun bene del l'yniuerſo. Anzi è buono quando è opportuno, e con ferente all' vniucrſo, e con quel elial tem dan l'ope verf olfille 12 l'ope ſe i non. lo 1 quello è inheme portato Concioffiecofache è portato da Dio quegli, che fi perta vnitamente con Dio, e a quel le ifteffe cofe collintendimen to fi conduce. ! 19. Queſte tre coſe hanno da cflere fempre in pronto.. Primieramente in ciò, che tu fai, non fia niente inuano, ne altrimente fi facciay.che felis fefla giuſtizia haveſſe,opera to: ma nelle cofe, che anlı uengono di fuori, mentre quelle o fono procedurea ca fo, o fecondo la prouuidenza non s ' ha da querelarſidel ca fe, ne accufare la prouuiden za Secondariamente qual cofa faccia ciafcuro dal non effene, fino all'animazione, e dall'animazione, fino al ren dimento dell'anima, e da qua. li coſe da fatto l'adunamento, e in quali il diſcioglimentos Terzo come ſe ſoprad'yu’ers minenza follcuato tu rimiral G le coſe humane', e dopo ha. ụer compreſa, la lor gran va rietà inſiemeconoſcelli quan to ci ſia dell'abitato, e nel l'acre, e nell'etera, e çoine quante volte cu foffi cosi fol leuato, vedreſti le medeſime, l'iſteſſa ſpecie, la breue dura ta. Ed in queſte éla noſtra ſu perbia, 29. Gitta fuori l' opinio ne, ſarai ſaluo. Chi dunque e’impediſce il gittarla. Quando perqualche co ſa ti prendi diſguſto,ti ſe (cor dat, che ogni coſa li fa', le condo la natura yniuerſale, che quel peccato è d'altri. E oltre queſto, che tutto ciò, che pure, che ſi fa,cosìſempre's'è fatto, e li farà, e di preſente ſi fa per tutto: ancora, quanta è la co gnazione dell'huomo con l'o niuerſo human genere; per chè non è la comunione del fanguccio, ò della poca ſe menza; ma della mente. Ti fcordaſti che la mente di ciaſcheduno è Dio, e che da lui ſcaturì, non eſſendoui coſa alcuna propria di niuno, anzi il figliolino, e'l corpic ciuolo, e l'iſteſſo ſpiritello in di vennero. E ancora ti ſcor daſti, che ogni coſa è opinio ne, e parimente, che ciaſche duno il preſente ſolo viue, e che queſto ſolo ſi-perde. Del continuo riuolgi nell'animo quelli, che per qualche coſa li corrucciarono, e quelli, che in grandiſſime glorie, o calamità, o inimicia zie, o in alcuni altri auueni menti li ſegnalarono. Dopo medita, doue fono al preſente tut te queſte coſe?in fummosin cenc re, c fauole, e ne meno favole. Tiſouuenga di tutto queſto', cioè, come furono Fabio Catullino in Villa, e Lucio Lupo, e Stertinio a Baia, e Tiberio a Caprise à Velia Rutfo; e in ſomma di chi ha fatto con l'apprenſione gran caſo di qualunque ſia cofa: ecome ſia di vil prezzo turto, che in tentamente appreſe, e finala mente quanto più foffe da Fi loſofo nella materia toccata gli, portarſi da giuſto, e da fa uio e da ossequioso schietta mente agl'iddii. Imperocchè la superbia, che sotto velo di umiltà si nasconde è la più l’intolerabile daograbra. Agudligiche dimanda nosperchè vonsrigť Iddij acat me turgli habbi vechutia e dom de tu habbi appreso, che vi freno Primieramente risponde, che sono visibili agl’occhi, e poi a benchè io, non abbia veduta la mia anima, tuttavia l'onoro. Così dunque è degl'iddii, la potenza de’ quali mentre ogni giorno io pruqyosda questo comprendo, che ci sono, e gli venero. La salvezza della vita consiste, che ciascuno riguar di che cosa sia il tutto, il materiale, il formal, che con tutto l'animo FACCIA IL GIUSTO, DICA IL VERO.  Che resta altro, che goder della vita, aggiugnendo un ben fatto all'altro, sicche ne pur si perda un brevissimo spazio di tempo? Il lume del Sole, è uno a benchè venga interrotto dal: o e pareti, dai monti, e da altre mille cose. Una è la sostanzia comune, ancorchè ſia di partita tra migliaia di corpi, qualificati dalle loro proprietà. Una è l'anima con tutto che si distribuisca a mille e mille nature con ſsngolari circonscrizioni. Una è l'anima all'intelligente, se bene apparisce, che si divida. L'altre parti dunque delle cose dette: s, com! me gli spiriti, ei subbietti; so no senza senso, ne famigliarmente si uniscono insieme. Questi nondimeno contiene LA MENTE UNIVERSALE e poi la propensione, che al congiugnere gli spinse. Ma l'intelletto propriamente propende all'istesso suo genere, è s’unisce, ne fi può fradicare l'affetto al ben comune. Che cerchi? Di campare? o'pur di sentire, d’appetire, di crescere, e poscia diterminare? Di valersi della voce di DISCORRERE con la mente? Qual cosa di queste ti pare degna d'essere desiderata Male que ste una ad una non sono da frezzare, portati alla conclusione d'ossequiare la ragione e gl’iddei. Ma li fa contro alla stima di queste cotrammaricar si di rimaner perla morte privo d'alcune di queste. Quanta parte dell'immensa e infinita durata a cia. founo é compartita? Poichè ben prestissimo si dilegua nell' eternità. Quanta parte di tutta la sostanzia? Quanta parte di tutta l'anima? In quanta zolletta di tutta la terra ferpendo tu vai? A tutte coteste cose applicando l'animo, non t'immaginare niente di grande o questo solo se tu operi come la tua natura ti conduce, e soffri come la natura universale portage comeliva. le di se stessa la parte tua reggitrice; polciachè in cio il tutto consiste. Tutte le altre cose, o sieno nel tuo arbitrib. no fuori di quello. Sono cadaveri, e fummo: om.svisli! Efficacissimo è il rifletterre, per eccitarci al disprezzo della morte, che quelli ancora, che stimano essere il bene nella voluttà, e'l male nel dolore, nondimeno quella disprezzarono. A chi quel so. Lo che è opportuno è bene je a chì tanto è l'aver molte azioni fatte. Secondo la ragione retta, quanto poche. Ie a chì non iinporta contemplare il mondo in maggiore, o minor spazio di tempo, nemanco la morte è terribile. O huomo sosti cittadino in que sta gran città che ti fa te per cinque anni mentre quello. Che è conforme alle leggi ad ognuno è dellistesso peso. Perchè dunque ti ègraine, se dalla città ti manda via non il tiranno, o un ingiusto giudice, ma da natura, che vi t'introdulfezlic come dalla see, na licenzialse vas comico il capo della truppai che l'han keva, condotto. Però tu dii, non vappresentaii i cinque atti, ma solo tre. Tu dibeneze a proposito mentre che nella vita anche tre atti compiono tutto il drama. Conciossieco fache quegli impone il termine, dove abbia da finire, che allora ordina l'adunamento, cora fa lo scioglimento, nel li quali tu non ci hai avuto parte. Vattene dunque placido. Poichè quegli che ti licenzia, è placido. Dal mio avolo, Vero, la gentilezza del costume, e il non adirarmi. Dalla fama e dalla memoria del  mio genitore, l’esser verecondo e  maschio. Dalla madre, l’esser pio, il donar volentieri, l’astenermi non solo  dal fare il male ma anche dal venirne in pensiero. [Ancora, l’esser  Sottintendi, come nei paragrafi seguenti,  il verbo ‘imparai’, ovvero ‘riconosco’, nel senso di iono riconoscente ili aver ricevuto chessia, cosa, o esempio di qualsivoglia cosa o virtù), o altra espressione che riempia  acconciamente le ellissi. ‘Maschio’: intendi forte costante, non molle ed effeminate], frugale nel vitto e alienissimo dall’usanze dei ricchi. Dal mio bisavolo il non essere andato alle pubbliche scuole, l’avere avuto di buoni maestri per casa e  il conoscere che in siffatte cose non  si vuol guardare alla spesa. Dal mio aio: il non essere stato nè di parte prasina nè di parte veneta, nè parmulario, nè scuta-    [Il bisavolo paterno di Antonino e Aunio Vero. Il bisavolo materno e Catilio Severo. Non è  chiaro di quale dei due si parli nel testo. Intendi: la scola elementare. Poiché ognun sa che Antonino frequenta assiduamente come ‘scolaro’ le varie ‘scuole’ dei fìlosofi a Roma. Non si conosce il nome dell’aio] [elio morendo lascia grande desiderio di sè in Antonino. Sono i colori che distingueno i due  grandi partiti degli aunghi del circo, che  non sono piccola parte nella storia delle follie dell’impero. Nunc favent panno, pannum amant,’ disse energicamente Plinio il  giovane, IX, 6. Lucio Vero, collega d’Antonino, la pensava altrimenti, secondo le  parole di Capitolino. Rio]. Il reggere alla fatica, l’aver bisogno di poco, il saper fare da me, il non intromettermi nelle faccende altrui e il non porger facilmente orecchio ai delatori. Da Diogneto imparai il non occuparmi d’inezie, il non dar fede a ciò che  i magi e i fattucchieri dicono intorno alle malie, allo scongiurare gli spiriti e altre cose di tal fatta, il non avere atteso a nutrir quaglie nè essermi dilettato di simili cose, il  patire ehe altri mi parli francamente.    [Parmularius e il gladiatore  armato di un piccolo scudo di cuoio detto ‘parma’ o parmula, e ‘scutarius’ quegli che porta lo ‘scutum’, grande e lungo. Questo Diogneto era non solamente filosofo, ma anche pittore, secondo Capitolino, ed avea dato intorno a quest' arte alcune  lezioni ad Antonino. Si allude ad un giuoco dei romani  aveano prego dai greci,. Si faceano combattere fra loro questi uccelli, o dai casi del combattimento si traevano presage]. L’ESSERMI DATO ALLA FILOSOFIA. L’avere udito primieramente Bacchio, poi Tandaride e Marciano. L’avere scritto dialoghi da ragazzo. L’ avere voluto il lettuccio con la pelle sopravi e le altre cose che vanno appresso nella educazione greca. Da Rustico: l’esser venuto in  pensiero che i miei costumi avean bisogno di correzione e di coltura. Il  non essermi sviato dietro ad un’ambizione di sofista, o scrivendo su materie speculative, o declamando orazioncelle esortatorie, o facendo, per dar nell’occhio altrui, 1’uomo austero e benefico e l’avere abbandonato la rettorica e la poetica e il bel favellare, e il non passeggiare togato per casa e altre tali cose e lo scriver le lettere semplicemente [Era uno stoico come quell’altro romano fatto uccidere da Domiziano per aver  lodato Trasea Peto] e naturalmente, come quella ch’egli scrisse da la citta di Sinuessa a mia madre, e il non serbar rancore verso le persone che si son, meco adirate e m’ hanno offeso e rappacificarmi volentieri con loro tosto eh’ elle si voglion ricredere, e e il leggere con attenzione e non contentarmi di capire così air ingrosso, nè assentire troppo di leggieri a quel che i circostanti dicono, e lo avere avuto contezza  dei ‘Ricordi’ d’Epitteto che Rustico mi dona di suo proprio moto. Da Apollonio: la libertà dell’animo e la fermezza nel proposito senza dar mai nulla al caso, il non  guardare ad altro mai, nè anche per poco, che alla ragione, l’esser sempre uguale, nei sommi dolori, nella perdita del figlio, nelle lunghe malattie, l’aver veduto ad evidenza nel vivo esempio di lui siccome può  la stessa persona essere gagliardissima ad un’ ora e rimessa e il non impazientarsi nello spiegare e l’aver conosciuto un uomo che manifestamente tene pel minimo de’ suoi  pregi la pratica e la facilità ch’egli ha del comunicare altrui la scienza, e l’avere imparato come convenga liceverc fivelli che il volgo chiama benefizi dagli amici, senza  diventai, e loro divoto per ciò nè per altra parte, lasciando correre la  ('osa senza saperne grado. Da Sesto: l’amorevolezza e l’esempio del governare da buon padre una casa e il concetto di vivere “secondo natura” e la gravità non affettata, e l’indagare con sollecitudine quello di die gli amici  hanno uopo, e il sopportare gl’ignoranti e il sapersi adattare a  Nello spiegare. [Intendi: nel dare altrui  tutte le spiegazioni di die possa aver d’nopo per ben capire le cose]. [Intendi: senza diventar loro obbligato in modo che nìccia alla Ina libertà]  tutti per modo ch’il CONVERSARE con esso lui era più dolce cosa che l’adulare di chicchessia ed e egli nondimeno in quello stesso punto ed  appo quelle stesse persone in venerazione grandissima, e la chiarezza  di mente e la sagacità con cui trovava ed ordinava le verità filosofiche necessarie alla vita, e il non aver dato mai indizio di collera nè d’altra passione, ma essere stato ad un’ ora il più impassibile uomo ed il più tenero, e il dir volentieri liene d’altrui, senza menar remore per ciò, e la molta dottrina senza  che paresse.  Da Alessandro: il non isgridare e il non riprendere ingiuriosamente chi faccia un barbarismo o un solecismo o un cattivo accozzamento di suoni, parlando; ma  profferire destramente ciò che quegl’avrebbe dovuto dire, per modo di risposta, o di conferma, o come volendo esaminar con esso la cosa, non già la parola, o per qualsivoglia *altro modo di suggerimento indiretto* [IMPLICATURA], garbatamente. Da Frontone: quanta invidia, quanta malizia, quanta simulazione, sia nella tirannide. E siccome questi da noi chiamati ‘patrizi’ son cattivi padri anzi che no. Da Alessandro, il platonico: il non dir sovente nè senza necessità a nessuno, nè scriver per lettera, ch’io sono occupato, nè contrarre r abito di disimpegnarmi in  tal modo dei doveri verso le persone con le quali io vivo, allegando per iscusa le faccende. Da Catulo: il non tener poco conto delle doglianze di un amico, quand’ anche si dolga fuor di ragione. [Secondo Filostrato e un segretario di  Antonino]. [Cinna Catulo, filosofo stoico, menzionato da Capitolino] ma anzi sforzarmi di ricondurlo alle  maniere di prima, e il parlar bene e volonterosamente dei maestri, come si narra di Domizio e di Atenodoto, e l’amar i figli con vero affetto. Dal mio fratello, Severo, l’affezione ai dimestici, l’amor del vero e del giusto, l’avere, per mezzo  di lui, avuto contezza di Trasea, d’Elvidio, di Catone Uticense, di Dione, di Marco Bruto, ed essere venuto in pensiero di un reggimento civile dove la legge sia una per tutti e pari i [Neppure l’eruditissimo e diligentissimo  Qataker potè chiarire chi fosse questo Severo che Antonino chiama fratello. A tutto quello che ci è dimestico] [Una delle più illustri vittime della crudeltà di Nerone] [Genero di Trasea, esiliato da Nerone]. [L'illustre stoico Catone Uticense] [L' amico di Platone, l’avversario di Dionigi tiranno di Siracusa, la cui vita fu scritta da Plutarco] [Marco Bruto, la cui vita fu pure scritta da Plutarco] diritti di ciascheduno, e di un governo regio che sovra ad ogni altra cosa tenga conto della libertà dei governati. Ancora quel suo tenor costante ed uniforme nel culto della filosofia e la beneficenza e il far  parte altrui volentieri e senza rispar-  mio delle proprie sostanze; e lo sperar bene; e l’aver fede nell’amicizia degli amici e quel suo non infìngersi con le persone quando disapprova alcuna cosa in loro; e il  non aver mai avuto bisogno gl’amici di lui di andare indovinando che cosa egli volesse o non volesse, sendo l’animo di lui sempre aperto. Da Claudio Màssimo: il contener sè medesimo, e non lasciarsi andare in nulla malgrado suo, l’esser di buon  animo nelle malattie e negli altri casi avversi e quella temperatezza  di costume, soave ad un tempo e  [Clandio Massimo filosofo stoico] dignitoso e l’eseguir prontamente senza querimonia qualunque cosa gli accadesse di dover fare e la credenza che tutti avevano di lui, ch’egli  pensas tutto che dicee fa a  lìn di bene tutto che fa; e il non istupir di nulla, non isgomentarsi di nulla, non esser mai nè frettoloso nò tardo, nè imbarazzato, nè sfiduciato, nè infingardo, nè ripentito del consiglio preso, nè sospettoso e il  beneficare e il perdonar volentieri, e l’esser veritiero e il parer  piuttosto uomo per natura incontaminato che non per arte emendato e siccome nessuno fu mai che o si credesse dispregiato da lui, o ardisse riputar sè migliore di lui; e quel suo piacevoleggiare a proposito. Da mio padre adottivo: l’imperatore Antonino Pio]: l’esser bonario, e irremovibilmente fermo nondimeno nei partiti pi'esi dopo accurata disamina, il non trar vanità da  quelli che il volgo chiama onori, l’amore al lavoro e l’assiduita; il  dare ascolto a chiunque avesse da  proporre qualche cosa di utile al comune; il non lasciare che nessuna considerazione lo distornasse dal retribuire a ciascuno secondo il merito, il conoscere dove bisognasse esser rigido e dove indulgente, L’AVER POSTO FINE AGL’AMORI DE’ RAGAZZI e il  sentire modestamente di sè e volere stare ad uno stesso ragguaglio con gl’altri, il permettere agli amici di non cenar punto con lui, e di non accompagnarlo nei viaggi, e lo accoglier con gli stessi modi di prima chi per qualche sua bisogna non lo avea potuto seguire; e la diligenza e la persistenza con che esamina le cose  nei consigli, non come quell’altro di cui è stato detto che tòsto lascia la deliberazione contentandosi dei primi pensieri che gli furon venuti, e il conservar gli amici, non recandosi a fastidio nessuno, nè incapricciandosi di nessuno; e il sopperire  a sè stesso, sempre; e la serenità del volto; e l’antivederei da lontano e pral ovvedere senza scliifiltà anche alle rnenome cose e l’aver dato bando alle acclamazioni e alle adulazioni d’ogni genere e il tenere allestito  sempre quanto era necessario per le  occorrenze dello stato, moderando le spese e sopportando di buon animo  la taccia che alcuni gli davano per ciò, e l’essere alieno e dalla superstizione verso gli dei e dalla piagenteria verso gli uomini, non curandosi di acquistar grazia appo il  popolo o con le larghezze, o con le1 Luogo intricato. Nota due modi condannevoli e vani: di  acquistar grazia appo gli Dei, con pratiche  superstiziose; appo gli nomini, con l’andar loro a genio e secondarli anche a costo del  dovere lusinglie, o con lo imitare i modi  di quello] ma sobrio in ogni cosa e saldo, e non mai altro che dilicato e gentile e osservatore della convenienza e del costume stabilito, 0 il servirsi seifza boria e senza scrupolo di tutte quelle cose che conferiscono agli agi della vita, delle quali la fortuna è larga a’ suoi pari, per modo che delle presenti ei si giova senza farne casa e le assenti non desidera; e siccome nessuno  avria mai detto di lui ch’egli fosse un sofista o un dileggino o un pedante, ma sibbene un uom maturo,  perfetto, nemico dell’adulazione, capace a governar sè medesimo ed altri. Eri inoltre quel suo onorare i filosofi veri e non fare scherno de’ falsi, non lasciandosi nulla dimeno facilmente ingannare da loro  e il conversare sciolto, e quella sua grazia Come tanti imperatori die It) avevano  preceduto. che non ristuccava; e il tener cura  del proprio corpo, non tanta da parer tenero deliavita, o damerino, nè tanto poca da parere trascurato, ma quanta  basta per non avere quasi punto bisogno di medicine o simili cose. E sovratutto quel suo cedere senza invidia a chi avesse acquistato abilità in qualche cosa, come nell’eloquenza o nella conoscenza delle leggi e dei costumi de’ popoli, e altro di cotal fatta e lo adoprarsi insieme con essi  perchè ottenessero fama, ciascuno nell’arte in che primeggia e quel  suo fare ogni cosa secondo gl’institnti d’ maggiori, senza dare a divedere che avesse nessuno intento particolare, nè anche quello di volere conservare essi institnti. Ancora il  non esser nè randagio nè avventato, ma continuar volentieri a star nel medesimo luogo e ad occuparsi delle  medesime cose; e dopo passati gli  accessi del dolor di capo, ritornar   iU^teu Aurelio. fresco e vigoroso ai lavori solidi; e il non aver di molti segreti, ma anzi pochissimi, e di rado, e solamente  nelle cose di stato; e la prudenza e la misuratezza nel dare spettacoli, nell’ intraprendere opere pubbliche, nel far distribuzioni ai soldati, e simili cose; siccome uomo che riguardava a quello che conveniva fare, e non alla fama che gli sarebbe venuta dalle cose fatte. Non al bagno fuor d’ora, non la smania del fabbricare, non ricercatezza nel cibo o nella tessitura de’ panni o tintura, o nell’appariscenza de’ servi. La toga dalla villa inferiore e da quelle di  Lanuvio il più sovente; i modi che tenne col pubblicano in Tusculo, che supplica; e altre sue simili maniere. Nulla di men che umano, nulla d’ immisericorde, nulla di violento, nè, come direbbe taluno, siìw al su-   dove; tutte le cose di lui, pensate, distintamente avvertite, con pacatezza, con ordine, con vigore, e d’accordo le une con le altre, come se  le avesse premeditate per ozio. Ed  a lui si potrebbe applicare ciò che VIEN DETTO DI SOCRATE, che egli poteva e astenersi e godere colà dove a gran parte degli uomini manca la forza per 1’uno e la temperanza per l’altro. E il saper reggere con fortezza e con sobrietà ad ambedue non  appartiene se non a colui che ha  l’animo sano ed invitto, quale egli il dimostrò nella malattia di Massimo. Dagli dei: l’avere avuto buoni  avoli, buoni genitori, buona sorella,  buoni maestri, domestici, congiunti, amici, tutti, a un dipresso, buoni. E il non avere offeso mai nessun di loro, benché talmente disposto di 1 Claudio Massimo menzionato] natura, che io l’avrei fatto forse, ove fosse venuto il caso: ma per  bontà degli dei non incontra mai tal concorso di cose che mi ponesse a  repentaglio. Il non essere statò più lungamente allevato appresso la concubina del mio avolo; l’avere serbato nel fior degli anni la purezza del costume e non aver dato saggio di età virile prima del tempo, anzi avere soprastato anche più in là, l’essere  stato sottoposto ad un principe e padre il quale doveva sgombrar da me ogni sorta di boria e farmica pace come egli si può vivere in corte  e non aver bisogno nè di guardie nè di vesti screziate nè di fiaccole nè di statue, come s’usa, nè d’altre  simili pompe; ma anzi, che egli v’ha un modo di ristrignersi quasi alla  ondizione di private e non perder  nulla però nè della dignità nè del nerbo necessario al trattar le cose dello stato, l’essermi tocco in sorte il fratello ch’io ho il quale se è  d’incitamento a me co’ suoi costumi, ad invigilare sui miei, mi consola  nondimeno e mi rallegra con la riverenza e con l’amore ch’egli mi  porta, l’avere avuto figli nè ottusi d’ ingegno nè contraffatti di corpo, il non aver fatto maggiori progressi  nella rettorica nè nella poetica nè  nelle altre arti, dove sarei forse rimasto allacciato s’ io mi fossi accorto ch’io vi riusciva, l’eessermi sbrigato di costituire in dignità i miei educatori, come parve a me ch’essi  bramassero e non avere indugiato con  la speranza del potere far cotesto di poi, sendo essi ancor giovani, l’avere conosciuto Apollonio, Rustico, Massimo. Lo aver concepito chiaramente e più volte qual sia la vita  [Lucio Vero fratello per adozione, uomo  in vero viziosissimo, più assai, probabilmente, che non fosse noto ad Antonino; ma devotissimo e affezionatissimo a Ini] secondo natura: s'i che per gli dei non manca, nè per aiuti e suggerimenti ed ispirazioni loro, ch’io non  vivessi a quel modo; manca bensì  por me, il quale non osservai gli  avvisi e, sto per dire, gli insegnamenti che essi mi dano, l’aver potuto reggere della persona durante cotanto tempo in cotal vita. Il non  aver avuto a fare ne con Benedetta  nè con TEODOTO e che di poi, CADUTO novamente nella PASSION D’AMORE passion d’amore, io abbia potuto guarirne. Che, essendomi adirato più volte con Rustico,  io non abbia fatto nulla di che avessi  poi a pentirmi; che, dovendo mia  madre morir giovane, abbia nondimeno vissuto con me gli ultimi suoi anni; e che, ogni volta eh io volli soccorrere alcuno, o povero o  altrimenti bisognoso, non mi fu mai  detto ch’io non avessi danari per  farlo e il non essermi trovato mai  io medesimo in simigliante occorrenza, da dovere aver ricorso ad altri, l’avere la moglie ch’io ho, così docile, così amorevole, così alla buona; il non essermi mancato acconci educatori pe’ miei figli, l’essermi stati dati rimedi in sogno, e, fra gli altri, contro lo sputo di sangue e contro le vertigini, e il non  essere caduto nelle mani di un qualche sofista, quando io venni in desiderio della filosofia, nè essermi posto a far lo scrittore, o a risolver sillogismi, o a speculare sui fenomeni del  cielo. Le quali cose tutte richiedono  l’aiuta degli dei e della fortuna.  Fra i Quadi,  ulle sponde del Or amia. A FauRtiiia non dovè esser diffìcile il celare coir astuzia o colla fìnta tenerezza! [Suoi pessimi portamenti ad un nomo di sì  poco sospettosa natura qual era Antonino, massime verso dii mostravagli affeziono]. Al mattino, fa’ che tu dica a te stesso. Avrò da fare con un curioso, con un ingrato, con un soperchiatore, con un furbo, con un invidioso, con un insociale. Tutti questi difetti han per causa la ignoranza dei beni  e dei mali. Ma io, il quale conosco la natura del bene, e so ch’egli è l’onesto; e quella del male, e so  cb’egli è l’inonesto; e quella di lui  medesimo che pecca, e so ch’egli è  mio congiunto; non perch’egli sia d’ uno stesso sangue o d’uno stesso seme con me, ma perchè partecipa  «r una stessa mente e d’ una stessa  origine divina. Io non posso ricever danno da nessun di loro. Giacché  nessuno mi farà incappar mai nell’inonesto malgrado mio; nè adirarmi posso col mio congiunto, nè diventargli inimico; perchè NOI SIAM NATI PER COOPERARE L’UN COLL’ALTRO, siccome i piedi, siccome le mani, siccome le palpebre, siccome i denti di sopra e i denti di sotto. E però l’andare a ritroso l’ un dell’altro è cosa contro natura, ed è uno andare a ritroso lo adirarsi l’un coll’altro e l’aversi in dispetto. Questo checchessia, che io mi sono, è un composto di carni, di fiato, e della parte sovrana. Lascia  stare i libri; non travagliartene più;  non ne hai più il tempo. Ma, come quegli che sei presso a morire, metti le carni in non cale; elle non sono  altro che sangue, ossicini, e una rezza, per così dire, di nervi, di vene  [La parte sovrana, cioè la ragione o la  mente e d’arterie. Vedi anche il fiato che  cos’è: imvento; e non sempre il  medesimo, ma di continuo rigettato  e rinnovellato. Rimane la parte sovrana. A questa hai da badare. Tu sei vecchio. Non lasciare che ella serva più oltre. Non lasciare che ella sia tirata più oltre, quasi fantoccino, da appetizioni insociali; non lasciare  che ella contraddica più oltre al destino, 0 crucciandosi delle cose presenti o respignendo da sè le cose  avvenire. Le opere degli dei sono ripiene di  provvidenza. Le opere della fortuna  non sono infuori della natura, cioè  di quella coordinazione e connessione di cause cui la provvidenza  governa. Tutto scaturisce di là. Aggiugni che quanto è, di necessità è, ed è utile all’ universo di che tu sei parte. Ora, ad ogni parte della natura è buono ciò che porta la natura comune e che è sostentativo di quella. E sostentano il mondo, siccome  le mutazioni degli elementi, cosi ancora le mutazioni dei composti di essi  elementi. Queste cose ti bastino, queste sieno sempre mai le tue ferme credenze. E caccia via quella tua sete di libri, affinchè tu non muoia morando, ma sereno e ringraziando gli dei sinceramente e di cuore. Ricordati da quanto tempo tu vai differendo queste cose, e quante volte, avendo ricevuto opportunità  dagli dei, non te ne sei valuto. E convien pure che tu riconosca una  volta di qual mondo fai parte e da quale reggitor del mondo sei emanato; e siccome un tempo ti è prefìsso, del quale se tu non fai uso per  acquistare la tranquillità dell’ animo, egli passerà, e tu passerai, e non sarà  più. per ritornare. Sii sempre INTENTO AD OPERAR GAGLIARDAMENTE DA ROMANO E DA MASCHIO QUAL SEI, quel che hai por le mani, con serietà diligente e non punto affettata, con amorevolezza, con libertà, con integrità; e sgom-bra l’animo tuo da ogni altra cui*a. Lo sgombrerai, se farai ciascuna tua azione come se fosse l’ultima della tua vita, scevra affatto di leggerezza, e di avversione appassionata ai consigli della ragione, e di doppiezza, e di amor proprio, e di scontentezza  per le cose condestinate ab eterno con te. Vedi quanto poco ci vuole perchè altri possa vivere una vita  avventurosa e accetta agli dei! Chè  di fatti gli dei non richiederanno  nulla più da chi osserva cotesto. Disonorati su, disonorati, o anima; d’onorarti poi, non ti rimarrà  più tempo. Perchè tanto di bene ha ciascheduno, quanto la sua vita glie  ne arreca; e tu hai pressoché consumato la tua, non già rispettando. Con/’ala/ia, disse CICERONE usando anch’egli una voce ignota sinallora ai latini. 2t)   te medesima, ma riponendo nelle  anime altrui la tua felicità. Se’ tu svagato dalle impressioni  del di fuori? Concedi agio a te stesso  di imparare alcun che di buono, o cessa dall’errare qua e là. Ornai anche hai da guardarti da un  secondo svagamento. Perchè vaneggiano anche con le azioni gli uomini  stanchi della vita e non aventi uno scopo a cui dirigano ogni loro sforzo  ed ogni lor pensiero qualunque. Per non avere avvertito ciò che  succede nell’anima d’un altro, di  rado l’uomo fu mai veduto infelice, ma chi non avverte i moti dell’ anima  propria, è infelice di necessità. Queste ione conviene avere a  mente sempre. Quale è la natura dell’universo e quale la mia. Qual relazione ha questa con quella. Qual parte è del tutto e di qual tutto. E come nessuno può impedirti dal far sempre E DIRE ciò che è consentaneo alla natura di che sei parte.  Filosoficamente Teofrasto, nel  paragone ch’ei fa dei peccati, secondo che volgarmente si suole,  afferrna esser più gravi le colpe che  si commettono PER CONCUPISCENZA  che  non quelle che si commettono PER IRA. Imperocché non senza un certo dolore e raggricchiamento segreto  deir animo mostra l’uomo adirato ch’egli si torca dalla ragione; laddove CHI PECCA PER CONCUSPISCENZA, VINTO DAL PIACERE, sembra, in un certo modo, più intemperante e più EFFEMINTATO nel fallo. Rettamente adunque e con molta filosofia dice egl’essere maggiore la colpa di chi PECCA CON PIACERE che non di chi pecca con  dolore. Ed infine,’ uno rassomiglia  piuttosto a persona ingiustamente  [volgarmeutu: detto por opposiziono al dettato stoico, essere i peccati uguali. olTesa, che il dolore abbia sforzato a  sdegnarsi. Ma l’altro si muove spontaneo e da per sè all’ingiustizia, recandosi PER CONCUPISCENZA  a far checchessia. Convien pensare ed operare  ogni cosa come se tu dovessi uscir di vita in quell’ ora. Uscir di vita, se ci sono gli Dei, non è punto cosa tremenda. Da che non è possibile ch’essi ti vogliano fare incappar nel male e se non ci sono, o se non  curano le cose umane, a che vivere  in un mondo orbo di provvidenza e d’Iddei? Ma e ci sono gl’iddei, e si  piglian cura dell’uomo; e perch’egli  non inciampasse nei mali veri, posero in arbitrio di lui la cosa; dei  rimanenti se alcun fosse male, a  quello ancora avrian provveduto, sì  che potesse ognuno guardarsene. Ma  quello che non fa peggiore l’uomo,  come farebbe peggiore la vita dell’uomo? Oltre che la natura dell’ universo non saria stata mai trascurata A TAL SEGNO non, perdi ella non sapesse; non, perchè sapendo non potesse); non saria mai, dico, nè per  impotenza nè per disavvedutezza incorsa in tanto errore da lasciare che  i beni e i mali toccassero del pari  e senza differenza nessuna ai buoni  ed ai tristi. E pur noi veggiamo che  la morte e la vita, la gloria e l’infamia, il dolore e il piacere, le ricchezze o la povertà, cose tutte che  non sono nè oneste nè inoneste, toccano senza differenza ai tristi ed ai  buoni. Adunque, nè benf olle sono  nè mali. Come tosto svanisce e va a per-  dersi ogni cosa, nel vortice del mon-  do i corpi, e nello avvicendarsi del  tempo la memoria di quelli! quali  sono tutte le cose sensibili, e mas-  simamente quelle clic adescano col  piacere o atterriscono col dolore o  sono dalla vanità degli uomini celebrate! quanto son vili, dispregevoli,  sucide, corrottibili, morte! questo è . da considerare per una facoltà intel-  lettiva: che cosa son coloro le opi-  nioni dei quali e le voci distribui-  scono la fama; che cosa è il morire;  e siccome, chi lo considera solo da  per sè, separandolo con la mente da  tutto ciò che la fantasia v’ ha aggiunto, non se ne fa più concetto se  non come di operazione della natura:  ora il temere un’ operazione della na-  tura è cosa da fanciullo. E questa  non solo è operazione della natura,  ma operazione utile a quella. In  che maniera 1’ uomo comunica con  Dio, e per qual parte di sè; e come  disposta debb’ essere allora questa  parte dell’ uomo. Non v’ ha misero al pari di  colui che va esplorando in giro ogni  cosa, come disse quell’ altro, anche  le cose di sotterra, e vuol penetrare,  per via di congetture, ciò che sta nell’ animo del vicino, senza accor-  gersi che gli basterebbe pure tenersi  accanto al genio che è in- lui, e servir quello di cuore. Servire il genio  che è in noi,' vuol dire mantenerlo  netto di passione, di operar teme-  rario, e di scontentezza per cosa che  venga dagli Dei o dagli uomini. Per-  chè quel che viene dagli Dei è ve-  nerabile, per la virtù eh’ è in loro:  quel che vien dagli uomini è ami-  chevole, per la parentela che abbiam  con loro; e talvolta anche compas- 1  sionevole per l’ ignoranza in che '  sono de’ beni e dei mali; cecità non  minore di quella che impedisce di  scernere il bianco dal nero.  Quand’ anche tu avessi a vivere  tre migliaia d’ anni ed altrettante  diecine di migliaia, sovvengati non-  dimeno che r uomo non perde altra  vita che quella eh’ egli vive, nè vive    ' Inteudi la ragione.   altra vita che quella ch’egli perde.  Ad uno stesso fine adunque riescono  e la più lunga vita e la più breve.  Perchè il presente è uguale per tutti,  se bene non è uguale lo spazio di  vita insino allora trascorso; e così  appare che il tempo che l’ uom perde  è un momento indivisibile. Nè il pas-  sato di fatti nè il futuro non può  perdere egli mai; come perdere ciò  che non ha? Di questi due punti  adunque ti hai da ricordare; l’uno,  che il mondo va eternalmente sem-  pre ad un modo, ravvolgendosi come  in un cerchio, e che non v’ ha dif-  ferenza dal vedere le stesse cose per  cento anni al vederle per dugehto o  per la infinità dei secoli; l’ altro, che  ugual vita perde e chi muor decrepito  e chi muore'per tempissimo; perchè  il presente è la sola vita che venga  lor tolta, essendo la sola che ciascun  d’ essi abbia, e nessuno non potendo  perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È noto il detto di Monimo il cinico. E  nota anche V utilità di quello, chi ne  colga il midollo per insino ai confini  del vero. L’anima umana fa onta a sè  stessa, primieramente quando ella;  diventa, per quanto sta in lei, come  chi dicesse un apostema o tumore  del mondo, ritraendosi da quello co-  me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un accidente  qualunque è un ritrarsi dalla natura  univei-sale, dentro alla quale son  contenute, siccome parti di quella,  tutte le nature degli altri. In secondo  luogo, quando ha avversione a un  [Diceva che] [Ogni nostra opinione è fumo e boria. “Apostema” in greco vuol dire ad un tempo  ed apostema e ritiramento. È solenne agli  stoici il torre esempi, nelle cose morali,  dalla natura fisica, siccome quella in cui è  contenuta, secondo loro, ancho la natura  morale. qualche uomo, od anche se gli volge  contro per nuocergli, come le anime  degli adirati. In terzo luogo ella fa  onta a sè stessa quando si lascia vin-  cere dal piacere o dal dolore. Quarto,  quando ella s’ infinge ed opera o  parla con simulazione e contro la  verità. Quinto, quando ella non in-  dirizza a nessuno scopo una qualche  sua azione o una qualche sua deter-  minazione di volontà, ma opera a  caso e senza sapere che cosa si fac-  cia; laddove nè anche le minime cose  non (iovrian farsi mai se non con rela-  zione al fine. E il fine degli animali ra-  gionevoli è il conformai'si alla ragione  e legge della più antica fra le città e  le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata è  un punto; la materia, fluente; il  senso, tenebre; la compagine di tutto  il corpo, corruzione; l’anima,* un   La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente  ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa  mala a prevedere; la fama, cosa  senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda il corpo, è un torrente; ciò che riguarda l’ anima, so-  gno e fumo; la vita tutta intera,  guerra e pellegrinaggio; e la rino-  manza che le vien dopo, oblio. Che i  adunque v’ ha a cui tu ti possa atte-  nere? Sola ed unica una cosa; la  filosofia. E questa consiste nel custo-  dire per tal modo il genio interno,  eh’ egli non riceva nè onta nè danno,  sia superiore al piacere e alla pena,  non operi nulla a caso, nè infìnta-  mente 0 con animo d’ ingannare, nè  abbia bisogno mai che altri faccia o  non faccia checchessia; inoltre ac-  cetti ogni avvenimento a lui desti-   r anima ragionevole, nè la mente, o la parte  sovrana, o il genio interno menzionato nelle,  linee segnenti; ma solamente il principio della vita animale [Una distinzione è fatta distinzione fra corpo, anima e mente. nato siccome cosa che gli viene di  colà d’ onde è venuto egli stesso;  sovra tutto poi, aspetti la morte con  mente serena, siccome nulla più che  dissoluzione degli elementi onde ogni  animale è composto; ai. quali se non  è grave lo essere trasmutati di conti-  nuo r uno nell’ altro, per qual ca-  gione si avrà ella a temere la tras-  mutazione e la dissoluzione d’ essi  tutti in una volta? Ella è cosa se-  condo natura; e nulla che sia se-  condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto,  Non solamonte è da considerare che la vita si va consumando  ogni dì, e che sempre ce ne riman  meno, ma eziandio che egli è incerto, ove ancor l’uomo viva lungamente, s’egli avrà sempre vigor 'di  mente che basti per la intelligenza  degli affari e la contemplazione che  ha per iseopo la conoscenza delle  cose divine ed umane. Perchè, quan-  do egli incominci a vaneggiare, non  cesserà però, egli è vero, nè di tra-  spirare, nè di nudrirsi, nè di avere  immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose di tal fatta; ma valersi di sè  stesso, ma avvertire distintamente  tutti i numeri * del dovere, ma chia-  rire i propri concetti, ma, quel che  importerebbe allora, deliberare se  sia già tempo per lui di andatene,®  e quante altre cose richieggono una  raziocinativa molto bene esercitata,  cotesto non potrà egli più, chè la  facoltà sarà spenta anzi tempo. Con-  viene adunque affrettJirsi, non sola-  mente perchè ci facciamo ognora  più vicini alla morte, ma ancora  perchè cessano in noi anzi il finir  della vita la intelligenza e la com-  prensione delle cose. È degno pure d’ osservazione  che anche quelle cose le quali sono  un mero accompagnamento necessario  [‘Onesto’ chiamano gli stoici il perfetto  bene per lo avere esso tutti i numeri che la  natura richiede.] [Secondo gli stoici non dovea rimanere  in vita r nomo che non potea più adempire  gli uffici d’uomo] d’ ima operazione della natura  hanno un non so che di grazioso e  di dilettevole. Per esempio, cocen-  dosi il pane, si screpola in certi luo-  ghi. Or bene, anche quelle così fatte  screpolature che stan là, per così  dire, fuori dell’ intenzione del for-  naio, hanno un certo garbo o muo-  vono r appetito in un certo modo  lor proprio. Ancora i fichi, quando  sono ben maturi, si aprono. E nelle  ulive lasciate lunga pezza in su V al-  bero, quello stesso essere già vicine  a corrompersi, aggiugne al frutto  una certa bellezza particolare. E le  spighe che s’ inchinano, e la guar-  datura del leone, e la schiuma che  esce fuori di bocca al cinghiale, e  molte altre cose le quali, considerate  da per sè, sono lontane da ogni bellezza, nondimeno, perch’ elle accom-  pagnano necessariamente un’ opera  della natura, aggiungono a quella  ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in-  gegno e considerasse ad una ad una  le cose che accadono nell’ universo  mondo, nessuna ne troverebbe per  avventura, anche di quelle che sono  mera conseguenza- necessaria delle  altre, la quale non gli paresse farsi  con una certa grazia. Costui vedreb-  be la gola spalancata d’ una fièra viva  con non meno piacere che quando  gli scultori o i pittori glie la fan  vedere imitata; e nelle vecchiarelle  e nei vecchi scorgerebbe un certo  che di finito e di maturo non meno  piacevole ai casti occhi di lui che  là venustà dei fanciulli; e molte altre  cose gl’ incontrerebbe di vedere, che  non fan senso in tutti, ma solamente  in chi s’ è veramente addimesticato  con la natura e con le opere di  quella. Ippocrate cura di molti ammalati. Poi s’ammala egli stesso, e muore. I caldei predicono a molti la morte, e poi venne anche per loro  la morte. Alessandro e Pompeo e Giulio Caio Cesare, i quali distrussero dalle fondamenta le tante città, e tagliarono a pezzi in giornata campale le tante migliaia di cavalli e di fanti, usceno poi anch’essi di vita, alla  fine. Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e ragioni naturali discorso intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,  coperto di letame se ne muore. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai navigato, sei giunto; esci di nave. Se  per andare ad un’altra vita, nessun  luogo è vuoto di iddii, e nè anche [Diogene Laerzio narra che Democrito  mori di vecchiaia. LUCREZIO, che nscì spontaneamente di vita, perchè sente il suo  spirito indebolirsi per effetto degli anni. Non trovasi nota alcuna  tradizione che concordi con ciò che qui dice Antonino] quello dove vai; se per rimanere  senza sentimento, avrai finito di soffrire i dolori E I PIACERI e di dovere andare a versi ad un vaso che è di  tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è mente e genio, e l’altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione  che ti rimane di vita nel pensare ai  fatti altrui, ogni volta che tu noi  faccia con un fine di comune utilità. Cioè nello andar fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che dice, e che pensa, e che macchina, e somiglianti cose, le quali  tutte ti fan deviare dalla custodia  della tua parte sovrana. Conviene adunque guardarsi, nella succession  dei pensieri, dall’ozioso e dal vano, ma molto ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a pensar solo tali cose che, quando  altri, all’improvviso ti domandasse, che pensi ora? Tu possa risponder tosto e senza tema. Questo, o quest’altro. Onde appaia subito manifestamente non avervi nulla in te  che non sia schietto e benevolo,  nulla che non convenga ad animai  socievole; il quale non si compiace  nelle immaginazioni di piacere o di  godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti  o d’invidia o di sospetto, o di qua-  lunque altra cosa ti facesse arrossire  quando tu avessi a confessare che  l'avevi in mente. Un uomo di tal  fatta, il quale non indugia d’ oggi in  domani a por sè nel novero degli  ottimi, è come un sacerdote e un  ministro degli Dei, devoto, non meno  che agli altri, a quello che ha il suo  tempio in lui medesimo; per virtù  del quale l’ uomo diventa inconta-  minabile ad ogni jiiacere, invulne-  rabile ad ogni dolore, inviolabile ad  ogni ingiuria, insensibile ad ogni  malizia, sostenitore in campo della  massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna  passione, imbevuto di giustizia in-  sino al fondo, disposto ad accogliere  con tutta r anima quanto accàSe e  gli vien destinato, e non occupan-  tesi se non di rado nè mai senza  una grande e pubblica necessità, di  CIÒ che altri fa o dice o pensa; perch’ egli non ha altre azioni in sua  balìa che le proprie, e pensa conti-  nuamente alle cose che il fato del-  r universo gli arreca; per far si che  le prime sieno oneste, siccome ha  fede che le seconde sien buone;  quando la sorte attribuita all’ uomo  procede dalla stessa causa che l’ uo-  mo e concorre insieme con 1’ uomo  ad un medesimo fine. Sa inoltre che  tutti gli esseri ragionevoli han pa-  rentela fra loro; che è quindi con-  forme alla natura dell’ uomo il tener  cura di tutti; benché non sia da far  conto deir opinione di tutti, ma solo  di coloro che vivono secondo natura. Quanto a quelli che vivono altra-  mente, egli tien sempre a memoria  che sorta cT uomini sono, e quali, e  in casa e fuor di casa, e di notte e di  giorno, si dimostrano, e con quali  praticano; non ha quindi in pregio  nessuno la lode che gli può venire  da tallente, la quale nè anche a sè  stessa non piace.   5. Non operar mai nè contro al  tuo volere, nè senza relazione al  bene della società, nè senza avere  esaminato la cosa, nò con renitenza;  non adornare con isquisitezza di frasi  il tuo pensiero: non esser uomo nè  di molte parole, nè di molte faccen-  de.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in-  terno abbia a governare in te un  animale maschio, attempato, citta-  dino, romano, imperatore, apparec-  chiato di tutto punto, siccome quegli  che non aspetta ornai se non il suono Di molte faccende in cattivo senso, come  chi dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita,  e non occorre sforzarlovi nè col giu-  ramento, nè con la testimonianza  (f altr’uomo; nel lieto aspetto del  quale ben si scorge non avere egli  bisogno nè dell’ aiuto che vien dal  di fuori, nè della tranquillità che gli  altri procurano. Conviene adunque  esser ritto in piedi già, e non riz-  zarui solamente. Se tu trovi qualche cosa di meglio nella vita dell’ uomo che la giustizia, che la verità, che la temperanza. che la fortezza, e, in una pa-  rola, che quella disposizione della  mente per cui ella si appaga di sè  medesima nelle cose die ti fa ope-  rare secondo la retta ragione,, e del  fato, nelle cose che senza parteci-  pazione della tua volontà ti vengono  distribuite; se, dico, tu trovi alcun  che di meglio che questo, a quello   1 Similitudine tolta dagli ordini della  milizia appo i Romani. voiti con tutta l’ anima e godine  siccome di cosa che hai ritrovato  esser l’ottima. Ma se nulla ti si presenta di meglio che il genio stesso  tuo interno, quando si è fatto signore  de’ propri moti, e rivoca ad esame  le proprie immaginazioni, e si è sot-  tratto^ come dice SOCRATE, dalle  passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli uomini. Se, a paragone di questa, tutte . le rimanenti cose ti paion picciole  e vili, non dar più luogo appresso  te a nessuna altra, alla quale una  volta che tu ti sentissi propendere,  più non potresti senza repugnanza  preferire a tutti quel bene che è proprio di te ed è il tuo; perchè al  bene j’azionale ed efficiente non  vien contrapposto impunemente mai  nulla che sia di natura diversa, come  le lodi della moltitudine, o il comandare, o i piaceri del senso; tutte  queste cose, per poco che le si paiano   Ò1   adattare,' ti sopralfamio in un attimo  e ti strascinano. Or tu, dico io, sce-  gli schiettamente e liberamente il  meglio, e a quello ti attieni. — Ma  il meglio è l’utile. Se l’utile all’uomo in quanto è ragionevole, bene  sta, quello procura: se l’ utile all’ uo mo in quanto animale, dillo su aper-  tamente e vivi di poi senza boria nò  fasto, secondo quella determinazio-  ne. Ma bada, ve’, che non ti inganni  nell’ esame. Non riguardare giammai come i [Par ch’Antonino alluda qui alla teoria dell’adattare le nozioni generali alle cose  particolari, o, del concetto alla rappresentazione, che è ciò in che  consisto il giudizio]. Dillo spiattellatamente, se ardisci, senza  avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi  tutte le conseguenze di quel tuo detto: cioè,  vivi poi da animale mero e puro, senza in-  gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù  nè di giustizia, nè d* altro simile, che in  quel caso sarebbero un vano fasto di parole. E provocazione al senso intimo dell'uomo. Utile a te nulla che sia per isforzarti  un dì a violar la fede, abbandonare  il pudore, odiare alcuno sospettare,  maledire, simulare, desiderar cosa j  che abbia bisogno di pareti e di ve-  lame. Chi ha posto innanzi ad ogni  altra cosa la sua mente e genio, e  il culto della virtù eh’ è propria di  quello, non fa tragedie, non geme,  non ha bisogno di solitudine, non  di frequenza d’ uomini; quel che più  impoita, vive senza ricercar nulla  nè fuggire; abbia ad esser lungo o,  abbia ad esser corto Tintèrv^allo di  tempo durante il quale sarà conte-  nuta nel corpo l’ anima con che egli  lia a fare,' non se ne piglia nè an-  clic il minimo pensiero; e quando Con che egli ha a fare. Non veggo che  cosa abbia voluto dire l’ornato. [Il senso letterale del testo è: sia lungo o sia breve  il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani-  ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi-  vale a dire: sia lungo, o sia breve il tempo  ch'egli ha a vivere. L’è giunta l’ora dello sgombrare, cosi  spiccio se ne va, come se imprendesse un’ altra qualunque di quelle  azioni che si possono con verecondia  e con dignità operare; da questo  solo guardandosi per tutta la vita,,  che veruno dei moti della sua men-  te non sia mai men che convene-  vole ad animale intelligente o sociabile.  Nella mente dell’ uom castigato  e puro non troverai nulla di marcio,  nè tampoco nulla di contaminato o  che paia sano al di fuori e noi sia.  La vita di lui, a qualsivoglia ora lo  sorprenda la morte, non è mai imperfetta, come tu diresti quella tragedia d’onde un attore si fosso riti-  rato prima d’ aver condotto a fine  la sua parte. Ancora non è in lui  nulla di villano, nè nulla di artata-  mente gentile; nulla che il leghi  alle cose esteriori nè nulla che lo  separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che  covi addentro nascosto.  Abbi in rispetto la facoltà giudicativa.^ Per lei sta che non si ge-  neri nella tua parte sovrana nessuna  opinione che non sia consona alla  natura o al fine per che 1’ uomo è  ordinato. Ed essa promette la infallibilità, e l’amicizia con gli uomini  e l’ubbidienza agli Dei. Messe adunque da banda tutte  le altre cose, queste poche sole abbi  in mente; ed ancora ricordati che i  r uomo non vive altro tempo che  questo presente, cioè un attimo; il  rimanente o lo ha vissuto o non sa  se il vivrà. Picciola cosa pertanto è  [Intendi: nulla che appaia manifestamente vizioso. Ossia la virtù del non cadere in errore; che vien definita da Zenone la  scienza del quando conviene assentire ad i  un' apparenza, e quando no. Questa accompagna sempre il giudizio comprensivo,  che è il criterio della verità appo gli  stoici. 0 Digitizedh, Cnoi^li:    il tempo che l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive. Picciola cosa la fama anche la  più lunga eh’ egli lascerà dietro sè,  e questa tramandantesi per successione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti quasi appena nati, ed ignari  anche di sè medesimi, non che di  colui il quale moriva è già gran  pezza.   li. Agli avvertimenti dati sin qui  s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de-  finir sempre o descrivere l’oggetto  che cade sotto al tuo senso, si che  tu lo scorga a parte a parte distin-  tamente e tutt’ insieme quale egli è  nella sua essenza nudo, e dir teco  stesso il nome proprio di quello e  il nome delle cose di che è compo-  sto e in che s’ ha da risolvere. Perchè non v’ ha nulla che sublimi  cotanto l’animo quanto il potere arguire per la diritta via e con verità  ciascuna delle cose che incontrano  nella vita, e saperle vedere per ino»  do da conoscere nello stesso tempo  di qual uso sendo questa tal cosa  al mondo, e a qual mondo, qual  valore ha rispetto al tutto e quale  rispetto air uomo, che è cittadino  della suprema fra le città, della  quale le altre città sono' come al-  trettante famiglie. Che cosa è, e di  che cosa è composto, e quanto tempo  è por duiare ij cesto che fa impres-  sione ora sul mio senso; di che virtù  s’ ha da far uso con esso, per esem-  pio, della mansuetudine, della for-  tezza, della veracità, della fede, della  semplicità, della frugalità, o simili.  Però, intorno a ciascuna cosa, con-  vien dire: questa mi viene da Dio. Questa dalla sorte, dalla complica-  zione delle cause condestinate, e so-  miglianti cose; quest’ altra dal mio  consorto, dal mio congiunto, dal  partecipe d’ una stessa società con  me, il quale ignora nondimenò ciò  che è secondo natura per lui. Ma   10 non lo ignoro; e però mi governo  con lui secondo la legge naturale  della società, con benevolenza e giu-  stizia; e ad uno stesso tempo ho  riguardo, nelle cose mezzane,' al  valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la retta  ragione quel che hai fra mano, stu-  diosamente, c vigorosamente, placi-  damente, e non t’ occupi d’ altra cosa  tra via, ma conservi puro ed intatto   11 genio tuo, come se tu dovessi già  rassegnarlo; se a lui ti tieni stret-   Si chiamai! còse mezzane appo gli stoici  quelle che non sono nè ben nè male, cioè  nè virtù nè vizio. Le quali, comecché da  per sè non meritino d' esser cercato nè fug-  gite, si accettano nondimeno o si rigettano  per r aiuto o disainto che elle possono ar-  recare alla vita secondo natura. Quelle che  arrecan più aiuto, han più valore: quelle  che più disainto, più disvalore. Di questò  ha da tener conto il savio, ed accettare,  quando gli è data la scelga, quelle che han  più valore, o che han meno disvalore. 0.  Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da nulla rifug-  gendo, contentandoti dell’ azion tua  presente secondo natura e della eroi-  ca verità d’ ogni cosa che tu dica:  felicemente vivrai. Ora non v’ ha  nessuno' che ti possa questo impedire. Come i medici han pronti sem-  pre i loro ferri e strumenti per le  cure inopinate, così abbi tu alla mano  i principi! * per la cognizione delle  cose divine ed umane; e non far  nulla mai, per poco che sia, senza  ricordarti del legame che unisce  queste con quelle. Perchè nulla di  umano farai tu bene se non lo ri-  ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per-  chè non sei per rileggere oramai nè  i tuoi ricordi, hè le azioni degli an-  tichi romani e greci, nè gli estratti  Punti fondamentali di credenza, cre-  denze prime, dommi: decreta. appo CICERONE. d’ autori che riserbavi per la vec-  chiaia. Studiati dunque d’ arrivare  al fine, e poste da banda le spe-  ranze vane, soccorri a te stesso, se  pur ti cale di te, mentre che il puoi.   15. Non sanno * quanti significati  abbiano le parole rubare, seminare,  comperare, riposare, veder quel che  sia da fare, il che non si reca ad  effetto con gli occhi, ma con un’al-  tra sorta di vista. Corpo, anima, mente; del corpo  son le sensazioni, deh’ anima le ap-  petizioni, della mente le credenze.^  Ricevere impressioni nella fantasia  è cosa anche da giumento; esser  mosso da appetiti è cosa anche da  fiera, anche da androgino, anche  da Falaride, anche da Nerone; avere  per iscorta la mente a quello che  ci pare nostro ufficio, è cosa anche    I Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano  Dei, da chi abbandona la patria, da  chi fa, quando ha chiuso le porte,  ogni opera nefanda. Se adunque  tutte queste cose abbiam comuni  cogli anzidetti, resta che sia proprio  dell’ uomo dabbene lo amare ed ab-  bracciare gli accidenti ad esso con-  destinati e guardarsi dal macchiare  e turbare con immaginazioni sconce  il genio che risiede nel petto di lui,  ma conservarlo propizio, seguendolo  modestamente* come un Iddio, non  dicendo mai nulla che sia contro  al vero, nè dicendo mai nulla che  sia contro al giusto. Che se nissuno    ttro interene. Questo è il significato generale della parola ufficio appo gli stoici. Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di  perfetto denota essa il dovere^ che è come  V intereae iublime dell' uomo. Noto questo  perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo  anche il Corai, hanno maravigliosamente  scompaginato - e interpolato questo passo;  frantendendolo. V. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic.  de Officiùt otc. degli uomini non gli vuol credere  eh’ egli viva con semplicità, con ve-  recondia, e di buon animo; nè s’adira  egli contro costoro, nè si svia dalla  strada che conduce al fine della yita.  al quale si vuol giunger puro, tranquillo, spedito, e conformato di vo-  lontà col proprio destino. La parte che dentro di noi regna, quando è nel suo stato natu-  rale, ha tal disposizione verso gli  accidenti, che senza difficoltà si rivolge sempre al possibile e al dato.  Perch’ella non ama nessuna mate-  ria determinata; ma si porta con  eccezione* a quello che si ha pro-  posto, e quando alcun che se le  viene ad attraversare per via, ella  si fa di quello stesso materia; come  il fuoco, quando s’ impadronisce delle  [La parte sovrana o dominante.  [Eccezione: vocabolo stoico. Indica limitazione del proponimento al possibile]. Farò  la tal cosa, se non sarò impedito] cose die incontra, dalle quali una  picciola lampana sarebbe spenta. Ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni cosa che se gli butti dentro, e  la consuma, e per quella stessa s’in-  nalza più in su.   2. Nessuna azione sia fatta a caso  mai, nè altrimente che secondo una  delle regole costitutive dell’arte. Van cercando ritiri, alla campa-  gna, alla marina, sui monti; e tu  stesso suoli desiderare siffatti luoghi.  Ma cotesto è da uomo ignorantissi-  mo, potendo tu, a quell’ ora che tu  vuoi, ritirairti in te stesso. Perchè [Ad ogni caso della vita corrispondo  una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11,  e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni virtù è  appo gli stoici nna scienza nello stesso  tempo ed un’ arte: parlo delle virtù pro-  priamente dette. Come scienza quindi e  come arte consta di certo proposizioni o re-  gole, ciascuna delle quali è parte integrante  di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni ufficio consta di corti numeri.      inroRDi.    «4   in nessuno altro luogo si ritira l’ uomo con più tranquillità e con meno  brighe che nell’ anima sua; massi-  mamente chi ci ha dentro tanto  alti oggetti di contemplazione che  il solo affacciarsi a loro procaccia  tosto ogni sorta di agevolezza. Quan-  do dico agevolezza, non voglio dir  altro che buon ordine. Concedi adun-  que sovente a te questo ritiro e rin-  novella quivi te stesso. Breve sia  r espressione ed elementare la forma  di quelle verità contemplative che  avran forza di rasserenare al primo  incontro V anima tua c. rimandarti  senza corruccio alle cose alle quali  ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'-  rucci? Della malizia degli uomini?  Rammentati di quella sentenza, che  gli esseri ragionevoli son fatti gli uni  per gli altri; che il sofferire è parte  della giustizia; che malgrado loro  peccano; che tanti si son già inimi-  cati, sospettati, odiati,  perseguitatisi  a morte, i quali ora sono spenti, son  fatti cenere; e te ne darai pace. 0  ti crucci tu di quella parte che a te  Vien compartita dell’ universale de-  stino? Rinnovella il dilemma. 0 è  la provvidenza o son gli atomi,' op-  pure gli argomenti con che s’ è di-  mostrato che il mondo è come una  città. Ma forse tu ti contristi delle  affezioni del corpo? Pensa che non  han più nulla che fare con la mente  i moti o sieno soavi o sieno aspri  del senso, ogni volta che questa s’ è raccolta in sè medesima ed ha cono-  sciuto la sua propria potenza; al che  potrai aggiugnere quelle altre cose  che intorno al piacere e al dolore  hai apparato ed accettato per vere.   0 sarà forse T amor di gloria quello  che ti turba? Considera come è ratto   Si allude al  sistema atomistico di- Epicuro, il quale ne-  gava la previdenza, e attribuiva il mondo e  tutti i fenomeni del mondo ad una causa  non intelligente. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal -  runa parte e dall’ altra* il caos della  età, vana cosa il rumore, mutabile,  e inconsiderato chi in apparenza ti‘  esalta, angusto il luogo dove è cir-  coscritto il suo dire. Perchè tutta la  t.erra' è un punto: e qual parte di  essa è l’angoletto che tu abiti? e  quivi ancora quanti avrai lodatori, e  quali? D’or innanzi adunque sov-  vengati di ritirarti in questa tua vil-  letta di te medesimo; e sopra tutto,  non. t' affannare, non t’agitare, ma  sii libero e vedi le cose da uomo, da ‘  maschio, da cittadino, da mortale.  Ed abbi in pronto, fra le verità alle  quali dovrai far ricprso, queste due  principalmente: 1’ una, che le cose  non arrivano sino all’ anima, anzi  stanno al di fuori immobili;* e i  turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice  la scuola. [nione, che è dentro. L’ altra, che  quanto tu vedi già già si muta e più  non è quel desso; e rivolgi in mente  ciascuna delle mutazioni alle quali  tu stesso sei inten'enuto. Il mondo^ alterazione. La vita, opinione.  Se la intelligenza ci è comune  a tutti, anche la ragione per cui  siam ragionevoli ci è comune; se  cotesto è, anche la ragione imperativa di ciò che si dee fare o non fare  ci è comune; adunque anche la legge  ò comune; aifunque siam concittadi-  ni; adunque partecipiamo tutti ad  una specie di reggimento civile;  adunque il mondo è come una città.  Perchè qual altro direm noi che sia  quel reggimento civile di cui tutto  il genere umano partecipa? Di colà,  da quella città comune, viene a noi  r intelligenza, la ragione, la legge,  o d’ onde verrebbon esse? perchè,  siccome quanto v’ ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa  parte; e quanto v’ ha in me d’umido,  da un altro elemento; e quanto v’ha  di caldo e d’ igneo, da una certa  sorgente propria (nulla venendo mai  dal nulla nè ritornando nel nulla);  così anche la intelligenza dee venire  da qualche cosa.  La morte è come la nascita, un  mistero della natura. Composizione  e risoluzione di certi elementi in  quegli elementi medesimi. Ad ogni  modo non è cosa di  che1’ uomo  debba arrossire; perchè non è cosa  che repugni alla natura dell’ animale  intellettivo o disconsegua al principio della formazione di quello. Tali cose debbono di necessità  farsi in tal modo da questi tali; chi  le vuole altrimente, vuole che il fico  non abbia lattificcio. Del tutto, sov-  vengati che in brevissimo tempo e    * Intendi ripugni, non aia conforme. !'•   tu e costui sarete morti: e che, poco  dopo, non rimarrà più di voi nè an-  che il nome. Togli via r opinione, ed è tolto  via il « sono stato offeso: » togli via  il « sono stato offeso, » ed è tolta via  r offesa.  Quello che non fa peggiore l’uomo non fa nè anche peggiore la vita  di lui, nè le nuoce, nè esternamente  nè internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la na-  tura a far cotesto. Siccome ogni cosa che accade,  giustamente accade; il che, se tu  osserverai con attenzione, troverai   1 Comune. Più letteralmente: « È necessitata la na-  tura deir utile a far cotesto.» La natura  deir utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente  in questo luogo la voce natura), il quale  evolvendosi, come ragion seminale, successivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia  bene. Perchè non conviene dimenticar mai  che, appo gli stoici, l'utile non è altro che  il bene. sempre vero: non solamente, dico,  secondo l’ordine di conseguenza, ma  ancora secondo l’ordine di giustizia;  come se le cose procedessero da tale  che distribuisse a ciascuno secondo il  merito. Osserva adunque, come hai  cominciato; ed ogni cosa che tu fai,  falla con questa condizione, che tu  sia uom dabbene, nel vero signifi-  cato della parola dabbene. Questo  carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le  giudica colui che fa ingiuria, o quali  egli vuole che tu le giudichi; ma  vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto  a queste due cose; fai' solamente  quello che la ragion dell’ arte regia  e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-  lità degli uomini; e cangiar partito,  quando altri viene a raddrizzarti e  rimuoverti da una qualche falsa opi-  nione. Ma questo cangiamento dee  farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o  d’ utilità comune, o somigliante; e  non mai perchè la cosa ti piaccia o  sia per arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che  dunque non 1’ adoperi? Perchè, se  essa fa quanto le spetta, che ti resta  a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella  ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno  stesso altare: l’uno è caduto prima  e l’altro dopo. È lo stesso.  Tra dieci giorni parrai un Dio  a coloro, ai quali pari ora una bestia  e una scimmia, se fai ritorno ai prin-  cipii e al culto della ragione.  Non come se tu avessi a vi-  vere molte migliaia d’ anni. La morte  ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è  dato, fa’ che tu sia uom dabbene.  Di quante brighe si libera chi  non bada a quello che ha detto il vi-  cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo  a quello eh’ egli stesso fa, affinchè  r opera sua sia giusta, e santa, e  qual si richiede dall’ uomo dabbene !   Non andar guatando attorno i neri  costumi, ma corrér diritto in sulla  linea senza volgersi a destra nè a  manca. Chi vive abbagliato dal  pensiero di lasciar fama dopo morte,  non considera come ciascun di quelli  che si ricordano di lui morrà tosto  aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a  costui succeduto, sinattantochè, pas-  sando da abbagliato in abbagliato e  da morente in morente, venga a spe-  gnersi affatto ogni memoria. Ma sup-  poni anche immortale chi s’ ha a ri-  cordare di te, ed immortale la fama;  che fa ssi abbia, e nessuno non potendo  perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È   «   noto il detto di Monimo il cinico. E  nota anche V utilità di quello, chi ne  colga il midollo per insino ai confini  del vero. L’anima umana fa onta a sè  stessa, primieramente quando ella;  diventa, per quanto sta in lei, come  chi dicesse un apostema o tumore  del mondo, ritraendosi da quello co-  me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un accidente  qualunque è un ritrarsi dalla natura  univei-sale, dentro alla quale son  contenute, siccome parti di quella,  tutte le nature degli altri. In secondo  luogo, quando ha avversione a un   * Diceva che   «Ogni nostra opinione è fumo e boria. Apostema in greco vuol dire ad un tempo  ed apostema e ritiramento. È solenne agli  stoici il torre esempi, nelle cose morali,  dalla natura fisica, siccome quella in cui è  contenuta, secondo loro, ancho la natura  morale. qualche uomo, od anche se gli volge  contro per nuocergli, come le anime  degli adirati. In terzo luogo ella fa  onta a sè stessa quando si lascia vin-  cere dal piacere o dal dolore. Quarto,  quando ella s’ infinge ed opera o  parla con simulazione e contro la  verità. Quinto, quando ella non in-  dirizza a nessuno scopo una qualche  sua azione o una qualche sua determinazione di volontà, ma opera a  caso e senza sapere che cosa si fac-  cia; laddove nè anche le minime cose  non (iovrian farsi mai se non con rela-  zione al fine. E il fine degli animali ragionevoli è il conformai'si alla ragione  e legge della più antica fra le città e le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata è  un punto; la materia, fluente; il  senso, tenebre; la compagine di tutto  il corpo, corruzione; l’anima,* un   [La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente   ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa  mala a prevedere; la fama, cosa  senza giudizio. E a dirla in breve,  ciò che riguarda il corpo, è un tor-  rente; ciò che riguarda l’ anima, so-  gno e fumo; la vita tutta intera,  guerra e pellegrinaggio; e la rino-  manza che le vien dopo, oblio. Che i  adunque v’ ha a cui tu ti possa atte-  nere? Sola ed unica una cosa; la  filosofia. E questa consiste nel custo-  dire per tal modo il genio interno,  eh’ egli non riceva nè onta nè danno,  sia superiore al piacere e alla pena,  non operi nulla a caso, nè infìnta-  mente 0 con animo d’ ingannare, nè  abbia bisogno mai che altri faccia o  non faccia checchessia; inoltre ac-  cetti ogni avvenimento a lui desti-   r anima ragionevole, nè la mente, o la parte  sovrana, o il genio interno menzionato nelle,  linee segnenti; ma solamente il principio ’  della vita animale. Vedi il § 16 del lib. Ili |  dei Bicordi, ove è fatta distinzione fra corpo,  anima c mente. P. I    nato siccome cosa che gli viene di  colà d’ onde è venuto egli stesso;  sovra tutto poi, aspetti la morte con  mente serena, siccome nulla più che  dissoluzione degli elementi onde ogni  animale è composto; ai. quali se non  è grave lo essere trasmutati di conti-  nuo r uno nell’ altro, per qual ca-  gione si avrà ella a temere la tras-  mutazione e la dissoluzione d’ essi  tutti in una volta? Ella è cosa secondo natura; e nulla che sia se-  condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto,   Non solamonte è da considerare che la vita si va consumando  ogni dì, e che sempre ce ne riman  meno, ma eziandio che egli è in-  certo, ove ancor 1’ uomo viva lunga-  mente, s’egli avrà sempre vigor 'di  mente che basti per la intelligenza  degli affari e la contemplazione che  ha per iseopo la conoscenza delle  cose divine ed umane. Perchè, quan-  do egli incominci a vaneggiare,* non  cesserà però, egli è vero, nè di tra-  spirare, nè di nudrirsi, nè di avere  immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose di tal fatta; ma valersi di sè  stesso, ma avvertire distintamente  tutti i numeri * del dovere, ma chia-  rire i propri concetti, ma, quel che  importerebbe allora, deliberare se  sia già tempo per lui di andatene e quante altre cose richieggono una  raziocinativa molto bene esercitata,  cotesto non potrà egli più, chè la  facoltà sarà spenta anzi tempo. Con-  viene adunque affrettJirsi, non sola-  mente perchè ci facciamo ognora  più vicini alla morte, ma ancora  perchè cessano in noi anzi il finir  della vita la intelligenza e la com-  prensione delle cose.  È degno pure d’ osservazione  che anche quelle cose le quali sono  un mero accompagnamento neces-   [“Onesto” chiamano (gli stoici) il perfetto  bene per lo avere esso tutti i numeri che la  natura richiede. Secondo gli stoici non dovea rimanere  in vita r nomo che non potea più adempire  gli uffici d’uomo, 0. ] sario d’ ima operazione della natura  hanno un non so che di grazioso e  di dilettevole. Per esempio, cocen-  dosi il pane, si screpola in certi luo-  ghi. Or bene, anche quelle così fatte  screpolature che stan là, per così  dire, fuori dell’ intenzione del for-  naio, hanno un certo garbo o muo-  vono r appetito in un certo modo  lor proprio. Ancora i fichi, quando  sono ben maturi, si aprono. E nelle  ulive lasciate lunga pezza in su V al-  bero, quello stesso essere già vicine  a corrompersi, aggiugne al frutto  una certa bellezza particolare. E le  spighe che s’ inchinano, e la guar-  datura del leone, e la schiuma che  esce fuori di bocca al cinghiale, e  molte altre cose le quali, considerate  da per sè, sono lontane da ogni bel-  lezza, nondimeno, perch’ elle accom-  pagnano necessariamente un’ opera  della natura, aggiungono a quella  ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in-  gegno e considerasse ad una ad una  le cose che accadono nell’ universo  mondo, nessuna ne troverebbe per  avventura, anche di quelle che sono  mera conseguenza- necessaria delle  altre, la quale non gli paresse farsi  con una certa grazia. Costui vedreb-  be la gola spalancata d’ una fièra viva  con non meno piacere che quando  gli scultori o i pittori glie la fan  vedere imitata; e nelle vecchiarelle  e nei vecchi scorgerebbe un certo  che di finito e di maturo non meno  piacevole ai casti occhi di lui che  là venustà dei fanciulli; e molte altre  cose gl’ incontrerebbe di vedere, che  non fan senso in tutti, ma solamente  in chi s’ è veramente addimesticato  con la natura e con le opere di  quella.  Ippocrate curò di molti ammalati, e poi s’ ammalò egli stesso e  muore. I caldei predissero a molti la morte, e poi venne anche per loro  la morte. Alessandro e Pompeo e Caio Cesare, i quali distrussero dalle  fondamenta le tante città, e taglia-  rono a pezzi in giornata campale le  tante migliaia di cavalli e di fanti,  uscirono poi anch’ essi di vita, alla  fine. Eraclito, dopo avere con tanta  sapienza e ragioni naturali discorso  intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,  coperto di letame se ne morì. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta.  Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai na-  vigato, sei giunto; esci di nave. Se  per andare ad un’ altra vita, nessun  luogo è vuoto di Iddii, e nè anche   [Diogene Laerzio narra che Democrito  mori di vecchiaia; Lncrezio, che nscì spontaneamente di vita, perchè sentiva il suo  spirito indebolirsi per effetto degli anni.  Non trovasi nell' antichità a noi nota alcuna  tradizione che concordi con ciò che qni dice  Antonino. P.    quello dove vai; se per rimanere  senza sentimento, avrai Unito di sof-  frire i dolori e i piaceri, e di dovere  andare a versi ad un vaso che è di  tanto inferiore a quel che gli serve.  Perchè l’ uno è mente e genio, e  r altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione  che ti rimane di vita nel pensare ai  fatti altrui, ogni volta che * tu noi  faccia con un fine di comune utilità;  cioè nello andar fantasticando che  cosa opera il tale e per qual cagione,  e che dice, e che pensa, e che mac-  china, e somiglianti cose, le quali  tutte ti fan deviare dalla custodia  della tua parte sovrana. Conviene  adunque guardarsi, nella succession  dei pensieri, dall’ ozioso e dal vano,  ma molto ancora^più dal curioso e  dal maligno; ed avvezzar sè stesso  a pensar solo tali cose che, quando  altri, all’ improvviso ti domandasse,  che pensi ora? tu possa risponder tosto e senza tema: questo, o que-  st’ altro; onde appaia subito mani-  festamente non avervi nulla in te  che non sia schietto e benevolo,  nulla che non convenga ad animai  socievole; il quale non si compiace  nelle immaginazioni di piacere^ o di  godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti  o d’invidia o di sospetto, o di qua-  lunque altra cosa ti facesse arrossire  quando tu avessi a confessare che  l'avevi in mente. Un uomo di tal  fatta, il quale non indugia d’ oggi in  domani a por sè nel novero degli  ottimi, è come un sacerdote e un  ministro degli Dei, devoto, non meno  che agli altri, a quello che ha il suo  tempio in lui medesimo; per virtù  del quale l’ uomo diventa inconta-  minabile ad ogni jiiacere, invulne-  rabile ad ogni dolore, inviolabile ad  ogni ingiuria, insensibile ad ogni  malizia, sostenitore in campo della  massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna  passione, imbevuto di giustizia in-  sino al fondo, disposto ad accogliere  con tutta r anima quanto accàSe e  gli vien destinato, e non occupan-  tesi se non di rado nè mai senza  una grande e pubblica necessità, di  CIÒ che altri fa o dice o pensa; per-  ch’ egli non ha altre azioni in sua  balìa che le proprie, e pensa conti-  nuamente alle cose che il fato del-  r universo gli arreca; per far si che  le prime sieno oneste, siccome ha  fede che le seconde sien buone;  quando la sorte attribuita all’ uomo  procede dalla stessa causa che l’ uo-  mo e concorre insieme con 1’ uomo  ad un medesimo fine. Sa inoltre che  tutti gli esseri ragionevoli han pa-  rentela fra loro; che è quindi con-  forme alla natura dell’ uomo il tener  cura di tutti; benché non sia da far  conto deir opinione di tutti, ma solo  di coloro che vivono secondo natura.   Quanto a quelli che vivono altra-  mente, egli tien sempre a memoria  che sorta cT uomini sono, e quali, e  in casa e fuor di casa, e di notte e di  giorno, si dimostrano, e con quali  praticano; non ha quindi in pregio  nessuno la lode che gli può venire  da tallente, la quale nè anche a sè  stessa non piace. Non operar mai nè contro al  tuo volere, nè senza relazione al  bene della società, nè senza avere  esaminato la cosa, nò con renitenza;  non adornare con isquisitezza di frasi  il tuo pensiero: non esser uomo nè  di molte parole, nè di molte faccende.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in-  terno abbia a governare in te un  animale maschio, attempato, citta-  dino, romano, imperatore, apparec-  chiato di tutto punto, siccome quegli  che non aspetta ornai se non il suono   [Di molte faccende in cattivo senso, come  chi dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita,  e non occorre sforzarlovi nè col giu-  ramento, nè con la testimonianza  (f altr’ uomo; nel lieto aspetto del  quale ben si scorge non avere egli  bisogno nè dell’ aiuto che vien dal  di fuori, nè della tranquillità che gli  altri procurano. Conviene adunque  esser ritto in piedi già, e non riz-  zarui solamente.   6. Se tu trovi qualche cosa di me- •  glio nella vita dell’ uomo che la giu-  stizia, che la verità, che la tempe-  ranza. che la fortezza, e, in una parola, che quella disposizione della  mente per cui ella si appaga di sè  medesima nelle cose die ti fa ope-  rare secondo la retta ragione,, e del  fato, nelle cose che senza parteci-  pazione della tua volontà ti vengono  distribuite; se, dico, tu trovi alcun  che di meglio che questo, a quello [Similitudine tolta dagli ordini della  milizia appo I ROMANI. 0Virco \urcIio. rivolgiti con tutta l’ anima e godine  siccome di cosa che hai ritrovato  esser V ottima. Ma se nulla ti si pre-  senta di meglio che il genio stesso  tuo interno, quando si è fatto signore  de’ propri moti, e rivoca ad esame  le proprie immaginazioni, e si è sot-  tratto^ come diceva Socrate, dalle  passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli uo-  mini; se, a paragone di questa, tutte . le rimanenti cose ti paion picciole  e vili, non dar più luogo appresso  te a nessuna altra, alla quale una  volta che tu ti sentissi propendere,  più non potresti senza repugnanza  preferire a tutti quel bene che è pro-  prio di te ed è il tuo; perchè al  bene j’azionale ed efficiente (3) non  vien contrapposto impunemente mai  nulla che sia di natura diversa, come  le lodi della moltitudine, o il co-  mandare, o i piaceri del senso; tutte  queste cose, per poco che le si paiano adattare,' ti sopralfamio in un attimo  e ti strascinano. Or tu, dico io, scegli schiettamente e liberamente il  meglio, e a quello ti attieni. — Ma  il meglio è l’utile. Se l’utile al-  r uomo in quanto è ragionevole, bene  sta, quello procura: se l’ utile all’ uo-  mo in quanto animale, dillo su aper-  tamente® e vivi di poi senza boria nò  fasto, secondo quella determinazio-  ne. Ma bada, ve’, che non ti inganni  nell’ esame.  Non riguardare giammai come    i [Par che Antonino alluda qui alla teoria  dello adattare le nozioni generali alle cose  particolari, o, come diremmo noi, del con-  cetto alla rappresentazione, che è ciò in che  consisto il giudizio. Dillo spiattellatamente, se ardisci, senza  avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi  tutte le conseguenze di quel tuo detto: cioè,  vivi poi da animale mero e puro, senza in-  gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù  nè di giustizia, nè d* altro simile, che in  quel caso sarebbero un vano fasto di pa-  role. E provocazione al senso intimo dell'uo-mo. Utile a te nulla che sia per isforzarti  un dì a violar la fede, abbandonare  il pudore, odiare alcuno^ sospettare,  maledire, simulare, desiderar cosa j  che abbia bisogno di pareti e di ve-  lame. Chi ha posto innanzi ad ogni  altra cosa la sua mente e genio, e  il culto della virtù eh’ è propria di  quello, non fa tragedie, non geme,  non ha bisogno di solitudine, non  di frequenza d’ uomini; quel che più  impoita, vive senza ricercar nulla  nè fuggire; abbia ad esser lungo o,  abbia ad esser corto Tintèrv^allo di  tempo durante il quale sarà conte-  nuta nel corpo l’ anima con che egli  lia a fare,' non se ne piglia nè an-  clic il minimo pensiero; e quando   [Con che egli ha a fare. Non veggo che  cosa abbia voluto dire Ornato. Il senso letterale del testo è: sia lungo o sia breve  il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani-  ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi-  vale a dire: sia lungo, o sia breve il tempo  ch'egli ha a vivere. è giunta V ora dello sgombrare, cosi  spiccio se ne va, come se impren-  desse un’ altra qualunque di quelle  azioni che si possono con verecondia  e con dignità operare; da questo  solo guardandosi per tutta la vita,,  che veruno dei moti della sua men-  te non sia mai men che convene-  vole ad animale intelligente o so-  ciabile. Nella mente dell’ uom castigato  e puro non troverai nulla di marcio,  nè tampoco nulla di contaminato o  che paia sano al di fuori e noi sia.  La vita di lui, a qualsivoglia ora lo  sorprenda la morte, non è mai im-  perfetta, come tu diresti quella tra-  gedia d’onde un attore si fosso riti-  rato prima d’ aver condotto a fine  la sua parte. Ancora non è in lui  nulla di villano, nè nulla di artata-  mente gentile; nulla che il leghi  alle cose esteriori nè nulla che lo  separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che  covi addentro nascosto.  Abbi in rispetto la facoltà giu-  dicativa.^ Per lei sta che non si ge-  neri nella tua parte sovrana nessuna  opinione che non sia consona alla  natura o al fine per che 1’ uomo è  ordinato. Ed essa promette la infal-  libilità,* e l’amicizia con gli uomini  e r ubbidienza agli Dei.Messe adunque da banda tutte  le altre cose, queste poche sole abbi  in mente; ed ancora ricordati che i  r uomo non vive altro tempo che  questo presente, cioè un attimo; il  rimanente o lo ha vissuto o non sa  se il vivrà. Picciola cosa pertanto è   1 Intendi: nulla che appaia manifesta-  mente vizioso. Ossia la virtù del non cadere in er-  rore; che vien definita da Zenono « la  scienza del quando conviene assentire ad i  un' apparenza, e quando no. > Questa ac-  compagna sempre il giudizio comprensivo,  che è il criterio della verità appo g-li  stoici. 0.  Digitizedh, Cnoi^li:   il tempo che l’ uom vive, picciola  cosa rangoletto della terra dov’egli  vive; picciola cosa la fama anche la  più lunga eh’ egli lascerà dietro sè,  e questa tramandantesi per succes- sione d’ omiciattoli in omiciattoli,  morti quasi appena nati, ed ignari  anche di sè medesimi, non che di  colui il quale moriva è già gran  pezza.   li. Agli avvertimenti dati sin qui  s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de-  finir sempre o descrivere l’oggetto  che cade sotto al tuo senso, si che  tu lo scorga a parte a parte distin-  tamente e tutt’ insieme quale egli è  nella sua essenza nudo, e dir teco  stesso il nome proprio di quello e  il nome delle cose di che è compo-  sto e in che s’ ha da risolvere. Per-  chè non v’ ha nulla che sublimi  cotanto l’animo quanto il potere ar-  guire per la diritta via e con verità  ciascuna delle cose che incontrano nella vita, e saperle vedere per ino»  do da conoscere nello stesso tempo  di qual uso sendo questa tal cosa  al mondo, e a qual mondo, qual  valore ha rispetto al tutto e quale  rispetto air uomo, che è cittadino  della suprema fra le città, della  quale le altre città sono' come al-  trettante famiglie. Che cosa è, e di  che cosa è composto, e quanto tempo  è por duiare ij cesto che fa impres-  sione ora sul mio senso; di che virtù  s’ ha da far uso con esso, per esem-  pio, della mansuetudine, della for-  tezza, della veracità, della fede, della  semplicità, della frugalità, o simili.  Però, intorno a ciascuna cosa, con-  vien dire: questa mi viene da Dio;  questa dalla sorte, dalla complica-  zione delle cause condestinate, e so-  miglianti cose; quest’ altra dal mio  consorto, dal mio congiunto, dal  partecipe d’ una stessa società con  me, il quale ignora nondimenò ciò  che è secondo natura per lui. Ma   10 non lo ignoro; e però mi governo  con lui secondo la legge naturale  della società, con benevolenza e giu-  stizia; e ad uno stesso tempo ho  riguardo, nelle cose mezzane,' al  valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la retta  ragione quel che hai fra mano, stu-  diosamente, c vigorosamente, placi-  damente, e non t’ occupi d’ altra cosa  tra via, ma conservi puro ed intatto   11 genio tuo, come se tu dovessi già  rassegnarlo; * se a lui ti tieni stret-  Si chiamai! còse mezzane appo gli stoici  quelle che non sono nè ben nè male, cioè  nè virtù nè vizio. Le quali, comecché da  per sè non meritino d' esser cercato nè fug-  gite, si accettano nondimeno o si rigettano  per r aiuto o disainto che elle possono ar-  recare alla vita secondo natura. Quelle che  arrecan più aiuto, han più valore: quelle  che più disainto, più disvalore. Di questò  ha da tener conto il savio, ed accettare,  quando gli è data la scelga, quelle che han  più valore, o che han meno disvalore. 0.   ^ Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da nulla rifug-  gendo, contentandoti dell’ azion tua  presente secondo natura e della eroi-  ca verità d’ ogni cosa che tu dica:  felicemente vivrai. Ora non v’ ha  nessuno' che ti possa questo impedire. Come i medici han pronti sem-  pre i loro ferri e strumenti per le  cure inopinate, così abbi tu alla mano  i principi! * per la cognizione delle  cose divine ed umane; e non far  nulla mai, per poco che sia, senza  ricordarti del legame che unisce  queste con quelle. Perchè nulla di  umano farai tu bene se non lo ri-  ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per-  chè non sei per rileggere oramai nè  i tuoi ricordi, hè le azioni degli an-  tichi romani e greci, nè gli estratti   * Punti fondamentali di credenza, cre-  denze prime, dommi: decreta.appo Cicerone. d’ autori che riserbavi per la vec-  chiaia. Studiati dunque d’ arrivare  al fine, e poste da banda le spe-  ranze vane, soccorri a te stesso, se  pur ti cale di te, mentre che il puoi.   15. Non sanno * quanti significati  abbiano le parole rubare, seminare,  comperare, riposare, veder quel che  sia da fare, il che non si reca ad  effetto con gli occhi, ma con un’al-  tra sorta di vista. Corpo, anima, mente; del corpo  son le sensazioni, deh’ anima le ap-  petizioni, della mente le credenze.^  Ricevere impressioni nella fantasia  è cosa anche da giumento; esser  mosso da appetiti è cosa anche da  fiera, anche da androgino, anche  da Falaride, anche da Nerone; avere  per iscorta la mente a quello che  ci pare nostro ufficio,* è cosa anche  Sottintendi c gli nomini del volgo.  Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano  Dei, da chi abbandona la patria, da  chi fa, quando ha chiuso le porte,  ogni opera nefanda. Se adunque  tutte queste cose abbiam comuni  cogli anzidetti, resta che sia proprio  dell’ uomo dabbene lo amare ed ab-  bracciare gli accidenti ad esso con-  destinati e guardarsi dal macchiare  e turbare con immaginazioni sconce  il genio che risiede nel petto di lui,  ma conservarlo propizio, seguendolo  modestamente* come un Iddio, non  dicendo mai nulla che sia contro  al vero, nè dicendo *mai nulla che  sia contro al giusto. Che se nissuno    ttro interene. Questo è il significato gene-  rale della parola ufficio appo gli stoici. Solo  allor quando le si aggingne l'epiteto di  perfetto denota essa il dovere^ che è come  V intereae iublime dell' uomo. Noto questo  perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo  anche il Corai, hanno maravigliosamente  scompaginato - e interpolato questo passo;  frantendendolo. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic.  de Officiùt otc. 0.    degli uomini non gli vuol credere  eh’ egli viva con semplicità, con ve-  recondia, e di buon animo; nè s’adira  egli contro costoro, nè si svia dalla  strada che conduce al fine della yita.  al quale si vuol giunger puro, tran-  quillo, spedito, e conformato di vo-  lontà col proprio destino.  La parte che dentro di noi re-  gna,* quando è nel suo stato natu-  rale, ha tal disposizione verso gli  accidenti, che senza difficoltà si ri-  volge sempre al possibile e al dato.  Perch’ella non ama nessuna mate-  ria determinata; ma si porta con  eccezione* a quello che si ha pro-  posto, e quando alcun che se le  viene ad attraversare per via, ella  si fa di quello stesso materia; come  il fuoco, quando s’ impadronisce delle   [La parte sovrana o dominante.   [Eccezione: vocabolo stoico. Indica limi-  tazione del proponimento al possibile. Farò  la tal cosa, se non sarò impedito. cose die incontra, dalle quali una  picciola lampana sarebbe spenta; ma  lo splendido fuoco assimila a sè tosto  ogni cosa che se gli butti dentro, e  la consuma, e per quella stessa s’innalza più in su.   [Nessuna azione sia fatta a caso  mai, nè altrimente che secondo una  delle regole costitutive dell’arte.*   3. Van cercando ritiri, alla campa-  gna, alla marina, sui monti; e tu  stesso suoli desiderare siffatti luoghi.  Ma cotesto è da uomo ignorantissi-  mo, potendo tu, a quell’ ora che tu  vuoi, ritirairti in te stesso. Perchè   * Ad ogni caso della vita corrispondo  una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11,  e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni virtù è  appo gli stoici nna scienza nello stesso  tempo ed un’ arte: parlo delle virtù pro-  priamente dette. Come scienza quindi e  come arte consta di certo proposizioni o re-  gole, ciascuna delle quali è parte integrante  di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni ufficio consta di corti nu meri. 0.      inroRDi.    «4   in nessuno altro luogo si ritira l’uomo con più tranquillità e con meno  brighe che nell’ anima sua; massi-  mamente chi ci ha dentro tanto  alti oggetti di contemplazione che  il solo affacciarsi a loro procaccia  tosto ogni sorta di agevolezza. Quan-  do dico agevolezza, non voglio dir  altro che buon ordine. Concedi adun-  que sovente a te questo ritiro e rin-  novella quivi te stesso. Breve sia  r espressione ed elementare la forma  di quelle verità contemplative che  avran forza di rasserenare al primo  incontro V anima tua c. rimandarti  senza corruccio alle cose alle quali  ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'-  rucci? Della malizia degli uomini?  Rammentati di quella sentenza, che  gli esseri ragionevoli son fatti gli uni  per gli altri; che il sofferire è parte  della giustizia; che malgrado loro  peccano; che tanti si son già inimi-  cati, sospettati, odiati, ^perseguitatisi   a morte, i quali ora sono spenti, son  fatti cenere; e te ne darai pace. 0  ti crucci tu di quella parte che a te  Vien compartita dell’ universale de-  stino? Rinnovella il dilemma. 0 è  la provvidenza o son gli atomi,' op-  pure gli argomenti con che s’ è di-  mostrato che il mondo è come una  città. Ma forse tu ti contristi delle  affezioni del corpo? Pensa che non  han più nulla che fare con la mente  i moti o sieno soavi o sieno aspri  del senso, ogni volta che questa s’ è.  raccolta in sè medesima ed ha cono-  sciuto la sua propria potenza; al che  potrai aggiugnere quelle altre cose  che intorno al piacere e al dolore  hai apparato ed accettato per vere.   0 sarà forse T amor di gloria quello  che ti turba? Considera come è ratto   [Si allude al  sistema atomistico d’Epicuro, il quale nega la previdenza, e attribuisce il mondo e tutti i fenomeni del mondo ad una causa  non intelligente.. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal -  runa parte e dall’ altra* il caos della  età, vana cosa il rumore, mutabile,  e inconsiderato chi in apparenza ti‘  esalta, angusto il luogo dove è cir-  coscritto il suo dire. Perchè tutta la  t.erra' è un punto: e qual parte di  essa è l’angoletto che tu abiti? e  quivi ancora quanti avrai lodatori, e  quali? D’or innanzi adunque sovvengati di ritirarti in questa tua vil-  letta di te medesimo; e sopra tutto,  non. t' affannare, non t’agitare, ma  sii libero e vedi le cose da uomo, da ‘  maschio, da cittadino, da mortale.  Ed abbi in pronto, fra le verità alle  quali dovrai far ricprso, queste due  principalmente. L’una, che le cose  non arrivano sino all’anima, anzi  stanno al di fuori immobili  e i  turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice  la scuola], che è dentro. L’ altra, che  quanto tu vedi già già si muta e più  non è quel desso; e rivolgi in mente  ciascuna delle mutazioni alle quali  tu stesso sei inten'enuto. Il mondo, alterazione. La vita, opinione. Se la intelligenza ci è comune  a tutti, anche la ragione per cui  siam ragionevoli ci è comune; se  cotesto è, anche la ragione impera-  tiva di ciò che si dee fare o non fare  ci è comune; adunque anche la legge  ò comune; aifunque siam concittadini; adunque partecipiamo tutti ad  una specie di reggimento civile;  adunque il mondo è come una città. Perchè qual altro direm noi che sia  quel reggimento civile di cui tutto  il genere umano partecipa? Di colà,  da quella città comune, viene a noi  r intelligenza, la ragione, la legge,  o d’ onde verrebbon esse? Perchè,  siccome quanto v’ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa  parte; e quanto v’ ha in me d’umido,  da un altro elemento; e quanto v’ha  di caldo e d’ igneo, da una certa  sorgente propria (nulla venendo mai  dal nulla nè ritornando nel nulla);  così anche la intelligenza dee venire  da qualche cosa. La morte è come la nascita, un  mistero della natura; composizione  e risoluzione di certi elementi in  quegli elementi medesimi. Ad ogni  modo non è cosa di che 1’ uomo  debba arrossire; perchè non è cosa  che repugni alla natura dell’ animale  intellettivo o disconsegua* al prin-  cipio della formazione di quello.   6. Tali cose debbono di necessità  farsi in tal modo da questi tali; chi  le vuole altrimente, vuole che il fico  non abbia lattificcio. Del tutto, sov-  vengati che in brevissimo tempo e   [Intendi: ripugni, non aia conforme. !'•    tu e costui sarete morti: e che, poco  dopo, non rimarrà più di voi nè an-  che il nome. Togli via r opinione, ed è tolto  via il « sono stato offeso: » togli via  il « sono stato offeso, » ed è tolta via  r offesa. Quello che non fa peggiore l’ uo-  mo non fa nè anche peggiore la vita  di lui, nè le nuoce, nè esternamente  nè internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la natura a far cotesto. Siccome ogni cosa che accade,  giustamente accade; il che, se tu  osserverai con attenzione, troverai   [Comune. Più letteralmente: « È necessitata la na-  tura deir utile a far cotesto.» La natura  deir utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente  in questo luogo la voce natura), il quale  evolvendosi, come ragion seminale, succes-  sivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia  bene. Perchè non conviene dimenticar mai  che, appo gli stoici, l'utile non è altro che  il bene. Digilized by sempre vero: non solamente, dico,  secondo l’ ordine di conseguenza, ma  ancora secondo 1’ ordine di giustizia;  come se le cose procedessero da tale  che distribuisse a ciascuno secondo il  merito. Osserva adunque, come hai  cominciato; ed ogni cosa che tu fai,  falla con questa condizione, che tu  sia uom dabbene, nel vero signifi-  cato della parola dabbene. Questo  carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le  giudica colui che fa ingiuria, o quali  egli vuole che tu le giudichi; ma  vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto  a queste due cose; fai' solamente  quello che la ragion dell’ arte regia  e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-  lità degli uomini; e cangiar partito,  quando altri viene a raddrizzarti e  rimuoverti da una qualche falsa opi-  nione. Ma questo cangiamento dee  farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o  d’ utilità comune, o somigliante; e  non mai perchè la cosa ti piaccia o  sia per arrecarti gloria.  Hai la ragione? Si. Che  dunque non 1’ adoperi? Perchè, se  essa fa quanto le spetta, che ti resta  a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella  ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno  stesso altare: l’uno è caduto prima  e l’altro dopo. È lo stesso.   16. Tra dieci giorni parrai un Dio  a coloro, ai quali pari ora una bestia  e una scimmia, se fai ritorno ai prin-  cipii e al culto della ragione. Non come se tu avessi a vi-  vere molte migliaia d’ anni. La morte  ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è  dato, fa’ che tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera chi  non bada a quello che ha detto il vi-  cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo  a quello eh’ egli stesso fa, affinchè  r opera sua sia giusta, e santa, e  qual si richiede dall’ uomo dabbene !   Non andar guatando attorno i neri  costumi, ma corrér diritto in sulla  linea senza volgersi a destra nè a  manca. Chi vive abbagliato dal  pensiero di lasciar fama dopo morte,  non considera come ciascun di quelli  che si ricordano di lui morrà tosto  aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a  costui succeduto, sinattantochè, pas-  sando da abbagliato in abbagliato e  da morente in morente, venga a spegnersi affatto ogni memoria. Ma sup-  poni anche immortale chi s’ ha a ri-  cordare di te, ed immortale la fama;  che fa egli a te cotesto? E non dico.   a te quando sarai morto, ma a te  mentre sei vivo: che è la lode, se  on forse talora un mezzo per una  qualche dispensazione? Lascia stare ora, che sarebbe inopportuna, la  considerazione dello essere secondo  natura o no e cosa quindi che non  ha pregio se non per rispetto d’ una  qualche altra. Tutto che è bello,  qual che egli sia, è bello da per sè,  ha il termine della sua bellezza dentro di sè, nè annovera tra le sue parti  la lode, e lodato, non diventa nè peg-  giore, nè migliore. Dico, anche i belli  volgari, le cose belle per materia o  per lavoro artificioso (perchè, in  quanto al bello per essenza, ha egli  mai bisogno di lode alcuna? No,  niente più che la legge, niente più  che la verità, niente più che la be-  nevolenza o la verecondia). Quale di  esse è bella per venir lodata o perde  per venir biasimata? Lo smeraldo  diventa egli peggiore, se non si loda?  E l’oro, l’avorio, la poi^pora, una cetra, una spada; un fiorellino, un arboscello?  Se le anime sussistono dopo  morte, come può, dalla eternità in  qua, contenerle in sè l’aria? E  come contiene la terra i corpi che  da tanti secoli vi sono seppelliti?  Perchè nell’ istesso modo che questi,  dopo essersi conservati alcun tratto  di tempo, col mutarsi di poi e col dis-  solversi dan luogo ad altri cadaveri:  cosi le anime che passano nell’ aria,  soffermatevisi un certo tempo, si mu-  tano si struggono e accendono, e ve-  nendo accolte nella ragion seminale  dell’universo, fan luogo alle altre che  lor vengono appresso. Questo si può  rispondere nella ipotesi che le anime  sussistono dopo morte. E convien  recarsi a mente il numero non solo  dei corpi seppelliti a questo modo,  ma anche di quelli che ogni di e da  noi e dagli altri animali si mangiano. Perchè quanti se ne consuma egli e  se ne seppellisce, per così dire, nei  corpi di coloro che se ne cibano! E  pur nondimeno li cape uno stesso  luogo, pel convertirsi, eh’ essi fanno,  in sangue, pel trasmutarsi loro in  aria od in fuoco. Come giugnere, intorno a ciò, alla  cognizione del vero? Col distinguere  in materia ed in causa. Non isviarti; ma fa’ sì che ogni  atto della tua volontà rappresenti il  giusto e che ogni tuo giudizio serbi  il carattere di comprensivo.  Tutto a me conviene quel che  a te conviene, o mondo. Non è im-  matura per me nè tardiva nessuna  cosa che sia opportuna per te. Tutto  è frutto per me quel che portano le  tue stagioni, o natura. Da te viene. 0il tutto, in te è il tutto, a te ritorna  il tutto. — Queir altro dice: 0 amica  città di Cecrope! ‘ e tu non dirai:  0 amica città di Giove?  Fa’ poche cose » dice colui, se vuoi viver contento. Non era meglio il dire, fa’ le cose che son necessarie, quelle che vuol la ragione d’un animai socievole, e a quel modo ch’ella le vuole? Cosi acquisterai la  contentezza non solo che nasce dal  far bene le cose, ma quella ancora  dell’ averne a far poche. Perchè, se  dalle cose che diciamo e facciamo lu  tronchi via le non necessarie, che  sono il maggior numero, assai più  agio ti rimarrà ed assai brighe avrai  meno. Quindi, ad ogni cosa che sei  per fare, domanderai a te stesso:  Non è questa una di quelle che non   [Aristofane, nella commedia de' contadini [DEMOCRITO, in un frammento conservatoci dallo Stobeo] sono necessarie? E conviene troncar via, non solo le azioni che non  son necessarie, ma anche i pensieri;  perchè in questo modo non avrai nè  anche più* a temere che azioni so-  verchie li seguano.   Fa’ un po’ il saggio dei  come ti riesce la vita dell’ uomo dab-  bene, dell’ uomo che accetta con pia-  cere ogni cosa che gli venga com-  partita dal tutto ed a cui basta che  r azion sua propria sia giusta e la  disposizione dell’ animo suo bene-  vola. Hai tu veduto quelle cose? Vedi  anco queste. Non turbar te medesimo. Fa’ che tu sia semplice. Pecca  egli, un tale? A sè medesimo pecca.  T’ è accaduto qualche cosa? Bene sta;  ab eterno era stato destinato per te,  destinato insieme con te, tutto ciò  che ti accade. Al postutto, breve è  la vita: conviene far guadagno del   [seguendo la ragione ed il  giusto] Sii in te anche quando ti ricrei.  il mondo o è ordinato da una  mente, o è un accozzamento fortuito  di cose, venute d’ ogni parte, sì, ma  non di meno ordinate. 0 credi tu  che possa avervi un cotal ordine in  te e che nell’ universo alberghi il  disordine? massimamente quando ci  vedi, le cose cosi distinte le une dal-  r altre, così mescolate le une con  r altre e cosi intimamente collegate  tutte insieme col vincolo di reciproca  dipendenza?   28. Neri costumi, eiremminati co-  stumi, costumi duri, brutali, pecorini, puerili, infingardi, falsi, buffo-  neschi, taverneschi, tirannéschi.   29. Se è uno estraneo nel mondo  chi non sa che cosa c’ è nel mondo,  non è meno un estraneo chi non sa  che cosa vi si fa; un fuoruscito chi  esce fuori della ragion civile; un cieco chi chiude gli occhi della men-  te; un mendico chi abbisogna d’ al-  trui e non ha in sè quanto gli fa  d’uopo alla vita: un apostema' del  mondo chi si separa é allontana dalla  ragione della natura comune, avendo  a male ciò che accade; perchè quella  te lo arreca la quale arrecò te* me-  desimo ancora; una smozzicatura di  città chi distacca la propria anima  dall’ anima comune degli esseri in-  telligenti, che è una.  Chi filosofa senza tunica, e chi  senza libro. Quest’altro, mezzo ignudo. Non ho pane, die’ egli, e pure  sto fermo nella ragione. Ed io non  ho il cibo della dottrina, e pur ci sto fermo anch’io. Ama l’arte che hai apparato;  in essa ti acqueta; e vivi il rimanente  della tua vita come quegli che ha  accomandato le cose sue con tutta l’anima agli Dei, e che di nessun  uomo non vuol essere ne tiranno nè  servo. Figurati, per esempio, i tempi  di Vespasiano; vedrai le stesse cose  che adesso: uomini che s'accasano,  che educan figli, che s’ammalano,  che muoiono, che fan guerra, che fan  festa, che mercatano, che coltivan la  terra, che adulano, che presumon di  sè, che sospettano, che tendono insi-  die, che desideran la morte di alcuno,  che mormorano del presente, che  fanno all’amore, che ammassan te-  sori, che voglion diventar consoli,  diventar principi. Or tutta quell età  è sparita. Passa ai tempi di Traiano] le stesse cose di nuovo. Quella età  è spenta anch’ essa. Considera nello  stesso modo le altre generazioni d’ uo-  mini e le nazioni tutte intere, e vedi  quanti si travagliarono e straziarono  per morir poi poco stante e risol-  versi negli elementi. Massimamente ricorderai coloro i quali hai veduto  a’ tuoi di aiTaticarsi per cose da nulla  e trascurare quello per che eran nati,  dove era da attendere a questo uni-  camente e non cercare altra cosa.   Qui è pur necessario il rammen-  tarti che a ciascuna azione corri-  sponde un certo valore e un grado  di applicazione proporzionato.* Per-  chè allora solamente eviterai il rin-  crescimento e la noia, quando non  ti occuperai più di quel che conven-  ga, nelle cose da poco.   33. Le voci che altre volte erano  in uso, or sono antiquate; così an-   [Termine stoico. Un grado di applicazione (dovutale per  parte deir uomo) proporzionato al valore,  cioè air importanza di essa. E vuol dire che  dobbiamo attendere e applicarci a ciascuna  azione secondo il valore o l' importanza di  essa azione, cioè molto a quelle che hanuo  un gran valore, e meno a quelle che ne hanno  un minore; e fra due di valore ineguale,  attendere piuttosto alla più importante, che  alla meno importante. che i nomi di coloro che una volta  furon celebri, or sono, per cosi dire,  antiquati; Cammillo, Cesene, Voleso,  Leonnato; e poco dopo, Scipione, Catone; poscia Augusto, poscia Adriano  c Antonino. Incerti e favolosi presto  diventano; presto ancora son sepolti  nell’ oblio universale. Parlo di co-  loro che in un qualche modo furon  chiari e ammirati; perchè, quanto  agli altri, appena han reso l’ ultimo  soffio. «Nessun ne parla più, nessun  ne chiede. Ma che è ella poi,  alla fin fine, la. eternità del nome? Vanità pura. Che è dunque quello  a cui dobbiamo seriamente badare?  Questo solo: che le_ nostre intenzioni  sien giuste; le azioni, utili alla so-  cietà; le parole, non mai menzogne-  re; e r animo, disposto ad accettare  tutto che accade, siccome cosa ne-  cessaria, siccome cosa amica, sicco-  me cosa derivante dallo stesso prin-  cipio e dallo stesso fonte che noi. Volontario i’ abbandona nelle  mani del Fato, lasciando eh’ egli ti  destini a quelle cose eh’ ei vuole.  E il ricordante e il ricordato,  ambidue han la vita d’ un giorno.  Osserva di continuo coipe ogni  cosa nasce per via di mutazione; ed  avvezzati a pensare che nulla ama  tanto la natura dell’universo, quanto  di mutar le cose che esistono e farne  dell’ altre simili. Perchè ogni cosa  che esiste è seme, in un certo modo,  di quella che per essa esisterà. Ma  tu ti immagini come semi quelli so-  lamente che si gittano nella terra  0 nell’utero. Cotesto è da uomo rozzo  assai. Or ora moirai, e non sei giunto  per anche ad esser semplice, nè im-  perturbato, nè senza sospetto che le  cose esterne ti possano nuocere, nè  sereno inverso tutti, nè a riporre la  prudenza nel solo operar con giu-  stizia,     Guarda alle menti di costoro,  e dei prudenti fra loro; quali cose  fuggono, e quali cercano!   39. Nella mente d’ un altro non  istà il tuo male; nè tampoco in un i  qualche cambiamento o alterazione   di quello che ti circonda. Dove sta  egli adunque?  In quella parte di  te, che giudica intorno ai mali. Quella  parte adunque non giudichi, e tutto  andrà bene. Ancorché la cosa a lei  più vicina, io voglio dire il corpo,  sia tagliata, sia abbruciata, marcisca,  infracidisca, stiasi nondimeno quieta  la pjirte che giudica di siffatti acci-  denti; cioè giudichi non esser nè j  male nè bene ciò che può accadere !  ugualmente al tristo ed al buono.  Perchè quello che accade ugual- ^  mente e a chi vive contro natura e  a chi vive secondo quella, non è cosa  nè secondo natura nè contro. Avvezzati a considerare il mon-  do come un animale unico, avente  un corpo unico ed un’ anima unica;  e come ad un senso unico, che è il  senso di lui, ogni cosa risponda;  come con un impulso unico - ogni  cosa operi; come ogni cosa concorra  alla produzione d’ogni cosa; e qual  sia la connessione e il concatena-  mento di tutte.   Sei una animuccia che porta  un cadavero, come diceva Epitteto.  Non è punto un male il venire a mutazione, come non è punto  un bene l’esser nato da mutazione. L’età è come un fiume di cose  che accadono, e una corrente rovi-  nosa; ' appena vedi 1’ una, ed è già  passata ed un’ altra passa, ed un’al-  tra passerà. Tutto quel che accade è cosa  tanto solita e tanto familiare quanto  le rose nella primavera e le frutta  [Intendi rapidissima e non cagione di  rovine, il che sarebbe nn disordine nel mondo,  che è 1' ordine per eccellenza. sa   nella state; nè son da riguardare  altramente la malattia, la’ morte, le  calunnie, le insidie, e tutto quello  che allegra o attrista gli sciocchi. Nella successione dei casi,  quelli che seguitano han sempre re-  lazione di parentela con quelli ché  li han preceduti. Perchè non è già  quivi come un novero di cose indi-  pendenti r una dall' altra, cui la sola  necessità * insieme costringa, ma  sibbene una connessione ragionevo-  le; e come negli enti si ravvisa una  coordinazione armonica degli uni  con gli altri, cosi negli accidenti si  manifesta, non già semplicemente  la successione, ma un certo modo  di parentela mai'aviglioso.   4C. Abbi a mente ognora il detto  di Eraclito; che la morte della terra  è il diventar acqua, la morte del-  r acqua è il diventare aria, la morte    I Intendi «necessità esterna.» dell’ aria il diventar fuoco e viceversa.* Ricordati ancora di colui che  non sa dove inette la via;* e sicco-  me la ragione con la quale gli uo-  mini conversano il più assiduamente,  e che governa ogni cosa, è quella  per r appunto con che essi non van  d’ accordo; e le cose in che s’ imbat-  tono ogni dì, son quelle che ad essi  paiono più strane. E siccome non  conviene fare nè dire a guisa di dormienti; perchè anche dormendo ci  par di fare e di dire; nè come fan-  ciulli che van dietro ai lor padri,  cioè nudamente e semplicemente a  quel modo che abbiamo appreso.   47. Come se un Dio ti avesse detto  che domani sarai morto, o posdomani [Pasfio famoso di ERACLITO, rammentato  da Diog. Laorzio, Plutarco, Massimo Tirio,  Clem. Aless. Filone, ecc., allegati tutti dal  Gataker a questo luogo]. Anche questo, come i seguenti, pare un  detto di ERACLITO. Vi fa allusione, credo,    al più, tu non ti cureresti gran fatto  dell’ avere a morire posdomani piut-  tosto che domani, ove tu non sia il  più codardo degli uomini; perchè,  quanto sarebbe il divario? così non  ti paia nè anche gran fatto l’avere  a morire piuttosto in capo a molte  diecine d’anni che domani.   48. Pensa di continuo quanti me-  dici son morti, che sovente in su  gli ammalati le ciglia aggrottarono;  quanti astrologi, che la morte altrui,  come un gran caso, predissero; quan-  ti filosofi, che intorno alla morte o  alla immortalità migliaia di discorsi  fecero; quanti prodi, che molti am-  mazzarono; quanti tiranni, che con  orribil ferocia, quasi non avessero  essi mai a morire, la podestà in sulle  vite esercitarono; quante città tutte  intere, per dir così, son morte. Elice, Pompei, Ercolano, altre senza  fine. Rammemora ancora quanti hai  conosciuto, l’ un dopo V altro: questi  fece a colui la sepoltura, e poi morì  egli, e queir altro la fece a lui; tutto  ciò in breve. La somma è, che le  cose umane son da riguardare come  di nessuna durata nè pregio; un po’ di  moccio, ieri; mummia o ceneri, doma-  ni. E quindi, questo attimo presente  di tempo, si vuol passarlo conforme  la natura richiede, e finirsela in  pace; come oliva matura che cada,  benedicendo la terra che la portò,  e ringraziando l’ albero da cui fu ge-  nerata.   49. Sii simile ad un promontorio,  contro al quale incessantemente s’in-  frangono fonde, e quegli sta saldo,  e s’abbonacciano intorno a lui i  gorgogli dell’ acque. Sventurato  me, che la tal cosa ra’ è accaduta. Anzi, avventurato, che, la tal  cosa essendomi accaduta, me ne sto  nondimeno senza cruccio, nè ango-  sciato del presente nè pauroso del-  f avvenire. Ad ogni altro poteva accadere; ma ogni altro non l’avria  senza angoscia sopportata. Perchè  adunque sarà quello una sventura  piuttosto che questo una ventura.*  E poi, chiami tu. sventura per l’ uo-  mo quello che non defrauda punto  la natura dell’uomo? E ti par egli  che defraudi la natura dell’ uomo  quello che non va contro al volere  di quella? E che? il volere della  natura tu il sai; forse che questo  accidente ti impedirà dall’ esser giu-  sto, magnanimo, temperante, pru-  dente, cauto, veritiero, verecondo, libero, fornito, in somma, di tutte  quelle doti che. unite insieme appagano e soddisfano intieramente la  natura dell’ uomo. Sovvengati adun-  que, ogni volta che una qualche  cosa ti contristerà, di ricoiTere a   1 Cioè a dire: c perchè chiameresti dun-  que sventura V esserti accaduta la tal cosa,  piuttosto che chiamare avventura felice  r aver tu saputo sopportarla con impertur-  bata costanza? » questo pensiero: che non solamen-  te essa non è sventura, ma anzi  il sopportarla da forte. è una buona  ventura.  Volgare aiuto, sì, ma nondi-  meno efficace per disprezzar la morte  è il rimembrar coloro che durarono  lentamente vivendo sino all’ età più  decrepita. Che hanno essi ora di più  che gli spenti di morte immatura?  Kcco, son buttati là in un qualche canto essi pure e Cadiciano e Fabio  e Giuliano e Lepido e quanti altri ve n’ebbe di cotal fatta, i quali accompagnarono molti alla tomba, e  poi ci furono accompagnati essi alla  fine. Breve, ad ogni modo, è l’in-  tervallo che l’uom vive, e questo  breve, tra quali cose, con quali uo-  mini, in qual corpicciuolo conviene  stentarlo! Non farne adunque gran  caso. Vedi, dietro a te, una eternità  senza fondo, e un’altra eternità in-  nanzi a te: posto così in mezzo, che  divario fai tu,da una vita di tre  giorni ad una di tre secoli?  Fa’ che tu vada sempre per la  più corta via. E la più corta via è  la via secondo natura. Seguirai quin-  di, in ogni cosa che tu abbia da fare  o da dire, il più sano partito. Que-  sto proponimento ti libera dai tra-  vagli, dai combattimenti interni, e  da ogni sorta di dispensazioni* e  d’astuzie. Al mattino, quando con difficoltà  ti svegli, abbi in pronto questo pen-  siero: Mi sveglio all’ufficio d’uomo;  come adunque m’ incresce, s’ io vo  a far quello per che son nato e in  grazia di che sono stato messo al  mondo? 0 sono io stato fbrmato  forse per riscaldarmi giacendo in  sul letto? Ma quest© mi dà più  gusto. Per pigliarti gusto adunque  sei nato? e non anzi per operare?  per essere attivo? Non vedi le pian-  te, le passere, le formiche, i ragni,   [Intendi: cO il fine a cui nacqui è for-  se di giacermi a godere questo tepore del  letto?»   le pecchie, far ciascheduna l’ ufficio  suo, concorrer, ciascheduna all’ordi-  namento di quel mondo che le è  proprio? E tu non vuoi-far l’ufficio d’uomo? Non intendi a quello che  è secondo natura per te?  Ma è  necessario poi anche il riposo. È  necessario, è vero; ma la natura vi  ha posto un limite; ve n’ ha posto  anche al mangiare ed al bere; e tu  nondimeno varchi quei limiti, vai al  di là del bisogno; quando si tratta  di fare, poi, la è un’altra cosa, tu  stai sempre al di qua del possibile. Gli è perchè tu non ami te .stesso. Se tu amassi te stesso, ame-  resti anche* la natura tua, e la vo-  lontà di lei.* Gli artisti, che amano  l’arte loro, si consumano in sui la-  vori di quella, dimenticando il ba-  gno ed il cibo: ma tu, fai men caso  della tua natura che il tornitore del  [Intendi agire, operare, essere attivo, e  non infingardo] torniare, che il ballerino del ballare,  che r avaro della moneta, che il va-  nitoso della gloriuzza. Quando la  passione ha preso. piede in costoro,  lascian piuttosto di mangiare e di  bere che di attendere ad avanzare  la cosa a che son portati. E a te, le azioni sociali paiono esse cosa di  men pregio, cosa men degna di applicazione?   Come è facile il respingere e  il cancellare ogni immaginazione  turbolenta o disconvenevole, e tro-  varsi tosto in piena calma! Reputa degna di te ogni parola  ed azione che sia secondo natura;  e non ti persuada il biasimo od il  garrire che ne seguirà di taluni; ma,  se è onesto il farla o il dirla, credi  eh’ ella è anche cosa da te. Perchè  quei tali hanno una mente lor pro-  pria per guida, ed operano per una  lor propria volontà; alle quali tu  non badare, ma va’ innanzi per la  diritta, seguendo la natura comune  e la tua. La via dell* una e dell’ al-  tra è una sola.  Vo per la carriera delle cose secondo natura, sino a tanto che  cadendo io trovi requie; esalando lo  spirito in quello di che ogni giorno  respiro; giacendo su quello di che  mio padre raccolse il seme, mia ma-  dre il sangue, la balia il latte; di  che da cotanti anni mi pascolo e mi  abbevero, che sopporta me il quale  lo calpesto e in tanti e sì vari modi  lo adopro. Non s’ ammirerà la prontezza  del tuo ingegno. E sia. Molte altre [Intendi: «Vo per la via per cui vanno  tutte le cose che sono secondo natura, in-  sino a che cadendo io trovi requie; esa-  lando lo spirito in quest' aria che ogni  giorno respiro, per essere sepolto in que-  sta terra onde mio padre raccolse il seme  dell* esser mio, mia madre il sangue, la ba-  lia il latte; dalla quale da tanti anni io  traggo di che nutrirmi e abbeverarmi, che  mi sostiene mentre ora la calco coi piedi  0 ne uso ed abuso in tanti modi.» P.  cose ei sono, delle quali non puoi  dire, la natura non mi ci ha dato  disposizione. In quelle adunque ti  esercita, le quali dipendono intera-  mente da te: la sincerità, la gravità,  r amore al lavoro, l’ indifferenza al  piacere, la rassegnazione, la fruga-  lità, la mansuetudine, la libertà dello  spirito, r incuriosità, la serietà, la  generosità. Non vedi quante cose  puoi acquistare, dove certo non ha  luogo la scusa dello esserci disadat-  to, e tralasci per colpa tua? 0 è ella  forse la tua mala disposizione natu-  rale quella che ti sforza a mormo-  rare, a star neghittoso, a piaggiare,  ad accagionare il corpo, a lusingare,  a millantare, a passare per tanti e  tanti turbamenti dell’animo? No, per  gli Dei ! Da lungo tempo tu potevi  esser libero da tutto cotesto; ma  solo avevi a cuore, se pur l’avevi,  di non farti scorgere per uno ottuso  e di poca penetrativa! E questo [Antonino ancora si vuol correggere col por  mente alle cose, e non istar sopra  pensiero, nè compiacerti nella tua  propria infingardaggine.  V’ ha chi, quando ha prestato un  rpialclie servigio ad alcuno, è pronto  anche a domandargliene il contracambio. Un altro non domanda con-  traccambio veramente, ma riguarda  colui come suo debitore nel suo se-  greto,, e sa quello che lia fatto. Un  terzo poi, non sa, per cosi dire, nè  anclie quello che ha fatto, ma so-  miglia ad una vite che ha portato  un grappolo, e non cerca nulla più  in là, messo eh’ ella ha fuoià il frutto  a lei proprio. Il cavallo die ha ga-  loppato, il cane che lia ormato, l’ape  che ha fatto il miele, e cosi Tuomo   1 Intonili: e questo t/t/'cf/o ancora si vuol  nondimeno correggere, quello cioè dell’ es-  sere ottuso e di poca penetrativa. Il testo  in questo luogo, e nelle linee che precedo-  no, è molto ellittico e poco chiaro, e diversamente spiegato dagli interpreti. che ha prestato un servigio, non  Lschiamazza,' ma passa atl altro, co-  me passa la vite a portar di nuovo un  grappolo d’ uva nella stagione. S’ha  egli adunque ad essere un di coloro  che fanno il bene, per così dire,  senza saperlo? Sì Ma convien  pure che 1’ uom sappia quello che  fa: sendo proprio dell’ animai sociabile il conoscere ch’egli opera so-  cialmente, e, per Giove, il votere  che anche colui, con chi egli ha a  fare, lo conosca. Tu di’ il vero:  ma non. pigli pel lor verso lo mie  parole; quindi sarai anche tu un di  coloro di che ho fatto menzione  quassù. Perchè anche essi son tratti  in errore da una qualche apparenza  di ragione. Ma se vorrai intendere  che cosa è quello eh’ io dico, vivi si-  curo che non avrai a lasciare indie-  tro nessuna azione sociale per questo.  Cioè non dee schiamazzare, ma passuire  ad altro ecc. Preghiera degli A.teniesi: «Pio-  vi, piovi, o amico Giove, sui campi  degli Ateniesi e sui prati. )> 0 non  s’ha da pregare, o così alla buona  s’ ha da pregare e con libertà di parole. Come s’ usa di dire, Esculapio  ordinò a colui il cavalcare, o il ba-  gnarsi nell’ acqua fredda, o l’andare  a piè nudi, si dice del pari, e con  locuzione non diversa, la natura or-  dinò a colui una malattia, una stor-  piatura, una perdita, o altro simile.  In quella prima frase, di fatti, la  parola « ordinò » vuol dire assegnò  la tal cosa a colui siccome correla-  tiva alla salute; e in questa, i casi  che avvengono all’ uomo gli sono as-  segnati, in un certo modo, come  correlativi al destino. Così ancora si  dice « i casi (die avvengono a come  son dette dagli artefici « avvenii*si »  le pietre quadre nelle mura o nelle  piramidi quando elle s* adattano l’ una air altra secondo un disegno deter-  minato. Perchè del tutto l’armonia  è una. E siccome di tutti i corpi  presi insieme è composto il gran  corpo del mondo, cosi di tutte le  c,ause prese insieme è composta la  gran causa del fato. Intendono ciò  eh’ io voglio dire anche i più rozzi,  quando dicono: * ella è toccata a lui.  Adunque ella andava a lui, adunque  era ordinata per lui. Riceviamo per-  tanto gli ordinamenti della natura  come facciamo quei d’Esculapio. Anche in questi v’ ha molto dell’ amaro,  e pur gli accettiamo di buon grado  per la speranza della sanità. Or be-  ne, r adempimento di ciò che la  natura ha voluto sia lo stesso per te  che la tua sanità. Accetta di buon  grado, per dura che ti paia, ogni  cosa che accade,- pensando che ella  conferisce alla sanità del mondo e  [Vale a dire: « itiostrauo di intendere] quando dicono ecc. al buon successo dei disegni di Giove. Perchè ella non sarebbe venuta  a qualcheduno, se non fosse conve-  nuta al tutto: sendo questo il pro-  prio d’ogni natura, e poni anche la  più infima, che quanto ella arreca  sia sempre acconcio al governato da  iei. Per due ragioni adunque dèi  tu aver caro ciò che accade: Tuna,  che questo accade a te, è ordinato  per te, ha attinenza in un certo  modo con te, essendo stato conde-  stinato di lassù con te dalla più an-  tica delle cause e dalla più veneran-  da; l’altra, che quanto tocca in sorte  a ciascuno, concorre, come causa par-  ticolare, alla prosperità, alla perfe-  zione, e, sto per dire, alla perma-  nenza istessa del reggitore del tutto.  Perchè diventa mozzo l’intero quando  tu tronchi via un minimo che, sia  dalla continuità delle parti, sia dalla  concatenazione delle cause. E tu lo  tronchi,- per quanto sta in te, e lo distruggi, per così dire, quando ti  corrucci di quel di’ è accaduto.  Non dèi indispettirti, nè per-  derti d’ animo, nè impazientirti teco  stesso, se la non ti riesce cosi per be-  ne ogni volta il governarti secondo i  retti principii in quello che tu fai;  ma, uscito di via, ritornarci; quando  la maggior parte delle tue azioni  sono passabilmente degne d’un uo-  mo, contentartene; ed amare quello  a che ritorni; RITORNANDO ALLA FILOSOFIA, non come ad un pedagogo, ma come  un eh’ abbia mal d’occhi alla spugna  ed all’uovo, un altro al cataplasma o alla doccia. Così non ti darà più  fastidio il dovere ubbidire alla ragione, ma anzi troverai in quella il  riposo. E ricordati che la filosofia  vuole quello solamente -che la tua  natura vuole; e che sei tu quegli il  quale volevi altro, che non era secondo natura. Ma pure, che v’ha  egli di piii liisingliiero? E il piacere, non t’ inganna egli appunto  perchè è lusinghiero? Ma vedi se  non fossero cosa più lusinghiera la  magnanimità, la libertà, la sempli-  cità, la bonarietà, la santità. Quanto  alla prudenza poi, v’ ha egli cosa più  lusinghiera di quella? se tu badi allo  andar esente da ogni fallo e all' avere  a seconda ogni cosa, che è il proprio della virtù comprensiva e intellettiva?  Le cose stanno immerse, per  cosi dire, dentro a un buio tanto  folto, che a filosofi non pochi, e non  dei più volgari, elle son parate del  tutto incomprensibili. E gli stoici  essi medesimi tengono che elle sieno -  comprensibili sì, ma difficilmente:  e che ogni nostro assentimento sia  mal certo;* perchè, dove è fuomo [Questa ed altri Inoghi dei Ricordi provano che gli Stoici dopo Crisippo venivan.<»i  facondo sempre più scettici, ed aveano essi  medesimi il sentimento della debolezza scientìfica della loro scuola. che non si sia mai ricreduto? Prendi quindi a considerare gli og-  getti in sè stessi; come poco dura-  no, come poco valgono, come possono  - cader nelle mani d’ un bagascione,  d’ una cortigiana, d’ un malandri-  no. “- Passa ai costumi degli uomini  con chi tu vivi; il più gentile dei  quali appena si può tollerare, per  non dire che appena v’ ha fra loro  chi possa tollerar sè medesimo. In  tanta caligine adunque, in tanto lez-  zo, in un tal flusso continuo e della  materia e del tempo, e del moto e  di quanto è in moto, qual cosa v’ ab-  bia mai che meriti la nostra stima,  o anche pur solo la nostra premura,  io noi so immaginare nè vedere.  Che anzi ci bisogna confortar noi  medesimi con l’aspettativa della dissoluzion naturale, e non adirarci  dell’indugio, ma acquietarci in que-  ste sole due cose: T una, che nulla  mi può accadere che non sia secondo la natura dell’ universo; l’ altra, che  è in mia potestà il non far nulla  contro il Dio e il Genio mio. Perchè  nissuno y’ ha che mi possa sforzare  mai ad offenderlo.   il. Che uso fo io ora della mia  anima? cpiesta interrogazione con-  vien fare a sè medesimo in ogni  circostanza, ed esaminar sè stesso,  che v’ ha egli ora in quella parte di  me la quale è detta sovrana? e che  sorta d’ anima è ella ora la mia? Non  è un’ anima di fanciullo? o di gio-  vinetto? o di donnicciuola? di tiran-  no? di giumento? di fiera. Quali sieno quelli die al volgo  })aion beni, tu il potrai conoscere  anche da questo. Chi ha preconce-  pito nella mente, qual bene, alcuna  di quelle cose che sono un bene  davvero, come, per esempio, la prudenza, la temperanza, la giustizia. la fortezza, non può, sincliè un tal  concetto gli dura, pre^star più orec-  chio a chi venga a dire in sulla scena,   «Tanta ho di ben dovizia.... eco. I   perchè questo ripugnerà al bene al  (juale egli pensa. Ma chi ha precon-  cepito alcun dei beni volgari, ascol-  terà ed accoglierà con piacere sic-  come arrecato a proposito, quello  che il comico dice. Così persino il  volgo s’ accorge della differenza. Altrimenti non rigetterebbe nell' un .de’ casi quel motto, che accoglie poi,’  siccome calzante e faceto, nell’altro,  quando lo vede applicato alle ricchezze o a quelle altre cose che fo-  mentano la effemminatezza o l’am-  bizione. Fàtti innanzi adunque e  domanda se si hanno da stimare e  [Verso di tm autor comico, che dovea  esser famigerato in sul teatro a quei tem-  pi; il senso del quale, benché Tautore noi  citi intero, appare dall' ultime linee di que-  sto paragrafo]  da riguardar come beni quelle cose  rispetto alle quali può molto accon-  ciamente venir soggiunto, che al  possessor loro, per la soverchia ab-  bondanza, non riman più luogo ove  fare i suoi agi.  Sono un composto di causa e  di materia. Ora nè questa nè quella  non è per ridursi a nulla mai; co-  me neppure non è venuta dal nulla.  Adunque ciascuna parte di me di-  venterà per via di mutazione una  qiìalche parte del mondo, e quella  poi ancora un’ altra parte del mon-  do, e così all’ infinito. Da una simi-  gliante mutazione ho avuto io resi-  stenza, e la ebbero i miei genitori, e  così risalendo, sino ad un^altro in-  finito; perchè nulla osta che si fa-  velli a questo modo, quand’ anche  vogliamo stabilire che il mondo si  regga a periodi determinati.'   1 Allusione alla c conflagrazione del mondo »  domma Eraolitico, la quale doveva accadere. La ragione e V arte ragionativa  sono facoltà che si contentano uni-  camente di sè medesime e delle  operazioni lor proprie. Piglian le  mosse dal principio peculiare a loro;  vanno dirittamente al fine proposto;  ondechè son nomate catortosi le  azioni di cotal sorta, significando col  nome la rettitudine della via. Non è da dire che sia dell’uo-  mo nessuna di quelle cose che non  ispettano all' uomo in quanto uomo.  Non sono punto requisiti dell’uomo,  nè le promette la natura dell’ uo-   a certi tempi, e distruggersi allora tutto  r ordine esistente delle cose, per dar luogo  ad un nuovo. Fu accettato dagli stoici ante-  riori, modificato e cangiato dai posteriori:  tra i quali non volle decider nulla Antonino.  por essere consumato ivi  dal fuoco, se T universo va soggetto a con-  flagrazioni periodiche, o per servire con  vicenda perpetua al rinnovamento di lui  s'egli dura eterno o incorrotto. Beota effectio appo Cicerone, lib. Ili de  Fin., cui vedi. Ciò che in questo § è no-  mato catortoei è l'aziono conforme al dovere,  ed è voce solenne alla scuola.  lYio o attende complemento da quel-  le. Adunque non istà nè anche in  loro 11 fine dell’uomo, nè iLbene. per conseguenza, che è parte integrante del fine. Ancora, se alcuna  di queste coso spettasse all’ uomo,  non ispetterebbe a lui il dispregiarle  o r opporsi ad esse; nè sarebbe lo-  devole chi mostrasse non averne  bisogno; nè sarebbe buono chi se  ne disdice alcuna, se buone elle  fossero, f^ppure, quanto più Tuoino  si priva di queste cotali cose, o so-  stiene d’ esserne privato, tanto più  buono è tenuto.'   IG. Quali saranno i tuoi pensieri  abituali, tale sarà la tua mente:  perché si tigne dai pensieri la men-  te.^ Tignila adunque con l’ abitudine   ' Dunque queste cotali cose non sono veri  beni per l' uomo in quanto è uomo, cioè ragionevole. [Questa conclusione è sott' intesa]. [Demostene più di una volta nelle sue  Filipj iche disse che quali sono le azioni in    (li pensieri come questo, per esempio: Dove si può vivere, quivi si può  anche ben vivere. Nella corte si può  vivere; adunque anclie nella corti;  si può ben vivere. K come quest’ altro: Una cosa eh’ ò fatta a contem-  plazione d' un’ altra, è fatta per qucl-  r altra; se è fatta per quell’ altra, a  quella ò portata; se a quella c por-  tata, quivi è il suo fine; se quivi è  il suo fine, quivi è anche il suo utile  e il suo bene. Adunque il bene del-  r animai ragionevole è la comunità;  sendo dimostrato già da lunga pezza  che per la comunità siam nati> O  non era evidente forse, che gli es-  seri men degni son fatti a contem-  plazione dei più degni, e i più de-  gni, a contemplazione gli uni degli  altri? che gli esseri animati son più  degni che gli inanimati, e i ragio-  nevoli più degni che gli animati?   cui sogliono versare gli uomini, tali soglio-  no pur essere i sentimenti deU’animo loro, Andar dietro all’ impossibile è  cosa da stolto. Ora è impossibile  che i malvagi non facciano cose di  questa sorta. Nulla accade a nessuno, che  egli non sia nato per sopportare.  Le stesse cose accadono a un altro,  il quale, o ignorando eh’ elle sieiio  accadute, o volendo dar a divedere  grandezza d’ animo, sta inaltérabile  e non se ne duole. Tristo a noi, se  la ignoranza o il rispetto umano  avran più forza che la prudenza. Le cose, per sè stesse, non  toccano l’ anima punto; nè hanno  accesso all’ anima; nè posson volger  r anima nè muoverla. Si volge ella  e si muove da per sè sola; e quali  sono i giudizi di che ella si reputa  degna, tali ella fa che sieno per lei  gli oggetti che le stan presso. Cioè, quali io le vedo fare a costui,  ora. Cioè a dire: «quali sono i giudizi che    Per un riguardo, l’ uomo è di  quelle cose che ci toccano il più  strettamente, in quanto convien far  del bene agli uomini e sopportarli;  ma in quanto si oppongono alcuni  alle azioni debite, diventa per me  cosa indifferente 1’ uomo, non meno  che il sole, non meno che il vento,  non meno che le bestie. Dalle quali  cose può benissimo venir impedita  una qualche azione; ma la volontà,  ma la disposizione interna non in-  contrano impedimento mai, per l’ ec-  cezione ‘ con che l’anima accompagna  i suoi conati e pel rimovere, eh’ ella  fa, l’ostacolo. Perchè l’anima ha  facoltà di rivolgere al suo scopo ogni  cosa che s’ opponga alla attività di  lei; e serve quindi ad un’ azione ciò  che impediva quella certa azione, e   ella stima degno di sè il fare delle cose  esteriori, cotali ella fa che per lei sieno le  dette cose. diventa una via ciò che le sbarrava  quella certa via.  Di quanto v’ lia al mondo, onora  r eccellentissimo. L’ eccellentissimo  ò quello che si vale di tutto il resto  e che tutto il resto governa. E così  ancora, di quanto v’ ha in te, onora  l’eccellentissimo. L’eccellentissimo  in te è quello che v’ ha in te di  congenere a quel primo. Di fatti esso  si vale in te di tutto il resto, e da  esso è governata la tua vita. Quello che non offende la città,  non offende il cittadino. Ad ogni  pensiero di offesa che ti paia aver  ricevuto applica questa regola; se la  città non è offesa da costui, non  sono offeso nè anche io. Che se la  città è offesa, non conviene adirarsi,  ma insegnare ‘ a chi l’ha offesa  dove sta il mancamento. Do il mio pieno voto alla correzione  dello Schultz, preceduto dal Gatakero, ben-  ché questi non sapesse così bono porro al  suo luogo le pardo scadute. Considera sovente la rapidità  con die passa e si dilegua tutto  quello che esiste e che nasce. Per-  chè la materia, a guisa d’ un fiume,  è in un flusso perpetuo; le azioni,  in uno avvicendarsi continuo; le  cause, in mille determinazioni di-  verse; nulla, per cosi dire, che stia;  e questo infinito che presso presso  t’incalza, del passato e del futuro,  è un abisso dentro al quale si spro-  fonda ogni cosa. Come adunque non  è uno stolto chi, fra questi termini,  si gonfia, o si travaglia, o guaisce,  per cosa che minimamente il mo-  lesti, come s’ ella avesse pure a du-  rare un buon tratto di tempo? Pensa a tutta quanta la materia, della quale per una minima  parte partecipi; e a tutta quanta la  età, della quale un breve e momen-  taneo intervallo ti è assegnato; e  all’ universale destino, del quale che  parte aliquota sei?  /Ucuno pecca. A me che fa?  Tocca a lui il pensarci; sua è la  volontà, sua 1’ azione. Io ho adesso  quel che la natura comune vuol che  adesso io abbia, e fo quello che la  natura mia propria vuol che adesso  io faccia. La parte sovrana e dominante  deir anima tua stia salda ai moti  della carne, o sien piacevoli o in-  grati, e non vi partecipi, ma circo-  scriva sè stessa e tenga confinate  nelle membra quelle passioni. Che  se elle penetrano ciò nondimeno  sino alla mente, per la simpatia in-  volontaria che han fra loro le parti  d’ uno stesso tutto; allora, al senso,  che è cosa naturale, non -si vuol  tentar di resistere; ma si guardi la  parte sovrana dallo aggiungervi del  suo r opinione che quello sia un  bene od un male.  Vivere con gli Dei. E que-  gli vive con gli Dei, il quale di con-  tinuo appresenta loro T anima sua  disposta di tal maniera che élla si  contenti di quanto le vien distribui-  to e faccia quanto vuole il Genio cui  Giove distaccò da sè stesso e diede  a lei per reggitore e per guida. Questo è la mente e la ragione di  ciascheduno.  T’adiri tu con quello che sa  di caprino? T’adiri tu con quello a  cui pute la bocca? Che vuoi tu che  ci faccia? Egli ha la bocca a quel  modo, egli ha le ascelle a quel modo,  di necessità debbono uscirne esala-  zioni a quel modo. Ma, odo chi  dice, r uomo ha la ragione, e può  scorgere, rillettendo, in che pecca. Egregiamente. E anche tu, dunque,  hai la ragione; eccita, con la disposi-  zione razionale, in lui la disposizione  razionale; ammaestralo; ammonisci-  lo. Perchè, s’egli ti ascolta, lo gua-  rirai, e non c’ è più uopo di collera.   28. ' Nè eroe di tragedia, nè putta. Come fai conto di vivere uscito  di qua,^ puoi vivere in quello stesso  modo anche qua. Che se non tei  permettono, allora esci pur anche  <lalla vita: ma come quegli a cui  non incontra nulla di male. C’è del  fumo qua, io me ne vado. Perchè  stimi questo gran cosa? Ma sin-   [Queste parole nella vulgata stanno alla  fine del § precedente; ma, se non sono cor-  rotte, debbono essere separate e formare da  por sè sole un paragrafo.   2 Cioè, non camminar sui trampoli, e non  istrascinartì per terra: non tanto alto da  parer gonfio o affettato, non tanto basso da  muovere a schifo altrui. Cioè, dalla corto. Allude, secondo che ci avverte il Gata-  kero, al proverbio:« tre esserle cose che ci  caccian fuori dì casa; il fumo, il pioverci  dal tetto, e la moglie astiosa.» Vuol dun-  que che r uomo esca di vita con quella in-  differenza con che uscirebbe dalla camera  dove vi avesse fumo. tantoché nulla di somigliante non  mi sforza a partire, me ne rimango  libero, e nessuno m’ impedirà dal  fare le cose eh’ io vorrò; e vorrò se-  condo la natura d’un animai ragio-  nevole e sociabile.  La mente dell’ universo ama la  comunanza. Perciò ha fatto gli esseri  men degni in grazia dei più degni,  e i più degni ha conciliato gli uni con  gli altri. Tu vedi come essa gli ha  subordinati, coordinati, dato a cia-  scuno secondo il suo grado, e ridotto  a mutuo consenso i primi tra loro. Come ti sei portato sinora con  gli Dei, co’ genitori, coi fratelli, con  la moglie, coi figli, coi maestri, co-  gli educatori, con gli amici, coi fa-  migliari, co’ servi; se, riguardo a  tutti, puoi dire insino ad ora:   « Nè d’ opre mai nè di parole oltraggio   A nullo io fea.* »   ' Omero, Odiss. Kanimenta per quali traversie sei  passato e quali hai avuto la forza  di tollerare: e siccome è piena ornai  per te la storia della vita e termi-  nato r incarico. Che cosa s’ è potuto scorgere in te di bello; quanti  piaceri e quanti dolori hai dispre-  giato; quante occasioni di gloria hai  negletto; a quanti sconoscenti ti sei  dimostrato amorevole. Forse tutto il paragrafo sarà più chiaro,  e il pensiero di Antonino meno ambigua-  mente espresso se diremo: < Qual fosti  infino ad ora verso gli Iddii, i parenti, i  fratelli, la moglie, i figlinoli, i maestri, gli  educatori, gli amici, i servi? Puoi tu dire,  rispetto a tutti: nè d'opra mai, ni di parole  oltraggio a nullo io /«a? De' passati tuoi  casi e delle passate fortune, quante hai  saputo tollerare da uomo? Conchiuso per te  oramai è il dramma della vita, finita la parte  che ti era assegnata. Ebbene, quante sono le  buone azioni che di te puoi ric-ordare?  Quanti piaceri, quanti dolori hai saputo  disprezzare? quante cose stimate gloriose,  * non curare? a quanti ingrati essere bene-  fico e amorevole?» In questo paragrafo il  Pierron ed altri dei migliori interpreti pre-  sero alcuni grossi granchi; 1' Ornato intese   Per qual cagione certe anime  inesperte ed ignare confondono esse  una esperimentata e sapiente? Qual è dunque l’ anima esperimen-  tata e sapiente? Quella che sa il prin-  cipio ed il fine, e conosce la ragione  che penetra la materia delle cose e  governa, secondo cicli determinati,  per tutta la eternità 1’ universo.  Oramai sei cenere, e schele-  tro, e un nome, o nè anco un no-  me; e il nome è strepito e rimbombo  mero. Le cose di che si fa gran  conto nella vita son vuote, fracide,  picciòle, cagnolini che si mordono,  fanciullini astiosi che ridono e poco  stante guaiscono. E la fede, e la ve-  recondia, é la giustizia, e la verità,   oc Air Olimpo, la terra abbandonando  Dalle vie spaziose.* »    meglio di tutti; ma troppo fedele alla let-  tera del testo, non fu chiaro abbastanza  nello esprimerne il senso. Esiodo, opere e giorni, v. 195. Sottin-   Che dunque ti può trattenere qui  ancora? quando le cose sensibili sono  senza costanza nè sussistenza; gli  organi del senso, ottusi- e pronti a  impressionarsi del falso; l’animuc-  cfa * tua stessa, non altro che una  esalazione del sangue; e 1’ aver fama  appo cotali, cosa del tutto vuota.  Che dunque aspetti? Con pazienza  il tuo qual eh’ ei sia o spegnimento  0 traslocamento. Ed intanto che quel-  lo viene, che cosa ti basta? Che  altro, se non venerar gli Dei e bene-  dirli, beneficar gli uomini e soppor-  tarli e astenerti con loro,^ ricordan-  doti che quanto è fuor dei limiti del  tuo corpicciuolo e della tua aniinuc-  cia non è nè in tuo potere nè tuo?    tendi un verbo, recaronsi o altro che più  ti piaccia. P.   t Per antniuccta, intende* spesso Antonino  il principio animale mero, comune anche ai  bruti, vedi la nota (6) in fino del volume. Cioè nelle tue relazioni con loro. Tu puoi prosperar sempre,  giacché puoi andar per la diritta  sempre, giacché puoi giudicare di-  rittamente sempre ed operare. Due  proprietà son queste, comuni al-  l’anima e di Dio ' e dell’ uomo e  d’ogni animai ragionevole: il non  potere essere impedito da altrui, e  lo avere il proprio bene interamen-  te riposto nella disposizione interna  e nella azione conforme alla giustizia, senza che il desiderio arrivi  più oltre. Comuni all'anima e di Dio e dell'uomo. Secondo il concetto stoico Iddio ora  un corpo o un essere vivente ed eterno,  non simile all' uomo, ma composto tuttavia,  come rnomo. d’anima e di corpo. L’unità  del corpo divino coll’anima divina ora per  essi il mondo, e quindi si accordavano a  dire che Dio è il mondo, cioè la materia,  dotata di una certa qualità e forma, colla  forza attiva in essa immanente. L'anima  di Dio sarebbe dunque questa forza attiva  immanente nel mondo, cioè nel corpo divino. Se cotesto non è malizia mia,   ' nè azione procedente da malizia mia, '  nè riceve danno la società, perchè  me ne do io fastidio? E qual dan-  no per la società v’ ha egli? Non lasciarti portar via dalla  immaginazione al primo incontro;  porgi aiuto altrui, sì, a tuo potere  e secondo l’ importanza.del caso,  qiiand’ anche lo scapito non sia se  non di cose mezzane; * ma guardati •  dall’ immaginare che sia un danno.  Perchè è una cattiva abitudine. Come quel vecchio che nel partirsi  domandava la trottola del suo allie-  vo, sapendo bene che ella era solo  una trottola: così hai da fare anche   tu * sui rostri. L’uomo, hai tu  dimenticato che cose son queste? No. Mma costoro ne fanno gran caso. E per questo hai da diventare  stolto anche tu? ® Dovunque il   colga la morte, uomo avventurato. E avventurato vuol dire che ha dato  buona ventura a sè stesso; e buona  ventura sono i buoni moti dell’ ani-  mo, le buone volontà, le buone  azioni. La materia delle cose è ar-  rendevole e piglia volentieri ogni  forma. E la ragione che 1’ ammini-  stra non ha in sè nessuna causa di  mal fare, non avendo malizia, e non  fa (juindi male a nulla, nè nulla è  dannificato da lei. Ed ogni cosa av-  viene ed ha compimento per essa.  Non ti curare che tu stia al  freddo o che tu stia al caldo, quando  fai il tuo dovere; che tu caschi di  sonno 0 che tu abbia a sufficienza  dormito; che te ne venga biasimo o  che te ne venga lode; che tu muoia,  o che tu attenda ad un’ altra azione  qualunque. Perchè ella è anche una delle azioni pertinenti alla vita,  quella per cui si muore; e basta  anche quivi, per conseguenza, ben  disporre del presente.   3. Vedi addentro; nè la qualità  propria di nessuna cosa nè il valore  ti sfugga.  Tutti gli oggetti in brevissimo  tempo si mutano; ed o avvampe-  ranno, se la materia è unificata, o si  disperderanno. La ragione governatrice sa bene  con qual intenzione e che cosa opera,  e su qual materia. Il miglior modo di vendicarsi  d’ una ingiuria è il non rassomigliare  a chi r ha fatta. D’ una sola cosa prendi piacere,  è di quella ti soddisfa; del passare  dall’ una azion sociale all’ altra azion  sociale, ricordandoti di Dio. [Intendi per aziono sociale una aziono  utile alla comunità dogli uomini, e qual si  conviene ad un animalo socievole qual è l’uomo. La parte sovrana è quella che  eccita e volge sè medesima; che fa  sè quale ella vuole,* e fa parere a  sè quali ella vuole tutte le cose che  aw^engono. Secondo la natura dell’ universo  ogni cosa si fa; non potendosi fare  secondo una qualche altra natura la  (piale 0 conterrebbe in sè quella, o  sarebbe contenuta in quella, o sta-  rebbe separata al di fuori di quella. 0 confusion d’ ogni cosa, accozzamento d’atomi, e disperdimento; o unità nel tutto, ordine, prov-  videnza. Se- il primo supposto ha  luogo, come desidero io di rimanere [Cioè che ha il potere di modificare sè  stessa come ella vuole. Se contenesse in sè la prima, non sa-  rebbe più questa la natura universale, ma  r altra; se fosse contenuta in essa, quel  che si farebbe secondo lei sarebbe fatto, a  fortiori, secondo l' altra: e se stesse sepa-  rata al di fuori, ci sarebbe qualche cosa  fuori dell* universo, il che è assurdo. più.a lungo in un guazzabuglio di  quella fatta e lordume? Che altro  mi debbe star a cuore che il « diven-  tare terra a qualunque modo? » E di  che mi turbo io? Verrà il disperdi-  mento a me, checché io mi faccia. Ma se è vero il secondo, adoro il  reggitore dell’universo, e in lui sto  fermo e confido. Quando vieni sforzato punto  punto dalle circostanti cose a tur-  barti, rientra subitamente in te stes-  so, e non istar fuori del ritmo ’ pili  di quello che la necessità ti costringa.  Perchè ti farai più valente nella  misura col ritornare ad essa di continuo. Se tu avessi la matrigna e la  madre nel tempo istesso, alla prima  faresti onore, ma torneresti pur non-  dimeno sempre accanto alla madre.  Cotali son per te la corte e la filosofia [Paragona la vita alla mimica. 0.  Ifarco Aurelio]. Torna sovente alla seconda e in essa ti riposa, la quale fa a te  sopportabil la corte, e te sopportabile in quella. Come ti fai concetto di tale  o tal altra vivanda, dicendo teco  stesso: è un cadavero di pesce, è  un cadavero d’ uccello o di porco;  e del falerno, è succo di grappoletti  d’uva; e della porpora, son peluzzi  di pecora intinti nel sangue d’ una  conchiglia; e del congiugnimento, è  attrito di membrane ed escrezione di  moccio con un po’ di spasmo; come  tu giudichi allora, penetrando col  concetto sino alle cose esse mede-  sime e rappresentandole nella es-  senza loro quali sono; così hai da  fare in tutte le occorrenze della vita;  e quando le cose ti si fanno innanzi  con molta appariscenza, denudarle,  e scorgerne la bassezza, tolto che  avrai d' intorno a loro la pompa onde  si fan magnifiche. Imperocché gran  madre illusioni è la boria; e quando  tu credi più fermamente eh’ elle sieno  serie le cose a cui attendi, allora sei  più affascinato. Vedi che cosa dice Cratete di Senocrate stesso.’  Le cose che il volgo apprezza  sono per la maggior parte di estremo  genere ed infimo, di quelle cioè che  dall’ abito (0) o dalla natura son go-  vernate: pietre, legni, fichi, viti, ulivi,  (rii uomini un po’men rozzi tengono  in pregio quelle che son governate  dall’anima: greggio, per esempio, e  mandre. Gli uomini ancor più còlti,  quelle che son governate dall’anima  ragionevole; non tuttavia in quanto  è universale, ma in quanto è arti-  ficiosa o, come che sia, ingegnosa.    1 StìTi Socrate tu discepolo di Platone, e  famoso per l’austerità del suo carattere,  (guanto al Cratete qui menzionato, ignorasi se fosse il filosofo Cratete di Atene, oppure  il cinico di Tebe; come ignorasi pariraentn  qual fosse il detto a cui si acceuna in questo luogo.  1 m2 ricordi.   V   od anche senza relazione a nulla, '  come il possedere semplicemente  una moltitudine di schiavi.* Quegli  poi che fa stima dell’anima ragione-  vole universale e sociale, non si  cura delle altre cose più punto; ma  si studia di consolidare in istati ed  in moti conformi alla ragione e  volti al bene della società 1’ anima  sua, ed aiuta il suo congenere a far  lo stesso. Una cosa s’affretta a nascere,  iin’ altra a venir meno, e di quella  stessa che nasce ima qualche parte  è già spenta; il flusso e l’alterazione  ringiovaniscono ad ogni ora il mondo,  come lo scorrere non interrotto del  tempo fa sempre nuova 1’ eternità.  Tn tal fiumana di cose che vengono  e passano, che v’ ha egli che altri   1 Intendi che costoro ameranno possedere*  nn gran numero di schiavi come i detti  pocanzi ameranno possedere nna mandra  numerosa. debba aver caro, quando,su nulla  può' far fondamento? Gli è come se  imprendesse ad amare uno degli uc-  celletti che volano, e quegli è già  sparito via.   La vita di ciascheduno è non al-  trimenti che una esalazione del san-  gue o una respirazione dell’aria. Pei>  chè non v’ lia differenza, che tu tragga •  a te l’aria una volta e la renda, il  che tu fai tuttodì, o che tu renda  tutta insieme colà d’ onde l’ hai tratta  la facoltà respiratrice che ieri o ier  l’altro nascendo acquistavi.   16. Non il traspirare, come le  piante, è degno di stima, non il re-  spirare, come i giumenti e le bere,  non il. ricevere impressioni nella  fantasia, non Tesser mosso dagli ap-  petiti, non l’adunarsi in branco, non  il nutricarsi; cosa non dissimile dal  mandar fuori il soverchiò del nutri-  mento. Che è degno di stima adun-  que? lo strepito? No. K per conseguenza nè anche lo strepito delle  lingue. Ora le acclamazioni del volgo  non sono altro che strepito delle  lingue. Anche la gloriuzza hai posto  adunque da banda. Che rimane, che  s«i degno di stima? Il muoversi, pare  a me, e il ristarsi * secondo il prin-  cipio della propria costituzione, al  che conducono ancora le arti e le  culture diverse. Perché ogni arte ha  questo per iscopo, che il formato da  lei sia acconcio alPopra per la quale  è formato; e il vignaiuolo che coltiva  la vite, e il cavallerizzo, e il canat-  tiere, cercano pur questo. E le educazioni, e le scuòle, a che tendono?  Questo adunque è il degno di stima.  E se questo vien condotto a bene,  non occorre procacciar più altro. —  Non finisci di stimare ancora molte  altre cose?* Nè libero adunque sarai   1 L'operare e il non operare. 0.   ^ Cioè, non cesserai dallo avere in pre-  gio molte altre cose?  tu mai, nè bastevole a te, nè im-  passibile; perchè ti sarà mestieri  invidiare, ingelosire, sospettare chi  ti può tórre le cose che stimi, mac-  chinar contro a chi le ha; in fine,  conturbato convien che sia chi  d’ alcuna di quelle è privo, ed ol-  tracciò, che mormori contro agli Dei  bene' spesso; laddove la riverenza  della propria mente e la stima ti  farà accetto a te medesimo, accomo -  devole agli uomini e consonante agli  Dei,* io voglio dire, contento di tutto  che essi distribuiscono e di tutto che  hanno ordinato.  Air insù, all’ ingiù, a cerchio  intorno, son le mosse degli elementi.  La virtù non si muove in nessuna   ^ cDi modo che ciascheduno che procac-  cia di desiderare e fuggire solamente quello  che è da essere desiderato e fuggito, pro-  caccia al tempo medesimo di esser pio -- Epitteto, Manuale, traduz. di  G. Leopardi. Vedi tutto questo capitolo del  Manuale. di queste guise, ma in una certa sua  più divina, e per via mal compren- . sibile procedendo va di bene in  meglio. Che cosa è mai quel che fanno !  Ai loro contemporanei, che insieme  con essi vivono, non voglion dar lode;  ed essi medesimi poi agognano di aver  lode dai posteri i quali non videro  mai, nè vedranno. Gli è come se tu  ti dolessi del ' non aver lode anche  da’ tuoi antenati.  Non ogni volta che una cosa  è malagevole a te, hai da credere  però eh’ ella sia impossibile all’uomo;  anzi, ogni volta ch’ella è possibile  all’ uomo e dimestica, credi ch’ella  è conseguibile anco da te.  Nell’ esercizio della lotta alcuno talora ci graffia, o venendoci  addosso ci percote malamente col   [Merico Casaabono cita qui, siccome  un bel comento a questo §, il saggio di Giobbe, che vuol leggersi tutto  intero. capo. Ma noi diamo a divedere, e  non ce ne tenghiamo olfesi, nè stiamo  in apprensione di lui quindi innanzi,  come se ci insidiasse; ce ne guardiamo, sì, ma non come da nemico, nè  con. animo sospettoso; lo scansiamo  con piacevolezza. Questo medesimo  s’ha da fare in tutte le altre parti  della vita: molte cose lasciar correre,  come tra persone che lottano. Perch’egli si può, come ho detto, schi-  vare altrui, e non averlo però a so-  spetto nè odiarlo.Se altri mi può convincere  e far capace eh’ io penso ed opero  non rettamente, di buon grado son  per ricredermi; perchè io cerco la  verità, la quale non noeque mai a  nessuno. Nuoce bensì altrui il li-  manere nell’ inganno e nell’ ignoranza propria. Quanto a me, io so l’ufficio mio;  le altre cose non me ne distolgono;  perchè o sono inanimate, o irragionevoli, o vanno errate e non conoscon  la via. Gli animali irragionevoli e le  cose in generale a te sottoposte,  quando esse non han la ragione e  tu r hai, usa senza riguardi altera-  mente; gli uomini, che han la ra-  gione, usa come vuol la legge di com-  pagnia. In ogni cosa poi, invoca gli  Dei. E non curarti del più o men  tempo che tu durerai a far cotesto:  perchè bastano anche tre sole ore  cotali. Alessandro il Macedone e il  mulattiere di lui si ridussero, morendo, alla medesima stregua. Perchè,  o furon ricevuti ambidue nelle stesse  ragioni seminali del mondo,' o si  dispersero del pari in atomi. Pensa quante cose, in un  medesimo istante, dentro a ciascuno   * Nel caso che sia vero il sìsteina ato-  mistico di Epicuro. di noi han luogo, relative al corpo  nello stesso tempo ed all’ anima; e  non istupirai che molte più, anzi  tutte quelle che avvengono, coesi-  stano simultanee in quel tutto ed  uno a cui diamo il nome di mondo.   Se qualcheduno ti domanda  come si scriva il nome d’ Antonino,  proferirai tu forse con isforzo di voce  ogni sillaba? E se quegli s’adira,  t’adirerai alla tua volta anche tu?  Non annovererai tu piuttosto, pa-  catamente procedendo, l’una dopo  l’altra le lettere? Cosi hai da fare  anche adesso. Ricordati che ogni  ufficio* consta di certi numeri; col-  r osservare i quali, e non col tur-  barti, e non coll’ adirarti con chi  s’adira, arriverai direttamente al fine,  proposto.  Come è crudele il non per-  mettere agli uomini che seguano quel che sembra a loro convenevole  ed utile? E tu noi permetti, in un  certo modo, quando ti corrucci del  loro fallire. Perchè del tutto e’ non  vi si indifcono se non in quanto il  credono convenevole ed utile a loro.  Ma non è così. Dunque ammae-  strali e falli capaci, senza corrucciarti.  La morte è una pausa alla im-  pressione dei sensi, allo stimolo degli  appetiti, al discorrer della mente èd  alla servitù verso la carne.  È un vituperio che in quella  vita dove non ti s’è stancato ancora  il còrpo, ti si sia stancata innanzi  tempo r anima.  Bada a non incesarirti,* a non  imbrattarti; chè cosi suole avvenii-e.  Conservati adunque semplice, buono,   ^ Intendi: sebbene tu sia stato adottato  nella famiglia dei Cesari, bada a non t«cc-  sarirli, cioè cadere nei costumi viziosi di  molti dei Cesari o imperatori che. ti hanno,  preceduto. intemerato, grave, ingenuo, amico  del giusto, pio, mansueto, amorevo-  le, saldo nell’ adempire al tuo ufficio.  Combatti per mantenerti tale, quale  ti ha voluto fare la filosofìa. Venera  gli Dei, fa’del bene agli uomini. Breve  è la vita; e l’unico frutto di questa  esistenza terrena è la santa disposi-  zione deir animo e 1’ opere indiriz-  zate al comun bene. Ogni cosa da  vero discepolo di Antonino quel  suo vigor costante in ciò che operava  secondo ragione, e 1 umor sempre  uguale, e la santità della condotta,  e la serenità del volto, e la soavità  dei modi, e il dispregio della vana  gloria, e l’ ardore nel voler comprender le cose, e come non avrebbe lasciato andar nulla mai, ch’egli non  avesse ben bene considerato in prima  e chiarito; e come sopportava quelli  che si dolevano di lui ingiustamente,  [Antonino Pio, suo padre di adozione. senza ridolersi egli di loro; come  non faceva mai nulla in furia; come  non dava adito ai delatori; come era  diligente esploratore dei costumi e  delle azioni, non maldicente nè te-  mente i rumori, non sospettoso,  non sofistico; come si contentava di  poco, in materia d’abitazione, per  esempio, di letto, di vestito, di cibo,  di servidori; come era operoso, lon-  ganime, e di tal tempra da poter  durare in uno stesso luogo sino alla  sera, senza aver uopo, per la fruga-  lità del vitto, nè anche di uscire ai  bisogni del corpo fuor dell’ ora con-  sueta; e la costanza e il tenor sempre  uguale nelle amicizie; e il sopportare  che altri contraddicesse con libertà  di parole al suo parere, e rallegrai’si  quando glien era mostro un migliore;  e come era religioso senza supersti-  zione; affinchè, con una buona coscienza pari alla, sua, tu incontri  come egli incontrò l’ultima ora. Esci dall’ ebrezza, ritorna in  te; e cacciato via il sonno, e veduto  ch’eran sogni quelli che ti turba-  vano, risvegliati una seconda volta,  e guarda le cose della vita come tu  guardavi quelle altre. Son composto di un corpicciuolo e d’un’ anima. Al corpicciuolo  tutte le cose sono indilferenti; non  potendo egli nè manco far differenza.  Air anima sono indifferenti tutte  Qui r Ornato volea fare una nota, come  è indicato nel manoscritto, ma non la fece.  Verosimilmente egli volea gìnstiiicare e il-  Instrare la sna interpretazione di questo  luogo, alquanto diversa da quella degli altri interpreti. La traduzione letterale di  tutto il § è cEsci d'ebrezza, richiama te  stesso; e cacciato via il sonno, e veduto che  eran sogni quelli che ti turbavano, desto  una seconda volta, guarda queste cose, co-  me tu guardasti quelle altre.  Intendi anima razionale, la quale per  gli Stoici non era altro che ragione e vo-  lontà, esclusa la sensibilità appartenente  solo airantmwccta, mero principio animale  comune anche ai bruti. quelle che non sono azioni di lei. E  quelle che sono azioni di lei, stantìo  tutte in balia di lei. E di queste an-  cora, quelle sole che riguardano il  presente. Perchè le azioni future  e le passate sono pure indififerenti  per lei. Il lavoro non è cosa contro  natura nè per la mano nè pel piede,  sintantoché il piede fa le cose del  piede, e la mano le cose della mano..  Quindi non è nè anche cosa contro  natura per V uomo, in quanto uomo,  fìnch’egli fa le cose dell’uomo. E  se non è cosa contro natura per lui,  non è nè anche per lui un male. Quanti piaceri non godono i  malandrini, i bagascioni, i parricidi,  i tiranni? Non vedi come gli artisti mec- *  canici condiscendono bene in.qual-  Sottintendi; € hanno importanza per  lei. che cosa agli imperiti, ma non  seguitai! meno però la ragione del-  l’arte, e da quella non si vogliono  distaccare? Non è ella una vergogna  che l’architetto e il medico abbiano  più rispetto per la ragion dell’ arte  loro propria, che l’ uomo per la sua, la quale egli ha in comune con gli dei?   L’Asia e l’Europa son cantucci  del mondo; tutto il mare, una goc-  ciola del mondo; l’ Athos, una zolletta  del mondo; ciascuno degl’istanti pre-  senti del tempo, un punto dell’ eter-  nità. Tutto è piccola cosa, mutabile,  peritura. Tutto vien di colà, da quella  mente comune, o voluto da lei, o per  concomitanza.* E quindi la gola del  leone, e il veleno, ed ogni cosa ma-  lefica, come le spine ed il loto, sono  un accompagnamento e quasi una  produzion necessaria di quanto v’ha d’eccelso e di bello. 'Non immaginai ti  adunque che sien cose aliene da  quello che tu veneri; ma pensa alla  sorgente del tutto. Chi ha veduto le cose d’ adesso,  ha veduto tutte le cose, quante per  gl’ infiniti secoli furono e per gli  jiltri infiniti saranno; perch’ elle son  tutte d' uno stesso genere e d’ uno  stesso coloi'e.  Considera sovente la concate-  nazione di tutte le cose nel mondo  e la relazione dell’ una all’altra. Per-  di’ elle son tutte intrecciate, dirò  così, r una colf altra, e tutte, per  (piesto motivo, amiche l’ una del-  l’altra. Di fatti all’ una vien sempre  dietro 1’ altra; del che è cagione iJ  moto tonico e consenso di tutte e  r unità della rnateiia prima.  Alle cose che ti sono date in  sorte, ti devi adattare; e gli uomini,  coi quali hai comune la sorte, li devi  amai'e, ma amar veramente. Uno strumento, un ordigno,  un arnese qualunque, se è atto, a  tutto quello per che è stato formato,  va bene; ancorché non ci sia più  chi r ha formato. Ma negli esseri  governati dalla natura è immanente  dentro e continua la virtù che li  formò; per lo che conviene ancor  più venerarla, e stimare.che, ove  secondo il voler di quella tu viva,  sia per riuscirti secondo il tuo in-  tento ogni cosa. E questo ò quello  che succede all’ universo, che gli  riesce secondo il suo intento ogni  cosa.   il. Quale che sia la cosa dove tu  riponi il tuo bene o il tuo male,  s’ ella è una di quelle che non di-  pendono dalla tua volontà, di neces-  sità debbe accadere che, incorrendo  tu in quel male, o non conseguendo  quel bene, tu accusi gli Dei, e che  tu odii inoltre gli uomini, i quali ti  saran causa, o i quali tu sospetterai avere ad esserti causa del non  conseguir 1’ uno o dell’ incorrer nel-  l’altro; e molte iniquità, certo, com-  mettiam noi, per non essere indif-  ferenti a siffatte cose. Ma se noi  tenghiamo per beni o per mali quelle  cose soltanto che dipendono da noi,  nessuna causa rimane più nè di ac-  cusare Iddio, nè di stare in ostilità  verso l’uomo. ANBEDUE COOPERIAMO AD UN MEDESIMO FINE. Gl’uniscienti e intelligenti, gl’altri alla cieca; per modo che anche i dormienti, come disse  Eraclito, se non erro, lavorano e  COOPERANO a ciò che si fa nel mondo. L’ uno ci lavora in una guisa, l’altro in un’altra; e ancorché senza  suo prò, ci lavora e coopera anche  colui che si va querelando e fa prova   ' Vedi il § 16 di questo medesimo libro.  Con questo § finisce il volgarizzamento del-  r Ornato, e col § seguente incomincia il volgarizzamento rifatto da me. di resìstere e distruggere l’opera  altrui: perchè anche di questi ha  bisogno il mondo. Rimane dunque  che tu vegga nel novero di quali tu  ti vuoi porre: perchè chi governa  il tutto, saprìi ben valersi di te in  ogni modo, ricevendoti in questa o  in queir altra banda de’ suoi lavora-  tori e cooperatori. Se non che hai  da badare che tu non sia tal parte  della brigata, qual è del dramma  quel povero e ridicolo verso di cui  parla Crisippo. Il sole vuol egli fare le veci  della pioggia? o Esculapio quelle di  Cerere? E gli astri non hanno essi  i loro uffici diversi, ciascuno il suo,    1 Plutarco {de comm. adv. Stoicot) cita le  parole di Crisippo, alle quali allude Anto-  nino: «In quel modo che le commedie hanno  talvolta dei versi ridicoli e facezie che non  hanno alcun valore in sè, ma giovano non-  dimeno all'effetto generale del poema; pa-  rimente il vizio è certamente riprovevole  in sè, ma non è inutile a tutto il rimanente  delle cose.» ma COOPERANTI AMBI AD UN MEDESIMO FINE?  Se gli Dei hanno deliberato  intorno a me ed alle cose che deb-  bono incontrarmi, hanno bene deli-  berato e provveduto: perchè un Dio  senza senno e improvvido non pos-  siamo neppure immaginare. E farmi  del male, per qual motivo l’ avreb-  bero essi voluto? Qual pio ne sa-  rebbe venuto ad essi o al tutto di  che prendono sì gran cura? Che se  non hanno deliberato intorno a me  in particolare, essi hanno al certo  deliberato universalmente intorno a  tutto il complesso delle cose. Io  debbo quindi accettare e aver caro  tutto che mi accade, come conse-  guenza necessaria di quella loro ge-  nerale determinazione. Che se poi  non pensano nè provvedono a nulla  (è una empietà il crederlo; o vera-  mente non facciam più sacrifici, nè  preghiere, nè alcuna di quelle cose che suppongono presenti gli Dei e  viventi con noi); ’ se, dico non pen-  sano nè provvedono in. alcun modo  a niuna delle cose mie; posso io  almeno pensare e provvedere a me  stesso: e mio primo pensiero debbe  essere di conoscere in che consiste  Futile mio. Ora egli è utile ad un  essere qualsivoglia ciò chcs è con-  forme alla costituzione e natura di  lui. La mia costituzione è ragionevole e socievole: la mia società e  LA MIA PATRIA, come Antonino, è ROMA; come uomo, è il mondo. Ciò solo adunque che giova a queste  due patrie, ò utile a me. Ciò che avviene a ciascheduno, è utile al tutto. Questo solo basta. Ma tu osserverai ancora, so  tu ci badi, che per F ordinario ciò  che succede ad un uomo, è utile an-  cora agli altri uomini. Intendo ora   ^ Intendi: «che suppongono la presenza J  e la provvidenza divina.»  r utile nel senso volgare, cioè attri-  buendo utilità alle cose medie. Quello effetto che fanno in te  gli spettacoli degli anfiteatri e di  simili luoghi, chè per essere sem-  pre le medesime cose, ti rechi a  noia il vederle, quello effetto me-  desimo facciano in te tutte le cose  della vita: perchè esse sono, dalla  cima al fondo, sempre le stesse, e  nate sempre dalle stesse. K fino a  quando adunque?  Non cessare di rappresentarti  al pensiero uomini’ trapassati di ogni  fatta 0 di ogni sorta di condizioni,  discendendo anche a Filistione, a  Febo e a Origanione;* passa di poi  ad altri generi di viventi. Colà dob-   I[Vi fu un Filistione poeta comico, contemporaneo di Socrate; vi fu ancora un  Filistione di Locri, il quale era medico, e  da alcuni creduto autore dei libri sulla  dieta che fanno parte della collezione ip-  pocratica. Quanto a Febo e Origanione ci  sono al tutto incogniti. biamo andare anche noi dove sono  iti tanti valenti oratori, tanti gravi  filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate;  tanti eroi prima di loro, tanti capi-  tani dopo, tanti tiranni; e insieme  con loro EUDSOSSO, IPPARCO, ARCHIMEDE altri acuti ingegni, uomini  magnanimi, laboriosi, scaltri, arro-  ganti, beffardi, schernitori di questa  povera vita di un giorno, siccome fu MENIPPO ed altri simili a lui.  Pensa che tutti costoro sono spenti. II celebro matematico discepolo di Platone, il cui sistema è esposto nel XII della  Metafisica di Aristotele; e che insieme cou  Speusippo assorbì tutto il Platonismo nella  teoria dei numeri. A lui si applica, non  meno che a Speusippo,!' osservazione di Ari-  stotele: «la matematica è divenuta tutta  la filosofia del nostro tempo. [Matematico contemporaneo di Tolomeo  Filadelfo, nato in Nicea] [Filosofi» cinico nato a Gadara, dal quale  un certo genere di satiro che furono dette menippee: orasi beffato dei filosofi e delio  loro dispute scrivendo con uno spirito e  una vena inesauribile, che gli fu invidiata,  come pare, anche da Luciano. da gran tempo. Ora che male per  essi? che male per coloro dei quali  non resta pure il nome? Solo una  cosa è qui da avere in gran pregio:  r osservar sempre la veracità e la  giustizia, comportandoci benevol-  mente anche verso i bugiardi e gli  ingiusti.   48. Quando vorrai rallegrare te  stesso, rappresentati al pensiero le  migliori qualità degli uomini coi  quali tu vivi: per esempio, l’ope-  rosità efficace di questo, la vere-  condia di quello, la liberalità di quel-  r altro, e cosi via via. Perciocché  non è cosa che tanto rallegri, quan-  to le sembianze della virtù espres-  se nei costumi delle persone colle  quali viviamo, e quanto più esser  possa, accumulate e frequenti. Vuoisi dunque averle pronte alla memoria.  Ti quereli tu del pesare solo  cotante libbre e non tre cento? Così non ti querelare dello aver a vivere  solo tanti anni e non più. Come ti  tieni per pago e lieto della quantità  di materia che ti fu assegnata, così  accontentati del tempo. Fa’ prova di persuaderli; ma  non lasciar di operare anchh mal-  grado loro, quando ragione di giu-  stizia il richieda. Che se altri ti  impedisce colla forza, volgiti alla  rassegnazione, e serba la serenità  dell’anima, facendo uso di quello  impedimento per l’ esercizio di un’altra virtù. E ricordati che tu vuoi  condizionalmente,* e che non si ri-  chiede da te r impossibile. Ora che  si richiede adunque? Una cotale determinazione di volontà. E questa  [ La volontà giusta è solo scopo e termine di sè medesima, sia o non sia ella  efficace, cioè a dire, sia o non sia seguita  dall' effetto esteriore, il che dipende dalle  circostanze esterne. tu l’hai: il fine a cui sei venuto  nel mondo è conseguito. L’ambizioso ripone il ben suo  nell’ azione altrui; il voluttuoso nelle  proprie passioni; ' il savio nella sua  propria azione. Io posso astenermi dal fare  concetto alcuno intorno a ciò, e non  turbarme nell’anima. Non le cose,  ma noi siamo gli autori dei nostri  giudizi. Fa’ di avvezzarti ad ascoltare  senza distrazioni ciò che altri dice,  e ad entrare quanto più puoi nel-  l’animo di chi favella. Ciò che non giova allo sciame,  non giova neppure alla pecchia. Quando i naviganti mormorano   contro al nocchiero, o gli infermi. Meno stoicamente direbbesi nel soddisfacimento delle proprie passioni, » cioè  nel piacere procurato da questo soddisfaci-  mento. Perchè il piacere stesso è per gli  Stoici una passione, un patire e non un  agire dell' anima. Di  contro al medico,' qual motivo può  moverli a ciò se non se il modo  con che il medico e il nocchiero  procacciano la sanità e la salvezza  loro? Quanti di coloro, coi quali io  venni al mondo, se ne sono già andati!  Agli itterici sembra amaro il  miele, l’acqua è spaventevole al-  r idrofobo, pel fanciullo è bellissimi  una palla. A che dunque mi adiro?  Stimi tu men potente una falsa opi-  nione che la bile nell’itterico, o il  veleno nell’idrofobo?  Niuno può recarti impedimento  al vivere secondo la legge della tua  natura; nulla accaderti contro la  legge della natura comune. Che è il vizio? è ciò che tu  spesso hai veduto. E ad ogni acci-  dente che t’ intervenga abbi apparecchiato questo pensiero, che è cosa  da te spesso veduta. Su e giù, a  dritta e a manca troverai pur sem-  pre le stesse cose, di che sono piene  le antiche storie, le mezzane e le  moderne; di che ora son piene le  città e le case. Nulla di nuovo: tutto  consueto e di poca durata. La fede nei domini come può  venir meno se non se collo spegnersi  di quei pensieri che sogliono ali-  mentarla? i quali sta in te jl ride-  «^tar di continuo. Posso pensare di una cosa quel che ne debbo pensare:  se questo è in mia facoltà, a che  mi turbo? Ciò che è fuori ilella mia  mente, non ha nulla che fare colla  mia mente. Fa’ di essere cosi dispo-  sto e sei ritto. Il risorgere sta in  poter tuo: vedi di nuovo le cose a  quel modo che tu le vedevi: sarà il  tuo risorgimento.'   3. Pompe, trionfi, vani apparati,  drammi che si recitano in sulla sce-  na, greggi, armenti umani, scara-  mucce, ossicciuolo gittate al cagno-  lino, tozzo di pane ai pesci nel vivaio,  affanni e lavorar di formiche,, discorrimenti qua e là di topi spaventati,  fantoccini mossi da un filo. È mestieri  assistere a codeste cose con viso  benevolo e non burbero, ma non  però dimenticare che tanto vale cia-  Pare che ad Antonino in un momento di  sconforto sombrasse aver perduta la fede  nei domrai della filosofia. E si conforta a ri-  cuperarla. Bello e profondo paragrafo, stoicamente considerate] scuno quanto vaglion le cose cui dà  le sue cure. Conviene por mente parola per  parola a ciò che si dice, e atto per  atto a ciò che si fa. E veder tosto  nell’ una cosa qual è lo scopo; nel-  l’altra, qual è il significato.   5. Basta, o non basta il mio in-  gegno a proccurare questo effetto? Se basta, io ne fo uso come di uno  stromento che la natura dell’ universo mi diede. Se non basta, ove  non osti il dover mio, lascio fare  r opera a chi può condurla a fine  meglio di me; ovvero io la fo co-  me posso, giovandomi dell’aiuto di  tale, che possa, scorto dal mio pro-  prio consiglio, recare ad effetto ciò  che è utile ed opportuno alla co-  munità. Perchè questo deve esser  sempre il fine di ciò che io faccia,  sia da per me solo, sia coll’aiuto altrui: l’utile e il convenevole al  comune.   6. Quanti lodatissimi sono già stati  dati all’oblio! e quanti che li loda-  rono sono scomparsi, già è gran  tempo!   7. Non ti vergognare dell’essere  aiutato. Tu ci sei per fare quello che  tocca a te, come un soldato ad una  battaglia murale. Ora se tu, offeso  in una gamba, non potessi solo salire  in sui merli, e ti venisse fatto col-  r aiuto di un compagno? Non ti mettere affanno delle cose  future. Tu arriverai ad esso, se il  dovrai, recando teco quella mede-  sima ragione di che fai uso nelle  cose presenti.   D, Tutte le cose sono reciproca-  mente collegate fra loro; sacro è il  legame che le unisce, e niuna cosa  può dirsi estranea ad un’altra. Esse  sono tutte coordinate insieme e con-  corrono ad ornare lo stesso mondo. Perchè uno è il mondo che è formato  di esse tutte, uno Iddio che penetra  tutto, una la materia prima, una la  legge, una la ragione comune a tutti  t?li esseri intellettivi, una la verità:.  essendo pur anche una sola la perfezione di tutti gli esseri congeneri  e partecipi della stessa ragione. Presto svanisce ogni corpo, risolvendosi nella sostanza universale;  presto svanisce ogni causa, rientran-  do nella ragione universale; e la  memoria di ciascheduna cosa è presto  inghiottita nell’abisso del tempo. Per l’animale ragionevole, la  stessa azione che è secondo natura,  è anche secondo ragione.  Se non sei ritto, dirizzati. Quella relazione che hanno fra   loro le membra del corpo nell’ ani- '  male individuo, hanno fra loro gli  esseri intelligenti nel corpo collet-  tivo della società: tutti sono fatti per  cooperare insieme ad uno scopo comune. E per meglio ricordartene  avrai cura di ripetere. spesso a te  medesimo: io sono un membro del  sistema degli esseri intelligenti. Ma  se tu di’ solamente: io sono una  parte, tu non ami ancora di cuore  gli uomini; il beneficarli non è  ancora per te cosa che per se me-  desima ti diletti e ti contenti: tu il  fai tuttavia per pretto dovere, non  perchè tu senta di beneficare ad un  tempo te stesso.  Accada che vuole al di fuori a  quelle parti che possono ricevere  nocumento da cotali accidenti: se  ne dorranno esse che patiscono,’ se  il vogliono. Quanto si è a me, ove  io non faccia concetto di siffatti ac-  cidenti come di un male, non ne  ricevo nocumento veruno. E sta in  mia facoltà il non fare cotali concetti. Che che altri faccia o dica, a  ine conviene essere uomo dabbene:  per appunto come se V oro, o la  porpora, o lo smeraldo dicesse: che  che altri faccia o dica, a me conviene  essere smeraldo, e avere il mio pro-  prio colore.   16. (7) La parte sovrana non dà  mai noia a sè stessa, vale a dire, non  è mai cagione nè di tristezza, nè di  timore, nè di concupiscenze a sè  stessa. Se altro v’ ha che possa moverla a ciò, vi si adoperi. Quanto a  lei, operando razionalmente, non  sarà mai a sè stessa cagione di cotai  moti. Provveda il corpo, se può, al  non avere a soffrire; e se soffre, lo  dica. Quanto si è all’animuccia, nella  (filale veramente cade la tristezza e  il terrore, basterà solo che la parte  ove si formano i giudizi* del terribile   [Animuccia; intendi il principio della  &dìoi&1o   e del tristo, non dia luogo a quelli:  essa animuccia non ha attitudine a  formare giudizi cotali. La parte sovrana, considerata in sè, non ha mai  manco di nulla, ove ella non venga  meno a sè stessa: e similmente non  è mai turbata nè impedita, ove non  turbi o impedisca ella sè medesima. Beatitudine vuol dire buon  genio, vuol dire mente buona. Che  fai dunque tu qui, o immaginazione?  Va’ via, te ne prego per gli Dei, vat-  tene come sei venuta: non ho bisogno  di te. Tu sei venuta secondo l’usanza  tua vecchia. Non mi adiro teco; ma  vattene.  V’ha chi teme il mutamento?  Ma che può farsi mai senza muta-  mento e trasformazione? E che v’ha  di più caro, di più proprio e consueto  alla natura dell’universo? E puoi tu  stesso prendere un bagno se le legna  non si trasformano? puoi tu nutrirti,  se non si trasformano i cibi? E v’ha egli alcuna delle altre cose necessarie  alla vita che possa elfettuarsi senza  trasformazione? Non vedi tu dunque  che il dovere tu ancora essere trasformato, va del pari con tutte le  altre trasformazioni,, ed è parimente  necessario alla natura dell* universo?   19. Per entro la sostanza dell' uni-  verso, come per entro a un torrente,  passano tutti i corpi connaturati a  (jiiello, siccome sono connaturate a  noi, e cooperano con noi le nostre  membra. Quanti Crisippi ha già inghiottiti il tempo, quanti Socrati,  quanti Epitteti! Lo stesso sovvengati  (l;ogni altro uomo, o cosa qualsi-  voglia.  Una sola cosa mi turba: la tema  di far cosa che la natura dell’ uomo  non voglia, o come essa non voglia,  o quando essa non voglia. Presto avrai tutto obliato, e  presto ancora sarai obliato da tutti. È proprio dell’ uomo l’ amare anche colui che ci offende. Il che ti  verrà fatto se tu penserai che egli è  pur tuo congiunto,^ che ha peccato  per ignoranza e suo malgrado, che  fra poco sarete morti ambidue, e so-  pra tutto che egli non ti ha nociuto:  perchè non fece peggiore che olla  prima si fosse la tua parte sovrana. La materia comune di tutte le  cose è nelle mani della natura universale, come la cera in quelle dello  scultore.^ Ora ella ne fa un cavallo,  poi, rifusa la materia del cavallo, ne  fa uso alla produzione di un albero,  poi a quella di un omiciattolo, poi  a quella di qualche altra cosa, e  ciascuna di queste cose dura un  brevissimo spazio di tempo. Ma e'non  è oggi più tremendo pel forzierino  r essere sconficcato e disfatto, che  non fu ieri 1’ esser fatto. Il quale si serve di essa cera per fare  i modelli delle sue statue. II livore in sul viso è cosa  contro natura, da che spesso vi al-  tera anche il colore che naturalmente   10 abbellisce, e che alla fine vi si  spegne in modo da non potervisi più  ravvivare. Questo ti provi che è cosa  eziandio contro ragione: perchè se  anche la coscienza del peccare si  perde, qual motivo di più vivere? Tutte le cose che vedi, già già  le viene mutando la natura reggitrice  del tutto, la quale ne farà altre della  materia loro, e poi altre della ma-  teria di queste, affinchè il mondo  sia sempre giovane.   Quando altri ti offende in che  che sia, considera tosto qual cosa  egli abbia dovuto estimare come un  bene o come un male perchè fosse  così mosso ad offenderti. La qual  cosa scorto che tu abbia, tu avrai  compassione airuomo, e cesserai dal maravigliarti e dallo adirarti. Perdiè  o tu stesso stimerai tuttavia come  un bene o come un male quella  medesima cosa od altra somigliante;  e allora gli si vuol perdonare; o tu  farai altra estimazione ch’egli non  fece, e più facilmente benigno sarai  a chi travide malgrado suo.  Non pensare alle cose che tu  ancora non hai come se tu g»à le  avessi. ^Ma facendo piuttosto il no-  vero delle più comode tra quelle che  liai, sovvengati quale studio porresti  in procacciarle se tu non le avessi.  Bada nondimeno che questo tuo  averle in grado non ti venga avvez-  zando a stimarle in modo da turbar-  tene poi quando elle ti mancassero. Ravvolgiti in te stesso. La parte sovrana e ragionevole dell’ uomo ha  natura tale che basta a sè quando  agisce rettamente e sa trovare in  ciò la sua quiete.   29. Cancella le immaginazioni, raffrena gli appetiti, circoscrivi il pre-  sente del tempo. Conosci ciò che  accade a te e ad altrui. Dividi e ri-  solvi ne’ suoi elementi, la parte  causale c la parte materiale, ogni  oggetto di appetizione o di aver-  sione. Pensa all’ ultima ora. Lascia  stare il peccato altrui colà dove ò  nato.   no. Segui col pensiero le altrui  parole. Penetra coll’ acume della  mente nelle cose che si fanno e nel-  r animo di coloro che le fanno.   31. Adornati di verecondia, di sem-  plicità e di indifferenza verso tutte  le cose che non sono nè virtù nè  vizio. Ama il genere umano. Obbedisci a Dio. Tutto le cose, disse  colui, si fanno secondo una legge  immutabile. 0 gli Dei, o gli atomi. Ma basta il ricordare che tutto si fa   [Cioè a dire: o v' ha una provvidenza  divina, o non v' ha, secondo il sistema ato-  mistico di Epicuro. secondo una legge. Ma troppo è anche  il poco già detto. Quanto alla morte, o essa a un disperdimento, se la vita ò un  accozzamento fortuito di atomi o altra  aggregazione qualsiasi. Ovvero essa è uno spegnimento, ovvero un  traslocamento. Quanto al dolore, se è intollerabile, ti uccide. Se dura, è tollerabile. E la mente conserva la sua tranquillità se si raccoglie in sè stessa:  e la parte dominante non si è fatta  peggiore. Quanto alle parti che sono  offese dal dolore, ce lo dicano se il  possono. Quanto alla gloria, vedi le menti  loro, quali cose fuggono e quali cose  ricercano. E ancora, che a quel modo  stesso che gli strati di arena novel-  lamente gittati in sul lido ricoprono  i precedenti; similmente nella vita  le cose nuove ricoprono, sovrappo-  nendosi, per così dire, ad esse, e fanno dimenticare quelle a cui succedono.   Di Platone: Ad uomo di  eccelsa mente, al quale sia dato di  abbracciar col pensiero tutta la serie  dei tempi e l’ università degli esseri,  credi tu che la vita sia per sembrare  un gran che? Impossibile, disse  quegli. E la morte, per conseguenza. non sarà punto stimata da  lui una tremenda cosa. — No certo. »   Di Antistene: Operar bene  ed essere lacerate è cosa da re.  È vergogna che il volto ubbidisca alla mente e si componga ed  assesti come ella vuole; e che la  mente poi non sappia comporre e«l  assestar sè medesima.  Contro le cose lo adirarsi è vano,  Ch'esse non se ne curano. 1 Fiat. Rep. lib. VI. [Lacerato, intendi, dai maldicenti. Plutarco negli Apoftegmi attribuisce questo detto ad Alessandro]. [Tratto dal ‘Bellorofonte’, tragedia perduta di Euripide. E gli immortali e noi di te fa lieti. Mieter la vita  Come spica matura, e morir l' uno,   E viver l’altro. Sed ime vède’nii eigl’ilddii non curano,  Ciò pure ha sua ragione. Che il bene e il dritto è dalla mia. Non pianger con altrui nè esultare.  (Di Platone). A chi mi favellasse in colai guisa, potrei con giu-  stizia rispondere: Tu erri dal vero,  o amico, se tu credi che un nonio  di qualche vaglia debba, quando im-  prende a far che che sia, computare  le probabilità dello avere a morire  0 a vivere; e non piuttosto conside-  rare unicamente se ciò ch’egli im-   t Nel testo è un verso esametro, ma igno-  rasi onde 1' abbia tratto Antonino. P.   2 Due versi dell' Isipile, tragedia perduta  di Euripide. II primo di questi due versi è citato  anche al § 6 del lib. XI, come verso di un  tragico; ma il nome del poeta non è noto. D’ ARISTOFANE negli Acarnesi. P.   5 I §§ 44 e 45 sono tratti dall’Apologia  di SOCRATE; il § 46 dal ‘GORGIA’] prende a fare sia giusto od ingiusto, se  azione da uomo dabbene, o da tristo. Perchè così è veramente, o  Ateniesi: quale che sia il posto che altri scelse nell’ordinanza, giudicatolo  il migliore, o in che sia stato collocato  dal capitano; egli vi dee perseverare,  secondo che mi pare, e sostenervi tutti i pericoli, non avendo in conto di  nulla la morte ne altro checchessia,  in paragone della disonestà e vergo-  gna che sarebbe lo abbandonarlo.   Ma bada bene, o valentuomo,  che altra cosa non sia la gentilezza,  d’animo e la virtù, ed altra il pro-  cacciare salvezza asèe ad altrui; e  che ufficio deir uomo, dico chi voglia  essere uomo veramente, non sia per  avventura, anziché lo ingegnarsi di  campar lungo tempo avendo cara  sopra ogni altra cosa la vita, il ri-  mettersene piuttosto a Dio; e pre-  stando fede a ciò che dicono le fem-  mine. essere inevitabile il destino di ciascheduno, studiare il modo di vi-  vere, il più virtuosamente ch’ei può.  quel tempo che ha a vivere. Contemplai’e il giro degli astri  accompagnandoli, per cosi dire, nel  loro corso; e ripensare di continuo  al perpetuo tramutarsi degli elemen-  ti da una in altra forma. Cotali pensieri purgano l’anima dalle lordure  di questa vita terrestre.   48. Bello è quel luogo di Platone:  « Chi ragiona* degli uomini, deve an-  che osservare, come da un’ alta ve-  detta, tutte queste cose terrene:  adunanze popolari, eserciti campeg-  gianti, agriculture, nozze, divorzi,  nascimenti',’ morti, strepiti di tribu-  nali, contrade inabitate, varietà di  nazioni, feste, lutti, mercati, e que-  sto miscuglio di tutti i contrari, e  l’ordine di questo miscuglio di che  si compone il mondo. Questo brano di Platone non si trova  nelle opere che ci rimangono di lui. E’ giova il rimembrare le cose  che furono prima di noi: tanti mu-  tamenti, tanti e sì grandi rivolgi-  menti di stati. Puoi anche conside-  rare le cose che seguiranno in futuro,  perchè esse saranno pur sempre  ti’ un taglio, e non è possibile che  escano mai del tenore usato infino  ad ora. Onde che tanto vale il ri-  cercare gli eventi di che si compone  il vivere umano ^ in un periodo di  t^uarant’ anni, quanto in uno di dieci  mila. Che potresti trovare di più? E questo. Ciò die fu terreo torna alla terra;   Ciò die d’ etereo seme è germoglio.   Del deio etereo torna allo sfere. Che vuol dir ciò? Separazione degli  atomi terrei che erano insieme ag-  gregati, e somigliante separazione  degli elementi attivi.^   ^ Intendi il vivere dell' umanità, o non  deir individuo umano. Gli elementi attivi erano, secondo gli  dE con cibi il torrente e con bevande  £ con incanti di stornar proccnra  Perchè a morte noi tragga. Con quel vento   Che Dio ne manda navigar ci è d'uopo,  £ non spargere inutile lamento.»  Pili valente nella lotta, ma  non piò devoto al ben comune, non  piò verecondo, non piò indulgente  e piò benevolo verso il prossimo  che ha peccato. Ogni volta che può condursi a  fine una impresa secondo i precetti  della ragione comune agli Dei e agli  uomini, non hai nulla da temere:  perchè dove sta in te lo avvantag-  giarti coir esercizio libero della tua  operosità, procedendo secondo la  costituzione dell’ uomo, quivi non è  luogo a timore di avere a soffrire  alcun danno.   stoici, Paria e il fuoco, con che intende-  vano il freddo e il caldo; i passivi, la terra  e l’acqua. In ogni luogo e in ogni tempo  è in tua facoltà lo acconciarti di  buon grado e con pia rassegnazione  all’ evento che ti occorre; e il por-  tarti con rettitudine verso gli uomini  coi quali ti trovi; e il vegliare dili-  gentemente con quelli spedienti che  tu sai sopra ogni tuo pensiero pre-  sente, affinchè non v’entri inavver-  titamente nulla che tu non abbia  perfettamente compreso.  Non andare investigando in  qual modo credano di doversi governare gli altri, ma guarda dritto  . Non andare investigando gli altri. [Intendo: non curarti di ciò che le menti  degli altri approvano o disapprovano; bada  dirittamente a ciò che approva la tua. Noto  questo perchè altri non creda essere il qui  detto da Antonino cosa contraria a ciò che  disse in molti altri luoghi, e segnatamente  nell’ Vili, 61: entrare nella parte sovrana di  ognuno. Le sono due cose diverse. In quanto  al tuo operare, non badare a ciò che le menti  degli altri prescrivono, bada a ciò che prescri-  ve la tua. In quanto ai giudizi che tu fai degli altri, entra il più che puoi nelle menti loro,  per vedere quai motivi li spingano. allo scopo verso il quale ti scorge  la natura universale per mezzo degli  eventi che essa ti manda; e la tua  propria natura per mezzo dei doveri  che essa ti impone. E dovere di cia-  scheduno sono quelle azioni che cor-  rispondono al fine pel quale è stato  formato. Ora gli esseri non ragio-  nevoli sono stati formati per gli es-  seri ragionevoli (come universal-  mente tutte le cose che hanno minor  valore, per quelle che ne hanno un  maggiore); e gli esseri ragionevoli,  gli imi per gli altri. Primo dovere  adunque dell’ uomo, in conseguenza  della sua costituzione, è di cooperare  al bene di tutti i suoi simili. Il secondo è lo star saldo contro gl’appetiti e le AFFEZIONE DEL CORPO. Essendo  proprio della forza razionate e intellettiva il serbarsi pura e distinta,  circonvallando, come a dire, sè stessa, e noh essere vinta mai dalla  t Vale a dire che non deve ammettere in forza sia sensitiva sia appetitiva. Perchè queste due forze sono animale-  sche, e sopra di esse quella vuole  aver primato e signoria, e non la-  sciarsi signoreggiare da esse. E con  ragione: quella essendo fatta per  servirsi di queste. Terzo dovere del-  r uomo \i è il procedere cautamente  ne’ suoi giudizi, per non cadere in  errore. A queste cose applicandosi  la parte tua sovrana, compia per la  diritta via il suo corso; ed ha tutto  ciò che le spetta. Come se tu avessi dovuto mo-  rire testé e fornito già tutto il corso  della tua vita; vivi secondo natuia  (piei giorni che ti rimangono, con-  siderandoli come un soprappiù che  tu non avessi sperato.’   se alcuna mistura di elementi estranei alla  sua natura,. e apparir quindi distinta con  taglio nettissimo da tutto ciò che ha na-  tura diversa dalla sua. [A  quel modo che se ci trovassimo al punto della Cari ti sieno quelli eventi soltanto che t’ incontrano, e sono quindi come a dire contesti insieme collo  stame della tua vita. Che potresti  desiderare di più accomodato a te? Ad ogni accidente che ti occorre abbiti davanti agli occhi coloro  ai quali incontrarono le stesse cose;  ed essi se ne adirarono, parve loro  strano, se ne querelarono. Ora dove  sono coloro? In niun luogo. Perchè  vuoi tu dunque rassomigliar loro? e  non lasci piuttosto a chi li vuole  quei moti alieni da te, e non badi  unicamente all’ uso che devi fare  deir accidente intervenuto? Perchè  tu ne farai buon uso, e ti sarà nuova  materia a virtuosamente operare,  solo che tu intenda ad esser uomo   morte senza speranza di riaverci e consi-  derassimo la nostra vita trascorsa; ci dor-  remmo di averla male impiegata, e vor-  remmo caldamente impiegarla meglio per  l’avvenire, scampando; cosi dobbiamo vo-  lere ora ec. dabbene agli occhi tuoi propri, sia  qual si voglia la cosa che tu faccia; e  ti sovvenga di queste due verità: im-  portare assai quale sia l’ azione, e non importare nulla in che cada razione. Guarda dentro di te. Ivi è la  fonte del bene, la quale non sarà  esausta mai, solo che tu ci vada  scavando di continuo.   60. Anche il corpo, e nel cammi-  nare e nello stare, serbi un contegno  egualmente alieno dalla avventatezza  e dalla mollezza. Imperocché siccome l’anima si rivela nel volto, imprimendovi un certo che di assennato  e di composto; così ella dee rivelarsi  anche nel rimanente del corpo. Ma  ciò vuoisi fare naturalmente, senza  che vi appaia studio nè affettazione.  La volontà giusta è per gli Stoici solo  scopo e termine di sè medesima, sia, o non  sia ella efficace, cioè a dire sia o non sia  seguita dall' effetto esteriore, il che dipende  dalle circostanze esterne. La virtù sola è  huona.essa sola basta alla beatitudino. L’arte del vivei e virtuosamente  rassomiglia piuttosto all’arte della  lotta che a quella della danza, in  quanto bisogna essere apparecchiati  ad ogni accidente non preveduto, e  saldi per non cadere. Non cessare di recarti a mente  le qualità di coloro dai quali vorre-  sti essere lodato, e quelle delle menti  loro. Così non ti avverrà di trascor-  rere all’ ira contro uomini che fallano  malgrado loro, nè ti curerai dell’es-  sere da loro lodato o biasimato, ve-  dendo qual sia la fonte onde moiVono  i giudizi loro e le loro azioni. Non per sua elezione, dicea  quegli, ma sempre malgrado suo, è l’anima umana priva del vero.' E   [La sentenza è di Platone, ed è citata anche da Epitteto (Dissert.),  il quale nomina T autore. Nel Sofista parti-  colarmente, Platone intende a provare che  r ignoranza è sempre involontaria, e che  sempre malgrado suo è l’uomo privo della cognizione del vero. parimente malgrado suo è priva della  giustizia, della temperanza, della  mansuetudine e di tutte le altre cose  cotali. Sommamente importa che tu  r abbi sempre a mente: sarai più  mite c be_nigno inverso di ognuno.   Oi. In ogni caso di dolore abbi  apparecchiato questo pensiero, che  non è cosa disonesta, non tale da  far peggiore la mente che ti gover-  na: perocché non le nuoce nè in  quanto ella è ragionevole, nè in quan-  to ella è socievole. Nel maggior nu-  mero dei casi troverai soccorso efficace anche in quel detto di Epicuro:  il dolore non esser mai nè intollerabile nè di lunga durata, solo che  tu non lo ingrandisca colla tua im-  maginativa, nia lo vegga ne' limiti  suoi naturali. Avverti ancora che  molte cose ci muovono ad atti di  impazienza senza quasi che vi ponghiaino mente, le quali non sono  pur altro che dolore: siccome lo  aver sonno quando vorremmo veglia-  re, r essere travagliati dal caldo, o  r avere inappetenza. Ora quando tu  sostieni malvolentieri alcuna di que-  ste cotali cose, di’ a te medesimo  che tu hai ceduto al dolore.*   65. Bada a non comportarti mai  verso i disumani, come i disumani si  comportano verso gli altri uomini. Come sappiamo noi che Telauge, quanto alle disposizioni dell’animo, non soprastasse a SOCRATE? [Intendi che non basta reggere ai dolori  gravi, ma conviene saper vincere anche i  leggieri: coi quali sovente non ci pigliani  briga di combattere, perchè la loro piccio-  Iczza fa che non ci badiamo; o ci troviamo  vinti senza accorgercene. In quei casi, dico  r autore, di’ a te stesso: « ho ceduto al do-  lore: » qnasi volendo, col rammentare quel  nome, che è il vero, faro a sò stesso parere  più gravo il caso,o destare cosi la sua attenzione. [Filosofo del quale Eschine Socratico  diede il nome ad uno de' suoi dialoghi].  Imperocché non basta che la morte  di SOCRATE Socrate sia stata più famosa, nè  eh’ egli abbia fatto prova di mag-  giore sagacità nel disputar coi sofisti, di maggiore fortezza col pas-  sare la notte in sul ghiaccio, di più  nobile coraggio col disobbedire al  comando di andare a prendere quel-  r uomo di Salamina,' nè eh’ egli  camminasse per le vie con altero  contegno: la qual cosa sarebbe mas-  simamente da considerare quando  fosse vera. Ma vorrebbesi vedere  quale intimamente fosse l’animo di  Socrate. Se egli potea contentarsi  dell’ esser giusto verso gli uomini e  [Quest’ nomo chiamavasi Leone e posse-  dea grandi ricchezze. Delle quali i trenta  tiranni sperando poter fare lor preda, avea-  no comandato a Socrate che andasèe, ac-  compagnato da altri quattro, ad arrestarlo.  Socrate, con pericolo della sua vita, disub-  bidì al comando. Questo fatto è ricorda-  to nell’ Apologia di Platone, da Eschine  il Socratico, da Diogene Laerzio e da Epitteto. santo verso gli Dei se non gli accadesse mai di adirarsi ciecamente  contro il vizio, nè di servire all’altrui  ignoranza, nè di accogliere come  strana o incomoda o intollerabile  veruna delle cose che gli venivano  compartite dal tutto,* nè di lasciare  che la mente sua partecipasse delle  affezioni della carne. Cioè [8’ egli riponeva in ciò solo, nella  santità e nella giustizia, la sua felicità,  Renza nulla desiderare di più. Da queste parole di Antonino non bassi  ad inferire che egli particolarmente dubi-  tasse della grandezza mórale di Socrate;  ma esse vogliono piuttosto esser prese in un  senso generale, servendosi Antonino del nome illustre di SOCRATE, come di un esempio,  por avvertire quanto sia malagevole il giudicare del valore morale degli uomini da  alcune loro azioni esteriori, sieno buone o  sieno cattive; e come l’eccellenza morale  non consista solamente nel compiere este-  riormente qualche grande atto di virtù, ma  richiegga inoltre tutte quelle disposizioni  intime e abituali di cui fa la rassegna. Detto di Fociono. La mente non fu dalla natura  mescolata per modo e confusa in-  sieme col corpo che essa non possa  distinguersi da esso e come a dire circonvallare sò medesima, ed eser-  citare libera signoria sopra ciò che  è ‘suo; sendo che possa darsi benissimo che un uomo sia sommamente buono, e che nissùno il vegga. Questo abbiti a mente, e ancora, che  in pochissime cose consiste il vivere Ecco come intendo io questo luogo: Noi  conosciamo altrui dalle azioni e dalle parole, quindi sempre per qualche organo corporeo, quindi dal corpo. Ora può benissimo  immaginarsi il caso che un uomo moralmente eccellente sia posto in tali condizioni, o per malattia, o per estrema povertà,  0 altra forza esteriore, da non poter usare  in verun modo del corpo per compiere alcuno di quelli atti che sono la manifestazione esteriore delle disposizioni virtuose  deir animo. In questo caso esse non potranno essere conosciute. E però quando  Antonino dice: «esercitare libera signoria  sopra ciò che è suo, non vuol dire sopra  il corpo, ma sulle facoltà stesse della mente. felice. E per ciò che tu abbia dispe-  rato di dover essere mai eccellente  nella dialettica o nella fìsica, non  disperare medesimamente di dover  esser libero, e verecondo, e socievole, e obbediente a Dio. Vivere non vinto da alcuna  forza esteriore e colla più grande  contentezza d’animo, ancora che tutti  gli uomini schiamazzino a posta loro  contro di te, e le fiere mettano in  brani le membra di codesta conge-  riedi carne e d’ ossa che ti è venuta  crescendo intorno; sì' tu lo puoi. E  che v’ ha in fatti in tutti questi co [tali casi, che possa impedire la mente  tua dal serbarsi mai sempre imperturbata, dal fare sempre giusta estimazione delle cose circostanti e uso  ragionevole degli accidenti che intervengono? Per tal modo che la tua  facoltà giudicativa dica all’ oggetto  presente: « secondo T opinione tu sei  altra cosa; ma Tessere tuo vero, è  cotale. E la tua facoltà operativa  dica immantinente all’ accidente in-  tervenuto: « te appunto io cercava:  perchè io non ho altro intento che  di operare razionalmente e socievole  mente, e tutto che accada me ne  porge occasione, tutto può essere  materia ad esercitare questa virtù,  quest’ arte umana e divina. Perchè  qualsiasi cosa che intervenga, ha qualche relazione di convenienza o con  Dio 0 con l’uomo, e può questi acconciarvisi, e non è mai nuova nè dif-  ficile, ma sempre nota e consueta, e facile 1’ uso che hassene a fare. Perfettamente costumato è co-  lui il quale vive ciascun giorno come se quello fosse l’ ultimo. Non mai  affannosamente operoso, non neghittoso, non infinto mai.  Gli Dei che sono immortali,  non indispettiscono d’ avere del continuo a tollerare, e per tanta durata  di tempo, tanti e cotali dappochi: ed oltre a ciò prendono ogni cura di  loro. E tu che oramai sei per finire,  tu rinneghi la pazienza, e quando sei  tu medesimo uno di quel novero? È cosa da ridere che l’uomo  non voglia fuggire la propria malizia,  il che è possibile e voglia poi fuggire la malizia, il che è  impossibile. Tutto ciò che la ragione speculativa e civile non vede essere ragionevole e socievole, è da lei giudicato inferiore a sè stessa. Quando tu fai del bene ed io ricevo quel bene, che vai tu cercando, come gli stolti,  una terza cosa di più, cioè, che si sa che tu fai del bene, o che te ne sia reso il contraccambio? Nissuno si stanca del ricevere giovamento ed è a giovamento nostro  [Cioè del novero di quei dappochi, anche per la ragione appunto che tu non sai tollerarli, come sarebbe tuo dovere di fare] e d’altrui ogni azione conforme alla natura. Non istancarti dunque di giovare a te medesimo col giovare ad altrui. La natura universale produsse il mondo. Ora o tutte le cose che succedono nel mondo sono conformi  alla intenzione di quella natura; ovvero sarebbero *sragionevoli*, cioè dilformi dalla detta intenzione, anche talune delle cose principali che si fanno  pel ministero particolare della mente che governa il mondo. In molti casi sarai più tranquillo se avrai questo a mente. A ritrarti dal vano amore della gloria giove anche il considerare come non è più in poter tuo il fare che tu sia vissuto da FILOSOFO tutta la tua vita, cioè insino dalla giovanezza: cioè anzi molti si ricordano di un tempo, e te ne ricordi benissimo tu stesso, nel quale tu eri LONTANO DALLA FILOSOFIA. Sicché tu sei contaminato. Non è dunque più facil cosa per te l’acquistar rinomanza di FILOSOFO al che si oppone anche  la condizione del tuo stato. E però, se tu hai veramente scorto dove batta il punto, lascerai da banda il pensiero dell’opinione che altri sia per avere di te, e ti contenterai di vivere conforme alla tua natura quel rimanente di vita che ti è conceduto. Pensa adunque che cosa vuole la tua natura, e niuna altra cura ti  distragga da ciò. Perchè tu sai bene di quante altre cose hai voluto fare esperimento e in nissuna di esse hai TROVATO LA BEATITUDINE. Non nei sillogismi, non nelle ricchezze, non nella  gloria, non NEL GODIMENTO DEI PIACERI, in niun luogo, insomma. Dove sta  essa adunque? Nel fare ciò che richiede la natura dell’uomo. E come fai tu cotesto? Lo fai, se hai la credenza che e produttrice di quella azione. Quale credenza? Quella intorno al buono ed al malo. Non essere il buono per l’uomo ver una cosa che non lo faccia essere giusto, temperante, forte  e libero. Non essere il malo veruna cosa che  non lo faccia essere il contrario. Cioè non lo contamini del vizio opposto alla VIRTÙ. Ad ogni tuo atto interrogate  medesimo. Che relazione ha esso con me? Non avrò io da pentirmene? Ancora un poco e son morto e  tutto è finito. Se ciò che so ora è  conforme alla natura di un essere  intelligente, socievole e avente le stesse leggi che gli’idei, che cerco io di più? Alessandro, o Caio, o Pompeo, che e rispetto a Diogene, Eraclito, o Socrate? Diogene, o Eraclito, o Socrate conosce la cosa e la causa e la materia de la cosa;  e la parte sovrana e in Diogene, o Eraclito, o Socrate, veramente sovrana. Ma quelli, che cosa Giulio Cesare. seppero prevedere? E di quante non sono schiavi? Credi pure che non cesseranno di fare la medesima cosa quando pure tu avessi a scoppiare predicando il contrario. In primo luogo non turbarti. Ogni cosa succede secondo la natura dell'universo. E tra breve tu non ci sarai più in nissun luogo, siccome non ci *sono* più. Nè Adriano  nè Augusto. Di poi affisando lo sguardo nella cosa, vedi che è. E rammentando che ti bisogna essere uomo dabbene e quello che richiede la natura dell’uomo, fallo senza guardarti indietro, e favella ciò che a te *sembra* esser giusto, ponendo  mente soltanto che questo tu faccia e dica sempre con amorevolezza, con verecondia e senza simulazione. Intendi la cosa che ti turba. Questa faccenda ha la natura  dell’universo. Trasportare colà le cose che sono qui, cangiarle, tramutarle da uno in altro luogo. Tutto è mutazione. Non però in modo che s’abbia a temere nulla di nuovo. Tutto  è cosa solita ed anche tutto è distribuito egualmente. Ogni natura qualsiasi è contenta di sè, quando procede libera  nella propria via. E la natura ragionevole procede libera nella sua via, quando non assente ad alcuna rappresentazione falsa od oscura, quando indirizza i suoi sforzi verso la sola cosa che e utile al comune, quando non ischifa nè appetisce se non la cosa che e in nostro potere, quando si accomoda. Il tutto non è che un giro; onde che non v' ha nulla di nuovo da temere. Di buon grado ad ogni cosa che le venga compartita dalla natura comune. Perchè essa è parte di questa, a quel modo stesso che la natura della foglia è parte della natura della pianta. Se non che la natura della  foglia è parte di una natura senza senso e senza ragione, e che può  essere impedita. Dove che la natura  dell’*uomo* è parte di una natura che non è sottoposta a ricevere impedimento ed è intelligente e giusta. Poiché distribuisce egualmente, e secondo i meriti di ciascheduno, il tempo, la sostanza, la causa, razione, l’accidente. La quale egualità di distribuzione potrai osservai e se tu paragm. r^rai non già separatamente l’una cosa di questo con l’una  cosa di quello, ma *complessivamente* ogni cosa di questo con ogni cosa di quell’altro. Non puoi leggere. Ma reprimere ì moti insolentì dell’animo, tu il puoi. Ma non lasciarti SIGNOREGGIARE DAL PIACERE o dal dolore, tu il puoi. Ma essere disprezzatore della gloriuzza. Tu il puoi. Ma non adirarti contro gli stolti e gl’ingrati ed anche pigliar cura  di loro, questo ancora tu il puoi. Fa che ninno t’oda più quind’ innanzi querelarti della vita in corte nè della tua. Il pentirsi è un rampognare se stesso dell’aver trascurato qualche cosa di utile. Ora il bene conviene di necessità  che sia qualche cosa di utile, e però l’uomo onesto deve averne gran cura. Ma l’uomo onesto non si pentirà mai dell’aver trascurato un piacere. Adunque IL PIACERE non è il buono o cosa utile. Che è questa cosa considerate. Sottintendi: e questa è la ragione per cui l’uomo onesto si pente di aver trascurato di far del bene. In se stessa e nell’essere suo proprio? che v’ha in essa di sostanziale e di materiale? che v’ha di causale? Che fa essa nel mondo? Quanto tempo è per durare? Quando peni a riscuoterti dal  sonno, sovvengati essere particolar mente conforme all’esser tuo e alla natura dell’uomo il fare opere socievoli. Dove che il DORMIRE ti è comune cogli animali irragionevoli. Ora ciò che è più particolarmente conforme alla nostra natura, è anche più particolarmente accomodato a  noi, più facile e ancora più giocondo a fare. Non ommetter in verun caso li esaminare, per quanto è possibile, ogni cosa, facendo uso degl’ammaestramenti della FISICA, di quelli dell’ETICA e di quelli della LOGICA. Divisioni principali della filosofia appo gli stoici. In chiunque tu ti avvenga, di’tosto a te medesimo. Che opinioni  ha costui intorno al buono? Perchè se egli ha intorno al PIACERE piacere o alla cosa che e produttrice del PIACERE, e intorno alla gloria e all’ infamia, alla  morte e alla vita, certe cotali opinioni, non mi pare rnaraviglioso nè strano che faccia certe cotali cose. E mi ricordo sempre lui essere sforzato ad operare in tal guisa. Ricordati che siccome è da vuol dire. Esamiua ogni oggetto, riferendolo alla natura generale, e vedendo, secondo il precetto della fisica, elio relazione  ha col tutto. Riferendolo a te stesso, in quanto sei capace di felicità, la quale non può mai andare disgiunta dalla VIRTÙ ed è sostanzialmente identica  con essa, e vedendo a che cosa ti giova,  secondo il precetto dell'etica; paragonando il giudìzio che tu ne fai con altri giudizi anteriori, e vedendo se non ìstà in contraddizione con quelli; esaminando inoltre le conseguenze che si possono dedurre da  questo giudizio: tutto ciò secondo il precetto della LOGICA. stolto il maravigliarsi che la ficaia  produca il fico, così è il maravigliarsi  che il mondo produca quelle cose che è destinato a produrre. Non altrimenti che stolti sarebbero quel  medico e quel pilota i quali si maravigliassero che altri avesse la febbre e che il vento fosse contrario. Non dimenticare essere da uomo libero anche il mutar parere e seguire il consiglio di chi propone un avviso migliore del tuo. Perchè egli è pur sempre tua l’azione che tu fai coir esercizio della tua volontà, della tua facoltà giudicativa, e secondo il tuo intendimento. Se la cosa sta in poter tuo, perchè la fai? Se sta in potere altrui, di chi ti lagni? Degli atomi o degli dei? E di questi e di quelli il [Se sta in te il fare o non fare yna cosa, o l’impedire che si faccia da altri, perchè la fai, o lasci che ai faccia per dolertene poi? lagnarsi è pazzia. Non occorre lagnarsi di nissuno. Perchè se il puoi, hai a correggere l’uomo. Se non puoi l’uomo, hai a correggere la cosa. E se anche questa non puoi, il lagnarti a che giova? Non vuoisi far nulla a caso e senza scopo. Fuori del mondo non può cadere chi muore. E se riman quivi, quivi anche e non altrove si trasforma e si risolve ne’ suoi principi, che sono gl’elementi del mondo e tuoi. E questi ancora si trasmutano d’una  in altra forma, e non mormorano. Non è cosa che non sia nata ad un certo fine: il cavallo, la  vite ecc. Qual meraviglia? Anche il Sole Febo Apollo dice. Io nacqui ad un certo fine e similmente gl’altri iddii. E tu a che sei nato? A darti bel tempo? Vedi se ciò concorda col concetto  che tu fai dell’uomo. Non meno che il cominciare. Cioè nel mondo e crescere delle cose la natura ha in mira il loro decrescere e finire,  non altrimenti che il giocatore che gitta la palla. Ora c^ual bene per questa il salire o il discendere, od anche il cadere a terra? e qual bene per la bolla d’aria il formarsi e qual  male il dileguarsi? Il medesimo puoi  dire della lucerna. Arrovescialo codesto corpo e vedi qual è: e qual diventa invecchiando, e ammalandosi e depravandosi.Di corta vita sono e il laudante e il laudato, il ricordante e il ricordato; ed anche ciò accade in un [Il qual giocatore non lancia la palla  perchè abbia solo ad andare in alto, ma ancora perchè abbia a discendere. La quale si accende, arde e si spegne, o tutto è naturale egualmente.  S Àrroveciato codc lo corpo. Mettendo coir immaginazione al di fuori ciò che sta al di dentro. Depravandosi coll’ABUSO DEI PIACERI SENSUALI. angolo di questa contrada, nè quivi  pure sono tutti d’accordo, e v’ha  tale che non è neppure d’accordo con sè medesimo: e tutta la terra  non è poi altro che un punto. Applicati all’oggetto, o al  domma, o all’azione, o al significato. È tua colpa se questo ti accade. Tu vuoi piuttosto diventare domani  che essere oggi uomo dabbene. So io una cosa? La so riferendola al bene degli uomini. Mi accade una cosa? La ricevo riferendola agli dei e alla fonte di tutte  le cose, dalla quale procedono in-  Cioè fa' che la tua attenzione sia sempre rivolta ad una di queste quattro cose. O all'oggetto su che tu operi, esaminando che è in realtà: o al domma o credenza per virtù della quale tu operi, esaminando se  ella è vera; o all’azione tua stessa, esaminando se tu la fai come vuoi farla; o al SIGNIFICATO della parole, cioè riferendo il particolare al generale, per capire l’ESSENZA della COSA SIGNIFICATA. sieme conserte le une colle altre tutte le. cose che accadono. Che ti pare che sia il lavarsi? Olio, sudore, sudiciume, acqua fecciosa, cose tutte stomachevoli. Tali  sono tutte le singole parti della vita,  tutti li oggetti esteriori. Lucilla fe il corrotto a Vero, poi altri a Lucilla; Seconda a Massimo, poi altri a Seconda; Epitincano a Diotiino, poi altri a Epitincano. Antonino a Faustina, poi altri ad Antonino; Celere ad Adriano. Poi altri a Celere. Sempre e in tutto il medesimo tenore. E quei belli  spiriti, quelli antiveditori dell’avvenire, quei burbanzosi dove sono egli-  no? Come per esempio, fra i belli spiriti, Carace, Demetrio il Platonico, Eudemone e simili? Tutti sono vissuti un giorno, tutti son morti da  lunga pezza; di alcuni non si è fatta  più menzione nè anche per un poco. Altri sono passati nelle favole, e alcuni di essi scomparvero già anche dalle favole! Sovvengati dunque come  bisognerà pure che o si dissolva codesto tuo composto, o si spenga codesto tuo spirito vitale, o sia tramutato altrove e vengagli assegnato un  altro posto. È letizia dell’uomo il fare ciò che è proprio dell’ uomo. E proprio  dell’ uomo è il voler bene a’ suoi congeneri, disprezzare i moti del senso, distinguere fra le rappresentazioni quelle che sono degne di fede, contemplare la natura dell’universo e le cose che conformemente a quella si producono. Tre relazioni. L’una colla causa  circostante. L’altra colla causa divina, dalla quale procede tutto che  accade ad ognuno. La terza cogli  uomini che vivono con noi. O il dolore è un male pel corpo, e se questo è, il corpo ce lo dica. O è un male per l’anima. Ma  questa ha in poter suo il conservar  sempre la sua calma e serenità, e il non fare concetto del dolore come  di un male. Imperocché ogni giudizio, ogni volizione, ogni appetizione o avversione qualsivoglia è un atto del tuo principio interno, e niun male  può salire insino ad esso. Rimovi da te le false rappresentazioni dicendo continuamente a  te stesso. Ora sta in poter mio il  fare che in questa mia anima non  sia veruna malizia, veruna concupiscenza, veruna perturbazione, in  somma; e vedendo le cose nel vero  esser loro, fare uso di ciascheduna  secondo il valore di essa. Nel senato e con chicchessia  parla compostamente, fuggendo il soverchio delle parole, e il tuo ragionare sia senza orpello. Corte di Augusto. Moglie, figlia,  nipoti, progenitori, sorelle. Agrippa,  congiunti, famigliari, amici. Ario,  mecenate, medici, sacrificatori. Tutta  una corte che è morta. Procedi innanzi e considera il venir meno non  delle persone ad una ad una, ma,  per esempio, della famiglia Pompeia. E quella scritta che si legge sui sepolcri. L’ultimo della sua schiatta; w  e pensa quanto s’ebbero a travagliare gli antenati di colui perchè non mancasse loro un successore. Nondimeno è pur forza che qualcheduno sia l’ultimo, ed ecco allora la morte di una intera prosapia. Colla bontà delle singole azioni  vuoisi procacciare di ben comporre  la vita. E se ciascuna di esse, per quanto è possibile, fa quelli effetti che dee fare, ti basti. Nè ciò  può essere impedito mai da checchessia. Sorgerà qualche impedimento esteriore. Ninno impedimento  che possa toglierti di operar giustamente, temperantemente, razionalmente. Tale o tale altra opera  potrà essere impedita. Ma se tu accetti di buon animo quello impedimento, e passi alacremente a far buon uso della nuova occasione che  ti vien data, ecco posta nella serie  degli atti di che si compone la vita,  in luogo di quella che ti avevi pro-  posta, un’ altra azione la quale non  è meno acconcia a quella buona  composizione della vita di che si favella. 33. Ricevi senza boria, lascia an-  dare senza ripugnanza. Vedesti mai una mano tronca.    t Cioè i beni della fortuna. Gli è come  se dicesse: Non tenerti per da più, quando  la fortuna ti viene a trovare; non tenerti  per da meno, quando ella se ne va. o un piede, o una testa giacenti  lungi dal corpo onde furono recisi?  Cotale si rende, per quanto sta in  lui, chi ripugna ad accomodarsi r  ciò che accade, e si separa a questo  modo dalla società comune, o fa  qualche atto contrario al bene di  quella. Tu te ne stai là gittate in un  canto, fuori dell’ unione naturale  degli esseri. Perchè tu eri nato parte  di quella, e te ne sei spiccato. Se  non che tu puoi sempre rappiccar-  viti di nuovo, usando della facoltà a  te concessa da Dio, e non concessa  a veruna altra parte di checchessia,  che spiccata una volta dall’ intero  potesse rappiccarvisi.Evedi di quanta  eccellenza volle Iddio adornare la  costituzione dell'uomo: chè, primie-  ramente, egli pose in potestà di lui  il non separarsi punto dal tutto; e  poi il rapprendersi e compigliarsi di  nuovo con quello, quando se ne fosse  spiccato, e riprendere il suo posto e le condizioni sue come parte aderente qual era da prima.   35. Dalla natura degli intelligenti  ha ricevuto ciascuno di noi,’ come  tutte le altre facoltà (e sono tante  quasi e tali, quante e quali quella  medesima ne avea ricevute*), e così  anche quest’ una: che a somiglianza  di lei, la quale volge e dispone nella  serie del fato, facendone cosa sua e  quasi parte di sè medesima, tutto  che a lei si venga ad attraversare e  a resisterle; così può T animai ra-  gionevole far cosa sua di ogni im-  pedimento, pigliandone materia al  suo operare e all’ esercizio della  propria virtù; sia pur qualsivoglia  la cosa nella quale venisse impe-  dito (14).   36. Non ti turbi il pensiero, quale [Intendi: in qnanto siani ragionevoli]. [Sottintendi: da chi è maggioro di lei. sia per essere tutta la tua vita, e  non darti pena e sconforto coll’an-  dare fantafticando quanti e quali  travagli avrai forse ancora a soste-  nere: ma ad ogni caso presente in-  terroga te stesso col dire: che v’ha  in ciò d’impossibile a sopportare?  Perchè avrai vergogna di rispondere  affermando che v’ abbia alcun che  di tale. E poi ricorda a te medesi-  mo, non essere mai nè il futuro nè  il passato quello che ti grava, ma  pur sempre solo il presente. E que-  sto presente s’ impicciolisce assai  quando tu il consideri ne’ suoi pro-  pri confini, chiedendo poi alla tua  mente, se anche così impicciolito  ella non sia buona da sopportarlo. Pantea o Pergamo stansi forse  tuttavia seduti presso alla tomba di  Vero? o Cauria e Diotiino presso a  quella di Adriano? è follia il chie-  derlo. Ma quando pure stessero tut-  tavia colà seduti, forse che ai loro signori ne giungerebbe notizia? e  quando ciò fosse, forse che ne avreb-  bero diletto? e quando ne avessero,  sarebbero Pantea e Pergamo e Caiirio e Diotimo immortali? non era  egli destino che anche questi invec-  chiassero e poi morissero? e morti  che fossero, che rimarrebbe a fare  ai loro signori? fetore è tutto cotesto, e marciume in un sacco. Se hai la vista acuta, dice egli, '  adoprala, giudicando saviamente delle cose. Una virtù che si opponga alla  giustizia non veggo nella costituzio-  ne deir animai ragionevole; ma una  che si opponga al piacere veggo io  bene: la temperanza. Togli via il tuo concetto in-   1 Epitteto. P.  Intendi: se hai P ingegno sottile, fa'  che la tna condotta il dimostri, cioè non  contentarti di dire le belle cose, falle. Dai  giudizi dipendono, secondo gli stoici, ne-  cessariamente le azioni. torno alle cose che sembrano darti  noia, e tu ti troverai al sicuro. Ma  chi è questo tu a cui favelli? La  ragione. Ma io non sono ragione. Sta bene. La ragione non dia  dunque noia a se stessa. E se poi  v’ ha altro in te che si dolga, faccia  egli concetto di quel suo dolore. Un male per la natura anima-  le è r impedimento del senso. Ancora un male per lei è ciò che può  impedire la soddisfazione dell’appetito. Medesimamente v’ hanno im-  pedimenti alla natura vegetale, e  sono quindi un male per essa. Adun-  (jue ciò'che può recare impedimento  alla mente è un male per la natura  intellettiva. Fa’ l’ applicazione di que-  sto ragionamento a te stesso. Il do-  lore ti tocca o il piacere? lascia che  ci badi il senso. Qualche ostacolo è  sorto ad impedire un effetto da te  voluto? se tu volesti senza la debita  riserva, questo invero fu un male per te, in quanto sei animale ragio-  nevole. Ma se fu una appetizione  nel significato comune, tu non hai  ricevuto nocumento nè impedimento  alcuno. Perocché tutto che è pro-  prio della mente non può essere  impedito che da lei stessa; non  è dato nè a fuoco, nè a ferro, nè  a tiranno, nè a maldicenza il giun-  gere insino ad essa: quando si è  fatta sferica, permane liscia e rotonda. Allusione ad alcuni versi d’Empedocle, il quale considerava la  sfera come la più perfetta delle figure; onde  che appo Orazio la rotondità potè anche  essere immagine a significare l’eccellenza  morale, Sat. II, 7; «Quisnara igitur liber?  Sapiens, sibique imperiosus: Quera neque  pauperies, neque mors, neque vincula ter-  reni: Responsare cupidinibus, contemnere  bonores Fortis, et in seipso totus teres,  atque rotundus: etc. » Ai quali versi di  Orazio alludeva pur forse Antonino in que-  sto luogo. Anche a Dante piacque una figura  geometrica come immagine di una virtù  morale quando disse: < Ben tetragono ai  colpi di ventura. Non debbo, io, che non ho mai  voluto contristare altrui, voler con-  tristare me stesso. Chi piglia piacere ad una cosa,  chi ad un’ altra. A me fa piacere se  ho una mente sana, che non abbia  avversione a verun uomo, nè a ve-  runa delle cose che sogliono acca-  dere all’ uomo, ma guardi ed accetti  ogni cosa con sereno occhio, facendo  uso di ciascheduna secondo il valore  di essa.   44. Pigliati questo tempo presente:  chi vuol piuttosto darsi pensiero  della fama che lascerà dopo sè, non  considera che i posteri saranno tali  tuttavia quali sono i contemporanei  eh’ egli ha in fastidio, e mortali essi  pure. A te che rileva al postutto che  dalle bocche loro s’ oda echeggiare  tale piuttosto o tal altro suono, e  che essi abbiano di te tale piuttosto  o tale altra opinione? Toglimi di qua e gittami dove vuoi. Colà ancora* avrò meco il mio  genio propizio, vale a dire pago di  sè medesimo, quando le disposizioni.  sue sieno conformi alla sua propria  natura.   Ciò * vale il pregio che la mia ani-  ma se ne turbi e voglia farsi peg-  giore di sè, essere travagliata da  desiderii e timori, sconfortata, im-  miserita? E qual cosa troverai tu '  che lo valga?   4G. Air uomo non può nulla ac-  cadere che non sia un accidente  umano, nè al bue che non sia acci-  dente’ proprio del bue, nè alla vite  che non sia accidente proprio della  vite, nè alla pietra che non sia ac-  cidente proprio della pietra. Ora se  a ciascheduno accade quello che è  solito accadergli e gli è connatura-   * Intendi: colà ancora dove mi avrai git-  tato, e dove-che sia, avrò meco ec. Intendi: ciò che ora mi accade, o chec-  ché altro di somigliante. le, a che ti crucceresti? la natura  comune non può arrecarti nulla che  tu non sia fatto per tollerare. Se ti attristi per alcuna cosa  esteriore, non è la cosa esteriore  quella che ti turba, ma si il giudizio  che tu ne fai. E lo annullare quel  giudizio sta in te. Se ti attristi per  alcun che del tuo stato interiore,  chi ti impedisce che tu non raddrizzi l’opinione onde deriva quel  tuo stato? Che se ti attristi perchè  non fai tale o tal altra cosa che ti  par buona, chè non ti volgi al farla  anzi che attristarti? — Ma sorse osta-  colo più potente di me. Non attristarti adunque se tua non è la colpa  del non fare. Ma non porta il pre-  gio di vivere, se questo non posso fare. Esci dunque pacatamente di  vita (dacché muore anche colui cui  vien fatta la cosa che imprende), o  con animo benevolo verso chi ti ha  contrariato. Sovvengati come divenga ines-  pugnabile la parte sovrana dell’ uomo  quando rinchiusa in sè stessa non  abbia altro proponimento'che di non  lasciarsi indurre a far cosa che essa  non voglia, anche nei òasi in' che  quel suo ostinarsi a non volere fosse  fuor di ragione. Ora che non sarà  quando la sua risoluzione proceda  da sano e ben ponderato consiglio?  La mente scevra da passioni è dun-  que una eccelsa rócca, nè 1’ uomo  ha luogo più validamente munito  ove raccogliersi per non esser vinto  mai. Chi non conosce questo- rifu-  gio, è un ignorante; chi lo conosce  e non vi ricovera, è uno sciagurato.   49. Non dire tu a te stesso più  che non siati annunciato dalla per-  cezione immediata. Ti si annuncia  che il tale sparla di te. Questo ti si  annuncia; ma che tu ne riceva no-  cumento, non ti è annunciato. Vedo  che il figliuolo è ammalato. Questo veggo io; ma ch’egli sia in pericolo  non vedo. Fa’ dunque di attenerti  sempre a ciò che ti dice la perce-  zione immediata, non aggiungendovi  nulla del tuo, e così non ti accadrà  nulla mai.' Anzi aggiiignivi pur qual-  che cosa, e siano le riflessioni di un  uomo che conosce le relazioni e le  con»lizioni vere di tutte lé cose che  accadono nel mondo. Il cocomero è amaro? non man-  giarlo. V’hanno sterpi nella via? fa  di non inciamparvi. Tanto ti basti.  Non farti a dire: che bisogno ci avea  anche di cotali cose nel mondo?  perchè ne avresti le beffe dell’ uomo  versato nella scienza della natura,  come avresti quelle del legnaiuolo Nulla di male, intendi, perchè tutto  quello che sarà oggetto immediato della  percezione, senza alcuna aggiunta del tuo,  non sarà mai gran male. Cioè che tutto che accade è nell' ordine  della natura, e vuol essere accettato di  buon grado. e del calzolaio se ti facessi a biasi-  marli del trovarsi trucioli e ritagli  nelle loro botteghe.' E nondimeno  per costoro v’ha luogo ove gittarli  fuori delle loro officineT mentre la  natura dell’ universo non ha fuori  dell’ universo alcun luogo. Ma questo è appunto il mirabile dell’ arte  di costei, che essendo essa circo-  scritta da quei limiti che ella pose  a sè stessa, tutto ciò che nella sua  officina sembra guasto, vieto, non  più utile a nulla, ella riprende in  sè stessa e ne fa materia alla pro-  duzione di cose nuove. Perchè ella  non vuole aver bisogno mai nè di  estranea materia, nè di luogo este-  riore ove gittare il vietume, e a  lei basta il suo proprio luogo, la  sua propria materia e l’arte sua propria.  Fa’ di non essere molle o negligente nell’ operare, non confuso  nel favellare, non vagante qua e là  senza scopo nel pensare; fuggi, in  quanto si è agli affetti, lo scoramento  e la subitanea gioia, e nel tenore  della vita lo impigliarti in troppe  faccende. Ammazzano, tagliano a  pezzi, fanno imprecazioni. Che vale  tutto questo ad impedire che la tua  mente non si conservi pura, assen-  nata, temperante e giusta? Se alcu-  no fattosi vicino ad una fontana lim-  pida e dolce si ponesse a maledirla,  forse che da quella cesserebbe di  scaturire acqua potabile? Vi gittasse  ancor dentro fango e sterco, essa lo  avrebbe sciolto ed espulso in poco  d’ ora, e non ne rimarrebbe conta-  minata. Come avrai tu dunque in te  una fontana limpida e perenne, e  non un pozzo? Col non cessare di  rivendicarti in libertà, serbandoti  sempre mansueto, schietto e verecondo. Chi non sa che cosa è il mondo,  non sa dove sia egli stesso. E chi  non sa a che il mondo e stato fatto,  non sa nò qual sia egli stesso, nè   " che cosa sia il mondo.* E chi ignoia  r una di queste due cose, non può  neppur dire a che fine egli stesso  sia nato. Ora che ti pare di colui  che ambisce esser lodato da tali che  non sanno nè dove essi sono, nè   quali essi sono?^   53. Vuoi tu essere lodato dall’uo-  mo che tre volte all’ora maledice  se stesso? Vuoi tu piacere all uomo  il quale non piace egli stesso a sè  medesimo? Piace egli a se medesimo  chi si ripente quasi di ogni cosa die  va facendo? Oramai non ti basti' più sola-   E chi non so o che il mondo..... nè  che cosa sto il mondo. StiU" interpretazione  di questo luogo diversamente inteso dagli  interpreti, si può vedere la nota nell' edi-zione di Torino. [Intendi quali ^ieno le loro condizioni. mente il respirare* con l’aria* che  ti circonda, ma fa’ eziandio di pen-  sare e di volere con l’ intelligenza  universale* che in sè contiene ogni  cosa. Perchè la potenza intellettiva  si diffonde e penetra per ogni dove,  chi voglia attingere da essa, non   [Respirare: intendi vivere la vita sensitiva per mezzo della respirazione. Il verbo “respirare” e il corrispondente nel testo hanno  nelle dne lingue rispettive oltre al senso proprio, quello di vivere. [Con “l’aria”: intendi coll’ aiuto e cooperazione dell’aria, conformemente - alla na-  tura di essa aria, e insieme con essa; chè  essa pure vive è spira, o respira. La preposizione con e la corrispondente in greco esprìmono nelle due lingue rispettive, oltre  alla relazione di compagnia, quella ancora di conformità, aiuto reciproco o COOPERAZIONE', esprimono ancora il rapporto di causa sia istrumentale, sia materiale. Tutte queste rela-  zioni di compagnia, conformità, aiuto e causa  materiale, vogliono intendersi come simul-  taneamente espresse, confuse insieme in una  idea complessa, nelle dette preposizioni, così  in questa come nella frase seguente.  Coll’intelligenza universale: intendi  coir aiuto di ossa, conformemente ad essa e  insieme con essa. meno che l’aria rispetto a chi la  aspira. Il vizio, universalmente, non  nuoce al mondo; e singolarmente,  non nuoce ad altrui. Nuoce solo a  colui al quale è dato di potersene  liberare al primo momento che il  voglia. Alla mia volontà la volontà  del vicino ò cosa tanto indifferente  quanto la anim uccia di lui e il cor-  picciuolo di lui. Perchè, sebbene  siam nati tutti gli uni per gli altri,  la parte sovrana di ciascuno di noi  ha nondimeno il suo proprio domi-  nio separato; altrimenti la malvagità  del vicino potrebbe essere un male  per me. Il che non fu voluto da Dio,  affinchè non fosse in potestà altrui  il far me infelice. Il sole sembra versarsi per  ogni dove, e effettivamente si diffonde   ' Cioè alPuomo vizioso, che può cessare  di esser tale tosto che il voglia. da tutti i lati, ma non però si effon-  de.* Quel suo diftbndersi è uno esten-  dersi: e però gli splendori di lui si  chiamano actines (raggi) da ecteine-  sthai (estendersi).* Tu puoi vedere  che cosa è un raggio guardando la  luce del sole che penetra per un  piccol buco in una camera oscura:  ella si allunga in diritta linea e va  come ad applicarsi sul corpo opaco  qual siasi, che le si fa incontro e  intercetta 1’ aria al di là.* Quivi si  ferma senza sdrucciolare giù nè ca-  dere. Cosi dee pure diffondersi la  mente, non effondersi, ma esten-  dersi; e quando s’ appresenta un  ostacolo, applicarvisi senza violenza  nè urto, nè tampoco cader giù, ma Non si versa fuori in modo eh' egli ab-  bandoni il luogo onde parte la sua luce. [Falsa etimologia, simile a tante altre  che puoi incontrare presso' gli antichi. Vale a dire intercetta come corpo opaco  il passaggio della luce agli strati d' aria  che sono al di là. star ferma e- illuminare 1’ obb ietto  che la riceve. Che se questo non  vorrà trasmettere la luce, tal sia  di lui se rimarrà privo di essa.Chi teme la morte, teme o di  non dover più aver sentimento, o  di dover avere un sentimento diverso dal presente. Ma se tu non avrai  più sentimento, non sentirai verun  male; e se tu avrai un sentimento  diverso, sarai un animale diverso, e  non avrai cessato di vivere. Gli uomini sono nati gli uni  per gli altri. Ammaestrali dunque,  o sopportali.  Altro è il moto della freccia,  altro quello della mente. Perchè la  mente anche quando procede cautamente e s’ aggira* nel deliberare, va   1 Intendi: non vorrà lasciarsi penetrare  da essa luce, dandole passaggio nelle parti  più interne. Cioè illuminato solo esteriormente, ma  al buio nell' interno. nondimeno per la diritta via verso  Io scopo.   61. Entrare nella parte sovrana  di ciascheduno, e far sì che ognuno  possa penetrare nella parte sovrana  di noi medesimi. Chi fa ingiuria ad altrui, è reo  d’ empietà. Perchè la natura univer-  sale avendo fatto gli animali ragio-  nevoli gli uni per gli altri, affinchè  r uno giovi air altro, secondo il merito, e non gli noccia; il trasgre-  dire le intenzioni di lei, è manife-  stamente un peccare contro la più  veneranda fra le Dee. Chi mente, è  pur reo di quel medesimo peccato.  Perchè la natura universale è natura  degli enti, e gli enti hanno relazione  di parentela con tutti gli esistenti. [Secondo il merito; frase stoica. Di tutti gl'interpreti anteriori all’ornato il Kmtz è il solo che intendesse bene   Oltre che ella è nomata la verità,  ed è la causa prima di tutti i very. E però *chi MENTE CON INTENZIONE*, è  reo verso di lei, in quanto fa torto  ad altrui ingannando; e chi mente  senza intenzione,' in quanto che ad  ogni modo discorda dalla natura  universale, e turba V ordine andan-  do a ritroso della natura del mon-  do; * perchè va a ritroso di essa  non senza sua colpa anche colui  che insciente va a ritroso del vero; sendo che non per altro che  per non aver profittato di quelli  indirizzi e sussidi di cui gli fu prov-  vida la natura, non è egli più in  grado di distinguere il vero dal falso.  Ancora è reo di empietà chi segue  il piacere come un bene e schifa il  dolore come un male. Perchè non   questo luogo, ancora che un po' troppo pla-  tonicamente. Vedi la nota dell' Ornato nel-  l'edizione di Torino. Cioè per ignoranza, o a caso. P.   * Che è l'ordine per eccellenza. può essere che costui non mormori  spesso contro la natura comune, quasi ’ ella non abbia riguardo al  merito nelle dispensazioni che va  facendo ai buoni ed ai tristi, veg-  gendosi spesso i tristi vivere nei  piaceri e nella abbondanza di tutte  le cose che li procurano, quando i  buoni cadono nel dolore e van sog-  getti a tutti gli accidenti che ne  sono cagione. Oltre che chi teme il  dolore, temerà pure talvolta alcune  delle cose che sono per accadere  nel mondo: il che è già da per sè  cosa empia;* e chi va in cerca del  piacere non si asterrà dal far torto  agli altri. Del resto, chi viiol seguire  la natura, dee consentire colla natura [Epitteto, Manuale XXXII, 4.   « Di modo che ciascuno che procacci di  desiderare e fuggire solamente quello che è  da essere desiderato e fuggito, procaccia al  tempo medesimo di esser pio » (traduz. di  G. Leopardi). Cfr. Manuale. ed essere indifferente rispetto a tutte  quelle cose rispetto alle quali ella si  dimostra indifferente col far che suc-  cedano egualmente nel mondo. K •  però chi non fa eguale stima del  dolore e del piacere, della morte e  della vita, dell’ infamia e della gloria, delle quali cose fa uso egual-  mente la natura universale, è mani-  festamente reo di empietà: dico che  la natura ne fa uso egualmente, vo-  lendo significare che sono accidenti  a cui sono deipari sottoposti secondo  la legge di anteriorità e posteriorità,'  tutti gli esseri che nascono e si suc-  cedono gli uni agli altri per conseguenza necessaria di.quello impulso  primordiale con cui la previdenza  concependo in sè certe ragioni del  futuro,* e determinando virtù gene-  ratrici di esistenze, di cangiamenti   1 Abbiamo seguito l' emenda^siono del Ce-  rai. Ragioni seminali. e di successioni conformi a quelle,'  diè principio a questo ordinamento  di cose.   2. Certo meglio era per te serbarti  puro di menzogna e di ogni sorta di  finzione e di boria sino al punto  della tua dipartenza dagli nomini.  Ora il partire nauseato di queste  cose è, dopo quello, il miglior par-  tito che ti rimanga. 0 hai tu forse  deliberato di marcir sempre nel vizio,  e r esperienza stessa non ti persua-  de ancora a fuggire dalla peste?  Perchè è peste la corruzione della  mente ancor più che lo infettarsi c  corrompersi di quest’ aria che ne  circonda. L’ una è peste degli ani-  mali in quanto sono animali; l’altro  è peste degli uomini in quanto sono  uomini.   3. Non disprezzare la morte, ma  accettala di buon grado, siccome  Conformi a quelle ragioni seminali. quella che è una delle cose che la  natura vuole. Perchè quale è il giun-  gere alla adolescenza, alla vecchiaia,  il crescere, il giungere alla virilità,  il mettere i denti e la barba, il ge-  nerare figliuoli, portarli, partorirli,  e tutti gli altri effetti che arrecano  le stagioni della vita, tale è ancorji  il dissolversi. Appartiensi dunque ad  uomo assennato il non procedere alla  cieca colla morte, nè all’ avventata  nè con superbia, ma aspettarla come  uno dei tanti effetti naturali: come  aspetti l’ora che dall’utero della mo-  glie esca il feto, a quello stesso modo  aspetta l' ora in che l’ anima tua  uscirà di codesto suo invoglio. Che  se ti è bisogno anche di uno em-  piastro da idiota il quale s’ applichi  al cuore,' ti gioverà il considerare  Che se ti è bisogno anche appli-   chi al cuore. Le parole del testo, chi ben  le intenda, non sono, a parer mìo, senza  una certa ironia. Perchè a far riguardare quali sieno le cose onde t’ hai a  dipartire, e gli umori degli uomini  tra i quali l’anima tua non sarà più  impigliata. Non che tu abbia a re-  carteli a noia, chè anzi hai da averne  cura e sopportarli con amore; ma  potrai ricordare che non sei per di-  partirti da uomini che la pensino  come te. Perchè, se ci avesse cosa   con indifferenza la morte, la ragione specu-  lativa data già innanzi dovrebbe, secondo l’autore, bastare al filosofo, al quale non  dovrebbero abbisognare argomenti che ai  indirizzino alla sensibilità, e che Antonino  chiama “empiastri da idiota che s’ applicano al cuore”. Ornato traduce  questo luogo come segue: Che se vuoi  inoltre uno espediente da nomo materiale  che ti muova sensibilmente:» notando al margine: c anzi tutto conveniva far capire  il senso, e qui era maggior fedeltà il la-  sciare la lettera. Il primo mezzo, dice An-  tonino, era da filosofo: questo secondo da  illetterato: e però quello era speculativo,  questo pratico. Ma vedi se puoi dir meglio,  chè sono scontento assai. » Per dir meglio  io ho stimato che fosse da conservare il  linguaggio figurato e l'ironia del testo, non  tanto difficile poi a capire anche nella traduzione. che dovesse affezionarci alla vita,  questa sarebbe fuor di dubbio; lo  averla a passare con chi sente e  giudica come noi.  Chi pecca, pecca a suo danno:  chi commette ingiustizia, fa ingiuria  a sè medesimo, facendo sè malva-  gio.   5. È ingiusto soventi volte non  solo chi fa, ma ancora chi non fa.  Se il giudizio che tu fai nel  momento presente è vero; se l’azione  che tu fai nel momento presente si  riferisce al ben comune; se la disposizione in che sei nel momento pre-  sente è di accettare di buon grado  quanto avviene per virtù della causa  esteriore; non ti abbisogna più  altro. Togli via le false immagina-  zioni; contieni i moti dell’ animo;  spegni i desiderii troppo accesi; fa’  che la mente sia padrona di sè. Una è l’anima distribuita fra tutti gli animali irragionevoli; una  la ragione compartita a tutti i ra-  gionevoli come una è la terra di  tutte le cose terree, una la luce per  cui veggiamo, ed una 1 aiia che respiriamo tutti quanti abbiamo vista! e respiro.  Tutte le cose che hanno alcun  che di comune fra loro, tendono  l’una verso dell’altra. Il terreo  tende verso la terra, V umido s ac-  costa all’umido, l’aereo all’aereo.   Il fuoco va in su per cagione del  fuoco elementare; e quaggiù è così  pronto ad unirsi con altro fuoco, che  ogni materia un po’ secca s accende  di leggieri per lo esservi mescolata  dentro minor quantità di ciò che  impedisce l’unione, h sunilmente  ciò che partecipa della natura intellettiva tende verso il suo congene-  re, e con più forza eziandio: perchè  quanto ha più eccellenza delle altre  cose, tanto ha maggiore inclinazione ad unirsi con chi ha somigliante  natum, e a confondersi con esso. E però tu trovi appo gli animali  privi di ragione sciami, mandre, nidiate, e come chi dicesse amori:  sono già anime in essi, e la virtù  unitiva, più intensa nel più perfet-  to, vi si manifesta quale non è an-  cora nelle piante, nelle pietre o nei  legni. Ed appo i ragionevoli tu vedi  città, amicizie, famiglie, radunanze  pubbliche; e anco nelle guerre patti  e tregue. E appo gli esseri ancora  più eccellenti l’unione ha luogo in  certo modo anche fra i disgiunti e  lontani, come puoi vedere negli astri.'  Cosi un più alto grado di eccellenza  può generare scambievole corrispon-. Molti degli  Dei popolari riferivano gli stoici ai gran  corpi celesti, al sole, alla luna, alle stelle.  Gli Dei medesimi non sono pure, agli occhi degli stoici, ciascnno per sò medesimo;  ma tutti sono per tutti, per la loro comunità, pel Dio supremo, pel mondo ecdexiza negli esseri anche a mal grado  della distanza che è tra mezzo. Ma  vedi ora a che siamo: soli i ragio-  nevoli sembrano talora aver posto  in oblio la loro qualità che li chiama  ad unirsi reciprocamente gli uni cogli altri, e quivi solo pare che non si  trovi sempre concorso reciproco.  Nondimeno con tutto che essi fug-  gano a poter loro, e’ sono da ogni  parte arrestati; chè la natura è. più  potente di loro. Tu vedrai manifesto  (j nello che io dico, se tu saprai osservare. Perchè ti verrà più agevolmente fatto di trovar terra scompa-  gnata dalla terra, che non uomo  scompagnato dall’ uomo. Porta il suo frutto anche l’ uomo, ed anche Dio, ed anche il mon-  do: e ogni cosa nella sua stagione  porta il suo frutto. Che se l’uso ap-  plica questo modo di dire propria-  mente alla vite e alle altre cose di  simil fatta, non monta nulla. La ragione poi porta un frutto c per gli  altri e per sè stessa,* e nascono da  lei cose che hanno natura e qualità  simili alle sue proprie. Se tu il puoi, fa’ che si ricre-  da; se non puoi, sovvengati che la  benignità ti è stata data per questo.*  Anche gli Dei sono benigni a questi  tali; e in certe cose eziandio li aiu-  tano, come a conservare e ricuperare la sanità, ad acquistare fama e  ricchezza: cotanto sono essi amorevoli. Il medesimo puoi fare.tu an-  cora; o veramente di’ chi ti impedisce che tu noi faccia. Lavora non già come un ta-  pino nè come chi voglia farsi com-  miscrare o ammirare; ma intendi a  ciò solamente: operare e astenerti. Cioè per tollerare amorevolmente an-  che chi erra e non vuole o non può ricredersi. Intendi « agire o non agire, » frase solenne appo gli stoici, non traducibile. secondo che la ragion civile * richiede. Oggi sono uscito d’ ogni mia  noia, 0 per dir più vero, ho cacciato  fuori ogni mia noia, perchè non era  fuori di me, ma dentro, nelle mie  opinioni. Sion tutte cose, in quanto al  numero delle volte che si sono ripetute, consuete; in quanto alla durata,  transitorie; in quanto alla materia,  sordide. Tutte sono ora quali erano  al tempo di coloro che abbiam sep-  pelliti.  Le cose stan fuori dell’ uscio, ^  dapersè, nulla sapendo disè, nè giu-  dicando. Chi è dunque che giudica  intorno a loro? la parte sovrana. Intendi il bene della società. Intendi fuori di noi, e non hanno adito  a noi nè potenza di turbarci, se noi non  apriamo loro l’uscio, facendo stima di loro  disuguale al vero. Ho creduto di dover con-  servare l'espressione figurata del testo greco. Cioè la ragione. Non nella passione, ma nella  razione sta il bene e il male dell’animai ragionevole e socievole;  come non istà nella passione ma  nell’ azione la virtù di lui e il vizio. Alla pietra scagliata in aria  non è punto un male lo andare in  giù, nè un bene lo andare in su.  Penetra nell’interno delle menti  loro, e vedrai che gente è quella di  cui tu temi il giudizio, e che sorta  di giudici sono anche verso di sè medesimi. L’esistenza delle cose è un  passare incessante da una in altra  forma. E tu stesso non perduri un  istante nel medesimo stato, ma ti  vai di continuo alterando e come a  dire dissolvendoti.  E l’universo  parimente. Cioè iniqui anche verso sè stessi, non  che verso gli altri; dannando essi la lo(o  parte sovrana a servire alla inferiore. Il fallo altrui coiivien lasciarlo  dov’è. Il finire di una azione, il cessare di una volontà o di un pensiero  e, per così dire, il morir loro, non  è punto un male. Considera ora le  diverse età: l’infanzia, L’ADOLESCENZA, la giovinezza, la vecchiaia. Il cessare di quella che precede per dar  luogo a quella che segue, è ancora, come a dire, una morte. È egli un  male? Passa a considerare la vita  che vivesti sotto 1’ avolo, poi quella  sotto la madre, e rammenta ancora  molte altre diversità di stati, e mutamenti dall’ uno in un altro, e ces-  sazioni; e interroga te stesso; è egli  cotesto un male? Adunque nò anco   il cessare e concludersi della vita,  nè il totale mutamento di essa non  è punto un male. Cioè in chi n’è autore, il quale non  nuoce che a sè medesimo. Bada alla tua parte sovrana,  a quella dell’ universo, a quella di  costui. Alla tua, per ridurla giusta  ed imparziale; a quella dell’ uni-  verso, per non dimenticare di che  sei parte; a quella di costui, per  chiarire s’ egli operò per ignoranza ovvero con intenzione, e ricor-  dati ad un tempo che egli ti è congiunto. Come tu medesimo sei parte  del corpo sociale, così anche ciascuna delle tue azioni è parte inte-  grante della vita di quello. Adunque  se una qualsivoglia di esse non ha  per iscopo, o immediato o mediato,  il bene della società, ella turba la  vita comune rompendone l’ unità,  ed è sediziosa come è sedizioso chi  parteggia in una città e guasta,  per quanto è in lui, la comune concordia. Sdegni fanciulleschi, bambo-  late, animucce che portano cadaveri, cose che rappresentano al vivo  ciò che narra Omero delle anime  degli spenti. Considera la qualità della causa,  e separando quella dalla materia, fa’  di contemplarla distintamente in sè  stessa; di poi vedi anche e circoscrivi  distintamente entro i suoi confini il  tempo che, al sommo, possa cotal  cosa per la natura sua durare. Hai sofferto mille travagli per  non aver voluto appagarti unicamente  del far quello a che sei stato ordinato: ma basti. Quando altri ti lacera o ti odia,  o che schiamazzano contro di te,  come fanno ora, pensa alle animucce Farla di tutte le cose di questo mondo. L’Odissea, lib. XI, discesa di Ulisse all’Inferno. Intendi: per non aver riposto unica-  mente il tuo bene nel far quello ohe ec.Come schiamazzano ora; relativo a  qualche caso particolare. di questi tali, penetra loro addentro e osserva che uomini sono. Ve-  drai che non ti conviene il dar;(:i  briga perchè essi abbiano di te piut-  tosto tale che tale altra opinione.  Hai nondimeno a voler loro bene:  chè sono per natura amici tuoi. IC  anche gli Dei non lasciano di giovar  loro in ogni modo, per mezzo di  sogni, di oracoli, sebbene in quelle  cose soltanto che da costoro si pregiano. Cotale è il perpetuo giro delle  cose mondiali; all’ insù all’ ingiù,  d’ età in età. 0 la mente dell’ uni-  verso determina con atti particolari  di volontà ciascuna cosa; e se que-  sto è, tu hai da ricevere con amore  il voluto da lei: o ella ha voluto e  determinato una volta per sempre, o  tutto pende e procede da quella determinazione; e allora a che il ri-  calcitrare? Egli è, in certo modo,  come se non ci avesse altro che atomi e indivisibili. Al postutto, o  egli v’ ha un Dio intelligente e provvido, e tutto sta bene; o le cose si  governano dal caso; e tu almeno non  governare a caso te stesso. Oramai  la terra ci ricoprirà tutti quanti siamo; e poi anche la terra si trasformerà; e poi si trasformerà quello  ancora in che si sarà trasformata la  terra; e quest’ altro ancora di nuovo,  air infinito. Davvero chi ripensa a  un cotale incalzarsi di mutamenti e  di moti e alla rapidità con che si suc-  cedono, non può essere che al tutto  non disprezzi ogni cosa mortale. La causa universale è un tor-  rente che trae seco ogni cosa. E que-  sti omicciuoli che al parer loro ma-  neggiano secondo filosofia gli affari  «li Stato, come son piccioli! Veri  bimbi in culla.* 0 uomo, attendi a  Letteralmento: « pieni,di moccio, moc-  ciosi, » cioè « bimbi col moccio al naso.  far quello, che che sia, che la natura richiede da te nel momento  presente, e non andar guardando attorno se altri il saprà. Non isperare  la repubblica di Platone, e sii contento ad ogni po’ di progresso che  tu vegga; pensando che anche il ridurre questo ad- effetto non è pic-  cola cosa. Perchè le opinioni degli  uomini chi può mutarle? E senza  correggere le opinioni, che puoi tu  avere se non ischiavi che gemono e  s’infingono di obbedire? Or va’, non  istar più ad allegarmi Alessandro,  Filippo, Demetrio Falereo. Buon per loro, se conobbero che cosa vuol la  natura comune, e seppero raffrenare  e governar sè medesimi. Che se operarono solo per parere,' nissuno ha   moT'oeuXy direbbero i Francesi. Dal novero  di questi bimbi non pare che Antonino intendesse escludere sè medesimo. Fare il bene per amor del bene piutto-  sto che della lode, voler essere piuttosto  che parere ottimo, è il tratto più essenziale condannato me ad imitarli. Semplice  e modesta è l’opera della filosofia.  Non indurmi ad ostentazione di gravità. Contempla, come da un’ alta  vetta, mandre infinite d’uomini, usi  di religione innumerevoli, e un na-  vigar da ogni banda, in tempesta,  in bonaccia, e diversità di nascenti,  di conviventi, di morenti; pensa an-  cora alla vita che si vivea per lo  addietro, e a quella che si vivrà dopo  te, e a quella che tra le nazioni  barbare si vive ora, e quanti v’ ha  che di te ignorano anche il nome,   dì un gran carattere morale, dipinto da  Eschilo con tre versi sublimi nei Sette a  Tebe parlando di Amfiarao, in parte fran-  tesi dal Belletti; e la cui traduzione let-  terale, per quanto è possibile, sarebbe: « non  sembrare, ma essere ottimo ei vuole, fa-  cendo fruttificare il fertile terreno della  sua mente, ove germinano gli assennati pensieri. [ Bellissimo e nobilissimo paragrafo !  quanti insegnamenti, e per quanti, si compendiano in esso! P e quanti che sono per dimenticarlo  in breve, e quanti che ti lodano  forse ora, e ti biasimeranno tantosto:  e come non è da fare stima nè della  ricordanza, nè della gloria, nè di ve-  runa cosa quaggiù.  Imperturbabilità rispetto alle  cose che procedono dalle cause este-  riori; rettitudine nelle cose di che  tu stesso sei causa: vale a dire, determinazioni ed azioni non aventi  altro fine che sè medesime, cioè d’o-  perare socievolmente, siccome cosa  che è secondo la tua natura.  Fra le cose che ti molestano,  molte le quali hanno sede nella tua  opinione, tu puoi sgombrare da te, o  darai cosi campo ed agio a te stesso.   Fa’ di abbracciar colla mente l’uni-  verso mondo, e concepir nel pensie-  ro r eternità dei secoli, e considera  la rapida trasformazione di ciascuna  cosa particolare, e quanto è breve  l’intervallo dalla nascita alla dissoluzione, e infinito il tempo che precedet-  te la nascita, e infinito del pari quello  che terrà dietro alla dissoluzione.  Tutte le cose che tu vedi si  tlissolverannò tra breve, e coloro che  le vedranno dissolversi, si dissolveranno tra breve anch’essi. E chi  morrà d'estrema vecchiezza, si tro-  verà ad un medesimo ragguaglio  con chi mori anzi tempo. Che menti son quelle di costoro ! e per che motivi amano e  onorano altrui! abbi in uso diveder  nude le loro animucce. Quando si  credono nuocere biasimando, o giovare lodando, che vanità! Una perdita di che che sia non è altro che una trasformazione. Edi '  questo si compiace la natura dell’universo, conforme alla quale tutto   [Intendi: qual vanissimo errore!] Perchè la lode e il biasimo di chi che sia noii  aggiunge e non toglie nulla al valor vero  degli uomini o dello cose. si fa bene. Per secoli innumerevoli  le cose si sono fatte a questo modo,  e continueranno a farsi' a questo  modo per altri secoli innumerevoli. Che dirai dunque? Che sempre sensi  fatte male, e che continueranno a  farsi male per l’avvenire? Or nissuno dunque s’ è mai trovato fra cotanti Iddìi, il quale avesse potestà di correggere tutto questo? E il mondo è egli condannato a mali che  non avranno mai fine? Vedi il marcio della materia  che sottosta alle cose: acqua, polvere, ossicini, sudiciume. Il  marmo, callosità della terra; l’oro  e r argento, capomorto di quella;  la veste, peli; la porpora, sangue:  cosi di tutto il rimanente. E la materia organica vivente, altrettale: di  La conclusione è che le perdite, i mu-  tamenti, e tante coso allo quali il^ volgo  dà il nome di mali, non sono mali veri. quei medesimi ingredienti si com-  pone, e in quelli si risolve.  Abbastanza hai tapinato, abbastanza hai mormorato, abbastanza  hai fatto la scimmia. Che ti turba?  Che t’interviene di nuovo? Che è  ciò che ti trae dal senno? La causa?  vedila. La materia? vedi la materia.  Da queste cose in fuori non v’ ha  nulla. Ma anche fa’ di essere più pio  verso gli Dei e più semplice.   Lo stare a veder queste cose tre  o cento anni è tutt’uno.  Se egli ha peccato, in lui sta  il male. Ma forse non ha peccato. 0 da una sola fonte intelligen-  te, come in corpo organato procedono tutte le cose; e se ciò è, non  appartiensi alla parte il querelarsi  di ciò che fassi ad utilità comune  del tutto; o sono gli atomi. E tutto che esiste, accozzamento del caso,  vien dissipato dal caso. A che dunque ti turbi?   Di’ alla parte sovrana: sei tu morta? sei tu fradicia? sei tu altra cosa  che te? sei tu imbestiata? sei tu  giumento? sei tu pecora?  gli Dei non possono far nul-  la, o possono. Se non possono; a  che li preghi? Ma se possono, che  non li preghi piuttosto perchè ti  concedano di non temere nè desidarare alcuna di queste cose, nè di  rattristarti per esse, anzi che pre-  garli che tu possa ottenerle o evitarle? perchè ad ogni modo, se e’ pos-  sono aiutare gli uomini, debbono  poterli aiutare anche in questo. Dirai forse: cotesto gli Dei hanno posto  in mia facoltà. 0, non è dunque  meglio valerti con altezza d’ animo  indipendente di ciò che sta in poter  tuo, anzi c he affannarti abbiettamente e servilmente per ciò che non  dipende da te? E poi chi ti ha detto  che gli Dei non ci aiutino anche  nelle cose che stanno in poter no-  stro? provati di pregarli, e vedrai.  Altri prega: fa’ che io possa giacere  con colei. E tu prega: fa’ che io non  desideri di giacere con colei. Altri:  fa’ che io mi possa liberare dal tale. E tu: fa’ che io non abbia bisogno li liberarmi dal tale. Altri ancora:  fa’ che io non perda il figliuolo. E  tu: fa’ che io non tema di perderlo.  In somma raddrizza cosi le tue pre-  ghiere, e sta’ a vedere che ne segue.   4L Dice Epicuro: « Ammalato, io  non facea mai parola delle affezioni  del mio corpicciuolo nè d’altre co-  tali cose, quali sogliono essere quelle  di che amano gli infermi inti’atte-  nersi con coloro che li vengono a  visitare. Ma attendeva tuttavia a ragionare intorno ai punti principali  della filosofia naturale, soprasUmdo   ad investigare e dimostrare ciò ap-  punto: come possa V anima, ancora  che partecipe dei moti del corpo,  serbarsi nondimeno imperturbata, e  conservare in sè quel bene che è  proprio di lei: nè dava, aggiunge  egli, materia ai medici d’insupei-  bire, come se facessero gran che:  chè la mia vita, anche in quello  stato, non era senza calma e giocon-  dità. » Ora fa’ tu altrettanto, sia,  ponghiamo caso, che tu ammali, o  t’ intervenga qualsivoglia altra mo-  lestia: perchè"' il dover serbar fede  alla filosofia in ogni congiuntura  qualsiasi, e non delirare con lo stolto  e con l’ignaro, è precetto comune  a tutte le sètte. Bada unicamente a ciò che tu fai  nel momento presente, e all’ istro-  rnento con che il fai. Quando ti senti offeso dall’impudenza di alcuno, interroga tosto  te n'iedesimo: ò egli possibile che  non ci abbia impudenti nel mondo?  Non è. Non voler dunque l’impos-  sibile: questo è uno di quelli impu-  denti che di necessità hanno ad essorci. Lo stesso hai da dirti e del  furbo e del disleale, e di qualunque  altro vizioso che pecchi in qualsi-  voglia modo. Perchè ricordandoti  essere impossibile che tal sorta di  gente non sia, tu ti farai più mite  verso ciascuno. Giova ancora il pen-  sare subito. Qual virtù ha dato all’uomo la natura contro questo peccato'? Ha dato, per modo di eseni-   [Intendi: tosto che ci sentiamo offesi por  tale 0 tal altro fatto biasimevole di chicchessia. Intendi: contro al sentirsi offeso da  questo peccato del vicino. Perchè colle stesse  parole in altro luogo potrebbesi anche si-  gnificare: qual virtù diede all'uomo la na-  tura.per combattere in sè medesimo questo  peccato e serbarne puro sè stesso. pio, contro all’ ingrato la mansuotudino, 0 contro a ciascuno altro vizio,  altre virtù. Ad ogni modo tu puoi  far prova di ravviare quel traviato;  perchè chi fallisce, fallisce Io scopo  a cui mirava, ed è quindi traviato.'  E ancora tu hai a pensare qual danno  te ne viene: eli è troverai nissuno  di costoro, contro ai quali ti adiri,  aver fatto cosa per cui la mente tua  sia. per divenir peggiore. Ed ogni tuo  male, ogni tuo danno, ben sai, non  poter essere altrove che in quella.  E poi che male ci ha, o che v’ ha  egli di strano se l’indotto fa cose  da indotto?- Vedi piuttosto che tu  non abbia a rampognar te medesimo, il quale non hai aspettato da  colui tal sorta di fallo. Perchè a te  la ragione porgeva argomenti a pre-  vedere che costui fallirebbe probabilmente in quella guisa; ’ e tu non  badasti, ed ora ti vai maravigliando  eh’ egli abbia fallito. Massimamente  (juando parratti aver rimproveri a  fare a un disleale, a un ingrato, fa’  che tu rivolga contro te medesimo  r accusa: sendo manifestamente tuo  r errore se hai creduto che un uomo  in cotale disposizione d’animo fosse  ' per mantenere la fede; o,se facendo  tu del bene ad altrui, non l’hai fatto  senza un rispetto al mondo ad altra  cosa che al bene che volevi fare, nè  con r intento di avere a raccogliere  immediatamente e unicamente dal  fatto stesso dello aver compiuta una  buona azione, tutto ed intero il frutto  di essa. Nel vero quando tu hai  beneficato un uomo, che vuoi tu an-  cora di più?^ Non ti basta aver fatto II saggio, diceano gli stoici, avrà amici, ma li amerà per utile loro, e non di sè  stesso. un’azione che è conforme alla tua  natura, e vuoi inoltre ima mercede,  come se gli occhi avessero ad esser  pagati perchè vedono, e i piedi perchè camminano? Perchè siccome  queste membra furono così confor-  mate affinchè avessero a fare cotali  uffici, e quando hanno fatto i servigi a che furono ordinate, hanno  ricevuto tutto ciò che è dovuto loro;  cosi l’uomo, per 'natura benefico,  quando ha operato alcun che di bene, o semplicemente aiutato altrui nelle cose medie, ha fatto quello a che  è stato ordinato ed ha ricevuto tutto  quello che gli è dovuto. E quando mai, o anima, sarai  tu buona, o schietta, ed una, e ignuda, e più appariscente ' del corpo  che ti (àrconda? Quando gusterai tu  di quello stato che è tutto dilezione  ed amore? Quando sarai tu fornita  di tutto punto, non mancante di  nulla, non agognando nè desiderando  nissuna cosa, sia animata o sia ina-  nimata, per pigliarne diletto? nè  tempo perchè il diletto più duri? nè '  luogo od opportunità di paese o di  clima, nè conformità d’uomini che  ti vadano a genio? ma sarai paga   [Intendi visibile, chè questo senso ha  pure il vocabolo appariscente] del tuo stato presente, facendo piacer  tuo di tutte le cose presenti, e persuadendo a te stessa che tu hai tutto  e che tutto va bene, e che tutto li  viene dagli Dei e tutto andrà bene,  checché piaccia ad essi d’ inviarti  per la salute di quello animale per-  fetto e buono e giusto e bello, il  quale genera tutte le cose, e tutte  le contiene ed abbraccia e riceve al-  lorché si dissolvono per la riprodu-  zione di altre simiglianti? Quando  mai sarai tale che, vivendo in una  società con gli' Dei e con gli uomi-  ni, non ti accada mai né di dolerti  di loro, né di essere condannato da  loro? Vedi quello che richiede la tua  natura in quanto sei governato dalla  sola natura,’ e fàllo o accettalo ogni  volta che non sia per patirne danno  la tua natura d’animale; Di poi os-  Cioè a dire in quanto soi organismo viventi. serva quel che richiede la tua na-  tura d’ animale, e questo ancora ri-  duci ad atto ogni volta che non sia  per patirne danno la tua natura razionale. Ma il razionale importa,  qual conseguenza immediata, il so-  cievole. Metti in pratica queste re-  gole, e non darti pensiero più d’altro. Checché ti accada, è o non è  comportabile alla tua natura. Se è,  non hai motivo di crucciartene, ma  Adunque Antonino, come già gli stoici  antichi, come i fllosofl moderni (vedi particolarmente Burdach, Antropologia), tre diverse nature, o per dire più propriamente,  tre diversi gradi simultanei di vita distin-  gueva nell' uomo: la vita plastica o vegeta-  tiva, la vita animale, e la vita razionale.  Quanto al principio unico, o moltiplico di  queste tre vite, le idee degli stoici erano  confuse. E Antonino errava lungi dal vero  quando diceva, parlando della vita plastica  o vegetativa, questa essere « governata dalla  sola natura, » se con ciò intendea che a  produrne, o a spiegarne tutti i fenomeni  bastassero quelle leg^ che i moderni chia-  mano « leggi generali della natura. attendi a portartelo in pace, essendo  tu nato a ciò. Se non è, ancora non  crucciartene; perchè verrà meno  come prima ti avrà consunto. Ma  sovvengati che sei tale per natura  da poter tollerare tutto ciò che sta  in potere della tua mente di rendere  tollerabile col persuaderti che ti  giovi 0 sia dover tuo il tollerarlo. Se falla, correggilo amorevol-  mente, e mostragli in che ha falla-  to. Se noi puoi, incolpane te stesso,  o veramente nè anche te stesso. Qualunque accidente ti occorra, egli ti era da secoli innumerevoli predestinato, e la serie fatale  delle cause * avea connesso insieme  quello accidente colla tua esistenza.   6. Atomi, o nature, quale che fosse  dei due, io pongo per fermo  in primo luogo che io sono parte di   ^ Concatenazione delle cause, o serie delle  cause è appo gli stoici la definizione stessa  del fato. un tutto governato da una natura;  e- in secondo luogo che io ho rela-  zione di affinità con tutte le parti a  ine congeneri. Avendo ferme nel-  r animo queste due cose, in quanto  io sono parte, non avrò a grave nulla  di ciò che mi viene compartito dal  tutto, non essendo nocevole alla  parte quello che al tutto è giovevo-  le; nè potendo il tutto aver nulla in  sè che non conferisca al bene di  lui; primieramente perchè questa è  proprietà generale di tutte le na-  ture, e poi perchè la natura del-  r universo ha questo ancora di più,  che non è càusa alcuna esteriore da  cui possa essere necessitata a pro-  durre mai cosa la quale sia per nuo-  cerle. Ricordandomi adunque che io  sono parte di un tutto cotale, avrò  caro ogni cosa che avvenga. E in  quanto ho relazione di affinità colle  parti a me congeneri, attenderò a  non far nulla mai che non si riferisca a quelle; ma anzi mirando sem-  pre a» miei simili, rivolgerò tutte le  mie forze a procacciare il ben co-  mune, e mi asterrò da tutto che  possa ridondare in altrui danno. E  così governandomi' non può essere  che la vita non abbia un corso fe-  lice; come felice stimeresti il corso  della vita del cittadino il quale pro-  cedesse d’ una in altra opera giove-  vole ai suoi compagni di patria, e  avesse caro tutto quello che fosse  voluto dal comune. Alle parti del tutto, quante per  natura contengonsi nell’ universo, è  necessità il corrompersi: questo sia  •detto per significare lo alterarsi di  esse. Il quale alterarsi se fosse per  natura un male, come è una neces-  sità, poco felici sarebbero le condi-  zioni del tutto, le parti di lui es-  sendo, come a dire, avute in odio  da chi governa, e da lui fatte tali  da doversi chi in uno, chi in altro modo corrompere. Dove converrebbe  dire o che la natura avesse' voluto  nuocere ella stessa alle proprie sue  parti (20), sottoponendole al male, e  facendole tali che dovessero neces-  sariamente incappare ' nel male, o  che ciò sia avvenuto senza che sia  stato voluto nè avvertito da lei. Delle  quali cose nè V una nè 1’ altra ò da  credere. Che se taluno, messa da  canto la natura, presumesse espli-  care il nodo affermando le cose essere  nate a ciò, non sarà punto meno  strano il dire essere le parti del  tutto nate ai mutamenti, e ad un  tempo il maravigliarsi e dolersi quan-  do questi mutamenti si compiono:  massimamente quando noi veggiamo  che esse risolvonsi sempre in quei  medesimi elementi di che è compo-  sta ciascuna. Avvegnaché la corru-  zione o dissoluzione delle cose altro  non possa essere e non sia in ef-  fetto che una disgregazione e dispersione di quegli elementi, del cui ag-  gregato esse si compongono, o vogliam dire un ritorno al terreo di  I ciò che v’ ha in esse di solido, e al-  r aereo di ciò che v’ha in esse di  vitale,' di modo che la ragione se-  minale dell’universo riprenda di nuo-  vo in sè questi elementi, perchè al-  r ultimo sieho consunti dal fuoco, se  r universo è sottoposto a conflagrazioni periodiche, o servano con per-  petua vicenda al continuo rinnovel-  lamento di lui, se egli dura eterno  ed incorrotto.* E questo solido e que-  sto vitale non darti già a credere  I che sia quello che tu avesti dalla  madre nascendo: perchè ieri, e ier  r altro è venuto ad aggregarsi in te [Ricorda siccome appo gli stoici la vita  consiste nella respirazione, e quindi T es-  senza di quella è 1' aria. Opinione degli stoici più antichi: Ze-  none, Cleante, Crisippo. Opinione di molti stoici posteriori: Zenone da Tarso, Boeto, Posidouiu, Panezio. e tiai cibi, e (-l’aria die hai respi rata. Questo adunque che ti si è  assrefiato ora si trasforma, e non   oo o   più. quello che partoriva la madre.  Fa’ che tu vi sottoponga col pensiero  quel che ti lega sì strettamente a  ([ueste tali e tali altre cose, le quali  sono un nulla, cred’ io, jrispetto a  quello di che io ragiono Avendo tu imposto a te mede-  simo questi nomi di buono, di mc-  ciosto, di veritiero, di assennato, di,  consenziente, di magnanimo, fa’ che  non abbiansi a mutare nei loro con-  trari; e ove mai ti accadesse di per-  dere quelli, fa’ che tu non tardi a ri-  cuperarli. E ricordati che con la pa-  rola assennata, tu volevi significare  r attenzione discernitiva a ciascuna  cosa presente, e il non pensare ad  altro in quel mentre. Con la parola  consenziente, l’accettazione volontaria di quanto ti viene compartito  dalla natura comune; e con la parola ma(filammo, la elevazione dello  spirito al di sopra di ogni moto soave  o insoave della carne, e al di sopra  I della gloriuzza, della morte c di si-  mili cose. Se adunque tu ti assicu-  rerai il possesso di quei nomi senza  bramare che ti vengano dati da al-  trui, sarai un alti ò uomo ed entrerai  in ima vita nuova. Percìiè il continuare ad essere per lo innanzi quale  sei stato infino ad ora, e il continuare a voltolarti fra le brutture e  I Je angosce di una vita cotale, troppo  è da uomo stupido e codardo, simile  a quei bestiari ' mezzo rosi dalle  fiere, i quali pieni di ferite e con-  taminati di sangue e di loto, pre-  gano pure di essere conservati infine  al domani, ancora che.consapevoli  di dover essere di nuovo esposti,  conci in quel modo, alle medesi-  Cosi chiamavano i Romani quelli accoltollatori che negli spettacoli combatte-  vano contro le fiere. me unghie e ai medesimi denti.  Gittati adunque con animo delibe-  rato in su quei pochi nomi, e se  puoi tenertivi saldo ed eretto, tien-  tivi, non altrimenti che se tu fossi  venuto ad abitare in qualche isola  fortunata; se ti accorgi che tu vi  tentenni, e non possa vincere la  prova, vattene animoso in qualche  cantuccio ove tu sia certo di vincer-  la; od anche esci al tutto di vita,  senza adirarti, ma semplicemente,  liberamente, modestamente contento  di aver fatto pure una cosa nella  vita: Tesserne uscito in cotal modo.*  E al farti ricordare di quei nomi gio-  verà non poco il ricordarti degli Dei,  i quali non vogliono essere adulati; *  ma bensì che tutti gli esseri ragio-  nevoli facciano di assomigliarsi a   Epitteto, Manuale. La pietà  verso gli Dei consiste massimanientG in  avere sane e rette opinioni intorno a quelli (traduz. del Leopardi).  loro, e che il fico faccia le cose che  s’appartengono al fico, il cane quelle  che si appartengono al cane, e Tuomo  quelle che s’appartengono all’ uomo.  Il teatro, la guerra, lo sbigot-  timento, la torpidezza, la servilità  andranno in te cancellando di giorno  in giorno quelle sante massime, le  quali tu apprendi bensì colla imma-  ginativa e confidi alla memoria, ma  senza dar loro fondamento nè fer-  marle colla considerazione del tuttto 022). Egli ti bisogna vedere le cose  e fare in modo che e il particolare  che è intorno a te, sia bene osser-  vato, e la relazione di quello al tutto  sia contemplata, e quella compia-  cenza di sè medesimo che nasce  dalla scienza di ciascuna cosa si con-  servi nell’ interno tuo, segreta, ma  non celata. Altrimenti quando godrai  i frutti della semplicità? quando  quelli della gravità e sodezza? quan-  do quelli della conoscenza di ciascuna cosa, quale ella è per essenza, che posto occupa nel mondo,  quanto tempo è per sussistere, di  che è composta, in quali obbietti si  può trovare, e chi sono coloro che  possono darla o toglierla. Il ragno superbisce se ha preso  una mosca; altri, se un lepratto;  altri, se un’ acciuga; altri, se un  cinghiale o un orso; altri, se fece  prigioni alcuni Sarmati. Non sono  dunque assassini costoro se tu consideri i principii che li movono?  Fa’ che tu impari il modo ac-  concio di contemplare come tutte le  cose si mutano le ime nelle altre,  e attendi senza ristare a questa parte  della filosofìa, e vienti esercitando  in essa. Perchè nuli’ altro è che  tanto innalzi 1’ animo. Chi è assiduo  in questa contemplazione si spoglia,  sto quasi per dire, del corpo, e considerando siccome in poco d’ ora gli  converrà lasciare tutte le cose di qua e partirsi dagli uomini, non at-  tende più ad altro che a conformarsi  alla. giustizia e alla natura dell’ uni-  verso in tutto che egli fa o patisce.  Che dirà un tale, che opinione avrà  di lui 0 che farà contro di lui uìi  tal altro, egli non se ne dà un pen-  siero al mondo, pago e contento di  queste sole due cose; se egli fa con  giustizia ciò che egli fa nel mo-  mento presente, e s’ egli ha caro  qualsiasi cosa presentemente gli ac-  cada. Tutte le altre cure e negozi  lascia andare, e d’ altro non gli calo  che di camminare perla diritUivia,  tenendo dietro a chi sempre cam-  mina per la diritta via, a Dio. A che il sospetto quando tu  puoi ricercare che cosa è da fare  nella congiuntura presente? Che se  tu il vedi, mettiti a ciò, e va’ in-  nanzi alacremente per quella via,  senza guardarti dietro; se noi vedi,  sospendi il giud^io, e aiutati del consiglio degli ottimi. Se insorgono  ostacoli al compiere quello che hai  deliberato, governati razionalmente  secondo la nuova occasione che si  presenta,* attenendoti sempre a quel-  lo che ti par giusto. Perchè questa  è r ottima cosa da conseguire, sendo  che lo scostarsi dalla giustizia è un  decadere dalla natura umana. Egli  è un certo che di lento e posato e  insieme di mobile ed alacre, di ilare  e sereno e insieme di serio e grave,  colui che segue la ragione in ogni  cosa. Appena riscosso dal sonno  chiedi a te medesimo se ti impor-  terà che da altri anzi che da te  si faccia quello che sta bene ed è  giusto. Non te ne importerà: o avre-  sti tu dimenticato quali sono costoro  che superbiscono nel farsi dispensa-   M   t Cioè volgi l'ostacolo a profitto, servendoti di Ini come di nuova materia ad  azione. tori della lode e del biasimo, quali  nel letto, quali a mensa; e quali  cose facciano e quali fuggano, a quali  intendano, e quali rubino e quali  rapiscano ' non colle mani o coi pie-  di: ma colla parte più nobile di loro,  la quale può diventare, solo ch’ella  il voglia, fede, verecondia, verità,  legge, buon genio. Alla natura che dà e ritoglie  tutte le cose, 1’ uomo bene instituito  e modesto dice: « Da’ quello che vuoi,  togli quello che vuoi, o natura.  E questo dice non già con baldanza  orgogliosa, ma con intimo senso di  alfettuosa obbedienza verso di lei. Appo gli stoici imà virtù è la parte so-  vrana deir anima talmente modificata. [‘Natura’ per gli stoici è lo stesso che ‘Dio’. Queste parole di Marcaurelio corri-  spondono perfettamente a quelle di Giobbe:  Dominui dedita Dominus abstulit, osserva  qui bouissimo il Pierron. Poco^ è questo che ti rimane  a vivere. Vivi dunque come in sulla  montagna. Perchè a qui, o colà,  nulla monta, se, dove che tu sii, tu  vivi sempre nel mondo come in una  città. E veggano e conoscano pure*  gli uomini un uomo davvero, il quale  vive secondo natura. Se noi possono  tollerare, uccidanlo. Meglio questo  che vivere com’ essi fanno.*   1(». Non è più tempo di far parola  intorno a ciò che deve essere Tiiomo  dabbene, ma di incominciare ad esserlo.  Il pensiero del tempo universo  e della materia universa ti sia del  continuo presente, e che tutte le  cose particolari sono, rispetto a que-  sta, un granello di miglio, e rispetto  a quello, un batter d’ occhiò. Considerando ciascuno degli  obbietti che offronsi alla tua osser-  Letteralmente: un volger di trapano. vazione, fa’ di rappresentartelo come  già in atto di dissolversi e trasfor-  marsi; d’ infradiciare, per esempio,  o dileguarsi in fumo, o altro, secondo  il genere di morte a cui nacque. Vedili quando mangiano, quan-  do dormono, quando usano con fem-  mina, quando sono al cesso, o fanno  altre cose tali. Vedili poi (piando  stanno in sussiego o fan cipiglio,  quando van tronfi e pettoruti, o s'adi-  rano, rabbuffano altrui con alterigia.  E poco innanzi servivano pure come  schiavi a tante cose, e per quali  motivi ! E poco dopo ritorneranno  a quelle medesime cose.  Giova a ciascuno ciò che ar-  reca a ciascuno la natura comune.  Ed allora giova, quando essa lo arreca.   La terra ama la pioggia; e l’ama ancora 1’etere venerando. E il mondo ama far quello che è  per accadere. Dico adunque al mondo: Io amo con te. E non dicesi egli  parimenti che una tal cosa ama accadere?  0 tu vivi qua, e ci sei già avvezzo; 0 vai fuori, e questo tu desi-  deravi; 0 muori, ed hai finito il tuo  compito. Fuori di questi tre casi non  v’ ha altro. Adunque stattene di buona  voglia.  Abbiti sempre per certo che  quel tuo vivere in villa non è punto  diverso da questo, e che tutte son  qui le cose come in sulla cima del  monte, o sulla spiaggia del mare, o  dove che tu voglia. Perchè ti si pa-  rerà davanti a bella prima il detto  di Platone: « Egli sta nella reggia  come in una capanna sul monte,  mugnendo l’armento. Che è in questo istante la mia  parte sovrana? e quale la fo io? A  che Tadop ro io? Non è ella per av-   8Ìde«nd^‘°R sognando o deventura vuota di ragione? Non è ella  separata, divelta dalla comunità?  Non è ella cosi congiunta, conglu-  tinata col corpo, da doverne seguire  tutti i moti?*   25. Chi fugge dal suo signore, è  servo fuggitivo. Ma la legge è signora: chi trasgredisce la legge, è  dunque un servo fuggitivo. E similmente chi s’ attrista, o teme, o non  vorrebbe che fosse accaduta o acca-  desse 0 fosse per accadere alcuna  qualsivoglia di quelle cose che ha  ordinato il reggitore di ogni cosa,  cioè la legge distributrice di quello  che tocca a ciascheduno. Adunque  Bene rammenta qnì ìi Gataker ciò che  Platone avea già.detto nel Fedone: «Cia-  scun piacere e ciascun dolore, non altri-  menti che un chiodo confìgge l'anima al  corpo e con esso la unifica per modo che  ella, accetta per vero tutto che è affermato  dal corpo. La legge di cui qui parla Antonino è la  legge universale, quella della natura, di  Dio. chi teme, o s’ attrista, o s’ adira, è  nn servo fuggitivo.   2(ì. Chi introdusse il seme nella  matrice, se ne va; un’ altra causa  sottentra immantinente, e lavora e  conduce a termine il feto. Qual cosa  e da quale? Ancora, egli manda giù  il cibo per la gola: e tosto un’ altra  causa sottentrando produce senso,  moto, vita, vigore, eccetera. Quante  e quali cose? Queste maraviglie, che  si compiono sotto un velo si impe-  netrabile, sianti spesso subbietto di  contemplazione, e sappi fare  concetto della potenza operatrice di  ({uelle, come facciamo della causa che  fa gravitare i corpi o li spinge in al-  to, la quale non vediamo cogli occhi,  ma non però meno certamente. Non dimenticare che tutte  queste cose, che ora si fanno, si  sono fatte prima d’ ora: e pensa* che  si faranno per l’avvenire. Pònti da-  vanti agli occhi quanti drammi o scene vedesti tu stesso, o leggesti  nelle antiche storie: come, verbi-  grazia, tutta intera la Corte di Adrian  no, tutta intera quella di Antonino,  tutta intera quella di Filippo, di  Alessandro, di Creso: perchè erano  tutte la stessa cosa che adesso, solamente erano diversi gli attori.  Fa’ ragione che colui il quale  si attrista d’ alcuna cosa, o l’ ha a  male, non è punto dissomigliante  dal porcellino percosso dal ferro del  sagrifìcatore, il quale ricalcitra e  grida. Non altro concetto hai da  farti di chi lamenta solitario sul suo  lettuccio le catene che ne stringono. E pensa come al solo animale  ragionevole è dato seguire volontario gli eventi: che in quanto al se-  guirli ad ogni modo, è forza di ne-  cessità per tutti.   1 Lettuccio è qui come chi dicesse il  canapè su cui l’uomo lavora e studia. Cosi,  bene il Casaubono. Considera segregatamente in  sè stessa ciascuna delle cose che vai  facendo, e interroga te medesimo se  la morte è un male perchè ti priverà del potere di farla. Quando per l’ altrui fallo ti  senti montare la collera, rivolgiti  tosto sopra te stesso ed esamina in  qual cosa simile a quella tu pecchi:  stimando, per esempio, che le ricchezze siano un bene, o il piacere,  o la gloria; secondo il genere del-  l’altrui peccato che ti sprona all’ira. Perchè se tu badi a ciò, presto  cesserà la tua collera. E ancora con-  sidererai che colui è forzato.* E in  vero che farebbe egli? Ovvero, se tu  il puoi, rimovi da lui ciò che lo  sforza. Cioè a dire, rimovi dalla sua mente  l’errore, il falso giudizio; perchè gli stoici  deriTavano interamente il bene morale dal  giudizio razionale, e riferivano quindi uni-  camente alla luce della ragione le risoln-    [Veggendo Satirione, immagina  di vedere Socratico o Imene: veggendo Eufrate, immagina Eutichione  0 Silvano: quando vedi Alcifrone,  immagina Tropeoforo. Qquando vedi  Senofonte, immagina Oritene o Severo; e in te stesso figurati di ve-  dere qualcheduno dei Cesari; e così  via via. Poi ti occorra alla mente:  ora dove sono costoro? In nissun  luogo, 0 chi sa dove. Di questa maniera tu verrai avvezzandoti a consi-  derare le cose umane come un fumo  ed un nulla: massimamente se ti  rammenterai come ciò che fu mu-  tato una volta, non riprenderà mai  più quella forma in tutto il tempo  infinito. E tu in qual tempo? Che  non ti basta adunque il passare co-   zioni virtuose della volontà: secondo essi il  giudizio determina la volontà necessariamente. Intendi: se gli altri non ci ritornano  mai più, ti credi tu di averci a ritornare  tu solo? 0, stumatamente questo poco che ti è  dato? Da qual materia d’ azione, da  quale impresa rifuggi? Tutte queste  cose che ti accadono, sono esse altro  che occasioni di esercizio alla ra-  gione, la quale abbia diligentemen-  te, e come si addice allo studioso  della natura, considerate le cose che  avvengono nella vita? Rimanti adun-  que finché tu abbia assimilato a te  medesimo ancor questo,' come il  valente stomaco assimila a sè tutti  i cibi, come lo splendido fuoco fa  fiamma e luce di tutto che tu getti  in esso. Nissuno sia veritiero il quale dica di te che non sei sempli-  ce e schietto, che non sei uomo  dabbene: ma menta chiunque fac-  cia di te un tal giudizio. E tutto  ciò sta in poter tuo. Perchè chi è  [Intendi: ciò che ora ti è dato per ma-  teria di azione f frase solenne ad Antonino. quegli che ti possa impedire che  tu non sii schietto e dabbene? Solo che tu abbia fermo nell’ animo  di non voler più vivere quando tu  non sii tale. Nè la ragione il vorrebbe. Che è ciò che in questa occa-  sione che mi è data si può fare o  dire per lo meglio? Checché egli sia,  è in mia facoltà il farlo, o il dirlo.  Non iscusarti col dire che ne sei im-  pedito. Non prima cesserai dai lamenti che non sii fatto tale, che  r operare conforme air istituzione  tua in (jualsivoglia caso non sia  per te la stessa cosa che è pel sen-  suale la voluttà. Perocché ciò ap-  punto vuoisi dall’ uomo avere in  conto di vero godimento. L’operare. In questa occasione - in qualsivoglia  caso.» Chi preferisse la frase stoica dica:  « in questa materia — in qualunque materia a te sottoposta » come disse Ornato.  A me parve troppo alieno dall’ uso, ed anche poco chiaro in italiano. conformemente alla propria natura.  E questo può egli in ogni caso. Al  cilindro in tutti i casi non è dato  potersi muovere in quella forma di  moto che gli è propria, nè all’acqua,  nè al fuoco, nè a nissuna delle cose  che sono governate o da natura inanimata, 0 da anima irrazionale: molti  sono gli impedimenti che loro si  frappongono, molte le resistenze. Ma  la mente, la ragione può seguire,  solo che il voglia, la sua propria via  vincendo tutti gli ostacoli. Questo  potere e agevolezza che ha la ragione di seguire la sua via in tutte  le direzioni, all’alto, al basso, per   10 declive, come il fuoco, la pietra, il cilindro, pònti davanti agli occhi,  e non cercare più oltre. Tutti gli  ostacoli che tu puoi incontrare non  hanno relazione se non se al corpo  che è cosa morta; o veramente, se  non sottentra l’ opinione, e se la  mente non cede, non possono nuocere nè far male veruno. Altrimenti  chi ne patisse, dovrebbe eziandio pa-  tire deterioramento, come veggiamo  di tutte le altre produzioni sia della  natura sia dell’ arte; le quali tutte  trovansi deteriorate ove incolga loro  alcun male; ma, qui al contrario,  r uomo, se ho a dirlo, si fa migliore  e più degno d’ encomio, quando fa  retto uso degli accidenti, quali essi  sieno, che gli incontrano. In som-  ma ricordati che non offende il ve-  ro cittadino ciò che non offende  la città; che non offende la città  ciò che non offende la legge; e  che nissuna di tutte queste così  dette avversità offende la legge. E  se non offende la legge, non of-  fende adunque nè la città nè il citadino.  A colui che fu ben penetrato  dalle vere credenze, basta il più breve  detto, anche di quelli che sono a  tutti i più noti, a sgombrargli dall’animo la tristezza o il timore. Per  esempio. Quali sono le foglie, e tali sono  Le schiatte degli umani. Quelle il vento  A terra sparge, ed altre ne produce  La germogliante selva a primavera.   Cosi le schiatte degli umani: questa Or nasce, or quella muore. Foglie sono i tuoi figliuoli, foglie tutti  costoro che ti acclamano, e schiamazzano sì forte da far credere che  dicano il vero; foglie questi altri che  altamente ti maledicono, o ti vilipen-  dono e lacerano in segreto. Foglie  sono ancora quelli che ricorderanno  il tuo nome dopo la tua morte. Tutte  queste cose spuntano fuori alla verde  stagione, poi fi vento le sparge a  terra, e(i altre in loro vece ne ri-  produce' la germofjliante selva. Il  durar poco è comune a tutte. Ma tu  le fuggi 0 le cerchi come se aves-  sero a durar sempre. Ancora un poco  e chiuderai gli occhi; e a quello che ti comporrà sul rogo, altri farà il  corrotto.   35. L’ occhio sano deve essere dis-  posto a vedere tutto ciò che è vi-  sibile, e non dire: io voglio vedere  solamente il verde; perchè ciò è da  occhio ammalato. L’ orecchio sano  e r odorato debbono essere disposti  a udire tutti i suoni e a sentire tutti  gli odori. E lo stomaco sano deve  essere preparato a digerire tutti i  cibi, non altrimenti che la macina è  pronta a macinare tutto quello che  ella fu fatta per macinare. E così  pure la mente sana deve essere  pronta ad accettare tutto quello che  accade. Colui il quale dice: « sieno  salvi i figliuoli » e « tutti lodino le  mie azioni » è come 1’ occhio che  vuol vedere solamente il verde, o  come i denti che vogliono masticare  sol cose tenere.   36. Nissuno è tanto avventurato  che al suo morire non sia per avere intorno a sè chi si rallegrerà del  male che gli incontra. Savio e dab-  ben uomo sia stato; non mancherà  all’ ultimo chi in sè stesso dirà. Respireremo una volta da questo  pedagogo. A nissuno di noi diede  noia con rampogne, è vero; ma ci  siam pure avveduti che in cuor suo  ci condannava. » Questo si dirà del-  r uom savio. E di noi, quante altre  cose possono fare a molti desiderare  che ce ne andiamo! A questo pen-  serai quando sarai per morire, e la  tua partenza ti verrà fatta più facile.  Ragionerai teco stesso: me ne vo  da questa vita, dalla quale questi  miei concittadini, pei quali ho in  essa tanti travagli sostenuto, tante  preghiere fatto, tante cure avuto,  vogliono ora essi medesimi. eh’ io me  ne vada, sperando forse che debba  seguirne loro qualche profitto. Chi  dunqu e potrebbe desiderare d’avere  a starci più lungamente? Non per questo partirai tu men benevolo  verso di quelli, ma, serbando inai-  terato il costume e 1’ indole tua,  amico loro tuttavia qual fosti, pro-  pizio e amorevole a tutti, e non  però mesto nè ripugnante. Ma co-  me veggiamo in chi muore di fa-  cile morte V anima soavemente scio-  gliersi dal corpo, cosi conviene che  si faccia la tua separazione da co-  loro. Perchè la natura ti avea pure  congiunto e complicato con essi. Ora me ne disgiunge? Ed io mi  lascio disgiungere come da amici  e carissimi congiunti, non però turbato nè ripugnante, ma tranquillo  e di mio buon grado. Perchè anche  questa è una delle cose volute dalla  natura.  A ciascuna cosa che tu vegga  fare a chicchessia, vienti avvezzando,  per quanto è possibile, a ricercare,  ragionando teco medesimo: costui  a che riferisce quello che sta facendo? E incomincia da te, esami-  nando te stesso il primo.   38. Ricordati che chi dà V impulso  e muove, per cosi dire, le fila del  fantoccino, è il celato nel di dentro.  Quello è il dicitore che persuade,  t|uello è la vita, quello è, se vogliam  dire il vero, V uomo propriamente.  Guardati dal figurartelo come una  sola cosa con esso il vaso le cui pa-  reti lo circondano, o con questi in-  gegni che songli cresciuti intorno.*  Questi somigliano alla scure; se non  che gli sono per natura aderenti.   Si capisce facilmente che per ingegni bassi qui ad in-  tendere ordigni, cioè gli organi e le mem-  bra del corpo. Gli Inglesi e i Francesi  presero dai classici Italiani questa parola  ingegno con questo senso, e dicono quelli  engine e questi engin; come ne presero  tante altre bellissime o utilissime dello  quali si servono quotidianamente; e di tali  ancora che noi abbiamo interamente dimen-  ticato: e per significar poi quelle cose di  cui abbiamo dimenticato i nomi italiani, an-  diamo ad accattar vocaboli dai forestieri, E in effetto, allontanata la causa che  li muove, non è uso alcuno di essi  pili che non sia della spola, senza  la mano, al tesserandolo, nè della  penna allo scrittore, nè della frusta  al cocchiere. È proprio deir anima razionale'  il veder sè medesima; il conoscere  partitamente sè medesima; il far sè  meilesima quale ella vuole: il cogliere essa medesima il frutto che  ella produce, laddove i frutti delle  piante e i portati degli animali sono  colti da altrui; il giugnere sempre  allo scopo che è proprio di lei, in  qualsivoglia punto arrivi il termine  della vita: perchè 1’ azione di lei, in  qualsiasi momento ne sia arrestato  il corso, non rimane imperfetta, co-   [Razionale per distinguerla da quella  dei bruti, che dagli stoici è chiamata anima semplicemente. me nelle rappresentazioni sceniche  o nel hallo, o in simili cose; ma  anzi in qualsivoglia istante, in qual-  sivoglia luogo le sopravvenga la mor-  te, ella compie nondimeno intera-  mente, e in modo soddisfacente a sè  stessa, quanto si avea proposto (28),  e può dir sempre: io ho tutto il mio.  Ancora ella va spaziando colla speculazione per tutto il mondo e il  vuoto che lo circonda, e contempla  la forma di quello, e si estende nella  infinità dei secoli, e abbraccia col  pensiero i rinascimenti periodici della  università delle cose; e contemplan-  doli si fa capace che non rimane da  vedere nulla di nuovo ai nostri po-  steri, siccome nulla di più videro i  nostri antichi; chè anzi 1’ uomo  giunto all’età di quaranf anni, per  poco che abbia di buon discorso, ha   1 Tutto il mondo: intendi ciò che noi di-  remmo tntto il creato. Ma l'idea di crea-  zione era aliena dagli stoici. in certo modo veduto e conosciuto  tutto ciò che fu e tutto ciò che sarà  per la somiglianza che hanno le  cose fra loro. Ancora è proprio del-  r anima razionale l’ amore del pros-  simo, la veracità e la verecondia, e  il non anteporre nulla a sè mede-  sima: * il che è proprio eziandio della  legge. Onde segue che la retta ra-  gione e la ragione di giustizia sono  una sola cosa.  I canti aggradevoli e le danze  e gli esercizi ginnastici ti cadranno  Bene avverte qui il Gataker come an-che la legge cristiana ci prescrive di non  avere a nulla maggior rispetto che alla propria anima (confer. s. Matt. Evang. XVI, 26;  s. Marco Vili, 36). E san Gregorio Nazianzeno: c nulla, disse, è più prezioso a ciascuno  che la propria anima» riproducendo quasi  nella sua prosa il verso 301 dell’Alceste di  Euripide. [Esercizi ginnastici, letteralmente il  pancrazio. Ognuno sa che i romani per mezzo  della ginnastica voleano esercitata la forza del corpo con signiftcazione di leggiadria. E quindi i giuochi ginnastici erano pur uno  degli spettacoli più graditi ad un popolo,   in disprezzo, se tu dividi, per esempio, la cantilena melodiosa in ciascuno dei suoni di che ella si compone, e ad uno ad uno considerandoli, domandi a te stesso, è egli  questo quel che mi vince? » perchè  ne avrai vergogna. E similmente in-  torno alla danza, considerando sepa-  ratamente ciascuno dei moti, cia-  scuno degli atteggiamenti; e così  per gli esercizi ginnastici. E gene-  ralmente in tutto ciò che non è  virtù, o che non procede da virtù, i  sovvengati di ricorrere alla divisione  delle cose nelle parti loro (29), si che  divise a quel modo elle ti cadano in  dispregio. Fa’ l’applicazione di ciò  anche alla vita intera. Quale debba essere 1’ anima   in tutto r ordine della cui vita regnava  sovranamente l'idea della bellezza. Cioè, dividi la vita umana in tante pic-  cole porzioni, per disprezzarla tutta insieme. Sottintendi ronsi'lera, o ricordati. apparecchiata a sciogliersi, ove oc-  corra, immantinente dal corpo, a spegnersi o a dissiparsi, o ad entrare in  una nuova condizione di esistenza. E questa disposizione proceda da  giudizio particolare della mente, non  da sola pervicacia di volontà, come nei Cristiani; sia scevra da ogni  tragica ostentazione, non però senza  dignità, da poter anche persuadere  gli altri. Ho io fatto qualche cosa che  giovi alla società? Adunque ho gio-  0 ad entrare eiUtenta; letteralmente: 0 a perdurare. Ornato traduce: o a rimanere ancora dopo morte  Non mi piacque, ma la mia versione, che  svolge il pensiero dell’ autore, ha un coloro  troppo moderno.  I Cristiani erano ancora comunemente  mal conosciuti, e creduti settari fanatici,  nemici dell’ impero. Cioè a dire; sia tale, non solo intimamente. ma anche pe’ suoi caratteri esteriori,  da poter persuadere altrui che essa procede  da ben ponderato giudizio,* nòn da codardia  0 vanità o da intemperata esaltazione o  concitazione di mente.  vate a me stesso.' Questo pensiero  ti occorra sempre pronto alla mente,  e ti conforti a perseverare.  Qual è r arte tua? L’esser buono. E quest’ arte come altrimenti s’acquista, se non per le buone dottrine,  le une intorno alla natura dell’uni-  verso, le altre intorno alla costituzione propria dell’ uomo?  Da prima fu istituita la tragedia  a ricordare i casi che sogliono av-  venire e come essi sieno così fatti  per natura, e ad avvertirci nel medesimo tempo essere una contrad-  dizione il pigliarne diletto quando  li vediamo sulla scena del teatro e  dolercene poi quando accadono sopra  una scena maggiore. Voi vedete di   [Sono le parole di' Salomone, Prov. XI,  17: « Benefacit sibi ipsi vir beneficus.»  Epitteto svolgo il medesimo concetto, dis-  sert. I, 19; Seneca, epist. 48, disse: «Non  potest beate degere qui se tantum intuetur,  qui omnia ad utilitates suas couvertit: al-  teri viVas oportet, si vis tibi vivere.»  fatti essere pur forza che 1’ azione si  compia a quel modo (30), e che deb-  bono ad ogni modo soffrirlo anche  coloro che esclamano: « 0 Citerone,  ahi lasso.* w E invero alcune cose  diconsi utilmente dagli autori di tra-  gedie siccome questa:   Che se gli Iddìi   Di me nè de’ miei tigli non han cura,   Ragion pur anco a ciò li move. E quest’ altra. Contro alle cose lo adirarsi è vano. »   E ancora quest’ altra:   € Mieter la vita   Come spiga matura -»   E le altre di cotal fatta.   Dopo la tragedia fu introdotta hi   t Parole di Edipo. Vedi Sofocle, Edipo re,  vers. 1391. Ecco, secondo la traduzione del  Belletti, i tre versi che formano il periodo  intero di cui quelle parole sono il comin-  ciamonto:   Oh Citeron! perchè raccormi? o tosto  Perchè morte non darmi, ond' io giammai  L'origin mia non rivelassi al mondo! vecchia commedia, la quale, con  quella sua libertà, facesse come da  aio al popolo, e con quel suo chia-  mare le cose coi nomi loro, ne ri-  cordasse agli uomini la vanità: i  quali modi assunse poi Diogene ezian-  dio ad un fine somigliante. Dopo la  vecchia, quale sia stata la mezzana  commedia, ed ultimamente poi la  nuova, e quale scopo abbia questa,  che a poco^a poco si è ridotta ad, essere puro artificio di imitazione,  lascio a te il considerare. Che anche  da costoro si dicano alcune cose  utili, non è da negare: ma l’ inten-  zione generale di un tal genere di  poesia e di composizioni drammati-  che, qual è ella mai?  Come vedi tu chiaro nissun’ al-  tra setta' essere così acconcia al    1 Setta, intendo della setta illosodca in  che Marco vivea, e non dello stato o- condizione sociale. Ho qualche dubbio, e parrai che il 3iou    filosofare, come quella in che sei ora?  Un ramo spiccato da un altro  ramo non può non essere separato  dalla pianta intera. Parimente un  uomo diviso da un altro uomo è sca-  duto dalla società intera degli uo-  mini. Il ramo vien divelto per mano  d’altri. L’uomo si separa egli stesso  dal suo vicino, quando egli l’ odia,  quando lo ha in dispetto; e non  s’ avvede eh’ egli si distacca ad un,  tempo dalla intera comunità. Se non  che, per dono di Giove autore dplla  comunità, può ciascuno di noi che  siasi distaccato dal prossimo, riap-   ÙTTóOeo'.y potrebbe anche voler dire qualche  cosa che non fosse nè la condizione sociale-y  nè la setta filosofica^ ma bensi il modo e  r ordine ili vita adottato da Antonino nella  condizione sociale in cui vivea: e cosi l’in-  tesero anche il Gatakero e lo Schultz, i  quali_ tradussero vitee genus. Ma siccome  rOrriato pare che fosse ben fermo in quella  sua opinione, ho conservato la sua parola  fetta. P, piccarvisi e farsi di nuovo parte in-  tegrante del tutto. Vero è che quando ciò accade più volte, più diffìcile  diviene la riunione o il ristabili-  mento a suo luogo della parte stac-  cata. E ad ogni modo egli è diverso  il ramo che crebbe da principio in-  sieme cogli altri e sempre rimase  unito con essi, dal ramo che vi fu  innestato dopo esserne stato divelto:  checche ne dicano i giardinieri, fa  un albero solo cogli altri rami, ma  non un solo disegno. La vegetazione è una, ma la forma non  è una. Questo potrebbe dirsi di un ramo di pe-  sco, p. es,, che fosse innestato in quello di  un noce; ma quando un ramo del uoco che  ne fosse stato spiccato fosse innestato in  un altro ramo del noce medesimo, sarebbe  una la vegetazione cd una ancora la forma.  Mi è anco sospetto quello ófJioJoyjjiaTetv  parlandosi di piante. Io propendo a credere,  coi migliori critici, questo luogo corrotto o  manchevole nel testo. Alcuni di quest' ulti-  ma frase fanno un paragrafo separato: e  remato stesso non era ben risoluto. Chiunque voglia avversarti in  cosa che tu faccia secondo la retta  ragione, siccome non avrà forza dà  distoglierti dall’ azione incominciata,  cosi ancora non ti riinova dal sen-  timento di benevolenza che devi avere  per lui: ma fa’ che tu ti serbi co-  stante nel giudicare e nell’ operar  rettamente, e ad un tempo amore-  vole verso chi cerca di impedirti o  in qualsivoglia modo ripugni a ciò  che tu fai. Perchè non sarebbe mi-  nore fiacchezza lo adirarti contro  questi tali, che il ritrarti dall’ im-  presa e dar luogo per paura; essendo  egualmente disertore chi teine e  fugge dall’ ordinanza, e chi s’ allon-  tana dal congiunto e dall’ amico suo  naturale.   IO. Non è natura alcuna la quale  sia da meno dell’ arte che ne è imi-  tatrice; nè la più perfetta fra le na-  ture, quella che comprende in sè  tutte le nature, può essere da meno di un’ arte qualsivoglia. Ora le arti  tutte fanno le parti inen nobili di  ciascuna delle opere loro per amore  delle più nobili;' adunque anche la  natura comune. Quindi ha origine la  giustizia, e da questa procedono tutte  le altre virtù. Perchè mal potrà  conservarsi giusto colui, il quale o  non sarà indiflerente verso le cose  medie, o si lascierà facilmente in-  gannare dalle apparenze, o sarà pre-  Come, per esempio, un pittore farà ciò  che pone nel fondo di un suo quadro per  dare maggior risalto a ciò che ne è il sog-  getto principale. E (la questa procedono tutte le altre virtù.  Intendo che dallo aver la natura voluto che  si osservasse la giustizia, procedette che  essa natura istituisse le altre virtù; quelle  cioè di cui parla poco dopò; le quali sono  necessarie alla pratica della giustizia e fu-  rono dalla natura istituite per amore di  essa giustizia, còme un artefice fa le parti  men nobili di una sua opera per amore delle  più nobili. Ricordi il lettore che appo gli  stoici posteriori parte sovrana della filosofia •  era la morale: la logica, anche per gli stoici  antichi, era subordinata alla morale.  cipitoso nel giudicare, o mal fermo  nel giudizio fatto. Non le cose, il cui desiderio  o timore ti turba, vengono alla volta  tua; ma tu in certo modo vai alla  volta loro.' Ora fa’ che il tuo giudi-  zio intorno a quelle stia cheto, e  quelle rimarransi quete del pari, e  tu non sarai veduto desiderar nulla  nè temere.  La sfera dell’anima ha la forma che è propria di lei, quando ella  nè si estende al di fuori verso checchessia, nè si ritrae al di dentro, nè  si dissipa, nè si accascia,* ma splende  di una luce per la quale ella vede  la verità che è nell’ universo e quella  che è in lei.  Un tale mi disprezza?  Tal sia  di lui. A me basta parlare e operare Inteudi che l' anima è nello stato con-  forme a natura, quando ella non ha nè de-  siderio, nè timore, nè piacere, nè dolore. in modo che nissun mio detto o fatto  meriti disprezzo. Mi odierà? Tal sia  di lui. Quanto si è a me, io mi ser-  berò mansueto e benevolo verso ognu-  no, pronto a chiarire dell’ error suo  anche colui che mi odia, non con  parole di rimprovero nè ostentando  pazienza, ma cortesemente e con sin-  cera amorevólezza, come Focione so-  lea fare (31), supposto che non s’infin-  gesse. Perchè la mansuetudine vuol  essere interna, sì che gli Dei veggano in te un uomo disposto a non  ricevere nulla con isdegno nè a ma-  lincuore. Qual malej in fatti, per te,  se tu fai ora quel che s’ addice alla  tua natura e ricevi ciòcche ora è giu-  dicato opportuno dalla natura uni-  versale, tu uomo ordinato a questo  fine che sempre si faccia il comun  bene, sia qualsivoglia lo strumento  per cui si faccia? Si disprezzano l’un l’altro, e  si vanno piaggiando l’un 1’altro. L'uno vuol essere da pii» che l’altro,  e s’ inchinano 1’uno all’ altro scawi-  bievolmente. Che fradiciume e che doppiez-  za non è il dir di taluno: a Io ho  deliberato di trattar teco schietta-  mente. » 0 uomo che fai? Non è  bisogno' di questo preambolo. Alla  prova si vedrà. Sulla fronte conviene  ti si legga immantinente ciò che tu  di’, perchè è cosa di tal natura che  tosto si manifesta negli occhi, come  nello sguardo dell’ amante ogni cosa  conosce immantinente l’ amato. L’uo-  mo schietto e buono dev’ essere come  chi sa di caprino, sì che al solo ac-  costarsegli altri il senta, voglia o  non voglia. La schiettezza simulata  è un’ arme da traditore. Non è cosa  più turpe che l’amicizia del lupo. L’ amicizia del lupo espressione proverbiale presso i romani, ed era allusione a  quella favola di Esopo, nella quale i lupi  persuadono le pecore a dar loro i cani come  ostaggi, e ad accettare alcuni giovani lupi   A tutto potere fuggi cotesto. Alfuom  dabbene, all’ uomo schietto, all’ uom  benevolo sono appariscenti negli oc-  chi tjuelle qìialità loro, e non è bisogno di parole a manifestarle. Vivere beatamente è cosa che  sta in potere dell’anima, solo ch’ella  voglia essere indifferente verso le  cose indifferenti. E questo le succederà se ella considererà ciascheduna di esse nelle sue parti e nelle  sue relazioni col tutto, non dimen-  ticando che nissuna di esse viene  alla volta nostra nè ci sforza a fare  di lei tale o tal altro concetto; ma •  anzi elle si stanno tutte immobili  dove sono, e noi siamo quelli che  facciamo i. giudizi intorno ad esse,  e li scriviamo, per così dire, dentro  di noi, potendo non farlo; e ancora.    come gaardiatii in luogo di quelli; e divo-  rano poi le infelici che lascìaronsi gabbare  dalle belle parole e dalle belle promesse. Cioè le cose fuori di noi. quando ciò ne venga fatto inavver-  titamente e senza avvedercene, po-  tendoli cancellare immediatamente e rammentando inoltre che pocd^ha  a durare questa fatica di considerare  le cose in tal modo, e saremo poi  fuori della vita per sempre. E che  v’ha poi di tanto arduo in esse? Se  sono secondo natura, pigliane piacere, e ti diverranno facili; se sono  contro natura, vedi tu che cosa è  secondo la tua natura, e a quello  attendi, ancora che sia senza gloria.  È sempre degno di scusa chi va in  traccia del proprio bene. Donde sia venuta ciascuna  cosa, di che elementi sia composta,  ed in che si trasformi, e qual divenga trasformata, e siccome non è  per soffrire alcun male per la trasformazione. E in primo luogo,* quale rela-   [Sottintendi: Considera] [Sottintendido considerare, o altra  zione io abbiaceli essi e come siam  nati gli uni per gli altri, ed io, per  altri rispetti sono nato per essere  loro guida, come l’ariete della greggia e il toro deir armento. Risali più  in alto: se gli atomi non sono, la  natura è quella che governa l’uni-  verso; e se questo è, gli esseri meno  perfetti sono nati pei più perfetti, e  questi gli uni per gli altri. Quali essi sono a mensa, a letto,  negli altri momenti della vita. E massimamente a che sorta di azioni siano necessitati per le credenze che  essi hanno, e con quanta presun-  zione di sapere fanno essi ciò che  fanno. Che se essi fanno ciò a buon  diritto, e’ non ti bisogna avertelo a  male; se a torto, essi il fanno indubitatamente malgrado loro, non sa-  pendo quel che si fanno. Perciocché   frase cotale; e cosi al principio di ciascuno  degli otto capi seguenti. siccome è involontaria negli uomini  la privazione del vero, così involon-  tario è ancora il non portarsi verso  altrui secondo le norme del giusto:  il che provano collo adirarsi quando  sono chiamati ingiusti, ingrati, cu-  pidi dello altrui, o rei di qualsivoglia colpa verso il vicino. Che tu ancora pecchi non di  rado, e sei pur uno del numero loro;  e se da certi peccati ti astieni, hai  nondimeno la disposizione a com-  metterli, benché, sia per difetto di  audacia, sia per vanità o per altro  cotal vizio, tu noi faccia. Ancora, che tu non sai di certa  scienza che essi pecchino: perchè  molte azioni, che paiono malvage  si fanno talora a fin di bene o per  meno male: e ad ogni modo è me-  stieri sapere di molte cose a poter  sentenziare convenientemente sulle  azioni altrui.   6® Quando senti che sìa per occuparti r ira od anche solo l’ impazienza; che la vita umana dura un mo-  mento, e poi saremo tutti sotterra. Che non sono le azioni loro  quelle che ti turbano, standosi quelle  nei loro autori, ma bensì le nostre  opinioni. Adunque togli via, sappi  rimovere da te il concetto che tu  fai di quelle, e l’ ira se ne andrà  parimente. E come rimovere quel  concetto? Col considerare che le  azioni altrui non hanno nulla di dis-  onesto per te. Che se il male tutto  non consistesse nella sola disonestà  dell’agente, di necessità peccheresti  tu ancora, e saresti tu pure assas-  sino, e macchiato di ribalderie d’ogni  forma.  Siccome le ire, i rammarichi  intorno a siffatte cose arrecano seco  troppo più gravi danni che non siano  quelli di che ci adiriamo e ramma-  richiamo. Che r amorevolezza è sempre vittoriosa, quando sia schietta, e non  sia una affettazione o una parte che  tu reciti. E in vero che ti può egli  fare 1’ uomo il più iracondo e inso-  lente, se tu ti mostri a lui tuttavia  amorevole e se, venendo il caso, tu  lo ammonisci cortesemente e cerchi  di farlo ricredere in quel tempo me-  desimo che egli intende ad offen-  derti? No, figliuol mio; noi  siamo nati ad altro. A me tu non  nuoci; a te bensì, figliuol mio. E gli dimostri e fai toccar con mano  che la cosa sta COSI universalmente;  e come nè le pecchie si comportano  in quella guisa, nè alcun altro ani-  male che sia nato a vivere in co-  munanza. Le quali cose vogliono es-  ser dette senza ombra alcuna di  ironia nè di rimprovero, ma bensì  con amorevolezza, e senza amaritu-  dine alcuna nell’animo; nè ancora  come si direbbero da un maestro in  iscuola, nè per farsi ammirare dai  circostanti; ma da solo a solo, e se  v’ha altri presente, *   Di questi nove capi fa’ che tu ti  ricordi come se tu li avessi ricevuti  in dono dalle muse; e incomincia  pure una volta ad esser uomo men-  tre hai vita.* E’ ti conviene ad un  tempo guardarti dallo adulare gli  uomini non mejio che dallo adirarti  contro di essi: perchè le sono cose  egualmente antisociali e nocive.  Quando ti sentirai provocato all’ira,  ti occorra alla mente questo pen-  siero: non esser punto cosa virile  lo adirarsi; ma anzi la pacatezza, la  mansuetudine, siccome sono cose  più umane, così sono anche più vi-  rili; e che la costanza, il vigore, la  fortezza sono nel mansueto, non in  [Ornato collo Schultz, anzi più riso-  Intamento che lo Schultz, stimò che qui il  testo fosse manchevole.  Seneca, De ira, 111,43,  disse. Humanitatem colamns, dnm inter  homines snmus. »  chi si adira o s’impazientisce. Per-  chè più quegli si avvicina alla im-  passibilità, tanto più partecipa della  forza; laddove l’ ira, siccome il do-  lore, è propria del debole: lo adirato  e lo addolorato furono egualmente  piagati e ambidue cedettero egual-  mente.   E un decimo ricordo ancora ricevi, se vuoi, dal Musagete: * essere  da pazzo il volere che i malvagi non  pecchino, perch’ egli è un voler l’im-  possibile. Il voler poi che essi por-  tinsi da pari loro verso tutti gli altri  e noi facciano con te, è da stolto e da tiranno. Contro quattro specie di de-  terminazioni* della parte tua prin-  cipale ti bisogna sopra tutto stare in  guardia, e tosto che una ti venga   [Conduttor delle muse, o Apollo, o se  vuoi. Ercole. Piuttosto quello che questo. Vedi il Gatakero] nsieri, moti, determinazioni, volon-   avvertita, cancellarla, ragionando teco medesimo intorno a ciascuna di  esse in questa guisa: Intorno a  quelle della prima specie: questo  pensiero non è necessario. Intorno  a quelle -della seconda: questo pen-  siero tende a sciogliere la società.  Intorno a quelle della terza: tu stai  ora per dire cose che intimamente  non credi: e il dir cose che inti-  mamente non credonsi è da essere  annoverato fra le massime assurdi-  tà. Intorno a quelle finalmente del-  la quarta specie, rampognerai te  medesimo dicendo: tu lasciasti che  fosse vinta la parte più divina di  te, e sottoposta a quella che è  men nobile e mortale, cioè a di-  re al corpo e ai grossi piaceri di  quello. Quattro cose da prevenire od allontanare. Pensieri inutili oziosi. Volontà od azioni ingiuste, dove sono  anche compresi i moti di irascibilità;  Quanto è in te di aereo e di  igneo, benché abbia naturale ten-  denza ad innalzarsi, acconciandosi  nondimeno all’ordinamento del tutto  si rimane quaggiù nel tuo corpo. E similmente le parti terree é le acquo- |  se, benché tendano naturalmente allo '  ingiù, tengonsi non pertanto solle-  vate ed erette in una forma che non  é loro naturale: tanto anche gli ele-  menti sono obbedienti alla legge  dell’ universo, e facendo forza a sé  medesimi serbano costantemente il  posto in che furono collocati, finché  da quella medesima legge sia dato  il segno dello scioglimento. Ora non  é egli singolarmente strano che sola  la parte intelligente dell’ esser tuo  non voglia obbedire e si rammarichi  del posto che le fu assegnato? e  pure nulla di violento le è comandato  [Disaccordo della mente e delle parole;  cioè falsità voluta, o non avvertita. Moti di concupiscenza], ma cose soltanto che sono secondo la natura di lei. Con tutto ciò  non vi si vuole acconciare, e vuole  andare a ritroso. Perchè le ingiu-  stizie, le dissolutezze, l’ira, la tristezza, il timore, sonò tutti moti a  ritroso della natura. E ancora allor-  quando r anima non s’ acconcia di  buon grado agli avvenimenti, ella  abbandona il suo posto, essendo ella  stata instituita alla santità, alla  pietà, non meno che alla giustizia,  poiché quelle non meno di questa  fanno parte della sociabilità: chè  anzi gli atti di giustizia succedono  piuttosto (-he non precedano a quelli  della pietà e della santità. Intendi la pietà religiosa, o la pietà  verso Dio o la natura, che è tutt’uno presso  gli stoici, e non dimenticare che il rasse-  gnarsi volentieri a tutti i casi esteriori, è  atto religioso appo gli stoici. Cioè Tnomo ha relazioni con Dio prima  che con gli nomini, e le sue relazioni con  questi hanno per fondamento le sue relazioni con quello. Chi non ha sempre il medesimo proposito, il medesimo istituto  di vita, non può essere in tutta la  vita il medesimo uomo. Ma ciò non  basta se non aggiungi ancora quale  esser debba questo proposito o isti-  tuto di vita. Perchè siccome non di  tutti quelli che al volgo paiono beni  è invariabile negli uomini il giudizio,  ma di quelli soltanto che sono univer-  sali e comuni; ' così lo scopo comune  e civile dell’ umana famiglia, è quello  che l’uomo dee proporre a sè stesso.  Colui adunque il quale indirizzerà a  questo scopo comune l’esercizio di  tutte le sue facoltà, quegli farà che  tutte le sue azioni sieno fra loro  somiglianti, e per tal guisa sarà egli  costantemente il medesimo uomo. Intendi che T idea del bene privato varia  nella stessa persona, secondo che varia la  sensibilità; laddove l'idea del bene pubblico  è costante e invariabile, siccome quella che  dipende solo dalla ragione, la quale non  varia. Rammenta il topo di monta-  gna e il topo di casa, e lo spavento -  di questo e il correre precipitoso.'   Socrate chiamava befane le  credenze del volgo, spauracchi di  fanciulli. I Lacedemoni nella loro solen-  nità ponevano pei forestieri i sedili  all’ ombra, ed essi sedevano dovunque.   A Perdicca, che gii chiedea  perchè non andasse a lui, Socrate  rispondea, Per non morire di pes-  sima morte » cioè a dire, « per non  ridurmi alla condizione di non poter  ricambiare beneficii eh’ io avessi ricevuti.  Nelle lettere degli Epicurei era  una esortazione all’ aver sempre pre-  sente al pensiero alcuno di quelli  antichi che praticarono la virtù. I Pitagorici prescriveano che  [Gli interpreti allegano Orazio, sat. VI,  lib. II. Ma riscontra in Esopo, fav. 301.  Ogni giorno di buon mattino si do-  vesse volgere gli sguardi al Cielo,  affinchè per la contemplazione di  quelli esseri che sempre percorrono  le medesime vie e sempre compiono  a un modo il loro ufficio, l’ uomo  avesse ad ìfver sempre vivo in sè il  pensiero dell’ordine, della purità e  della nudità.' Perchè le stelle non  hanno velo che le ricovera. Qual fu a vedere Socrate cinto di una pelliccia, allorché uscì fuori  Santippe colla veste di lui; e le  cose che egli disse agli amici i quali  arrossivano e si ritraevano indietro,  vedendolo assettato in quel modo. Nell’arte dello scrivere nè in  quella del leggere non puoi essere  maestro se prima non fosti discepo-   [Il diligentissimo ed ernditissimo Gatalcer  non seppe egli pnre trovare qual fosse il caso particolare della vita di Socrate, e il  detto di Ini, ai quali fa qui allusione Antonino. Meno amcora lo potrai nell’arte  (Iella vita.   Sei servo, a te concesso  favellar non è. Ed il mio cor ne rise. E la virtute   Àccuseran con rigido parole. Pazzo chi vuole aver fìchf di  verno; pazzo ancora chi desidera  aver iigliolanza quando non è più  tempo da ciò.  Quando tu baci un tuo figliuolo, esortava Epitteto, fa' che tu dica  teco medesimo: domani sarà forse  morto. Cattivi augurii, cotesti. Nulla è cattivo augurio di ciò  che accenna ad un effetto naturale. Agresto, uva, zibibbo, tutte   [Nei testo è un verso iambico di autore incognito a noi. È la fine del verso 413, lib. I  dell'Odissea.  Nel testo è un verso esametro che ha  qualche somiglianza con un verso di Esiodo mutazioni; non dall’ essere al non  essere, ma dall’ essere ciò che è  all’ essere ciò che ora non è.  Assassini della volontà non ci  sono; sentenza di Epitteto. Diceva ancora (Epitteto) dovensi procacciare V arte dello assen-  tire; stare all’ erta coi moti della  volontà, affinchè tutti sieno condi-  zionali, sempre indirizzati ad un fine,  al bene universale, sempre propor-  zionati in intensità al valore intrinseco delle cose; astenerci in tutto  dalla appetizione, e non dare luogo  mai all’ avversione per cose che non  sieno in nostra potestà. Piccolo adunque, diceva egli,  non è il frutto della vittoria o il  danno della sconfìtta; ma l’ esser  savio, o r esser pazzo.   39. Socrate dicea: che volete voi! Vuol dire Antonino che il libero eser-  cizio della volontà non può esserci tolto da  nìssuna forza esteriore. avere anime di animali ragionevoli,   0 di irragionevoli? Di ragionevoli. Di quali ragionevoli? di sani o di  corrotti? Di sani. Perchè dunque non le cercate? Perchè già  le abbiamo. Perchè dunque batta-  gliate fra voi e siete discordi? Anche il Gataker non potè trovare da  quale opera socratica abbia tratto Antonino  questa argomentazione: ma moltissimi scritti  della scuola socratica non abbiamo più noi, i quali esistevano ai tempi di Marco nostro.  Tutte quelle cose, alle quali tu . studi di pervenire per mille andiri-  vieni, tu puoi avere immediatamente,  se tu non vuoi male a te stesso. E  ciò sarà, se tu metti da banda il pas-  sato e lasci alla Provvidenza la cura  del futuro, e attendi solo ad usare  il presente, secondo le norme della  santità e della giustizia: della san-  tità, coir accettare volonterosamente  i casi tutti che ti intervengono, es-  sendo essi dalla natura prodotti per  te, e tu per essi; della giustìzia,  col dire liberamente e senza ambagi la verità e far ciò che è con-  forme alla legge e alla dignità delle    l'ose,’ non lasciandoti frastornare mai  nè da malizia altrui, nè da opinione,  nè da discorso di chi che sia, nè da  affezione veruna di quel corpicciuolo  che ti è venuto crescendo all’ intor-  no: sta a lui che è il paziente a pen-  sarci. Or dunque, prossimo o lontano  sia per essere il termine della tua  vita, se tu, deposto ogni altro pen-  siero, non attenderai che ad onorare  la parte principale e divina dell’ os-  sei’ tuo, e tuo solo timore sarà, non  già di dover cessare quando che sia  di vivere, ma di non aver per anco  incominciato a vivere secondo natu-  ra; tu sarai uomo degno del mondo  che ti ha generato, non sarai più  [Le prescrizioni della l^igge sono gene-  rali; la dignità delle cose esteriori serve  di guida nell' applicazione della legge. Ta  altro modo si potea dire: « ciò che è confor-  me alla legge nelle circostanze particolari  in che ti’ trovi.» Ma quello è più stoica-  mente detto. Per dignità delle cose intendi il loro va-  lore ret»tivo.     straniero nella tua patria, non ti  maraviglierai più di ciò che accade  tutto dì come di cosa insolita; non  sarai più dipendente da chi nè da  che che sia. Iddio vede tutte le menti de-  nudate di questi vasi materiali e involucri e sudiciumi. Quelle solo egli  attinge colla pura sua intelligenza,  le quali da lui scaturite sono deri-^  vate in essi. Se ti avvezzi a far tu  pure il medesimo, tu avrai meno di  molte distrazioni e perturbazioni.  Perchè chi non guarda all’ involucro  della carne, si lascierà egli turbare  o distrarre alla vista dell’abito, o  delle case, o della riputazione, o di  altri cosi fatti involucri e addobbi?  Di tre cose sei composto: il  corpicciuolo, il soffio vitale e la  mente. Delle quali le due prime non  sono tue se non in quanto tu hai a  prenderne cura; la terza, questa  sola è tua veramente. Laonde se tu rimovi da te, o per dir più proprio  dal tuo pensiero, tutte le cose che  altri fa e dice in presente, e le pas-  sate che tu facesti e dicesti, e le  future delle quali 1’ aspqttamento ti  turba, e quelle che riferendosi al  corpo onde sei circondato e al soffio  vitale congenito con esso, sono in  te involontarie, e quelle che il vor-  tice di fuori va agitando intorno a  te, si che pura e sciolta da ogni  esterna fatalità la potenza intellet-  tiva se ne viva libera da sè, ope-  rando il giusto, avendo caro ogni  evento qualsiasi, e dicendo il vero;  se, dico, tu rimovi da codesta parte  dell’ esser tuo tutto ciò che presen-  temente le sta come a dire appiccato  per mezzo dello appetito sensitivo,  e tutto r avvenire e tutto il passa-  to, e ti fai siccome quella di Empedocle da GIRGENTU ri tonda   Sfera che posa e in suo posar s’ appaga, e attendi solo a vivere quel tempo  che vivi, cioè il presente; ti verrà  fatto di passare tranquillamente, nobilmente e in pace col genio tuo,  quello che ti rimane ancora insino  al morire. Soventi volte mi sono maravi-  gliato che ciascuno arai sè stesso  più che non arai qualunque altro  uomo, e faccia poi minor conto dei  propri giudizi intorno a sè medesimo, che di quelli degli altri.' Per-  chè se a taluno fosse da un Dio che  gli apparisse, o da qualche savio  maestro comandato che non pen-  sasse e non volgesse nulla in mente  che tosto, appena ne fosse conscio   ' Anche i Pitagorici, benché non ne fa-  cessero nn precetto assoluto, raccomanda-  vano che ciascuno avesse massimamente rispetto a sè medesimo, cioè ai propri giudizi  intorno a sè stesso. Tra i versi dorati at-  tribuiti a Pitagora, ecco la traduzione di  quello che compendiosamente esprime la  detta raccomandazione. Più che di chiunque altro abbi vergogna di te ste.««so. »  a sè stesso, noi manifestasse; noi  sosterrebbe pure un solo giorno.  Tanto abbiamo noi maggiore rispetto  a ciò che di noi potrà pensare il vicino, che a ciò che ne pensiamo  noi stessi. Come mai avendo gli Dei propizi all’uomo ottimamente ordinato ogni cosa, questo solo lasciarono  passare inavvertito, che anco i migliori fra gli uomini, quelli i quali  entrarono, sto per dire, in più stretta  alleanza colla divinità, e per la pietà  e santità loro vissero in più intimo  commercio con essa, quando una  volta sian morti, non abbiano più  mai a rivivere, ma sieno spenti  per sempre? Se tale è veramente la  condizione di tutti gli uomini indi-  stintamente, abbi per indubitato, che  ove avesse dovuto essere altrimenti,  avrebbero gli Dei altrimenti ordinato: perchè se un ordine diverso  fosse stato giusto, sarebbe anche Stato possibile; e se fosse stato secondo natura, la natura lo avrebbe  recato ad effetto. Ora dal non essere  le cose in questi termini, supposto  che veramente non sieno, tu hai a  trarre argomento che non dovea essere altrimenti da quello che è. Per-  chè tu vedi pure che mentre tu  vai facendo queste investigazioni, tu.  disputi del diritto con Dio; la qual  cosa non faremmo con gli Dei, se  essi non fossero ottimi e giustissimi;  e tali essendo, non possono aver  mai tollerato nè lasciato correre  inavvertitamente nell’ ordinamento  del tutto, nulla che fosse ingiusto  0 irragionevole.  Vienti esercitando anche in ciò  a che tu credi aver poca attitudine.  La mano sinistra, la quale per difetto di esercizio è disadatta ad altri  uffici, tiene il freno più saldamente  che noi faccia la destra, perchè a  ciò fu esercitata.  In che stato debba essere l’uo-  mo, e rispetto al corpo e rispetto  all’ anima, al sopraggiungere della  morte; ' la brevità della vita, l’abisso  del tempo passato e del tempo avvenire, la debolezza di tutta la materia. Osservare le cause denudate  della loro corteccia; il fine delle  azioni; che sia il dolore, che il pia-  cere, che la morte, che la gloria;  chi sia quegli che è cagione di tra-  vagli a sè stesso; siccome nissuno  è mai impedito da altrui; che tutto  è opinione. Nel far uso dei precetti della  filosofia, fa’ di rassomigliare piutto-  sto al pugillatore che al gladiatore;  perchè questi, lasciata cadere la  spada, vien morto; ma quegli ha la  destra sempre, e non gli è mestieri  d’altro che di chiudere e scagliare  il pugno. Sottintendi: contidera. Vedere quali sono le cose  in sè stesse, risolvendole nei loro  elementi, la materia, la causa, il  fine.  Che potere ha l’uomo ! di non  fare se non ciò solamente che Iddio  sia per approvare, e di accettare  tutto che Iddio sia per inviargli. Ciò che è conforme alla natura. Non ti dolere degli Dei, perchè gli Dei non peccano nè volon-  tariamente nè involontariamente;  nè degli uomini, perchè gli uomini  non peccano mai se non malgrado  loro. Di nessuno dunque ti devi doere.  Quanto è mai ridicoloso e nuovo colui che si maraviglia di al-  cuna delle -cose che accadono nella  vita! In tutte le edizioni che io conosco si  incomincia con questa frase il paragrafo se-  guente; ma non si fa alt^o che guastarvi  il senso. O necessità fatale e ordine di  cose impreteribile, o‘ provvidenza  esorabile, o confusione a caso e senza  governo. Se necessità inflessibile *, a  che resisti? Se provvidenza esora-  bile; fa’ che tu sia degno dell’ aiuto  divino. Se confusione senza governo;  pur beato che in tanta tempesta tu  hai dentro di te una mente governatrice. Che se la bufera ti rapisce  seco, rapisca a sua posta il corpicciuolo e la parte animale di te e  cotali altre cose; non potrà rapir  seco la mente.  Che? il lume della lampada,  fmch’ ella non si estingue, risplende  e non perde della sua luce; e in te,  prima che la vita si spegneranno la  verità, la giustizia, la temperanza?  Quando altri ti dà materia a  supporre che egli abbia permeato,  di’ teco stesso: come so io che ciò  sia un peccato? E se è peccato, ch’egli  non siasi già condannato da per sè? il che h come nn graffìarsi il pro-  prio volto. ' Pensa ancora che il non  volere che il dappoco erri, è un non  volere che il fico acerbo abbia lattifìcìo, che i bambini vagiscano, che  il cavallo annitrisca, ed altri simili  effetti naturali e necessari. E che  può egli fare in cotale disposizione?  Se tu sei da tanto, incomincia a curar quella.  Se non è giusto, noi fare; se  non è vero, noi dire: perchè la tua  volontà è libera.  Esaminare in ogni incontro  che è la cosa che fa impressione in  te, ed esplicarla distinguendovi la  causa, la materia, il tempo entro il  quale avrà a cessare. Seneca, De ira. Nulla maior  pccna neqnìtiie est-, quiim quod sibi displicet. Con questo paragrafo finisco Pinterpro'  taziono lasciata dalPOrnato, la quale, tran-  ne i luoghi indicati, io ho fodcljnonto.seguita  noi mio volgarizzamento dal § 42 del lib. VI,    Accorgiti finalmente che tu hai  in te stesso alcun che di più potente,  di più divino che non sia ciò da cui  si generano gli affetti e che al tutto  ti trac qua e là come per ima fu-  nicella. Che è ora la mia mente?  Non è ella timore? Sospetto? Cupidità, 0 altra cosa cotale?  Primieramente nulla si faccia  a caso, nè senza uno scopo. Poi,  nulla sia riferito ad altro fine che a  quello universale e civile di tutta l’umanità. Che in breve tu non sarai più,  nè alcuna delle cose che vedi, nè  alcuno di quelli che ora vivono. Per-  chè ogni cosa nacque per alterarsi,  mutarsi o morire, affinchè altre possano nascere secondo l’ordine di  successione.    fin qni. Quanto all' interpretazione dei pa-  ragrafi che seguono, l'Ornato lasciò sola-  mente due otre note delle quali sarà parlato  al loro luogo. Che tutto è opinione, e questa  è in poter tuo. Adunque togli via,  quando ti piaccia, l’opinione, e come  navigante che appena superato il  passo di un promontorio, trovasi in  acque tranquille; così tu ti troverai  in perfetta calma e, come a dire,  entrato in un seno non agitati) da .alcun flutto.   23. Una azione qualsivoglia, quando  cessa a suo tempo, non patisce al-  cun male per la cessazione. Ancora  r autore dell’ azione, per la medesi-  ma cessazione, non patisce alcun  male. Medesimamente il complesso,  0 vogliasi dire la serie di tutte le  azioni, che è quanto dire la vita, quando cessa a suo tempo, non pa-  tisce alcun male per la cessazione,  , nè ancora chi cessa da questa serie  di azioni, soffre per ciò alcun male.  Il tempo proprio poi è determinato  dalla natura: talvolta dalla natura .particolare, quando avviene nella vecchiezza, ma ad ogni modo dalla  natura dell’ universo: le cui parti  trasformandosi e rinnovandosi del  continuo, ne segue che sempre nuovo  e sempre giovane si conserva nella  sua totalità il mondo. E bello sem-  pre e tempestivo è ciò che profitta  al tutto. Adunque la cessazione della  vita non è un male all’ uomo individuo, poiché non è cosa disonesta,  come quella che non dipende dal-  r arbitrio di lui, nè ripugna al fine  universale e sociale della umanità;  ed è in sé stessa un bene, perchè è  tempestiva e profittevole al tutto e  armonizzante con esso. E similmente  è divino r uomo che è mosso nella  medesima direzione e verso i mede-  simi fini che Iddio, ed ha caro di  essere mosso verso questi fini e in  questa medesima direzione. Tutto questo periodo è nel testo gre-  co oscurissimo e diversamente inteso dai  comontatori. Chi è grecista vegga nella  Queste tre cose non dimenticare. In primo luogo, per rispetto a  ciò che tu fai, che nulla sia fatto a  caso nè altrimenti che si farebbe  dalla giustizia in persona; e per  rispetto agli avvenimenti esteriori,  sieno essi effetti del caso o della  Provvidenza, che non vuoisi mai nè  incolpare il caso, nè mormorare con-  tro la Provvidenza. In secondo luo-  go, qual sia ciascun vivente dal mo-  mento della fecondazione sino a  quello della animazione, e da quello  della animazione fino a quello in cui  cessa la vita,' e di che elementi sia    nota a questo paragrafo nell' edizione di To-  rino le ragioni della nostra interpretazione  diversa da tntte le precedenti. Bene ricorda qui Gatakero com'egli  era opinione degli stoici il feto non essere  animato fino al momento in cui ^sce dal  seno materno. Fino a quel momento essi  consideravanlo come parte del corpo della  iinadre, come un ramo vegetante sul tronco  dell'albero a cui appartiene. Abbiamo ve-  duto (vedi la nota (26) in fine del volnme)  composto e in quali sia per risol-  versi. In terzo luogo, che se tu levato in altissima parte vedessi di là  tutte le cose umane e la grande  varietà loro, e vedessi ad un’ ora  quanta sia la moltitudine degli es-  seri aerei ed eterei che popolano  gli spazi all’ intorno; per quante  volte che tu venissi cosi levato in  alto, vedresti pur sempre le medesime cose, la somiglianza ^ che  sempre hanno fra loro e la breve  durata di tutte. Di cotali cose insu-  perbisci?   25. Espelli da te T opinione, e sei  salvo. Chi dunque ti impedisce que-  sta espulsione?   26. Quando stai di mala voglia per  cagione di qualsisia cosa o persona,  tu dimentichi che tutto succede se-    come gli stoici fossero ignoranti di anato-  mia: lo erano ancora più di fisiologia. Intendi le succedenti rispetto allo antecedenti. condo la natura dell’ imiverso; che  l’altrui colpa è male altrui; e inol-  tre che le cose che avvengono sono  sempre. avvenute e sempre avver-  ranno, e avvengono ora in ogni luogo al modo stesso; e ancora tu di-  mentichi quanto intima sia la pa-  rentela che ha ciascun uomo con  tutta la famiglia umana: perocché  non di sangue o di seme, ma è co-^  munanza di mente. Tu dimentichi  ancora che la mente di ciascun uomo  è divina e da Dio scaturita; che nulla  è proprio di nissuno, ma e il figlio-  lino, e il corpicciuolo e Tanimuccia  stessa, tutto venne da quello. Tu di-  mentichi finalmente che tutto è opi-  nione; che ciascuno vive solo il mo-  mento presente, e perde solo il  momento presente.  Recati spesso al pensiero co-  loro i quali di alcun che fieramente  adiraronsi, coloro che per grandis-  simi onori, o sventure, o inimicizie, o altre fortune quali si fossero, di-  vennero illustri; poi- chiedi a te  stesso; ora dove sono? Fumo, ce-  nere, languido romore di” fama, o  neppur questo. Poi ti occorrano alla  mente tutti questi cotali; Fabio Ca-  tullinOjin villa, Lucio Lupo negli .orti, Stertinio a Baia, Tiberio nel-  r isola di Capri, Rufo a Velia, e, per  dire in somma, tutte queste diverse  inclinazioni verso checchessia gene-  rate dall’ opinione; e quanto sieno  di poco pregio in sè medesime tutte  queste cose che con tanto studio si  ricercano; e quanto sia più da filo-  sofo il saper far buon uso delle cir-  costanze qualunque esse sieno, o per  dir più proprio, della materia quale ci è data, serbandoci sempre giusti,  temperanti e con semplicità obbedienti a Dio. Perchè 1’orgoglio dell’umiltà è di tutti il più abbomi-  nevple. A colóro che ti chiedono dove tu iibbia veduto gli Dei e donde  avuto certa otizia dell’ esser loro,  perchè tu abbia a venerarli - rispondi  primieramente. Anche alla vista  sono percettibili. E poi. Nè ancora la mia mente veggo io, e nondimeno io l’ho in onore: e così da  quelli effetti che mi rivelano la loro  potenza argomentando che essi sono,  venero io gli Dei. Salvezza di tutta la vita è il  vedere ciascuna cosa quale sia in sè  stessa, quale la materia di essa, quale  la ' causa; e attendere con tutta  r anima a operare il giusto e a dire  il vero. Poi, che ti rimane a faie, se  non se godere della vita, facendo  senza ristare che un bene succeda Opportunamente avverto qui il Gatakero  come Antonino potesse, stoicamente, dire  benissimo, gli Dei essere visibili anche al-  r occhio, poiché il mondo primieramente  era per essi il Dio supremo; e poi fra gli  Dei generati essi veneravano il sole, gli  astri, gli elementi eo.  immediatamente ad un altro, non  lasciando fra due neppure un menomo intervallo? Una è la luco del sole, ancora  che divisa all’ infinito da pareti, da  •monti, da altri obbietti innumerevoli.  Una è la materia comune, ancora  che divisa in una moltitudine innu-  merevole di corpi, ciascuno dei quali  ha le proprie qualità. Una è la vita,  ancora che distribuita in una molti-  tudine innumerevole di nature particolari. Una è r anima intelligente, '  ancora che sembri divisa in tante  unità. Ora tutte le altre cose sopra-  scritte, esseri organici viventi ed es-  seri privi di vita; non hanno comunanza. [Intendi: Quando tu sia ben risolato di  non attendere ad altro chò ad operare il  giusto e a dire il vero, non avrai più briga  alcuna, e non avrai che a godere della vita;  il qual godimento consiste appunto nel dire  il vero e praticare la giustizia; e il godi-  mento.sarà continuo, se tu non cessi un  momento dalle azioni virtuose che sono il  vero bene. nanzà fra loro nè corrispondenza  alcuna di sensibilità, sebbene anche  ad esse il respirare e il gravitare  verso un centro sia a tutte comune.’  Ma alla mente è proprio il tendere  verso ciò che le è congenere, e con •  esso ella si unisce, nè può essere  esclusa da lei questa corrispondenza  di affetti e di sensi. Che brami? Campare? Non  questo. Che dunque? Aver sensazioni, moto, incremento, appetiti? Far uso della facoltà della parola, di quella del raziocinio? E che  di tutto ciò ti sembra degno da desiderare? Se ciascuna di queste cose  ti sembra dunque in sè poco prege-  vole, volgiti à quella che sola rima-  ne, al seguire la ragione e Dio. Ma  a questo culto ripugna eh’ e’ ti gravi   [Il testo in questo luogo è certamente  corrotto. Chi ' vuol vedere come sia stato  emendato e quindi interpretato dair Ornato  in una lunga sua nota, ricorra all' Adizione  di Torino] il dover essere per la morte escluso dalle cose dette dianzi. Qual particella del tempo infinito fu assegnata a ciascuno? Tosto  perderassi nell’eternità. Qual particella di tutfii la materia? Qual particella di tutta l’anima? Sopra qual  particella di tutta la.terra ti vai  strascicando? Questi pensieri ti ricordino che non hai a fare gran  caso di nulla, fuori l’operare se-  condo che la natura ti guida, e tol-  lerare tuttociò che la natura comune  ti arreca.  Che uso fa di sè stessa la  mente? Questo è il tutto per te.  Tutto il rimanente, sia o non sia  sottoposto alla tua volontà, è per te  cadavere e fumo.   34. A farti disprezzare la morte  gioverà il pensare come anche coloro che ebbero il piacere per un  bene e il dolore per un male, non  di meno la disprezzarono. A colui al quale ciò solo che  è tempestivo è un bene, poco importandogli il maggiore o minor  numero di azioni virtuose che saràgli concesso di compiere, a colui, dico, la morte non ha nulla di  pauroso. L’ uomo, facesti le tue parti di  cittadino in questa grande città. Che  rileva a te se per cinque o solo tre anni? Ciò che è secondo la legge, è  giusto ed equo per tutti. Come puoi  dunque rammaricarti se sei rimandato, non da un tiranno, non da un  giudice iniquo, ma dalla natura che ti avea introdotto, non altrimenti che un attore è rimandato dalla scena  dal direttore della commedia che ve  lo avea chiamato? Ma io non ho  recitato i cinque atti. Bene dicesti. Ma nella vita anche tre atti bastano a compiere il dramma. Perciocché chi ne determina il fine, è  quel medesimo che allora fu autore  della plasmazione, cd ora ò della  dissoluzione. Tu non fosti autore nè dell’ una nè dell’altra. Vattene dunque in pace e contento, chè quegli  ancóra che ti accommiata è contento e propizio.  Epistle of Marcus Aurelius to the senate, in which he testifies that the Christians were the cause of his victory.1919 The Emperor Cæsar Marcus Aurelius Antoninus, Germanicus, Parthicus, Sarmaticus, to the People of Rome, and to the sacred Senate greeting: I explained to you my grand design, and what advantages I gained on the confines of Germany, with much labour and suffering, in consequence of the circumstance that I was surrounded by the enemy; I myself being shut up in Carnuntum by seventy-four cohorts, nine miles off. And the enemy being at hand, the scouts pointed out to us, and our general Pompeianus showed us that there was close on us a mass of a mixed multitude of 977,000 men, which indeed we saw; and I was shut up by this vast host, having with me only a battalion composed of the first, tenth, double and marine legions. Having then examined my own position, and my host, with respect to the vast mass of barbarians and of the enemy, I quickly betook myself to prayer to the gods of my country. But being disregarded by them, I summoned those who among us go by the name of Christians. And having made inquiry, I discovered a great number and vast host of them, and raged against them, which was by no means becoming; for afterwards I learned their power. Wherefore they began the battle, not by preparing weapons, nor arms, nor bugles; for such preparation is hateful to them, on account of the God they bear about in their conscience. Therefore it is probable that those whom we suppose to be atheists, have God as their ruling power entrenched in their conscience. For having cast themselves on the ground, they prayed not only for me, but also for the whole army as it stood, that they might be delivered from the present thirst and famine. For during five days we had got no water, because there was none; for we were in the heart of Germany, and in the enemy’s territory. And simultaneously with their casting themselves on the ground, and praying to God (a God of whom I am ignorant), water poured from heaven, upon us most refreshingly cool, but upon the enemies of Rome a withering1920hail. And immediately we recognised the presence of God following on the prayer-a God unconquerable and indestructible. Founding upon this, then, let us pardon such as are Christians, lest they pray for and obtain such a weapon against ourselves. And I counsel that no such person be accused on the ground of his being a Christian. But if any one be found laying to the charge of a Christian that he is a Christian, I desire that it be made manifest that he who is accused as a Christian, and acknowledges that he is one, is accused of nothing else than only this, that he is a Christian; but that he who arraigns him be burned alive. And I further desire, that he who is entrusted with the government of the province shall not compel the Christian, who confesses and certifies such a matter, to retract; neither shall he commit him. And I desire that these things be confirmed by a decree of the Senate. And I command this my edict to be published in the Forum of Trajan, in order that it may be read. The prefect Vitrasius Pollio will see that it be transmitted to all the provinces round about, and that no one who wishes to make use of or to possess it be hindered from obtaining a copy from the document I now publish.1921  1919    [Spurious, no doubt; but the literature of the subject is very rich. See text and notes, Milman’s Gibbon, vol. ii. 46.] 1920    Literally, “fiery.”  1921    [Note I. (See capp. xxvi. and lvi.)     In 1851 I recognised this stone in the Vatican, and read it with emotion. I copied it, as follows:     “Semoni Sanco Deo Fidio Sacrvm Sex. Pompeius. S. P. F. Col. Mussianvs. Quinquennalis Decur Bidentalis Donum Dedit.”     The explanation is possibly this: Simon Magus was actually recognised as the God Semo, just as Barnabas and Paul were supposed to be Zeus and Hermes (Acts xiv. 12.), and were offered divine honours accordingly. Or the Samaritans may so have informed Justin on their understanding of this inscription, and with pride in the success of their countryman (Acts viii. 10.), whom they had recognised “as the great power of God.” See Orelli (No. 1860), Insc., vol. i. 337.     Note II. (The Thundering Legion.)     The bas-relief on the column of Antonine, in Rome, is a very striking complement of the story, but an answer to prayer is not a miracle. I simply transcribe from the American Translation of Alzog’s Universal Church History the references there given to the Legio Fulminatrix: “Tertull., Apol., cap. 5; Ad Scap., cap. 4; Euseb., v. 5; Greg. Nyss. Or., II in Martyr.; Oros., vii. 15; Dio. Cass. Epit.: Xiphilin., lib. lxxi. cap. 8; Jul. Capitol, in Marc. Antonin., cap. 24.”]Antonino. Aurelio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Marc'Aurelio e Frontino,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714145775/in/photolist-2mMNvR2-2mLPZbv-2mLR5nr-2mLR5nB-2mLMYBx-2mLR5mK-2mLPZaZ-2mLMYBc-2mLGr84-2mLPZcC-2mLGr8Q-2mLLwjC-2mLMYBn-2mLLwk9-2mLGr7C-2mKy2vb-2mLNi1Z-2mLEyw7-2mLExs3-2mLMXqw-2mKCQBD-2mPtp3t-2mKxrDy-2mKj2vX-2mKgT2F-2mJWMoD-2mHu2M2-2mHu2Ss-2mHxRXN-2mHpTXJ-2mHxRTu-2mHvdKe-2mHxxcr-2mHywQJ-2mHxRZw-2mHyRnJ-2mHpTYv-2mHxx6E-2mHywQP-2mKBnC7-2mKbWTh-2mKbiYk-2mHu2Qt-2mHywLv-2mHumtF-2mHu2TK-2mHvxyw-2mHvdDs-2mHvdD7-2mHumtL

 

Grice ed Aosta – dio in gioco – logica e sovversione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Aosta). Grice: “I like Aosta; my favuorite piece of his philosophising is strangely nott he one on paronymy – or the worn-off paralogism on God’s existence; rather, the more obscure “De casu primi angeli,’ on the fall of the most beautiful angels of all! And more seriously – the previous ‘de casu diaboli’ – his rambles on ‘Dialectica’ – or dialettica, as the Italians prefer; you see axioma was Elio Gelliio thinks in “Notti attiche’ – and Varrone – the ‘proloquium,’ from ‘proloquor’ of course – the ‘pro’ suggests something like a ‘prae-miss’ – This is all very stoic, but we are not sure if Aosta knew this!”  Grice: “Aosta would of course be familiar with Augustin’s De Dialectica, where ‘proloquium’ means ‘pro-positio,’ something Quine abhorred!” -- Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Sant'Anselmo d'Aosta AnselmstatuecanterburycathedraloutsideUna statua di Anselmo d'Aosta collocata all'esterno della cattedrale di Canterbury.   Arcivescovo di Canterbury, santo e dottore della Chiesa    NascitaAosta, 1033 o 1034 MorteCanterbury, 21 aprile 1109 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana CanonizzazioneAutorizzazione all'elevazione del corpo concessa da Papa Alessandro III nel 1163[1] Ricorrenza21 aprile[1] Attributibastone pastorale[1] e nave. Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Una targa a memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta casa natale ad Aosta, via Sant'Anselmo.Anselmo nacque nel 1033[3][4] (o all'inizio del 1034)[5] a[6] (o nei pressi di)[7] Aosta, allora parte del regno di Arles[6] al confine con la Lombardia.[8]  La sua era una famiglia nobile, anche se in declino,[9] imparentata con la casa Savoia[10] e con ampi possedimenti terrieri. Suo padre, Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un longobardo, apparentemente molto dedito agli affari e non particolarmente affettuoso verso il figlio; sua madre, Ermemberga (o Eremberga),[11] apparteneva a un'antica famiglia nobile burgunda ed era legata da rapporti di parentela a Oddone di Savoia; risulta che fosse una madre di famiglia pia e virtuosa.[1][12]  Fin da bambino Anselmo espresse un forte sentimento religioso e un'altrettanta forte sete di conoscenza; il suo biografo Eadmero di Canterbury riferisce che, vivendo in una zona montuosa, il giovinetto si formò l'ingenua convinzione che il paradiso, in cui Dio stesso doveva risiedere, si trovasse in cima alle montagne.[12] Anselmo venne affidato a un istitutore, suo parente, che però si rivelò tanto severo da produrre in lui uno stato di infermità, dal quale guarì lentamente grazie alle cure materne. La sua educazione successiva venne affidata ai benedettini di Aosta.[1] All'età di quindici anni Anselmo espresse il desiderio di diventare monaco; il padre tuttavia, fermamente intenzionato a fare del ragazzo il proprio erede, si oppose a questa decisione e i monaci del convento locale, non volendo contrariare Gandolfo, respinsero la domanda di Anselmo.[1][12]  La delusione e la frustrazione per il rifiuto causarono una forte reazione nel giovane, che, sempre secondo il biografo, pregò Dio di ammalarsi in modo tale da impietosire i monaci e convincerli così ad accoglierlo; una crisi psicosomatica effettivamente si verificò, ma questo non bastò a far sì che Anselmo venisse accettato nel monastero.[12] In seguito l'ardore religioso del giovane si raffreddò e, benché egli rimanesse intenzionato a ottenere il suo scopo in un futuro più o meno lontano, poco alla volta le passioni mondane lo coinvolsero e, soprattutto dopo la morte della madre (che avvenne nel 1050),[5] si dedicò sempre più spesso a interessi di carattere materiale.[12] Nel frattempo i suoi rapporti con il padre si facevano sempre più tesi, e infine, all'età di ventitré anni,[8] Anselmo partì, accompagnato da un servo, con l'intenzione di oltrepassare il colle del Moncenisio alla volta della Francia.[1][12]  Superate le Alpi, Anselmo e il suo compagno girovagarono per tre anni tra la Burgundia e la Francia prima di giungere ad Avranches, in Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo venne a sapere dell'abbazia benedettina che era stata fondata a Bec nel 1034, dove insegnava il famoso dialettico Lanfranco di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco vi si recò, riuscendo nel 1060 ad esservi ammesso come novizio.[8][12] Il ventisettenne Anselmo si sottometteva così alla regola benedettina, che nel corso del decennio successivo ne avrebbe influenzato significativamente il pensiero.[13]   L'abbazia di Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I progressi di Anselmo negli studi furono rapidi e brillanti e il giovane entrò presto nelle grazie del maestro, tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne nominato abate dell'abbazia di Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo intrapreso la vita monastica da appena tre anni) venne eletto a succedergli quale priore dell'abbazia di Bec.[12][14] Alcuni dei monaci più anziani, ritenendosi maggiormente in diritto di ricoprire la carica di priore, si considerarono offesi dalla sua promozione; tuttavia ben presto le sue doti di cortesia, il suo senso della misura nel gestire la carica e le sue competenze di insegnante gli valsero l'affetto di tutta la comunità monastica.[12]  Nei quindici anni in cui fu priore a Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla sua carica e l'aspirazione all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era solito rimanere desto durante la notte, impegnato nella preghiera o nella scrittura. Risale infatti a quegli anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua attività di scrittore, che aveva principalmente il fine di munire i suoi allievi all'interno del monastero (ma anche alcune nobildonne laiche al di fuori di esso) di testi su cui meditare e pregare.[15] La composizione di due delle sue opere teologiche più rilevanti, il Monologion (Soliloquio) del 1076 e il Proslogion (Colloquio) del 1078, avvenne proprio in quel periodo.[1][12]  Nel 1078, alla morte del fondatore dell'abbazia di Bec, Erluino, Anselmo gli succedette come abate venendo consacrato il 22 febbraio 1079 dal vescovo di Évreux.[16] Fu con riluttanza che Anselmo accettò la carica, che avrebbe comportato ulteriori responsabilità e doveri sottraendogli tempo alla riflessione e alla preghiera;[12] la resistenza di Anselmo fu vinta dalle insistenze unanimi dei confratelli.[1]  Anselmo fu molto apprezzato come abate per via del suo acume, della virtuosità con cui conduceva la sua vita e della sua capacità di rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e fuori il monastero;[1] la nuova carica lo portò a stringere rapporti con l'Inghilterra, dove l'abbazia normanna aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino a Canterbury, di cui Lanfranco era diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare dalla nobiltà e dalla corte inglesi,[1][12] oltre che dallo stesso re Guglielmo il Conquistatore;[11] divenne così il candidato naturale a succedere a Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17] Anselmo fu anche costretto a battersi per conservare l'indipendenza dell'abbazia di Bec dalle autorità civili ed ecclesiastiche.[18] Nonostante la rilevanza dei suoi impegni di amministratore e di guida, e la puntualità con cui li assolveva, Anselmo rimase per tutta la vita innanzitutto un intellettuale:[3] nel periodo in cui fu abate di Bec portò avanti una significativa attività pedagogica e didattica e, tra il 1080 e il 1085, compose il De grammatico (Sul significato della parola "grammatico") e i tre dialoghi sulla libertà, il De veritate (Sulla verità), il De libertate arbitrii (Sulla libertà della volontà) e il De casu diaboli (La caduta del diavolo).[19] Sotto Anselmo, Bec divenne uno dei centri di studio e insegnamento più importanti d'Europa, attirando studenti da tutta la Francia, dall'Italia e da altri Paesi.[20]   La cattedrale di Canterbury, sede dell'arcivescovato di Canterbury, in un'incisione del 1821. Quando, nel 1089, morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II d'Inghilterra confiscò i possedimenti e le rendite della sede arcivescovile di Canterbury e si astenne dal nominare un successore di Lanfranco.[12] Anselmo, che pure desiderava tenersi lontano dall'Inghilterra per non far pensare che aspirasse al ruolo vacante di arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di Ugo d'Avranches a recarsi oltremanica nel 1092.[12] Fu costretto a trattenervisi per quasi quattro mesi, e in un'occasione, giungendo in Canterbury alla vigilia della Natività della Beata Vergine Maria, venne salutato entusiasticamente dalla folla come prossimo arcivescovo; quando ebbe esaurito i suoi impegni, il re gli negò il permesso di rientrare in Francia.[12] Nel 1093, però, Guglielmo cadde gravemente malato ad Alveston e, desideroso di fare ammenda per la condotta peccaminosa alla quale attribuiva la causa del suo male,[21] ordinò che Anselmo venisse nominato arcivescovo di Canterbury all'inizio di marzo.[11][22]  Nei mesi successivi, tuttavia, Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo di non essere adatto, in quanto monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e adducendo come scuse anche l'età e alcuni problemi di salute.[6] Il 24 agosto Anselmo sottopose a Guglielmo le condizioni alle quali avrebbe accettato l'arcivescovato (condizioni peraltro in linea con il programma della riforma gregoriana): che Guglielmo restituisse le terre confiscate; che accettasse la preminenza di Anselmo sul piano spirituale; che riconoscesse Urbano II come Papa, in opposizione all'antipapa Clemente III.[23] Guglielmo era estremamente riluttante ad accettare tali richieste e, benché la situazione favorisse Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere solo alla prima.[24] Arrivò al punto di sospendere i preparativi per l'investitura di Anselmo, ma infine, sotto la pressione della volontà pubblica, fu costretto a portare a termine l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia ad accordarsi con Anselmo raggiungendo un compromesso vantaggioso per la monarchia: la restituzione delle terre rimase l'unica concessione fatta dal re all'arcivescovato.[25] Anselmo ottenne dunque il consenso dei suoi ex confratelli ad essere dispensato dai doveri che lo legavano all'abbazia di Bec, rese l'omaggio feudale a Guglielmo, e il 25 settembre 1093 si insediò a Canterbury,[11] ricevendo le terre precedentemente confiscate all'arcivescovato;[24] il 4 dicembre dello stesso anno venne consacrato arcivescovo di Canterbury.[24]  È stato messo in dubbio che la riluttanza di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera: mentre studiosi come R. W. Southern sostengono che avrebbe davvero preferito rimanere a Bec, altri, come Sally Vaughn, sottolineano che una certa recalcitranza nell'accettare importanti posizioni di potere ecclesiastiche era d'uso nel Medioevo, dal momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il desiderio di succedere a Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato un ambizioso carrierista; inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva gli obiettivi di Guglielmo e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il suo eventuale arcivescovato oltre che per il movimento riformista gregoriano.[26]  Arcivescovo di Canterbury sotto Guglielmo II    Scena raffigurante Anselmo costretto quasi a forza ad accettare il bastone pastorale, simbolo della carica di vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra gravemente malato. Prima ancora della fine di quello stesso anno 1093 ebbe luogo uno dei primi conflitti tra Anselmo e Guglielmo: il re era in procinto di avviare una spedizione militare contro suo fratello maggiore, Roberto II di Normandia, e avendo bisogno di fondi aspettava una donazione dall'arcivescovo di Canterbury;[27] Anselmo mise a disposizione 500 sterline, che il re rifiutò chiedendo una somma due volte maggiore.[12] Più tardi, un gruppo di vescovi convinse Guglielmo ad accettare la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere di aver già donato il denaro ai poveri.[11]  Quando si recò ad Hastings per benedire la spedizione che si accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo rinnovò le pressioni volte a tutelare gli interessi di Canterbury e della Chiesa inglese, oltre che, più in generale, a riformare il rapporto tra Stato e Chiesa[11] secondo la visione della «teocrazia pontificia» espressa da papa Gregorio VII:[28] Anselmo concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la sua autonomia e autorità, dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua missione e per la sua investitura;[29] questo andava in direzione opposta rispetto alla visione di Guglielmo la quale, in continuità con quanto già sostenuto dal suo predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato che sulla Chiesa.[11][30] La figura di Anselmo, in effetti, è vista dagli storici tanto come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come quella di un politico intelligente e capace, determinato a conservare i privilegi della sede episcopale di Canterbury.[31]  Nuovi attriti sorsero subito dopo, quando, come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il pallio dalle mani del Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel periodo, infatti, la legittimità di papa Urbano II era messa in discussione dall'antipapa Clemente III. Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato esplicitamente l'autorità di papa Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV di Franconia, si era fatto eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da coloro che rimasero fedeli a Gregorio e ai suoi successori come "Antipapa".[32] Guglielmo vietò ad Anselmo di partire per Roma, dove si trovava la sede di Urbano II, riconosciuto dal regno di Francia così come da Anselmo stesso; non sembra che il re d'Inghilterra fosse incline a riconoscere l'autorità di Clemente III, ma insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo di Canterbury di partire per Roma fosse subordinata al suo riconoscimento ufficiale di Urbano II, riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la questione venne convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno in cui Anselmo, tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile della dottrina della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come unico vero successore di Pietro.[12] Il concilio nazionale di Rockingham, che fu un momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la questione dell'investitura rimase insoluta.[11]  Anselmo, allora, inviò in segreto a Roma alcuni messaggeri.[33] Urbano II, in risposta, mandò a Canterbury un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad Anselmo in sua vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la questione, e infine il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in cambio del diritto di autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di ricevere lettere del papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più alcun legato se non su esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che Anselmo venisse deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II senza che ci fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di Canterbury. Il re tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del pallio, ma senza esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare personalmente il pallio all'arcivescovo, ma anche questo gli venne negato: si raggiunse un compromesso facendo in modo che Gualtiero, in rappresentanza del Papa, deponesse l'oggetto sacro sull'altare della cattedrale anziché consegnarlo ad Anselmo con le sue mani; Anselmo indossò quindi da solo il pallio nel corso di una cerimonia solenne che si tenne nella cattedrale di Canterbury nel giugno 1095.[35]  Nei due anni successivi non ci furono aperte dispute tra Anselmo e il re, anche se questi fece del suo meglio per impedire che Anselmo portasse avanti una riforma della Chiesa in senso gregoriano. Nel frattempo, nel 1094, Anselmo aveva ultimato la composizione dell'Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull'incarnazione del Verbo), il cui dedicatario era proprio Urbano II.[11]  Nel 1097, dopo l'insuccesso di una campagna militare diretta a sedare una rivolta in Galles, Guglielmo accusò Anselmo di avergli fornito una quantità insufficiente di truppe e gli ordinò di comparire presso il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò e chiese al re di potersi recare a Roma per chiedere consiglio al Papa, ma ciò gli venne negato.[36] Nel corso di un negoziato che si tenne a Winchester, Anselmo venne messo di fronte a due possibilità: partire, ma in questo caso non avrebbe più potuto fare ritorno al suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma avrebbe dovuto pagare un risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore appello a Roma.[36] Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non sottomessa ad alcuna autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097 lasciò l'Inghilterra diretto a Roma.[12] Guglielmo si impossessò immediatamente delle rendite della sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente Anselmo conservò la carica di arcivescovo.[37]  Primo esilio  Ritratto di Anselmo nel Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in dicembre, e passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di Romans; nella primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio in compagnia di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal Papa con grandi manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva essere coinvolto più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a Guglielmo II, non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una lettera di rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica.[12] Anselmo passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora abate del monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur Deus homo (Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in Inghilterra.[11]   Incisione della prima metà del XVI secolo raffigurante Anselmo d'Aosta. Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua, dove fu raggiunto da papa Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari un concilio destinato a risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa greca a proposito della processione dello Spirito Santo; più in generale, tra gli obiettivi del sinodo era quello di ricondurre a una comune posizione teologica i due grandi ceppi ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del 1054.[1] Ad Anselmo, che già si era espresso sull'argomento nell'Epistola de incarnatione Verbi,[11] fu chiesto di partecipare alla discussione e il Papa gli assegnò un ruolo importante nella disputa: espose infatti la posizione della Chiesa latina, secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre quanto dal Figlio, in modo così convincente da risolvere la disputa e persuadere i rappresentanti della Chiesa greca[1] (i suoi argomenti in seguito sarebbero stati raccolti nel testo De processione Spiritus Sancti, Sulla processione dello Spirito Santo). Anche il caso individuale di Anselmo venne sottoposto all'attenzione dell'assemblea, la quale avrebbe scomunicato Guglielmo se non fosse stato per l'intercessione di Anselmo stesso.[12]  Anselmo e i suoi compagni, a questo punto, sarebbero volentieri rientrati a Lione, ma venne loro ordinato di trattenersi in Italia per partecipare a un altro concilio, che doveva tenersi a Roma verso il periodo di Pasqua del 1099. Durante questo sinodo venne nuovamente ed energicamente sottolineata la posizione della Chiesa contro l'investitura del potere spirituale da parte dei laici,[30] contro la simonia e contro il concubinato dei religiosi.[1] A Roma si verificarono ulteriori attriti tra Urbano II e Guglielmo di Warelwast, rappresentante di Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove minacce di scomunica al re se Anselmo non avesse riottenuto la sua carica; tuttavia, ancora una volta, la questione venne rimandata e, a causa della morte di Urbano in luglio, rimase di fatto insoluta.[11]  Infine, nel corso dello stesso anno 1099, Anselmo poté tornare a Lione; durante il soggiorno in questa città portò a compimento il trattato De conceptu virginali et originali peccato (Sull'Immacolata Concezione e sul peccato originale) e la Meditatio de humana redemptione (Meditazione sulla redenzione dell'uomo).[11]  Ritorno in Inghilterra sotto Enrico I Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di caccia il 2 agosto dell'anno 1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I, il quale invitò Anselmo a tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo consigliere.[38] Enrico cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria rivendicazione del trono, a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore Roberto.  Di ritorno, in settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il problema delle investiture si pose subito e in modo grave: il re, che pure inizialmente era stato del tutto conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse l'omaggio feudale[39] e che si assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad arcivescovo di Canterbury.[40] Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a queste richieste, dal momento che il papato (proprio con il recente concilio di Roma) aveva vietato agli ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di ricevere da questi l'investitura a cariche religiose.[12]  Enrico e Anselmo inviarono messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse al re di investire personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio.[12] Nel frattempo i due riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli ostacoli al matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di Sassonia, ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per qualche tempo pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione a tale matrimonio[12] e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova regina.[11] Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte delle truppe di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a favore di Enrico e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica, contribuì a volgere la situazione in favore del sovrano inglese, causando la ritirata del rivale.[12][41]  Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non era intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale.[41] Un nuovo gruppo di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra diretto verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno del re nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati di Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12] Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, Anselmo lasciò l'Inghilterra il 27 aprile 1103.[11][42]  Secondo esilio Anselmo si trattenne a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma nel periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse con Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale, ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, Anselmo ricevette un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in Inghilterra se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le pratiche dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e dell'omaggio. Anselmo dunque rimase a Lione, dove stese il De processione spiritus sancti.[11]  Anselmo si trattenne a Lione fino al marzo 1105, quando il Papa scomunicò Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che aveva insistito affinché il re continuasse a praticare l'investitura da parte di laici,[43] insieme ad altri prelati investiti da Enrico o da altri rappresentanti del potere temporale,[44] mentre si limitò, per il sovrano, a minacciare la scomunica.[11] Anselmo, che non sperava più in un aiuto concreto del Papa, si recò in Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo personalmente di scomunica,[11][45] con lo scopo di costringerlo una volta per tutte a raggiungere un accordo sulla questione delle investiture.[46]  Anche grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne revocata (cosa che Anselmo fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette poi rendere conto a papa Pasquale II)[43][47] a patto che essi tenessero sempre conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici; le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso: nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale consideravano il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di ulteriori azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana, avrebbero dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai laici.[48] La lettera del Papa autorizzava Anselmo anche a revocare la scomunica di coloro che erano stati investiti da laici o che a laici avevano reso l'omaggio feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina d'Inghilterra da tutti i loro peccati.[11]  Il ritorno di Anselmo a Canterbury comunque fu rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute dell'anziano arcivescovo; il 15 agosto Anselmo incontrò Enrico a Bec; il re aggiunse alle concessioni fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a suo tempo da Guglielmo II e promise di risarcire il clero inglese dei danni economici patiti a causa della lotta per le investiture. Così, i due si riappacificarono.[11]  Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece trionfale ritorno in Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei principi inglesi tenuta il 1º agosto risultò il "concordato di Londra", che formalizzava e annunciava pubblicamente il compromesso tra Enrico e Anselmo:[49] nessun vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da un laico, ma il fatto di aver reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a nessuno di ricoprire la carica di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali vacanti (alcune delle quali erano vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II) vennero assegnate, e Anselmo, riprese le funzioni di arcivescovo di Canterbury, consacrò tutti i nuovi vescovi.[11]  Anche nella fase finale della sua vita Anselmo continuò ad occuparsi dei doveri di arcivescovo e, contemporaneamente, a meditare e a scrivere testi di teologia, come il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (Sulla compatibilità della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio con il libero arbitrio). Anselmo lavorò per innalzare il livello spirituale del regno e, in particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu inoltre coinvolto in una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di Canterbury su quella di York, disputa che non sarebbe stata superata (con la riaffermazione della supremazia di Canterbury) se non dopo la sua morte.[11]  Anselmo morì il 21 aprile 1109, mercoledì santo, e venne sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue spoglie vennero però esumate durante i disordini a sfondo religioso che ebbero luogo durante il regno di Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le tracce.[11]   La tomba di Anselmo all'interno della cattedrale di Canterbury. Il processo di canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso Becket (uno di coloro che ne continuarono l'opera volta a garantire l'indipendenza della Chiesa inglese dal potere politico) e venne portato a termine da papa Alessandro III nel 1163. Anselmo fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio 1720[50].  Pensiero Oltre ad aver svolto un importante ruolo politico nella disputa sulle investiture in Inghilterra, Anselmo d'Aosta fu anche un pensatore di grande spessore nell'ambito della filosofia cristiana medievale, considerato uno dei principali esponenti della riflessione di area europea[3], il principale filosofo dell'XI secolo[8][51] e il primo grande pensatore del Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena[4].  Influenze Il lavoro di Anselmo è caratterizzato da una grande originalità e sono rari, nella sua opera, i riferimenti a pensatori del passato: ciò rende difficile identificare le influenze che hanno contribuito a dar forma al suo pensiero[15]. Posto che la fonte principale della riflessione di Anselmo è l'autorità della Bibbia, è tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel neoplatonismo cristiano di Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento; l'importanza dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi giudicata tutto sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare l'importanza rivestita da Aristotele e dal suo traduttore e commentatore Severino Boezio nel determinare certi aspetti dialettici della filosofia di Anselmo, oltre che, tra le altre cose, la sua concezione del male come privo di positività ontologica e la teoria dei futuri contingenti che garantiscono la compatibilità della prescienza di Dio con la libertà umana[52]. L'influenza del maestro Lanfranco probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla dialettica, determinante[15].  Rapporto tra ragione e fede Nella riflessione di Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la ragione svolge un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana del rapporto che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la ragione e la fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la dimensione della ricerca razionale ha infatti un posto molto rilevante[3].  Anselmo riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse essere necessariamente la fede nella rivelazione delle sacre scritture, e che, quindi, si dovesse credere per comprendere piuttosto che comprendere per credere ("credo ut intelligam")[53]; in altre parole sosteneva, ispirandosi alle parole di Isaia (7, 9) «se non hai fede, non capirai» ("nisi credideritis, non intelligetis")[54], che il fondamento di ogni conoscenza dovesse provenire dalla fede, e che solo su di essa potesse innestarsi il lavoro della ragione, volto all'approfondimento e alla comprensione dei dogmi[53].  Anselmo tuttavia riponeva grande fiducia nella capacità della ragione di portare avanti con successo questo suo ruolo di chiarificazione e comprensione dei dati di fede: come disse il medievista francese Étienne Gilson, egli giudicava «presunzione non mettere per prima cosa la fede, [...] negligenza non fare successivamente appello alla ragione»[53]. Dunque, benché fosse per lui impensabile sottomettere o subordinare i misteri della fede alla dialettica, cioè alla logica, Anselmo riteneva che fondandosi saldamente sulla rivelazione fosse possibile usare la ragione per approfondire la comprensione di tali misteri o, anche, per dimostrare inconfutabilmente la necessità di accettarli come tali[55]. In effetti per lui esistevano dogmi non suscettibili di esatta comprensione razionale, come ad esempio quello della Trinità, ma riteneva che fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite ragionamenti per analogia, una parziale comprensione di tali dogmi e che, inoltre, fosse possibile provare razionalmente la necessità di abbracciarli[56]. Una significativa espressione anselmiana, che può essere considerata il suo motto filosofico, è «la fede in cerca della comprensione»[8]. Con ciò Anselmo intendeva riaffermare la priorità della fede e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i contenuti della rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la ragione prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la ragione[8].  Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione, in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori evidenziano come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e legati all'ambito morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici e legati all'ambito della ricerca razionale[57].  Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a posteriori: il Monologion Magnifying glass icon mgx2.svgMonologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il Monologion, Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione cristiana o non vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare l'esistenza di Dio e dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di procedimenti razionali a posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo sensibile e sviluppate con procedimenti razionali).[3][53]  La dimostrazione dell'esistenza di Dio proposta da Anselmo nel Monologion è di ascendenza platonica,[58] ed è ispirata almeno in parte al neoplatonismo di Agostino d'Ippona.[59] Il fondamentale presupposto di tale prova infatti, a parte la constatazione che le cose del mondo sono caratterizzate da gradi diversi di perfezione, è la convinzione che se le cose sono più o meno perfette (o comunque presentano una certa caratteristica positiva con grado maggiore o minore di intensità), ciò dipende dal fatto che tali cose partecipano in maniera più o meno diretta di un ente assolutamente perfetto (o che comunque possiede quella certa caratteristica positiva al massimo grado).[59]   Iniziale miniata da un manoscritto del Monologion risalente al XII secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a proposito del bene: dal momento che possiamo constatare che esistono nella realtà molti beni, diversi tra loro e buoni in grado maggiore o minore, dobbiamo secondo Anselmo dedurne con certezza che essi sono buoni in virtù di un solo principio del bene assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in diverso modo e in diverso grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé e per sé, mentre ogni altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca a un livello gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58]  Dopodiché, avendo dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene, Anselmo applica il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la stessa esistenza, così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da assoluta perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature finite ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza).[58]  Secondo Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il processo di causazione degli enti da un essere primo.[60]  La seconda parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi degli attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio.[61] Alcuni di questi attributi divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di tutti gli esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena esposto. Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli attributi di Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio, anche le caratteristiche di eternità e intelligenza.[58]  Alla luce del carattere creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone poi una rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo),[15] tradizionalmente inteso come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e come intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica era intermediario tra l'Uno e il Mondo.[62] Anselmo giunge alla conclusione che ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di Dio.[15] Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature.[58]  Anselmo, discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o Logos) umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini delle cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più aderiscono alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce l'essenza delle cose, e le cose sono modellate su di esso.[15] La terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana dell'amore. In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che formano una sola essenza e una sola divinità;[15] questo può essere reso più comprensibile alla ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana: come l'anima umana, pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre facoltà (memoria, intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente unitario, si compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo).[63]  L'autore analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone di considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di tutte le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le caratteristiche che è meglio avere piuttosto che non avere.[15] Con ciò, Dio comunque possiede tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri principi; inoltre la molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio sia composito, dal momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con tutti gli altri e con la stessa essenza divina in una suprema unità e semplicità.[15]  Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori: il Proslogion Magnifying glass icon mgx2.svgProslogion e Argomento ontologico.  Statua di Anselmo ad Aosta, in via Xavier de Maistre. Sullo sfondo, i campanili della cattedrale di Aosta; a destra si intravede il seminario maggiore. (la) «Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque valet cogitari esse aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit.» «O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto quanto si possa pensare; poiché infatti è lecito pensare che esista qualcosa di simile. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile.»  (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 15, 235C) Anselmo rimase parzialmente insoddisfatto della dimostrazione dell'esistenza di Dio e dell'indagine sulle sue caratteristiche per come esse erano state condotte nel Monologion: egli aspirava infatti a costruire un argomento più semplice e interamente autosufficiente in grado di portare alle stesse conclusioni. Un simile argomento, ricercato affannosamente e infine trovato[64], venne esposto nel Proslogion (il cui titolo, originariamente, era stato Fides quaerens intellectum, cioè «la fede in cerca della comprensione»)[65][66].  L'argomento del Proslogion (noto anche, secondo una denominazione attribuitagli da Immanuel Kant, come argomento ontologico)[8] è del tipo a priori: è cioè basato su una definizione di Dio ricavata dalla fede e sviluppata secondo un procedimento razionale che aspira ad essere valido in sé, anteriormente a ogni dato di esperienza[66].  Schema logico dell'argomento ontologico Chi nega l'esistenza di Dio (come lo stolto del Salmo: «che disse in cuor suo: Dio non esiste».) deve avere il concetto di Dio non si può infatti negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure, per negarla devo pensarla avere il concetto di Dio significa: pensare un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore ("aliquid quo nihil maius cogitari possit") ma poiché «si potrebbe pensare un ente che, oltre agli attributi riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello dell'esistenza, e quindi fosse maggiore di lui.»[67] questa, allora, sarebbe un'idea maggiore di quella di Dio quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla di maggiore, essendo il maggiore di tutti gli enti, non può non avere la caratteristica dell'esistenza: esistere senza dubbio sia nell'intelletto sia nella realtà ("existit ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re")[68] L'argomentazione di Anselmo prende dunque le mosse dalla definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore». Egli sostiene che chiunque, incluso lo «stolto» che, secondo i Salmi (14, 1 e 53, 1) «disse in cuor suo: Dio non esiste»[65], comprende tale definizione, anche se non comprende che l'oggetto di tale definizione esiste; comunque, nel comprenderla, si forma mentalmente il concetto di un ente sommamente grande, del quale sia impossibile pensare qualcosa di maggiore.  Ora, sostiene Anselmo, il concetto di «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore» esiste nella mente dello «stolto» (o di chiunque altro) come nella mente del pittore esiste l'immagine di qualcosa che egli è in procinto di disegnare, ma che ancora non esiste al di fuori del suo pensiero.  Tuttavia, qualcosa che esiste solamente nella mente di qualcuno non è tanto grande quanto qualcosa che esiste anche nella realtà esterna, nel mondo effettivo delle cose: pertanto ciò di cui non può essere pensato nulla di maggiore non sarebbe tale se non fosse dotato di un'esistenza effettiva anche fuori dalla mente di chi si forma quel concetto. Il che conduce alla conclusione per cui esiste necessariamente qualcosa di cui non può essere pensato niente di maggiore[65][66], e che non può essere pensato se non come esistente[15]. Si tratta in fondo di una dimostrazione per assurdo[69], basata in gran parte sull'approccio apofatico della teologia negativa[70], in base al quale è doveroso per la mente umana riconoscere l'esistenza di Dio come suo limite[71].  (LA) «Sic ergo vere es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari possis non esse; et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super Creatorem.» «Dunque esisti in modo così vero, o Signore, mio Dio, che non si può neppure pensare che non esisti. E giustamente. Se infatti una mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe sopra il Creatore.»  (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 3, 228B-228C) Come il Monologion, il Proslogion contiene numerosi capitoli nei quali l'autore indaga gli attributi di Dio: partendo dalla definizione della divinità come ciò di cui non può essere pensato il maggiore, Anselmo conclude che Dio deve essere necessariamente l'essere supremo, e quindi supremamente buono, giusto e felice[72]. Sempre in relazione al Monologion, risulta ora tanto più giustificata l'idea che Dio debba essere caratterizzato da tutte le peculiarità che è preferibile avere piuttosto che non avere.[72]  In effetti risulta che un Dio come questo, che (in accordo anche con gli insegnamenti della Bibbia) è necessariamente onnipotente, deve essere impossibilitato a fare il male perché è anche assolutamente benevolo; questo non è però contraddittorio dal momento che, per Anselmo, la capacità di fare il male non è in realtà una vera potenza, quanto piuttosto un'impotenza (il che è coerente con la sua interpretazione del male come privazione, cioè come pura negazione dell'essere e del bene, non dotata di un'autonoma positività ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che Dio non possa fare il male o contraddirsi[72].  Nei capitoli conclusivi del testo, Anselmo ribadisce e approfondisce l'analisi degli attributi divini iniziata nel Monologion, aggiungendo inoltre un accenno all'identità di esistenza ed essenza in Dio il quale prefigurava, anche se da lontano, i risultati che avrebbe raggiunto più tardi Tommaso d'Aquino[73].  Le critiche di Gaunilone all'argomento ontologico e la risposta di Anselmo (LA) «Gratias ago benignitati tuae et in reprehensione et in laude mei opusculi. Cum enim ea, quae tibi digna susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis apparet, quia, quae tibi infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia per le lodi del mio opuscolo.[74] Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»  (Anselmo, Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente, 10, 260B) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone obietta:  in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire, ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto «ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit quam cogitari):[75] l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta.[76] Per spiegare come sia possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni senza cogliere i significati[77]. Gaunilone, un monaco benedettino contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente (Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo, il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia appendice[79].  L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su diversi punti e accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare nell'osservazione di Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un concetto come quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di pensarlo come esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non può essere pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che non si può passare direttamente dal piano del pensiero al piano dell'esistenza[80]. Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» è un concetto inaccessibile a un intelletto umano, sostanzialmente superiore alle sue forze: chi ascolta e comprende tale concetto, afferma Gaunilone, non lo comprende in realtà più di quanto secondo Anselmo lo «stolto» comprende l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi pensare Dio come ciò di cui non può essere pensato il maggiore è possibile solamente a posteriori, e cioè questa concezione di Dio (di per sé giudicata legittima) deve essere sviluppata a partire da argomenti simili, per esempio, a quelli platonizzanti del Monologion[80].  Nella sua risposta alle obiezioni di Gaunilone (il quale peraltro loda il Monologion e tutte le parti del Proslogion diverse dall'argomento ontologico) Anselmo si stupisce di ricevere critiche da qualcuno che è uno stolto ma un cattolico. Rispondendo quindi «al cattolico», Anselmo ravvisa nelle parole di Gaunilone una certa confusione tra «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», limite innegabile del pensiero, e «la cosa più grande di tutte», che essendo un concetto impreciso può ancora essere negato senza cadere in contraddizione. Nella parte principale della sua replica alla replica Anselmo aggiunge che «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» non è un concetto incomprensibile per l'intelletto umano,[81] a meno di fingere di non capire il concetto stesso che si vuole negare, «perché se anche ci fosse qualcuno abbastanza sciocco da dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore non è niente, non sarà così impudente da dire di non riuscire a capire o pensare quel che sta dicendo. O se invece si trovasse qualcuno di questo genere, non solo il discorso è da respingere (respuendus), ma lui stesso da coprire di sputi (conspuendus)»[82]. L'esperienza delle cose del mondo, del resto, rende evidente che gli enti posseggono le diverse perfezioni in diversi gradi e che, dunque, è possibile stabilire una gerarchia di grandezza in cui di ogni cosa è possibile pensare qualcosa di maggiore finché si giunge a qualcosa di cui, appunto, non si può pensare niente di maggiore[83]. È stato fatto notare che con questa operazione, però, Anselmo dà parzialmente ragione a Gaunilone e riconduce la prova a priori del Proslogion alla prova a posteriori del Monologion, ammettendo che il concetto di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» si origina dall'esperienza[84][85]. In tal modo l'autosufficienza della prova del Proslogion può risultare compromessa, ma viene stabilita tra esso e il Monologion una continuità che fa delle due opere altrettanti momenti di un unico argomento per l'esistenza di Dio, in cui tale esistenza viene dimostrata inizialmente a partire da osservazioni empiriche, assicurando nel contempo la legittimità della definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e quindi viene dimostrato che a partire da tale definizione risulta che Dio non è concepibile se non come dotato dell'esistenza[72][84].  Anselmo dialettico: il De grammatico e gli altri scritti logici L'aspetto del pensiero di Anselmo legato alla logica (la quale nel Medioevo era indicata indifferentemente come dialettica o anche come grammatica, in una prospettiva paragonabile a quella della moderna filosofia del linguaggio) ha un'importanza non trascurabile, anche se tale importanza è stata rivalutata solo dalla critica della seconda metà del XX secolo[84].   Anselmo ritratto in una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica uno strumento utile per il teologo: già nel Monologion il suo approccio si era caratterizzato per l'attenta disamina delle possibili ambiguità legate a espressioni come «[esistenza] per sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel Proslogion Anselmo aveva compiuto operazioni simili; ora, nel De grammatico, egli analizza nello specifico il problema della paronimia, ossia dello scambio di due parole dal suono simile ma prive di attinenza nel significato: si trattava di capire se la parola "grammatico" (così come tutti gli altri «denominativi», cioè quelle parole che derivano da una radice da cui differiscono solo per la desinenza, in questo caso "grammatica"), corrispondano a sostanze o qualità[86].  In effetti, sostiene Anselmo, pare ugualmente possibile sostenere che "grammatico" sia sostanza (essenza) o che sia qualità (accidente):[87] nel primo caso perché "grammatico" indica un uomo, e a ogni uomo corrisponde una sostanza; nel secondo perché "grammatico" indica una particolare caratteristica dell'uomo in questione. Anselmo afferma però che non ci troviamo di fronte a una contraddizione, dal momento che i due modi di intendere la parola si riferiscono a due punti di vista ben diversi: è infatti necessario, prosegue, distinguere la significatio di un termine, cioè il piano del suo significato, dalla sua appellatio, cioè il piano del suo riferimento. Pertanto "grammatico" è una significazione della grammatica, ma il suo riferimento è all'uomo[88]. Inoltre, aggiunge Anselmo, per se (cioè in modo diretto, cioè sul piano della significazione) la parola "grammatico" significa una qualità, ma può anche fare riferimento per aliud (cioè in modo indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una sostanza[15][88]. Alcuni commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo prefigurava la teoria della suppositio che sarebbe stata approfondita dai dialettici del XIII secolo e successivi[88].  In altre opere di carattere logico, abbozzate da Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava altre possibili ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in filosofia e teologia: considerò con particolare attenzione i concetti e i termini necessitas ("necessità"), potestas ("potenza", "capacità"), voluntas ("volontà"), facere ("fare", ma anche "far fare", "patire") e aliquid ("qualcosa")[89].  Il problema del male, dell'onnipotenza divina e del libero arbitrio nella trilogia sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia della libertà», composta dai dialoghi De veritate, De libertate arbitrii e De casu diaboli, Anselmo analizza le questioni etiche legate alla rettitudine[19] da un punto di vista teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato anche nelle opere successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era stato invece quello adottato nei testi precedenti)[90].  La scelta della forma dialogica, debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non priva di una sua originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di rendere più vivace la discussione dei problemi teologici e al vantaggio di poter risolvere dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa inoltre corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali consistevano sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti legati da rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di idee[91].  Il De veritate Magnifying glass icon mgx2.svgDe veritate (Anselmo d'Aosta). Il De veritate (primo in ordine logico, anche se non è chiaro in che ordine cronologico furono composte le tre opere) analizza in particolare il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la giustizia.[19]  Anselmo propone una teoria della verità in cui sono compresenti una matrice platonica (per cui la verità delle cose e delle affermazioni particolari risiede nella loro partecipazione alla verità in sé) e la tesi della verità come corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la verità sta nell'aderenza delle asserzioni allo stato delle cose); la nozione di verità per come la intende Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio perché per l'appunto essa è ricondotta sia alla corrispondenza di linguaggio e realtà sia all'aderenza di un'azione al suo fine teleologicamente proprio (che nel caso del linguaggio è esattamente quello di significare la realtà);[8] traducendosi in un più ampio concetto di rettitudine, la verità può quindi essere propria anche della volontà (la volontà vera è volontà retta) e delle azioni (le azioni vere sono azioni buone), oltre che dei sensi, delle essenze stesse delle cose eccetera.[8][15]  Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal momento che tutte le cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità suprema che, evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è ugualmente fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste deve esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del male.[15]  La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando che, se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi, l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il male vengono considerati da due differenti punti di vista.[15]  In conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità, giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente alla rettitudine della volontà.[15]  La rettitudine della volontà è poi direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le altre nella partecipazione a Dio.[15]  Il De libertate arbitrii Magnifying glass icon mgx2.svgDe libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al problema della grazia e del male.[92]  Fin dalle prime pagine dell'opera Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere senza condizionamenti se peccare o non peccare:[93] se, infatti, la facoltà di peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne risulterebbe inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male (cioè non potendo peccare), non sarebbe libero.[72][92]  Anselmo sostiene al contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni, che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è «potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa».[94] La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole, sarebbe nostro dovere volere).[94] La libertà dunque è tanto più libera (tanto più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta.[96] Questo comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo;[96] tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio di libertà ma un esempio di corruzione della libertà.  Infine Anselmo spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto)[97] ed è dunque solo con l'intercessione della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo delle sue potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio.[95] In conclusione l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e interamente autonoma che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e gli uomini ricevono da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta dell'uomo, aiutata dalla grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio.[98]  Il De casu diaboli Magnifying glass icon mgx2.svgDe casu diaboli. Il De casu diaboli tratta dei problemi legati alla rettitudine e alla libertà con particolare riferimento, come da titolo, alla caduta del diavolo[19] – cioè al momento della narrazione biblica in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una certa misura di esistenza (e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella facoltà che gli avrebbe consentito di raggiungere la sua piena realizzazione adeguando la sua volontà a quella di Dio) scelse di non perseverare nel conservare la sua volontà aderente a quella divina, lasciò che la sua libertà si corrompesse e abbandonò quindi la rettitudine per tentare di assomigliare a Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo dunque prende tale esempio come questione paradigmatica per un'analisi dell'origine e della natura del male.[100][101] La sua ricerca prende le mosse ancora una volta da un'attenta analisi logico-linguistica, volta in questo caso a chiarire il significato del termine nihil ("nulla"): afferma Anselmo che tale termine non indica, per il semplice fatto di esistere, una realtà positiva, e che anzi esso significa per negazione (sottraendo una proprietà e non aggiungendola). Il nulla dunque è un ente puramente razionale, perché "nulla" indica non tanto una realtà quanto la negazione di una realtà; ciò avviene, secondo un esempio riportato da Anselmo stesso, analogamente al modo un cui si dice di qualcuno che è cieco anche se la cecità non è tanto una facoltà quanto la negazione della facoltà della vista.[101]  Anselmo fa così propria la concezione, già espressa da un Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo di Ambrogio,[102] del male come privazione, ovvero nega la positività ontologica del male stesso: come bisogna parlare del nulla come negazione dell'esistente e della cecità come negazione della vista, bisogna parlare del male come mancanza di bene. Dunque Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di scegliere se perseguire la giustizia (adeguandosi alla volontà divina) o se perseguire la felicità (ribellandosi e tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò la rettitudine e compì un moto di allontanamento da Dio; compì cioè un'ingiustizia che, però, non era nient'altro che una negazione della giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo, Anselmo dunque sviluppa la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere umano è creato da Dio ed è dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui piena realizzazione si ha nella conservazione della rettitudine – cioè nell'adesione alla legge che Dio, con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia al momento del peccato originale anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la sua libertà; e non gli è possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a un nuovo dono di grazia da parte di Dio.[105] Come Anselmo avrebbe approfondito nel De concordia la volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di perseguire la rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale rettitudine se non in virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della grazia concessa da Dio è fondante. Un capolettera decorato da un manoscritto del Cur Deus homo del XII secolo. La necessità di un Dio-uomo redentore: il Cur Deus homo Magnifying glass icon mgx2.svg Cur Deus homo. Nel dialogo in due libri Cur Deus homo Anselmo spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità facendosi uomo.[106] Il testo contiene anche, come è reso inevitabile dal suo soggetto, un'apologia del dogma cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per l'appunto, si è fatto uomo in Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani; tuttavia non è questo il suo tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è un testo di ampio respiro che di fatto conclude, insieme al successivo De concordia, l'esposizione della visione teologica di Anselmo.Il testo si apre con una chiarificazione metodologica, in cui Anselmo ribadisce la sua posizione sul rapporto tra ragione e fede: come già si era riscontrato nel Monologion, e in accordo con la consueta dinamica dell'intellectus fidei (comprensione della fede), egli tratta sempre la fede come il necessario punto di partenza di ogni riflessione teologica ma giudica «negligenza» astenersi poi dal portare a compimento razionalmente tale riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a spiegare il carattere necessario della volontà divina: Dio, sostiene l'autore, è dotato di una volontà spontanea e autonoma (non è cioè soggetto né a costrizioni né a impedimenti) ma tale volontà è talmente rigida nella sua assoluta immutabilità da far sì che essa possa essere considerata necessaria; si può dire, ad esempio, che è necessario che Dio non menta perché la volontà di Dio, tesa per sua stessa natura verso la verità (e da cui anzi la verità stessa trae la sua natura) è invariabile e incorruttibile nella sua costanza, e non può in alcun modo rivolgersi verso la menzogna.[109] Si è già visto che questa non può secondo Anselmo essere considerata una limitazione della potenza divina.  È proprio per via della necessità e assoluta immodificabilità del piano che Dio aveva predisposto per l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito alla perdita dell'immortalità dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso necessario un intervento di Dio per redimere l'uomo dal peccato originale e ripristinare tale immortalità (sotto forma della possibilità di vivere in eterno nell'altra vita).[110]  Dopodiché, risulta necessario che la remissione da parte di Dio dei peccati dell'uomo passi attraverso un'effettiva espiazione: se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia, senza che il peccato ricevesse una giusta e proporzionata punizione, il disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine e, in generale, la legalità dell'universo morale umano e divino risulterebbe compromessa.[111] Bisogna dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che peccando gli ha negato – anche se resta inteso che le azioni dell'uomo non aggiungono né tolgono nulla a Dio, dato che è impossibile privare dell'onore un Dio che coincide con lo stesso onore e con tutte le altre qualità positive: restituire a Dio l'onore che gli è dovuto significa semplicemente ripristinare la sottomissione, venuta meno con il peccato originale, della volontà umana a quella divina. Tuttavia l'uomo, che anche prima della caduta in quanto creatura era incapace di compiere il bene se non in virtù della partecipazione al bene supremo di Dio, non può espiare la sua colpa da solo: gli è impossibile rendere a Dio la giusta soddisfazione, perché la bontà di ogni azione di riparazione sarebbe comunque dovuta a Dio. È così che Anselmo dimostra che il salvatore dell'uomo deve necessariamente essere di natura divina; quindi egli procede ad argomentare che, per la precisione, egli deve essere un Dio-uomo.[112]  Risulta infatti che a rendere soddisfazione a Dio non può essere qualcuno che sia inferiore a Dio, e d'altra parte è necessario che ad espiare il peccato dell'uomo sia un uomo: pertanto le caratteristiche che le scritture attribuiscono a Gesù, vero uomo e vero Dio, partecipe in ugual modo e nello stesso tempo di entrambe le nature, sono esattamente quelle necessarie a spiegare razionalmente la redenzione dell'umanità[15] dal momento che, come scrive il filosofo Giuseppe Colombo, «Dio (per sé preso) non deve nulla a nessuno e l'uomo (per sé preso) non può nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal peccato in virtù della sua natura divina e perciò privo di doveri e di debiti nei confronti di Dio, offrì volontariamente e liberamente la sua vita innocente a Dio stesso e così facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale dell'umanità. La compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De concordia Il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la compatibilità della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della grazia, con il libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia del De concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema dell'apparente inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina con la libertà umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a maggior ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere libero e non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In primo luogo, egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da quella logica, dal momento che quella ontologica ha una priorità su quella logica: se infatti qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del sole) allora lo è anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge necessariamente); tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in cui avviene, avviene necessariamente) può anche non essere necessario ontologicamente (è il caso, ad esempio, di una rivolta popolare).[115] In secondo luogo Anselmo propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la nostra concezione di predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra coscienza temporale delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in un'eternità al di fuori e al di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o futuro, ma tutto è simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e determina gli eventi che per noi sono passati, presenti e futuri da una prospettiva sovratemporale in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando così le cose, non c'è contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini un evento libero in quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina eventi necessari in quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di Dio con il libero arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da un lato, «superbi», considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di essere raggiunte dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che, dall'altro lato, attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella redenzione dell'uomo da negare addirittura la sua libertà.[117] Anselmo assume nella controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà vengono armonizzate: egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De casu diaboli, per agire rettamente è necessario volere rettamente, e per volere rettamente è necessaria una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da solo tale rettitudine della volontà, poiché (mentre si può autonomamente conservare la rettitudine della volontà quando la si ha) non si può volere la rettitudine con il solo libero arbitrio quando non si ha una volontà retta;[118] e dunque se è vero che è Dio, per grazia, a dare all'uomo questa facoltà, è vero anche che sta alla libertà dell'uomo conservarla – i due aspetti non sono quindi contraddittori, bensì complementari.[117]  Il testo prosegue con un'analisi dei significati della parola "volontà" e delle sue interazioni con il concetto di giustizia, e si conclude con una ricapitolazione dei punti già trattati: l'autore ribadisce che la volontà, creata come ente positivo e quindi di per sé orientata a Dio e alla conservazione della sua originaria bontà, è stata corrotta dalla deviazione del volere dell'uomo per un cattivo uso della libertà; pertanto la volontà umana ha perso la rettitudine necessaria a volere rettamente, e ha bisogno che tale rettitudine sia ripristinata dalla grazia divina prima di poter ricominciare ad agire con giustizia, preservando grazie alla libertà la rettitudine della sua volontà.[118]  Altri scritti  Miniatura inglese del XII secolo di un capolettera delle Orationes sive meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di diversi altri scritti di carattere teologico, ma pur sempre animati da uno spirito filosofico: l'Epistola de incarnatione Verbi e il successivo De processione Spiritus Sancti trattavano del problema della processione dello Spirito Santo e delle modalità della sua incarnazione; il De conceptu virginali et de peccato originali analizzava le questioni dottrinali dell'Immacolata Concezione e del peccato originale, e inoltre ripercorreva ragionamenti già portati avanti nelle opere precedenti; a ciò si aggiungono meditazioni, preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie di frammenti provenienti da un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui costumi [morali]) in parte spurio che tratta delle affezioni dell'anima.[15]  Le preghiere scritte da Anselmo sono raccolte in un'opera nota come Orationes sive meditationes (Preghiere ovvero meditazioni); esse, scritte lungo tutta la vita dell'autore dal periodo di Bec all'episcopato inglese, costituiscono un ulteriore esempio dell'ideale anselmiano di comprensione della fede: benché orientate più alla contemplazione e al raccoglimento spirituale che alla vera e propria filosofia o teologia, il loro scopo è infatti quello di suscitare nel lettore quel sentimento rivolto verso la verità e la rettitudine che è necessario presupposto tanto della teoresi quanto della stessa vita buona.[119]  Di Anselmo si è poi conservato un epistolario particolarmente significativo, che testimonia in modo efficace sia della sua personalità che della sua figura pubblica: risulta infatti chiaramente, da una parte, l'affetto, la carità, la sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo infondeva nelle lettere ai monaci suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la sua determinazione nelle faticose e a volte frustranti questioni politiche legate alla sua posizione di arcivescovo. Esercita un'influenza estremamente significativa sulla storia della filosofia sia. La sua riflessione giunse a livelli di estrema profondità in tutti i campi in cui si espresse, anche se è forse vero che tali campi furono relativamente pochi. Infatti alla sua filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista dialettico, fa difetto un'approfondita analisi del campo della filosofia della natura – la quale sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di Anselmo formano un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di certi problemi come quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza nella filosofia, venendo ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione di Anselmo per la dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui, secondo alcuni critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte le pagine più famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion” egli espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Esse, considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la storia della filosofia, genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A  proposito della rilevanza dell'argomento di Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri pensatori nel XIII secolo, tra cui i più degni di nota sono Aquino e Fidanza. Aquino contesta la validità di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio Anselmo fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento, considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento del suo argomentare.[129] Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile alla prova a priori di Anselmo entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte di Anselmo. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile, allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato (non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione di Anselmo affermando che in Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di Bradley. Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce inoltre a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica si è rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli scritti di Anselmo e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere dovrebbero essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore della logica costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni esistenziali, con particolare riferimento al problema del peccato e della salvezza e al concetto di rettitudine. Barth vede Anselmo tra i suoi principali punti di riferimento, ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono altresì degne di nota le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di emendarla da aporie ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di diverso tenore l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il profilo linguistico, alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da Anselmo. In occasione dell'ottavo centenario della morte di Anselmo, il 21 aprile 1909, papa Pio X promulgò l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra la figura e ne promuoveva il culto. Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica Fides et ratio guardava alla prova ontologica di Anselmo come a un modello di quella complementarità imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”; “De grammatico”; De veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola de incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes Epistolae. Fabio Arduino, Sant'Anselmo d'Aosta, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati. Probabilmente ad opera dell'arcivescovo Tommaso Becket su delega di papa Alessandro III del 9 giugno 1163 (in Inos Biffi, Anselmo d'Aosta e dintorni: Lanfranco, Guitmondo, Urbano II, Editoriale Jaca Book, 2007,325  Stefano Simonetta, Anselmo d'Aosta, in Franco Trabattoni, Antonello La Vergata, Stefano Simonetta, Filosofia, cultura, cittadinanza – La filosofia antica e medievale, Firenze, La Nuova Italia, Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, Firenze, La nuova Italia, 1973,290.  Anselmo d'Aosta, La caduta del diavolo, a cura di Elia Giacobbe, Giancarlo Marchetti, Milano, Bompiani, 2006,39,88-452-5670-7. Butler's Lives of the Saints, a cura di Michael Walsh, New York, HarperCollins Publishers, 1991,117,0-06-069299-5. St. Anselm's Proslogion, a cura di M. J. Charlesworth, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2003,9. Greg Sadler, Saint Anselm, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 15 agosto 2012. Peter King, (St.) Anselm of Canterbury (PDF), su UTORweb. 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Thomas Williams, Introduction to the Monologion and Proslogion (PDF), su University of South Florida. URL consultato il 9 settembre 2012.  Tale interpretazione nacque dalla sintesi neoplatonico-cristiana operata da Agostino. Si veda Simonetta,440.  Simonetta,442 e 476.  Colombo,44.  Gilson,296.  Simonetta,477.  G. C., Enciclopedia Italiana (1935), alla voce "argomento ontologico"  Proslogion, cap. II.  Che l'argomento di Anselmo consista principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The nature of necessity, cap. X,196-221, Oxford University Press, 1974.  Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione [1931], trad. di V. Vinay,123 e segg., Silva, Milano 1965).  Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000.  Simonetta,479.  Colombo,53.  A proposito della disputa sull'esistenza di Dio, avuta col benedettino Gaunilone.  Proslogion, cap. 15, Opera Omnia, I, 112.  Cfr. Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000.  Colombo,52.  Simonetta,478.  Colombo,56-57.  Colombo,57-58.  Per Anselmo, infatti, anche il sole non è fissabile direttamente dallo sguardo, eppure attraverso la luce del giorno riusciamo benissimo a vedere la sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a cura di Italo Sciuto,296, Bompiani, 2002).  «Nam etsi quisquam est tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo maius non possit cogitari, non tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse intelligere aut cogitare, quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente, 9, 258C).  Colombo,59-60.  Colombo,61.  Simonetta,478-479.  Colombo,61-62.  Colombo,62-63.  Colombo,63.  Colombo,64-67.  Colombo,67.  Giacobbe, Marchetti,7-8.  Colombo,73.  Tale definizione era stata proposta da Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, 479.  Colombo, 74.  Simonetta, 490.  Colombo,75.  Colombo, 75-76.  Colombo,73, 76.  Colombo,76-77.  Giacobbe, Marchetti,10.  Colombo,77.  Il quale l'aveva a sua volta ricavata da Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta,440.  Colombo,78.  Su questi argomenti Anselmo si esprimeva anche nel De concordia. Si veda Colombo,79.  Colombo,79.  Colombo,80.  Colombo,81-82.  Colombo,82.  Colombo,82-23.  Colombo,82, 84.  Colombo,85.  Colombo,86.  Colombo,86-87.  Colombo,87.  Colombo,88.  Simonetta,480.  Colombo,89.  Colombo,91.  Colombo,95.  Colombo,91-95.  Gilson,303.  Gilson,302-303.  Colombo,135.  Colombo,132.  Gilson,298.  Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, vol. 1, Torino, Paravia, Diego Fusaro, Anselmo d'Aosta, su Filosofico.net. URL consultato il 16 novembre 2012.  Colombo,132-133.  Francesco Tomatis, L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a Schelling,56-57, Città Nuova, 2010: mentre Anselmo intendeva mostrare la contraddizione logica di chi rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di Cartesio è garantire l'autonomia interna del pensiero privandolo di sbocchi al trascendente. È stato rilevato come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso errore di Gaunilone, concependo Dio soltanto in termini positivi come «il più grande di tutti» (maius omnibus), anziché in maniera negativa (nihil maius, «niente di più grande»): cfr. Virgilio Melchiorre, La via analogica,10-11, nota 18, Vita e Pensiero, 1996. Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A. 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PredecessoreArcivescovo di CanterburySuccessoreArchbishcantarms.png Lanfranco di Pavia (1070-1089)1093-1109 Ralph d'Escures V · D · M Anselmo d'Aosta V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Ordine di San Benedetto V · D · M Santi della Legenda Aurea di Iacopo da Varagine WorldCat Identitieslccn-n50024763 Biografie Portale Biografie Cristianesimo Portale Cristianesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo Wikimedaglia Questa è una voce di qualità. È stata riconosciuta come tale il giorno 24 luglio 2015 — vai alla segnalazione. Naturalmente sono ben accetti altri suggerimenti e modifiche che migliorino ulteriormente il lavoro svolto. 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He argues that the most accessible proofs of the existence of God are through value theory: in his treatise Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence of a source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good; that same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion, Anselm begins with his conception of a being a greater than which cannot be conceived, and mounts his ontological argument that a being a greater than which cannot be conceived exists in the intellect, because even the fool understands the phrase when he hears it; but if it existed in the intellect alone, a greater could be conceived that existed in reality. This supremely valuable object is essentially whatever it is  other things being equal  that is better to be than not to be, and hence living, wise, powerful, true, just, blessed, immaterial, immutable, and eternal per se; even the paradigm of sensory goods  Beauty, Harmony, Sweetness, and Pleasant Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God is supremely simple, not compounded of a plurality of excellences, but “omne et unum, totum et solum bonum,” a being a more delectable than which cannot be conceived. Everything other than God has its being and its well-being through God as efficient cause. Moreover, God is the paradigm of all created natures, the latter ranking as better to the extent that they more perfectly resemble God. Thus, it is better to be human than to be horse, to be horse than to be wood, even though in comparison with God everything else is “almost nothing.” For every created nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum est. On the one hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal structure of the natures themselves: a creature of type F is a true F only insofar as it is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F, to the extent that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a created nature is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts through reason and will, Anselm infers that prior in the order of explanation to creation, there was, in the reason of the maker, an exemplar, form, likeness, or rule of what he was going to make. In De veritate Anselm maintains that such teleology gives rise to obligation: since creatures owe their being and well-being to God as their cause, so they owe their being and well-being to God in the sense of having an obligation to praise him by being the best beings they can. Since every creature is of some nature or other, each can be its best by being that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational natures fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity; rational creatures, when they exercise their powers of reason and will to fulfill God’s purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how good a being it is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what sort of imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising its natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely independent owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De casu diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that since the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good and every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a privation of being, the absence of good in something that properly ought to have it e.g., blindness in normally sighted animals, injustice in humans or angels. Second, since all genuine powers are given to enable a being to fulfill its natural telos and so to be the best being it can, all genuine metaphysically basic powers are optimific and essentially aim at goods, so that evils are merely incidental side effects of their operation, involving some lack of coordination among powers or between their exercise and the surrounding context. Thus, divine omnipotence does not, properly speaking, include corruptibility, passibility, or the ability to lie, because the latter are defects and/or powers in other things whose exercise obstructs the flourishing of the corruptible, passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action theory begins teleologically with the observation that humans and angels were made for a happy immortality enjoying God, and to that end were given the powers of reason to make accurate value assessments and will to love accordingly. Anselm regards freedom and imputability of choice as essential and permanent features of all rational beings. But freedom cannot be defined as a power for opposites the power to sin and the power not to sin, both because neither God nor the good angels have any power to sin, and because sin is an evil at which no metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the power to preserve justice for its own sake. Choices and actions are imputable to an agent only if they are spontaneous, from the agent itself. Creatures cannot act spontaneously by the necessity of their natures, because they do not have their natures from themselves but receive them from God. To give them the opportunity to become just of themselves, God furnishes them with two motivaAnselm Anselm 31   31 tional drives toward the good: an affection for the advantageous affectio commodi or a tendency to will things for the sake of their benefit to the agent itself; and an affection for justice affectio justitiae or a tendency to will things because of their own intrinsic value. Creatures are able to align these drives by letting the latter temper the former or not. The good angels, who preserved justice by not willing some advantage possible for them but forbidden by God for that time, can no longer will more advantage than God wills for them, because he wills their maximum as a reward. By contrast, creatures, who sin by refusing to delay gratification in accordance with God’s will, lose both uprightness of will and their affection for justice, and hence the ability to temper their pursuit of advantage or to will the best goods. Justice will never be restored to angels who desert it. But if animality makes human nature weaker, it also opens the possibility of redemption. Anselm’s argument for the necessity of the Incarnation plays out the dialectic of justice and mercy so characteristic of his prayers. He begins with the demands of justice: humans owe it to God to make all of their choices and actions conform to his will; failure to render what was owed insults God’s honor and makes the offender liable to make satisfaction; because it is worse to dishonor God than for countless worlds to be destroyed, the satisfaction owed for any small sin is incommensurate with any created good; it would be maximally indecent for God to overlook such a great offense. Such calculations threaten certain ruin for the sinner, because God alone can do/be immeasurably deserving, and depriving the creature of its honor through the eternal frustration of its telos seems the only way to balance the scales. Yet, justice also forbids that God’s purposes be thwarted through created resistance, and it was divine mercy that made humans for a beatific immortality with him. Likewise, humans come in families by virtue of their biological nature which angels do not share, and justice allows an offense by one family member to be compensated by another. Assuming that all actual humans are descended from common first parents, Anselm claims that the human race can make satisfaction for sin, if God becomes human and renders to God what Adam’s family owes. When Anselm insists that humans were made for beatific intimacy with God and therefore are obliged to strive into God with all of their powers, he emphatically includes reason or intellect along with emotion and will. God, the controlling subject matter, is in part permanently inaccessible to us because of the ontological incommensuration between God and creatures and our progress is further hampered by the consequences of sin. Our powers will function best, and hence we have a duty to follow right order in their use: by submitting first to the holistic discipline of faith, which will focus our souls and point us in the right direction. Yet it is also a duty not to remain passive in our appreciation of authority, but rather for faith to seek to understand what it has believed. Anselm’s works display a dialectical structure, full of questions, objections, and contrasting opinions, designed to stir up the mind. His quartet of teaching dialogues  De grammatico, De veritate, De libertate arbitrii, and De casu diaboli as well as his last philosophical treatise, De concordia, anticipate the genre of the Scholastic question quaestio so dominant in the thirteenth and fourteenth centuries. His discussions are likewise remarkable for their attention to modalities and proper-versus-improper linguistic usage. Fin dagli esordi della filosofia medievale, la dottrina dei segni riguarda la questione dell’interpretazione, o addirittura dell'intero mondo reale, inteso come insieme di segni attraverso i quali l’assoluto di Bradley si fa manifesto, e attraverso i quali ci indirizza alla verità. Siamo agli albori di una logica del segno, con Alenino, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Beda il Venerabile. Al principio dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la semantica medievali. Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che la fede possa essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima della ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate) vengo- no articolate così le prove dell'esistenza dell’Assoluto, che costituiscono un momento di notevole interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo d’Aosta sostiene la differenza fra linguaggio (o segno, segnante) e realtà (segnato). Se, secondo il linguaggio si può dire che l’Assoluto non esiste, non lo si può però pensare secondo il reale. Si tratta della cosiddetta "prova ontologica", importante perché distingue fra una verità referenziale e una verità *proposizionale*. La verita proposizionale è limitata a una pura asserzione di *esistenza*, che ha valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel dialogo “De veritate”, la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente (relatum, segnatum) è maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità di un segno (del segnato) -- la significazione -- e verità stretta della proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta -- determina la verità o falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha e beta’ Fido is shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita IN-tensionale della proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da una propria legge logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’, ‘comunicato’ o impiegato o impicato (la significazione) non è mai certa o provata. Questa dipende dalla realtà -- o livello ontologico -- con la quale non può essere coerente. Dunque, la verità della significazione, che può essere detta "semantica" o del segno, non si applica che al comunicato o impiegato della conversazione o discorso umano, che riflette piti o meno la cosa, evvento, o situazione (l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto  è con-sustanziale alla natura, ed è, alla Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”, è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo (il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia* *anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa, “l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf. Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la *causa* (ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il tuo *discorso* (il segnante) stesso o il segnato (la significazione del segnante) o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò che tu cerchi. DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se fosse così, *ogni* discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o vera, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione – l’alpha e beta -- restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il discorso, la  è lo stesso; la signi-ficazione (lo segnato) anche e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra essere dunque il vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa signi-fica esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova dell'esistenza dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul linguaggio che Aosta considera un vero e proprio rispecchiamento della natura, un po' come il logos platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il segno da natura (dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il segno dalla natura è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per questo è perfetto (“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il segno dall’arte permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto necessariamente imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate, 11. 51   Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo cominciato a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un segno dall’arte è applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con l'aiuto del quale noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le cose, e una rassomiglianze o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che il segno de-nota. Ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o dialettica è, di norma, considerata come la solida roccia cui ancorare la filosofia. Infatti nella dialettica riteniamo di trovare garanzia di chiarezza, verità, comprensibilità. Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non molto, stando a quel che argomenta in modo provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla sua dialettica e sovversione – dialettica sovversiva – Aosta rivela l’altra faccia della dialettica, quella perturbatrice, una dialettica che non è stabile e chiara, bensì ingannevole e torbida. Aosta propone, come caso di studio di una dialettica sovversiva che svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a sostegno della prova ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e quello di stilare una ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione, dialettica, e fede – per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da servire al posto di quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è da presumere che Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo. Quindi cercava solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad alcuna sua demonstratio. In soldoni, Aosta, con il suo argomento ontologico  forne all’insipiente -- che nel Salmo 13 sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova cogente dell’esistenza di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e convincere gl’altri credente, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, con un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel destinatario il memento che, sicuramente l’uso della ragione può combattere l’eresia. Ma, al contempo, un *abuso* dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia. Infatti, nel progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge ruoli differenti a livelli differenti. La ragione dialettica, da un lato, per la sua natura normativa, impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la ragione dialettica apre un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiunge mai un limite. Il programma di natura tipicamente dialettica impostato d’Aosta perché possa farci pensare più correttamente al signore ineffabile di tutte le cose anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative. Nell’arco di un dialogo, Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19 volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il problema dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto alla Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire l’incoraggiamento d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo in realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento. La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti, usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale. Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente, per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco” d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale* che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma “il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a negazione ‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf. ‘il re di Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una descrizione vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente usa correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste -- il ‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza non e un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato l’essenza di Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti, per Aosta la prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di Velia e di Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come preferisce Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari possit”. Tanto è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo “non esiste alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che niente maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne* la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini – il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse, tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione, quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto, misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df – quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante. L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo dell’argomento ontologico comporta un problema che innesca una reazione a catena. Si deve dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori l’uno con l’altro – in altri termini, dimostrare la possibilità della loro compresenza in un solo identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua ratio argomentativa può rintracciare tutte le possibili relazioni intercorrenti, per esempio, fra bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado anche di dimostrare che Dio non solo *può* -- il diamante dellla logica modale -- ma anche *deve* -- il quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre questi attributi, pur tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa dar conto del perché l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel modo in cui lo fa. L’algoritmo nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque, Signore, tu non sei solo colui di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei anche qualcosa di maggiore di tutto ciò che può essere pensato. Questa proposizione molecolare richiamano tutte le argomentazioni circa gli esiti di impossibilità della logica contemporanea. Tu possi pensare che esista qualcosa di maggiore di qualsiasi cosa io possa pensare, quindi ciò di cui non posso pensare il maggiore deve essere tale che non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo ben sapeva di iniziare una partita impossibile – la razionalizzazione della fede – nella quale un ruolo chiave era svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur tuttavia impostando come limite ultimo il concetto di quello di cui non puo pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa azzardata che dava in questo *gioco* la possibilità all’antagonista (l’infedele, la stessa ragione che è negativa per vocazione) di contrattaccare arrecando danno con una manciata di domande ben azzeccate, che possono trovarci pronti a fornire comunque una risposta o in subordine occuparci la coscienza con la loro presenza importuna. Possiamo, dunque, senz’altro dire che Aosta ha svolto egregiamente una ricognizione dell’aporia della ragiona trovando anche addentellati significativi circa l’esercizio della libertà intellettuale con un efficace richiamo a Bruno e Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti approntati dall’autore sull’argomento ontologico. Per esempio, vengono riportate queste parole d’Aosta. Così quando si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il maggiore’, senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se la cosa stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere pensata o compresa. Subito si attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via negativa per giungere alla comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un gran che di qualcosa se si sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna farsi confondere da questa limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione dell’assoluto, ma di fornire un fondamento razionale per la verità di una proposizione. E tale operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per via puramente negativa – prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio ad absurdum. Sull’argomento della reductio, si cita un passo tratto dalla Responsio d’Aosta. Si può pensare a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi, c’è un mondo m (pensabile) dove cio di cui non si puo pensare il maggiore esiste. Ora supponiamo che cio di cui non si puo pensare il maggiore non esista nel mondo reale. Allora *è* possibile pensare, in m, qualcosa di maggiore di cio di cui non si puo pensare il maggiore. Ma questa è una falsità logica. L’argomentazione è una reductio ad absurdum e la terza premessa è la premessa da dimostrare *assurda*, il che la rende indisputabile. Riterra  che l’argomentazione funziona se almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza renderlo molto incomprensibile o inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione. Dalla combinazione di questi due passi si ricava che si ritenga che la reductio sia particolarmente adatta per rendere accetta l’esistenza di cose inconcepibili. Rivisitando l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga che Socrate non è mortale; che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono mortali; sicché Socrate è sia mortale che non mortale. Ma la terza premessa è necessariamente falsa e la seconda premessa è vera. Perciò la prima premessa è falsa. La seconda premessa non assume riguardo a Socrate una forma puramente negative. Pertanto in questo caso la reductio ad absurdum non può essere addotta in difesa dell’uso della via negativa. Perciò, anche se vi sono reductiones ad absurdum che possono essere formulate con premesse del tipo via negativa, non si spiega cosa di speciale vi sia nell’argomentazione per reductio ad absurdum da renderla adatta per esprimersi per via puramente negativa, e quindi la legittimità della reduction ad absurdum non suffraga l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è positivo (o φ P) ASSIOMA 1. P(φ). P(ψ) P(φ. ψ) ASSIOMA 2. P(φ) P(φ) (Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1. G(x) ≡ (φ) [ P(φ) φ(x) ] (Dio) DEFINIZIONE 2. φ Ess.x ≡ (ψ) [ ψ(x) N(y) [ φ(y) ψ(y) ]] (Essenza di x) p Nq = N(p q) (Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) NP(φ) P(φ) N P(φ) Poiché ciò segue dalla natura della proprietà. TEOREMA. G(x) G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess. x N (x) φ(x) ] (Esistenza necessaria)  ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) N(y) G(y) quindi (x) G(x) N(y) G(y) quindi M(x) G(x) MN(y) G(y) sibilità) (M = pos- M(x) G(x) significa che il sistema di tutte le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a: ASSIOMA 5. P(φ). φ Nψ: P(ψ) x = x è positivo x ≠ x è negative. Anselmo d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva.: Grice, “Anselmo’s “De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on paronymy: a ‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si puo pensare il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo, eresia.  Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688013479/in/photolist-2mKbroA-2mKjo1z-2mKgT2F-2mKuQW3-2mKsLhm-2mKuQFo-2mKsKNW-2mKn6oD-2mKuzxc-2mKuzCc-2mKvKrp-2mHU3AF-2mHSNmD-2mHSNRB-2mHSNQV-2mHU3Aq-2mHWjZV-2mHU3B2-2mHU3AA-2mHNHW5-2mHWk2i-2mHSNRw-2mHNHTE-2mHSNRS-2mHWk23-2mHNHUM-2mHNHUX-2mHSNPs-2mHWjZp-2mHWjZe-2mHWk1b-2mHSNQz-2mHSNPx-2mHSNQE-2mKn3Nt-2mKvGG6-2mHXj2G-2mHU3zd-2mHSNRX-2mGnP2f-BK5mza-o7oCuH-nfSxVn-nmwSQx-nmx6TM-njtwYW-nfSnG6-nfSuMP-nhV75D-njuvW2

 

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