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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 9

 

Grice e Capitini – filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Capitini: his idea (or ‘paradigma,’ as he prefers, echoing Plato and Kuhn) of ‘compresenza conversazionale’ is genial and Griceian! Capitini abbreviates all my pragmatics in the ‘tu’ – or ‘noi,’ – “I am born when I say ‘thou’’ – translated alla Buber – what more conversationally implicaturish can THEE be? (I’m using West-Country puritan patois!”). Fu uno tra i primi in Italia a cogliere e a teorizzare il pensiero nonviolento gandhiano, al punto da essere chiamato il Gandhi italiano.   Nato in una famiglia modesta, Capitini si dedica dapprima agli studi tecnici, per necessità economiche e, in seguito, a quelli letterari, come autodidatta. La madre lavora come sarta e il padre era impiegato comunale, custode del campanile municipale di Perugia. Ritenuto inabile al servizio militare per ragioni di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale. Dopo gli studi della scuola tecnica e dell'istituto per ragionieri, dai diciannove ai ventuno anni si dedica alla lettura dei classici latini e greci, studiando da autodidatta anche dodici ore al giorno, dando così inizio al suo ininterrotto lavoro di approfondimento interiore e filosofico.  In questi anni legge autori e libri molto diversi tra loro, su cui forma la propria cultura letteraria e filosofica: D'Annunzio, Marinetti, Boine, Slataper, Jahier, Ibsen, Leopardi, Manzoni, la Bibbia, Gobetti, Michelstaedter, Kant, Kierkegaard (profondamente influenzato dal Vangelo), Francesco d'Assisi, Mazzini, Tolstoj e Gandhi. In questo periodo aderisce quindi al pensiero nonviolento del politico indiano.  Nel 1924 vince una borsa di studio presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel curriculum universitario di Lettere e Filosofia. Capitini critica aspramente il Concordato con la Chiesa cattolica, da lui giudicato una "merce di scambio" per ottenere da Pio XI e dalle gerarchie ecclesiali un atteggiamento "morbido" nei confronti del fascismo. In uno dei suoi libri arriva ad affermare che «...se c'è una cosa che noi dobbiamo al periodo fascista è di aver chiarito per sempre che la religione è una cosa diversa dall'istituzione».  Nel 1930 viene nominato segretario della Normale di Pisa. Durante il periodo trascorso a Pisa, Capitini matura la scelta del vegetarianismo come conseguenza della scelta di non uccidere, e ogni suo pasto alla mensa della Normale diventa un comizio efficace e silenzioso, un'affermazione della nonviolenza in opposizione alla violenza del regime fascista.  Insieme a Claudio Baglietto, suo compagno di studi, promuove tra gli studenti della Scuola Normale riunioni serali dove diffonde e discute scritti sulla nonviolenza e la nonmenzogna. Allorché Baglietto, recatosi all'estero con una borsa di studio, rifiuta di tornare in Italia in quanto obiettore di coscienza al servizio militare, scoppia lo scandalo e il direttore della Scuola Normale Giovanni Gentile, per reazione, chiede a Capitini l'iscrizione al partito fascista. Capitini rifiuta e Gentile ne decide il licenziamento. Sergio Romano scriverà:  «Gentile e Capitini si separarono poco tempo dopo nella sala delle adunanze del palazzo dei Cavalieri. Il filosofo disse di sperare che "le future esperienze gli facessero vedere la vita e la realtà delle cose sotto un aspetto diverso"; e Capitini rispose che non poteva fare altro che "contraccambiare l'augurio". Fu certamente una rottura. Ma non appena il giovane pacifista uscì dalla sala, il filosofo si voltò verso Francesco Arnaldi, che aveva assistito a questo scambio di battute, e disse "Abbiamo fatto bene a mandarlo via perché, oltre tutto, è un galantuomo".»   Benedetto Croce; in riferimento a lui Capitini scriverà: «dal Croce può venire il servizio ai valori. Il Croce è greco-europeo, perché la civiltà europea porta al suo sommo l'affermazione dei valori». A questo punto Capitini torna a Perugia nella casa paterna, vivendo di lezioni private. Nel periodo di tempo tra il 1933 e il 1934 compie frequenti viaggi a Roma, Firenze, Bologna, Torino e Milano per incontrare numerosi amici antifascisti e intessere in questo modo una fitta rete di contatti.  Nell'autunno del 1936 a Firenze, a casa di Luigi Russo, ha modo di conoscere Benedetto Croce, a cui consegna un pacco di dattiloscritti che Croce apprezza e fa pubblicare nel gennaio dell'anno seguente presso l'editore Laterza di Bari con il titolo Elementi di un'esperienza religiosa. In poco tempo gli Elementi diventano uno tra i principali riferimenti letterari della gioventù antifascista.   Giovanni Gentile negli anni trenta, ai tempi del direttorato alla Normale In seguito alla larga diffusione del suo libro, Capitini promuove assieme a Guido Calogero un movimento culturale che negli anni successivi cercherà di trasformare in un progetto politico atto a realizzare le idee di libertà individuale e di uguaglianza sociale contenute negli "Elementi". Nasce così il Movimento Liberalsocialista, in un anno segnato dall'assassinio dei Fratelli Rosselli, dalla morte di Antonio Gramsci e da una forte ondata di violenza repressiva contro l'opposizione antifascista. Alle attività del movimento collaborano, tra gli altri, Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Norberto Bobbio e Pietro Ingrao.  Nel febbraio 1942 la polizia fascista effettua una retata nel corso di una riunione del gruppo dirigente liberalsocialista, in seguito alla quale Capitini e gli altri partecipanti alla riunione vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate. Dopo quattro mesi Capitini viene rilasciato, grazie alla sua fama di "religioso". «Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi», commenterà più tardi.  Nel giugno 1942 nasce il Partito d'Azione, la cui dirigenza proviene direttamente dalle file del liberalsocialismo. Capitini rifiuta di aderire a qualsiasi partito, poiché a suo giudizio «... il rinnovamento è più che politico, e la crisi odierna è anche crisi dell'assolutizzazione della politica e dell'economia». Per il suo rifiuto di collocarsi all'interno delle logiche dei partiti, Capitini rimane escluso sia dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia dalla Costituente, pur avendo lui dato un'impronta indelebile alla nascita della Repubblica con il suo lavoro culturale, politico, filosofico e religioso di opposizione morale al fascismo.  Nel maggio 1943 Capitini viene nuovamente arrestato e rinchiuso, questa volta, nel carcere di Perugia; viene definitivamente liberato col 25 luglio.   Capitini tra gli anni '30 e '40 Il Centro di Orientamento Sociale (COS) Nel 1944 Capitini cerca di realizzare un primo esperimento di democrazia diretta e di decentralizzazione del potere, fondando a Perugia il primo Centro di Orientamento Sociale, un ambiente progettuale e uno spazio politico aperto alla libera partecipazione dei cittadini, uno «...spazio nonviolento, ragionante, non menzognero», secondo la definizione data dallo stesso Capitini. Durante le riunioni del COS i problemi di gestione delle risorse pubbliche vengono discussi liberamente assieme agli amministratori locali, invitati a partecipare al dibattito per rendere conto del loro operato e per recepire le proposte dell'assemblea, con l'obiettivo di far diventare "tutti amministratori e tutti controllati". A Partire da Perugia, i COS si moltiplicano in diverse città d'Italia: Ferrara, Firenze, Bologna, Lucca, Arezzo, Ancona, Assisi, Gubbio, Foligno, Teramo, Napoli e in moltissimi altri luoghi.   Aldo Capitini nel 1929 I Centri di Orientamento Sociale si sono diffusi sul territorio nazionale, scontrandosi tuttavia con l'indifferenza della Sinistra e con l'aperta ostilità della Democrazia Cristiana, che impediscono l'affermazione su scala nazionale dell'autogoverno e della decentralizzazione del potere sperimentati con successo nelle riunioni dei COS.  Nel secondo dopoguerra Capitini diventa rettore dell'Università per stranieri di Perugia (come Commissario, dal 1944 al 1946), un incarico che sarà costretto ad abbandonare a causa delle fortissime pressioni della locale Chiesa cattolica. Si trasferisce a Pisa, dove ricopre il ruolo di docente incaricato di Filosofia morale presso l'università degli Studi.  Parallelamente all'attività didattica, politica e pedagogica, Capitini prosegue la sua attività di ricerca spirituale e religiosa, promuovendo nel 1947 il Movimento di religione insieme a Ferdinando Tartaglia, singolare figura di sacerdote scomunicato ed audace teologo, che però se ne allontanerà nel 1949. Negli anni che vanno dal 1946 al 1948 il Movimento di religione organizza una serie di convegni con cadenza trimestrale, che culminano con il "Primo congresso per la riforma religiosa" (Roma 13/15 ottobre 1948).  Nel 1948 il giovane Pietro Pinna, dopo aver ascoltato Capitini in un convegno promosso a Ferrara dal Movimento di religione, matura la sua scelta di obiezione di coscienza: è il primo obiettore del dopoguerra. Pinna è processato dal tribunale militare di Torino il 30 agosto 1949 e a nulla serve la testimonianza a suo favore di Aldo Capitini. Pinna subisce una serie di processi, condanne e carcerazioni, fino al definitivo congedo per una presunta "nevrosi cardiaca". Agli inizi degli anni 60 si dimetterà dal suo impiego in banca per raggiungere Danilo Dolci in Sicilia e dopo un anno si trasferirà a Perugia per diventare il più stretto collaboratore di Capitini.  Dopo l'arresto di Pinna, Capitini promuove una serie di attività per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza, convocando a Roma nel 1950 il primo convegno italiano sul tema.  Il Centro di Orientamento Religioso (COR)  Un primo piano di Aldo Capitini (ca. 1960) Nel 1952, in occasione del quarto anniversario dell'uccisione di Gandhi, Capitini promuove un convegno internazionale e fonda il primo Centro per la nonviolenza. Sempre nel 1952 Capitini affianca ai Centri di Orientamento Sociale il Centro di Orientamento Religioso (COR), fondato a Perugia con Emma Thomas (una quacchera inglese di ottant'anni). Il COR è uno spazio aperto, in cui trova espressione la religiosità e la fede di tutte le persone, i movimenti e i gruppi che non trovavano posto nel Cattolicesimo preconciliare. Lo scopo dei COR era quello di favorire la conoscenza delle religioni diverse dalla cattolica, e di stimolare i cattolici stessi ad un approccio più critico e impegnato alle questioni religiose.  La Chiesa locale vieta la frequentazione del Centro di Orientamento Religioso, e quando nel 1955 Capitini pubblica Religione Aperta il libro viene immediatamente inserito nell'Indice dei libri proibiti. Nonostante l'ostracismo delle alte gerarchie ecclesiali, Capitini stabilisce ugualmente degli efficaci rapporti di collaborazione con alcuni cattolici come Don Lorenzo Milani e Don Primo Mazzolari.  Capitini organizza a Perugia un convegno su La nonviolenza riguardo al mondo animale e vegetale e, insieme a Edmondo Marcucciautore di Che cos'è il vegetarismo e, al pari di Capitini, mai iscritto al partito fascistafonda la prima organizzazione nazionale di coordinamento delle tematiche del vegetarianismo, la "Società vegetariana italiana".  La polemica tra Capitini e la Chiesa Cattolica continua anche dopo il Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del libro Severità religiosa per il Concilio. A partire dal 1956 Capitini insegna all'Cagliari come docente ordinario di Pedagogia e nel 1965 ottiene un definitivo trasferimento a Perugia. Nel marzo 1959 è tra i fondatori dell'ADESSPI, l'Associazione di Difesa e Sviluppo della Scuola Pubblica in Italia. Capitini arriva a chiedere al proprio vescovo di non essere più annoverato nella Chiesa, lui profondamente religioso, della quale non condivideva più i metodi e le idee.   La prima Bandiera della pace  Bandiera della pace portata da Capitini nella prima marcia Perugia-Assisi, attualmente custodita presso la Biblioteca San Matteo degli Armeni del comune di Perugia. Domenica 24 settembre 1961 Capitini organizza la Marcia per la Pace e la fratellanza dei popoli, un corteo nonviolento che si snoda per le strade che da Perugia portano verso Assisi, una marcia tuttora proposta in media ogni due/tre anni dalle associazioni e dai movimenti per la pace. In questa occasione viene per la prima volta utilizzata la Bandiera della pace, simbolo dell'opposizione nonviolenta a tutte le guerre. Capitini descrive l'esperienza della marcia nel libro Opposizione e liberazione: «Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle noncollaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia». Aderiscono molte personalità, tra cui lo scrittore Italo Calvino. L'impegno di Capitini per la pace infranazionale e internazionale (con particolare attenzione al pericolo atomico) lo coinvolse sempre più in una collaborazione con Norberto Bobbio, il quale raccoglierà tali riflessioni nell'opera Il problema della guerra e le vie della pace.  Negli ultimi anni della sua vita Capitini fonda e dirige un periodico intitolato Il potere di tutti, sviluppando i principi di quella che lui definì "omnicrazia", la gestione diffusa e delocalizzata del potere da lui contrapposta al centralismo dei partiti. In questi anni Capitini promuove anche il Movimento nonviolento per la Pace e il mensile "Azione nonviolenta", l'organo di stampa del movimento, che attualmente viene pubblicato a Verona.  Dedito completamente al suo lavoro di divulgatore della nonviolenza, Capitini non si sposò mai, per scelta, in modo da poter dedicare tutte le proprie energie alla sua attività.  Il 19 ottobre 1968 Aldo Capitini muore circondato da amici e allievi, dopo aver subìto un intervento chirurgico che consuma le sue ultime energie. Il 21 ottobre il leader socialista Pietro Nenni scrive una nota sul suo diario: «È morto il prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. (...) Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C'è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all'epoca del fascismo e nuovamente nell'epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello». È sepolto a Perugia nella tomba di amici del C.O.R., insieme a Emma Thomas.  Il pensiero Religione e laicità  Il Mahatma Gandhi Aldo Capitini aveva l'abitudine di definirsi un "religioso laico". Egli accomunava la religione alla morale in quanto essa critica la realtà e la spinge al cambiamentoin positivo. Quella di Capitini era un'opposizione religiosa al fascismo. Il sentimento religioso, inoltre, nasce nei momenti di difficoltà e sofferenza, in particolare nel rapporto individuale con la morte. L'idea di laicità nasceva dal distacco di Capitini dalla Chiesa cattolica, complice del regime: egli sosteneva che col Concordato del 1929 la Chiesa avesse legittimato il potere di Mussolini, dimenticando le violenze squadriste e, in tal modo, lo sostenesse garantendo la sua moralità di fronte alla maggior parte della popolazione che riponeva fiducia nell'istituzione religiosa. Capitini è molto distante dalla religione istituzionalizzata. Dio, come Ente, non esiste per Capitini: per evitare ogni equivoco e marcare la distanza della sua concezione religiosa da quella corrente, Capitini preferirà parlare di compresenza piuttosto che di Dio; per la stessa ragione, per indicare la vita religiosa così intesa non parla di fede, ma riprende da Michelstaedter il termine persuasione. Capitini si dichiara post-cristianoevidente anche dal suo "sbattezzo"e non cattolico, ma ama e si ispira alle figure religiose. Ogni figura con una profonda credenza, anche laica, è per lui un "religioso". Egli nega con decisione la divinità di Gesù Cristo: convinzione senza la quale non si può essere cristiani. Contesta, come Tolstoj, tutti gli aspetti leggendari e non dimostrabili dei Vangeli, compresa la Risurrezione. Ciò che apprezza sono le Beatitudini, il modello spirituale di un agire verso gli ultimi. Gesù ha insegnato dove può giungere una coscienza religiosa, è stato più di un uomo: "fu anche lui, come tutti, un essere con certi limiti; ma d'altra parte fu in lui, come in ogni altro essere, la qualità della coscienza che va oltre i limiti, che è in lui come in un mendicante" scrive negli Elementi. L'imitazione di Cristo secondo Capitini non è altro che realizzazione della propria realtà umana. Si potrebbe ugualmente parlare di una imitazione del Buddha, di Francesco d'Assisi, di Gandhi, di Tolstoj e molti altri.  Persuasione, apertura, compresenza, omnicrazia Col termine "persuasione", ripreso da Carlo Michelstaedter e da Gandhi, Capitini indicava la fede, sia in senso laico sia religioso, la profonda credenza in determinati valori ed assunti, e tramite essa, la capacità di persuadere gli altri della bontà del proprio ideale.   Il professor Aldo Capitini negli anni '60 L'apertura è l'opposto della chiusura conservatrice ed autoritaria del fascismo, e l'elevazione dell'anima verso l'alto e verso Dio.  Un concetto chiave nella filosofia capitiniana era la compresenza di tutti gli esseri, dei morti e dei viventi, legati tra loro ad un livello trascendente, uniti e compartecipi nella creazione di valori.  Nella vita sociale e politica la compresenza si traduce in omnicrazia, o governo di tutti, un processo in cui la popolazione tutta prende parte attiva alle decisioni e alla gestione della cosa pubblica.  La nonviolenza e il liberalsocialismo Non può mancare il concetto di nonviolenza, un ideale nobile, sinonimo di amore, coerenza di mezzi e fini, la forza in grado di sconfiggere il fascismo, che non è solo un regime, ma anche un modo di essere violento e autoritario.  Il liberalsocialismo di Capitini e di Guido Calogero si sviluppa in modo autonomo dal socialismo liberale di Carlo Rosselli. Si forma infatti in un periodo posteriore, quando il regime fascista è vicino al collasso, nell'ambiente dei giovani crociani che hanno studiato ed insegnato alla Normale di Pisa, mentre il pensiero di Rosselli, che lo precede temporalmente, essendosi forgiato nel fuoco della lotta antifascista, in Italia e in Europa, già a partire dagli anni Venti, si iscrive in modo diretto nella tradizione socialista. Capitini per liberalismo intende il libero sviluppo personale, la libera ricerca spirituale e la produzione di valori. Il socialismo è invece nei suoi intendimenti la realizzazione nel lavoro, l'assistenza fraterna dell'umanità lavoratrice soggetto corale della storia. Anche se «...il socialismo liberale di Rosselli […] è una delle eresie del socialismo, mentre il liberalsocialismo è un'eresia del liberalismo» (M. Delle Piane), si può affermare tuttavia che entrambi condividessero la critica ai totalitarismi,sia di destra che di sinistra, una visione laica della politica e l'obiettivo di una profonda riforma morale e sociale dell'Italia distrutta dalla guerra.  L'educazione e la civiltà L'educazione "profetica" è quella di colui che, con uno sguardo al futuro, è capace di criticare la realtà sulla base di valori morali, anche a costo di sembrare fuori dal suo tempo. Con l'espressione "civiltà pompeiana-americana" intende biasimare la mentalità materialista che vede nel lusso e nel possesso la realizzazione delle persone. Il "tempo aperto" è il tempo libero che ognuno potrebbe destinare alla discussione, alla socializzazione, al raccoglimento, all'elevazione spirituale. Ad Aldo Capitini sono intitolate strade in molte città di Italia: Perugia, Firenze, Roma, Pisa, Milano, ecc  Riconoscimenti Ad Aldo Capitini sono oggi intitolati un Istituto di istruzione tecnica economica e tecnologica, un centro congressi a Perugia, un'Aula magna all'interno dell'Cagliari, presso la Facoltà di Studi umanistici. Altre opere: “Esperienza religiosa” Laterza, Bari); “Vita religiosa, Cappelli, Bologna); “Atti della presenza aperta, Sansoni, Firenze); “Saggio sul soggetto della storia, La Nuova Italia, Firenze); “Esistenza e presenza del soggetto in Atti del Congresso internazionale di Filosofia (II ), Castellani, Milano); “La realtà di tutti, Arti Grafiche Tornar, Pisa); “Italia nonviolenta, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna); “Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino); “L'atto di educare, La Nuova Italia, Firenze); “Religione aperta, Guanda, Modena); “Colloquio corale, Pacini Mariotti, Pisa); “Discuto la religione di Pio XII, Parenti, Firenze); “Aggiunta religiosa all'opposizione, Parenti, Firenze); "Danilo Dolci", Piero Lacaita Editore, Manduria); “Battezzati non credenti, Parenti, Firenze); “Antifascismo tra i giovani, Celebes editore, Trapani); “La compresenza dei morti e dei viventi, Saggiatore, Premio Viareggio Speciale); “Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano (rist. Linea D'Ombra, Milano 1989; rist. Edizioni dell'asino, Roma); “Educazione aperta” La Nuova Italia, Firenze); “Il potere di tutti, introduzione di N. Bobbio, prefazione diPinna, La Nuova Italia, Firenze); “Scritti sulla nonviolenza, L. Schippa, Protagon, Perugia); “Scritti filosofici e religiosi, M. Martini, Protagon, Perugia); “Il potere di tutti, 2 ed. riveduta e corretta, Guerra Edizioni, Perugia); “Opposizione e liberazione: una vita nella nonviolenza, Piergiorgio Giacché, Napoli, L'ancora del Mediterraneo. Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Mario Martini, ETS, Pisa scheda; Lettere;  "Epistolario di Aldo Capitini, 1"con Walter Binni, L. Binni e L. Giuliani, Carocci, Roma (intr.di M. Martini). Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 2"con Danilo Dolci, G. Barone e S. Mazzi, Carocci, Roma); La religione dell'educazione: scritti pedagogici, Piergiorgio Giacché, La meridiana, Molfetta); Lettere 1936-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 3"con Guido Calogero, Th. Casadei e G. Moscati, Carocci, Roma.  L'atto di educare, M. Pomi, Armando editore, Roma.  Lettere, "Epistolario di Aldo Capitini, 4"con Edmondo Marcucci, A. Martellini, Carocci, Roma.  Religione Aperta, M.Martini, Laterza, Roma-Bari.  Lettere 1937-1968, "Epistolario di Aldo Capitini, 5"con Norberto BobbioPolito, Carocci, Roma.  Lettere familiari, "Epistolario di Aldo Capitini, 6"M. Soccio, Carocci, Roma.  Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tuttiL. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  La mia nascita è quando dico un tu, quaderno per la ricercaLanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.  Antifascismo tra i giovani, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  Nuova socialità e riforma religiosa, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  La compresenza dei morti e dei viventi, collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte Editore, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze.  Educazione aperta collana «Opere di Aldo Capitini», Il Ponte ditore, Voll. 1-2, coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Firenze. Note  Incontro con il "Gandhi" italiano, La Stampa, 22 giugno 1968; Il Gandhi Italiano, Panorama, Tale soprannome è condiviso con altri, come Danilo Dolci e Franco Corbelli  Capitini ricorderà: «Gentile era impaziente che io sistemassi le cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli animali, gli italianiche Mussolini stava portando alla guerraesitassero ancor di più davanti all'uccisione di esseri umani): e a Gentile infastidiva che io, mangiando a tavola con gli studenti, come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia novità». (citato in Lorenzo Guadagnucci, Restiamo animali, Milano, Terre di mezzo)  Sergio Romano, Aldo Capitini e il pacifismo alla Scuola Normale, Corriere della Sera, 4 luglio 2006.  l'8 febbraio  18 giugno ).  Aldo Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano, 1966131.  Da Le lettere di religione Archiviato il 26 novembre  in. su aldocapitini  Edmondo Marcucci, Che cos'è il vegetarismo?, Società vegetariana italiana, 1953.  Giulio Angioni, Tutti dicono Sardegna, Cagliari, Edes, 1990, 3049  Dal sito del COS fondato da Capitini[collegamento interrotto]  Testimonianza di Luciano Capitini, figlio del cugino di primo grado Piero, il parente più stretto di Capitini  Antonio Vigilante, Religione e nonviolenza in Aldo Capitini.  Martini Mario, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, Nuova antologia: 608, 2262, 2,, Firenze (FI): Le Monnier,.  Nel 1938 aveva reso visita a Piero Martinetti, ritiratosi nella sua villa di Spineto a Castellamonte, con le cui concezioni religiose aveva una grande sintonia.  Per un approfondimento, vedi i seguenti testi: G. Calogero, Difesa del liberalsocialismo, Marzorati, Milano, 1972; M. Bovero, V. Mura, F. Sbarberi, I dilemmi del liberalsocialismo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994; A. Capitini, Liberalsocialismo, e/o, Roma, 1996 (che raccoglie una serie di scritti apparsi fra il '37 e il '49).  Premio letterario Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci. 9 agosto.  Piero Craveri, CAPITINI, Aldo, in Dizionario biografico degli italiani,  18, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1975. 26 maggio.  Norberto Bobbio, La filosofia di Aldo Capitini, Religione e politica in Aldo Capitini, in Id., Maestri e compagni, Firenze, Passigli Editori, Antonio Areddu, La via italiana al gandhismo in “Il Manifesto”, Antonio Areddu, Non violenza e utopia. Aldo Capitini ed Ernst Bloch, in “Behemoth”, trimestrale di cultura politica, a. 1988,  4, fasc.1-2. Giacomo Zanga, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci Editore, 1988. Marco Capanna, Speranze, Rizzoli,  Mario Martini, L'etica della nonviolenza e l'aggiunta religiosa, in "Il Ponte", Mario Martini, Capitini ispiratore di Bucchi. La sintesi di pensiero del Colloquio corale, in "Esercizi Musica e spettacolo", nn. 16-17, 1997-98. Antonio Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999. Mario Martini, I limiti della democrazia e l'aggiunta religiosa all'opposizione, in G. B. Furiozzi, Aldo Capitini tra socialismo e liberalismo, Milano, Franco Angeli, 2001. Pietro Polito, L'eresia di Aldo Capitini, prefazione di N. Bobbio, Aosta, Stylos, 2001. Giuseppe Moscati, La presenza alla persona nell'etica di Aldo Capitini: considerazioni in alcuni scritti minori, in "Kykeion", n. 7, Firenze, University Press, 2002. Tuscano, Pasquale, Poetica e poesia di Aldo Capitini, Critica letteraria. N. 4, 2008, Napoli: Loffredo Editore, 2008. Mario Martini, Mazzini, Capitini, Gandhi: una religione umanitaria per la democrazia, in "Il Pensiero Mazziniano", Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Biografia intellettuale di Aldo Capitini, 1ª ed. BFS edizioni, 2 ed., Pisa, BFS edizioni, 2003. Mario Martini, Laicità religione nonviolenza, in M. Soccio, Convertirsi alla nonviolenza?, Verona, Il Segno dei Gabrielli, 2003. Mario Martini, Religiosità, ateismo e laicità: la religione aperta, in D. Tessore, L'evoluzione della religiosità nell'Italia multiculturale, Roma, Settimo Sigillo, 2003. Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Assisi, Cittadella, 2004. Alberto de Sanctis, Il socialismo morale di Aldo Capitini (1918-1948), Firenze, CET, 2005. Caterina Foppa Pedretti, Spirito profetico ed educazione in Aldo Capitini. Prospettive filosofiche, religiose e pedagogiche del post-umanesimo e della compresenza, Milano, Vita e Pensiero, 2005. Massimo Pomi, Al servizio dell'impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Firenze, La Nuova Italia, 2005. Andrea Tortoreto, La filosofia di Aldo Capitini. Dalla compresenza alla società aperta, Firenze, Clinamen, 2005. Maurizio Cavicchi, Aldo Capitini. Un itinerario di vita e di pensiero, Bari, Piero Lacaita, 2005. Mario Martini, La nonviolenza e il pensiero di Aldo Capitini, in, La filosofia della nonviolenza, Assisi, Cittadella editrice, 2006. Laura Zazzerini,  di Scritti su Aldo Capitini, Perugia, Volumnia, 2007. Caterina Foppa Pedretti,  primaria e secondaria di Aldo Capitini (1926-2007), Milano, Vita e Pensiero, 2007. Marco Catarci, Il pensiero disarmato. La pedagogia della nonviolenza di Aldo Capitini, Torino, EGA, 2007. Amedeo Vigorelli, La nostra inquietudine. Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, Bruno Mondadori, 2007. Mario Martini, Lo stato attuale degli studi capitiniani, in "Rivista di storia della filosofia", n. 4, 2008. Silvio Paolini Merlo, La teoria della compresenza di Aldo Capitini. Fisionomia logica di una categoria religiosa, in "Itinerari" (seconda serie), XLVIII, 3, 2009. Nunzio Dell'Erba, Aldo Capitini, in Id., in "Intellettuali laici nel 900 italiano", Padova,  169–188 Mario Martini, Capitini oltre il quarantennio della sua scomparsa. Una rassegna, in "Quaderni dell'Associazione Diomede", n. 2,. Mario Martini, Capitini, maestro di rigore intellettuale e politico, in "Il Ponte", nn. 7-8,. Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, in "Nuova Antologia", aprile-giugno. Gian Biagio Furiozzi, Aldo Capitini e Giacomo Matteotti, Nuova antologia. APR. GIU., 2009. Gabriele Rigano, Religione aperta e pensiero nonviolento: Aldo Capitini tra Francesco d'Assisi e Gandhi, Mondo contemporaneo: rivista di storia: 2,  (Milano: Franco Angeli). Polito, Pietro, editor; Impagliazzo, Pina, editor, Norberto Bobbio: testimonianze e ricordi su Aldo Capitini, Nuova antologia: 607, 2260,  (Firenze (FI): Le Monnier). Mario Martini, Aldo Capitini e le possibilità religiose della laicità, Nuova antologia: 608, 2262, 2,  (Firenze (FI): Le Monnier). Aldo Capitini (Lanfranco Binni e Marcelo Rossi), Numero speciale di “Il Ponte” n.4, luglio-agosto.  Danilo Dolci Pietro Pinna Guido Calogero Mahatma Gandhi Nonviolenza Alberto L'Abate Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Aldo Capitini Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Aldo Capitini  Aldo Capitini, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Aldo Capitini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Aldo Capitini, su sapere, De Agostini. Opere di Aldo Capitini,.  Associazione "Amici di Aldo Capitini", su citinv. Puntata de "La grande storia", su rai. 3 ottobre  7 marzo ). Tesi di laurea: Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto BobbioTre idee di democrazia per tre proposte di pace, su peacelink. PredecessoreRettore dell'Università per Stranieri di PerugiaSuccessore Astorre Lupattelli19441946 commissarioCarlo Sforza Filosofia Politica  Politica Filosofo del XX secoloPolitici italiani del XX secoloAntifascisti italiani 1899 1968 23 dicembre 19 ottobre Perugia PerugiaAccademici italiani del XX secoloAttivisti italianiEducatori italianiNonviolenzaPacifistiPersone legate alla Resistenza italianaPoeti italiani del XX secoloPolitici del Partito d'AzioneSostenitori del vegetarianismoTeorici dei diritti animali.  con    Capitini    Questo disegno di mani intrecciate in una stret¬  ta che cancella ogni differenza di razza. Renato  Guttuso l'ha inviato al prof. Capitini con l'au¬  gurio che la marcia della pace sia un gesto che  faccia profondamente riflettere gli uomini e dia  loro quel senso di responsabilità che non hanno.    :he la "Normale" a Pisa. Do-  .. ». po la laurea/ fu assistente  ri... dei prof. Momigliano, quin-  co- di segretario del collegio  te, uni versitario : « Ma Giovan-  al- ni Gentile mi ordinò di  pa- iscrivermi al partito fascista  :cia e io rifiutai ». Venne caccia¬  rle to. Tornò a Perugia e visse  on- dando lezioni private. Il suo  ìon studio era uno sgabuzzino  me della torre: i fascisti (co¬  in- me poi faranno anche i ele¬  vo- ricali ) cominciarono a chia¬  marlo « il gufo ». Ma era  un gufo che dava fastidio,  che teneva contatti con an¬  tifascisti come Jaime Pin-  tor, Banfi, Francesco Flora,  Alicata, Ingrao, Corona, Bu-  f alini,. Ragghianti, Dessi,  Natta, Spinella, Casagrande,  Agnoletti, Ramat, Calogero  (« Allora eravamo entrambi  radicai-socialisti — dice di  quest'ultimo —: ma lui in  senso laburista, io rivolu¬  zionario » ).   Nel 1937 venne arrestato  e portato a Firenze : « C’era  una trama in tutta Italia  — ricorda —, ma non riu¬  scirono a scoprirla ». Dopo  tre mesi di carcere, fu ri¬  messo in libertà. In quello  stesso anno, con Taiuto di  Benedetto Croce, pubblicò il  libro « Elementi di un'espe¬  rienza religiosa » che, come  scrìsse un giornale « fu al¬  lora letto e meditato da non  pochi giovani che poi si ri¬  trovarono nella guerra par-  tigiana contro la repubblica  di Salò e i tedeschi ». Nel  1943, fu di nuovo arrestato.   Dopo la liberazione, pensò  di iscriversi ai Partito d'a¬  zione. poi non ne fece nul¬  la : « Aveva un programma  troppo limitato, di tipo ra-  dical-repubblicano, che non    della non-violenza. « In In¬  ghilterra ne fanno una ogni  anno, a Pasqua — ricorda  —-, da Aldermaston a Londra.  Nel 1959, il corteo era lun¬  go 5 chilometri: cammina¬  vano in silenzio assoluto,,  soltanto uh tamburo batte¬  va le lettere d e n (disar¬  mo nucleare) in alfabeto  Morse. Quest'anno, addirit¬  tura, le marce sono state  due : una è partita da Al¬  dermaston, Tal tra da We~  therfields, dove si trova  una base della Nato. I due  cortei si sono fusi a Lon¬  dra: c'è stata un'imponen¬  te manifestazione davanti  al ministero della Difesa. I  dimostranti erano migliaia,  rappresentavano ben 39 na¬  zioni: negri e bianchi, asia¬  tici, africani, europei e ame¬  ricani tutti uniti contro la  guerra    del nostro inviato FRANCO MAGAGNINI    rale alTuniversità di Caglia¬  ri : « Parlate il meno pos¬  sibile di me — dice —. Non  è che io sia modesto, ma  ho paura delle contraddi¬  zioni. Sono su con gli anni,  non posso camminare per  tanti chilometri. E’ seccan¬  te, ma è così : organizzo la  marcia è non vi partecipe¬  rò. Quand’ero giovane, in¬  vece... Cera un pretore ad  Assisi, un amico mio, un  antifascista: ogni giorno, si  può dire, lo andavo a tro¬  vare a piedi...». Parla  svelto: a prendere appunti,  quasi si fatica a stargli die¬  tro. Ha 62 anni. Piccolo,  grassoccio, nasconde gli oc¬  chi vivi sotto uno spesso  paio di lenti: tutto in lui  è passione, energia, vitali¬  tà. A Perugia abita in un  attico, con un grande ter¬  razzo, che superando la  parte nuova della città  guarda verso    Perugia, settembre   P ARTIRÀ’ da Perugia,  il 24 settembre, la pri¬  ma « marcia della pa¬  ce » italiana. Sarà una  marcia breve, 23  chilometri in tutto, fino ad  Assisi : ma non per questo  avrà minor significato, un  minor valore. Vi parteci¬  peranno migliaia di perso¬  ne: verranno da tutta TUm-  bria, dal Lazio, dalla Tosca¬  na, dalla Liguria, dalle al¬  tre regioni d'Italia. Cam¬  mineranno quasi in fila in¬  diana, sul lato sinistro del¬  ia strada, per non turbare  il traffico, perché da noi  solo per le processioni la  polizia si mostra larga di  maniche e di vedute. Cam¬  mineranno in silenzio. Per  loro, parleranno i cartelli :  « Tutto per la pace, nien¬  te per la guerra », « Più  scuole niente bombe », « Vi¬  va la coesistenza pacifica »,  « Libertà per i popoli colo¬  niali, no alTimperialismo »,  « Liquidiamo il razzismo »,  « Per la pace e la sicurezza  disarmare la Germania »,  « Scuòle, case, ospedali :  non armamenti ». Fianco a  fianco, inarceranno comuni¬  sti, democristiani, socialisti,  repubblicani, socia 1 democra¬  tici, radicali, uomini e don¬  ne di ogni partito e di ogni  condizione. Da Genova, per¬  sino Un terziarie france¬  scano ha inviato la sua  commossa adesione : verrò  anch'io, non si può soltanto  pregare...   Padre delTiniziativa è il  prof. Aldo Capitini, docente  di pedagogia e filosofia tuo-    A LTRI nomi? Ernesto Ros¬  si, Donini, Ragghianti, Pe-  retti Griva, Gavazzani, Spini,  Jemolo, Segre, Lombarde Ra¬  dice, Borghi, Bucchi, Caroc¬  ci, Benedetti, Arpino, Guaita,  Butitta, Zavattini. « Sono uo¬  mini politici, giornalisti, mu¬  sicisti. scrittori, pittori, giuri¬  sti, docenti universitari : sano  tanti, non posso ricordarli  tutti... Non credevo che la  iniziativa venisse subito co¬  si compresa : persino dalla  India mi hanno scritto, per¬  sino protestanti, quacqueri,  obiettori di coscienza... ».   Aldo Capitini non ha avu¬  to una vita facile. « Perugi¬  no della generazione di Go¬  betti », come ama definirsi,  nacque da una povera fami¬  glia : suo padre era il cu¬  stode delia torre del cam¬  panile. « Ero tanto povero  dice -rry che studiai in  ritardo il greco e il latino».  Dal 1924 ài 1929, frequentò    Anche in Olanda,  nella Germania occidentale,  negli Stati Uniti, nel Cana¬  da, nella Nuova Zelanda  fanno marce della pace. Da  noi, in Italia, niente ». Co¬  sì alcuni mesi or sono, du¬  rante un incontro fra ami¬  ci, l'idea divenne decisione:  ora, per raggravata situa¬  zione internazionale, essa  sta per essere finalmente  realizzata.   Quando parla delle ade¬  sioni, il prof. Capitini si  commuove: « Sono tante,  tante: ho ricevuto centi¬  naia di lettere. Un ragaz¬  zo mi ha chiesto se può  portare un cartello con una  frase eli Anna Frank. Be¬  ni ssi mo, ben issimo, gli ho  risposto. E' lo spirito giu¬  sto. Mi scrive gente del po¬  polo operai contadini. Que¬  sta invece è di Renato Gut¬  tuso (e mostra una lette-    campa¬  gna incredibilmente verde.  Vive con la vedova del fra¬  tello. Il suo studio è una  stanza nuda, quasi un so¬  laio, con una stufa a le¬  gna e enormi finestre: al¬  le pareti, grezzi scaffali ca¬  richi di libri. Si dice socia¬  lista, ma non è iscritto ad  alcun partito. E' uno stu¬  dioso di questioni religiose,  ha pubblicato numerose o-  pere, una delle quali (« Re¬  ligióne aperta ») è stata  messa all'indice: anticatto¬  lico, ha fatto di Gandhi e  San Francesco i suoi mae¬  stri.   L'idea delia marcia gli  venne molti anni fa, quan¬  do fondcPil Centro italiano      Il prof. Aldo Capitini, docente di pedagogia e filosofìa mo-  rale all'UniVersità di Cagliari, è Torganiziatore delia marcia  della paèe, Che partirà da Perugia, 11 24, alla volta di Assisi.    à    15 Aldo Capitini. Keywords: il noi, l’io, il tu, un tu, la compresenza conversazionale – il noi conversazionale – il noi duale – la diada conversazionale – praesentis – praesentia – presenza -- diada e compresenza – “io” e “non-io” – io e tu – Hegel. Du, Thou, I and Thou, Buber, The ‘we’, -- the dual ‘us’ – both, entrambi noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capitini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51718135029/in/photolist-2mRCLwu-2mQtVUe-2mQwYd8-2mN9XHg-2mMT6JV-2mLP3hz-2mJPC2N-hcb6qP/

 

Grice e Carbonara Carbonara Avant, do lutter  pour la libertà de penser et pour l'indépendance de sa patrie, il avaiti  pour s'assurer le pain du jour, endnré toutes les rigueurs matórielles et sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigoureux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut la noblesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à la foia touchó et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses victoires, na'ivemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’a  publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. con tutti i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure,  la sua oscurità — un vero sistema.  In esso trovi subito un’idea che l’ha generato tutto quanto, che ne è il centro,  l’anima e ne fa l’unità: idea ovunque presente e ovunque  feconda, da cui nascono il metodo, le divisioni, gli svolgimenti, le applicazioni, e da cui germogliano in ogni direzione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi teoretici e pratici. 

 

Grice e Capizzi – la topografia di Velia --   b ns z filosofia italiana – Luigi Speranza  (Genova). Filosofo. Grice: “You gotta love Capizzi; he is the type of philosophical intellectual we do not have at Oxford, where it is clever to be dumb! Capizzi knows almost everything! His ‘Parmenids’s door’ is genial – and so is his philosophy on Roman philosophy (‘il colosso romano,’ ‘Catone,’ ‘Roma madre,’ ‘Roma e Sparta,’) – but my favourite is his tract on conversational implicature which he entitles, in a most Italianate manner, ‘Per l’attualismo del dialogo’.” Insegna a Villa Mirafiore, Roma. Si contraddistinse per l'accurato studio storico e filologico dei filosofi italici (Velia, Crotone, Girgentu, Roma). Contesta radicalmente le ricostruzioni ottocentesche del pensiero occidentale del VI e V secolo a.C., che attribuiscono validità storica alle interpretazioni di Aristotele e alla dossografia dipendente da Teofrasto. A questo scopo collabora con il circolo urbinate di Gentili nello sforzo di inserire i sapienti italici nelle tematiche concernenti le città, il pubblico, il committente, l'evoluzione delle strutture sociali, il trapasso dalla tradizione orale alla società della scrittura. Si forma alla scuola di Carabellese. Ben presto entra nei circoli degli studiosi che gravitavano intorno ai filosofi Spirito e Calogero. Insegna a Frosinone e Roma. Si evidenziandosi per l'originalità delle vedute e la radicalità del temperamento.  Coltiva due interessi paralleli.  Uno, da storico, per la sapienza italica arcaica, che lo portò a contestare la narrazione dei italici fatta da Aristotele. Questi, secondo lui, scrisse per esigenze di insegnamento del proprio pensiero nell'ambito del Liceo, e non con lo scopo di ricostruire quanto realmente accaduto. Dopo di lui, per un colossale equivoco, Teofrasto, i grammatici alessandrini, Hegel, Eduard Zeller, Gomperz e Burnet protrassero una sistematica falsificazione. Riprese, per contro, la lezione di Diels, Reinhardt, Cherniss, McDiarmid e Kirk, i quali dimostrarono che Aristotele ha avuto solo interessi speculativi. Aristotele, come tutti i filosofi, parla sempre e soltanto del suo tempo, della cultura del suo tempo, dei problemi del suo tempo. Approfondendo gli studi di Calogero sul “pre-logismo” italico, di Detienne sul mito antropomorfico, di Havelock sulla diffusione della filosofia e di Colli sulla sapienza pre-filosofica, fu il primo storico di formazione filosofica a scoprire l'importanza della dimensione politica negli enigmatici frammenti dei sapienti italici. Ritenne che, ogni volta che si studiano filosofi italici, occorra privilegiare il rapporto tra ogni singolo autore e la sua singola città: Velia, Crotone, Roma, Girgentu.  L'altro interesse, preminentemente teoretico, si svolse sui temi dell'attualismo, che tenta di superare liberandolo dal presupposto interioristico e cogitativistico e proponendo di passare alla interosggetivita della comunicazione, in particolare a quella comunicazione protesa verso una risposta futura che è il dialogo o la conversazione. Intransigente oppositore dell’assoluto hegeliano, nei sui saggi di maggior rilievo filosofico, distinse la filosofia in "comica" e "tragica". Per filosofia comica intende quella che presuppone una struttura unitaria a priori della realtà, che pertanto analizza cose come l'essere, l'uomo, la conoscenza, la ragione, che ignora i modi di essere delle singole diada conversazionale, i tipi di uomo, i modi di conoscere legati ai modi di vivere, le ragioni dei singoli gruppi esistenti in vari luoghi e in vari momenti. L'altra filosofia, ampiamente minoritaria e controcorrente, è quella che presuppone la pluralità delle culture, dei costumi, dei pensieri, e che, avendo a che fare, nei vari momenti storici, con incontri e scontri di alcune culture, alcuni costumi e alcuni pensieri, entra nell'età adulta del dilemma tragico, della scelta tra due opzioni contrarie le quali, in assoluto, non rappresentano il bene o il male, ma ciascuna il bene in un determinato sentire che spesso coincide con il male di un sentire opposto.  Altre opere: “Protagora. Le testimonianze e i frammenti); “Il libero arbitrio”; “Per un attualismo del dialogo”; “Dall'ateismo all'umanismo: correnti incredule del dopoguerra e loro prospettive dialogiche”); “Socrate e i personaggi filosofi di Platone: uno studio sulle strutture della testimonianza platonica e un'edizione delle testimonianze contenute nei dialoghi, Roma); “Impegno e disponibilità: la doppia morale degli intellettuali di oggi); “I Presocratici. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Introduzione a Velia”, Roma-Bari, Laterza); “La porta a Velia: per una lettura del poema”; “I Sofisti. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Sinfonia patriarcale. Storia antologica dela filosofia maschile” Roma, Savelli editore); “La radice ideologica del fascismo: il mito della libertà” (Roma, Savelli); “Socrate. Antologia di testi, Firenze, La Nuova Italia); “Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura dei frammenti); “La repubblica cosmica. Appunti per una storia non-peripatetica della nascita della filosofia” (Roma, Edizioni dell'Ateneo); Platone e il suo tempo, Roma, Edizioni dell'Ateneo); Forme del sapere nei presocratici, Roma, Edizioni dell'Ateneo); L'uomo a due anime. Il comico-tragico adolescenziale” )Firenze, La Nuova Italia); Il tragico in filosofia, Roma, Edizioni dell'Ateneo); I sofisti ad Atene. L'uscita retorica dal dilemma tragico” (Bari, Levante Editori); “Paradigma, mito, scienza” (Gruppo editoriale internazionale); “Platone nel suo tempo. L'infanzia della filosofia e i suoi pedagoghi”; “Corpo ed anima”, “Veleatismo”; Il 'mito di Protagora' e la polemica sulla democrazia”; "A proposito di Parmenide e di Socrate demistificati", in Il demistificatore"; "I italici furono ‘filosofi’? L’origine dello specifico filosofico"; "Tracce di una polemica sulla scrittura in Eraclito e Parmenide", "Cerchie e polemiche filosofiche del V secolo", in Storia e civiltà dei Greci,  III, Milano) "Veliadi Eliadi Meleagridi Pandionidi: la metafora mitica in Parmenide" "Eraclito e Parmenide, un tipico luogo comune"; "Parmenide", "Eschilo e Parmenide",  "Sono/fui; sum-fui: oysia/physis; eimi/phyo: due concetti”; "Mente elevata e mente profonda" in  Il Sublime: contributi per la storia di un'idea (Napoli);  "Trasposizione del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle", in "Quattro ipotesi veleatiche/eleatiche", "Di Pitodoro, di Omar, di Don Ferrante e anche degli aristotelici attuali", Platone, Protagora, Firenze, La Nuova Italia.Partecipa con una delegazione di professori ad un'assemblea a Roma. La discussione si fa animata soprattutto con Rosario Romeo, professore di Storia Moderna, che prima lo accusa di fiancheggiare gli "squadristi rossi" e poi lo schiaffeggia. Gli Indiani metropolitani rincorrono Romeo al grido di "Compagno Capizzi, te lo giuriamo, ogni Romeo preso te lo schiaffeggiamo" In actual fact, Odysseus and the charioteer are complete opposites.4 Antonio Capizzi thinks that the journey is through the streets of Velia, out of the northern gates of the city and down to the inlet where the Velians moored their ships.5 This...  I Romani, nel cui alfabeto figurava la V, non ebbero problemi di trascrizione: influenzati probabilmente dalla Velia o Veliae del Palatino24, modificarono in tal senso il Vele... Dichtersprache und geistige Tradition des 44 ANTONIO CAPIZZI. studi sul pensiero greco Antonio Capizzi. QUATTRO IPOTESI ELEATICHE 1. Elea: nascita di un nome In epoca romana la città di Parmenide e di Zenone era detta Velia o Veliae dagli scrittori latini (a partire da Cicerone ), Eléa da quelli.. Antonio Capizzi, La porta di Parmenide. Due saggi per una nuova lettura del poema (= Filologia e Critica 14 ). Edizioni dell ' Ateneo, Rom 1975. 125 S. Diese Arbeit hat zwei Kapitel, die mit „ Il proemio di P. e gli scavi di Velia “ bzw Giovanni Casertano Antonio Capizzi. Tuttavia, Alcmeone fu... 132; V. Catalano, ' L'Asklepeion di Velia ', estratto dagli Annali del Pontificio Istituto Superiore di Scienze e Lettere « Santa Chiara », Napoli 1965-66, pagg. 289-301, a pag la homoiòtes e l'atrékeia, proponendosi di trasformare Velia (prima aggregato di corn, di villaggi autonomi ) in una polis compatta e stabile. L'uomo... IL CARTESIO DI GIANNONE *Un grande storico della filosofia 130 ANTONIO CAPIZZI Antonio Capizzi, La porta di Parmenide.... une interprétation nouvelle de certains passages du poème de Parménide, en particulier des fragments 1 et 6, à la lumière des fouilles de Velia - ' Eléa commencées en 1962 par Mario Napolil'uscita retorica dal dilemma tragico Antonio Capizzi. feste quinquennali Zenone ricomparve in città, e il... 183 E - 184 A. 5 E. Pozzi PAOLINI, Problemi della monetazione di Velia nel V secolo a. C., « La parola del passato » 25,1970, pp.... e ritiene l'argomento c irrilevante in quanto Parmenide poteva essersi ispirato alla Velia reale anche in una metafora (p.... che si preoccupa di riu- -- nire una città sotto una costituzione aristocratica, omogenea e 402 ANTONIO CAPIZZI. proposta di una diversa lettura dei frammenti Antonio Capizzi... del corpo sociale, doveva conoscere bene anche quei gruppi di cittadini che usavano la scrittura nelle loro ricerche scientifiche, come la scuola medico - astronomica di Velia. 1 tra le vie e le porte di Velia, recentemente dissepolte; e i " mortali ignoranti ” del fr. 6 tra i nemici non metafisici, ma politici, che insidiavano la libertà della polis velina. Antonio Capizzi, incaricato di filosofia teoretica presso l'Università di... un superdio – chi siede di fronte a te e ogni moeclittico è già il proemio: di recente Antonio Capizzi (La porta di... (RODOLFO MACCHIONI Velia, e Renzo Vitali (Una ricostruzione del Jodi ). poema, Faenza 1978 ) una allegorica e... da dove nasce l’idea di un ciclo di convegni sulla figura di Parmenide proprio qui dove Parmenide è vissuto? Mi pare di non potermela cavare con due parole appena. Consideri solo questo, che i riflettori su Elea/Velia si accesero nel 1964, quando Mario Napoli pervenne a identificare la strada e la porta dette “di Parmenide” e, contemporaneamente, Marcello Gigante pubblicò sulla rivista La Parola de Passato una breve nota, «Parmenide Uliade», che attirava l’attenzione su due iscrizioni anch’esse emerse grazie agli scavi condotti dal Prof. Napoli. Si gettarono allora le premesse per una progressiva riscoperta della patria di Parmenide e Zenone, e l’emozione dei primi visitatori colti venne alimentata dalla memorabile foga con cui, intorno al 1970, Antonio Capizzi si dedicò a proclamare che non può capire Parmenide chi non ha visto gli scavi. La scoperta del sistema viario che collegava il quartiere meridionale con quello settentrionale, di cui fanno parte la Porta Rosa e la cosiddetta Porta arcaica, con il conseguente disvelamento della topografia del sito, hanno stimolato lo studioso di filosofia antica Antonio Capizzi, a una rilettura affascinante,[6] ma non universalmente accettata,[7] del proemio Parmenideo al poema in versi Peri Physeos (Sulla Natura).  Antonio Capizzi, La porta di Parmenide, Roma, 1975 e, dello stesso autore, Introduzione a Parmenide, Bari, 1975. PARMENIDE SULLA NATURA Introduzione, traduzione, note e commento a cura di Dario Zucchello PREMESSA Il lavoro qui proposto è il risultato di anni di confronto con il testo e la letteratura parmenidei, sollecitato dalla discussione con l’amico Livio Rossetti, cui sono riconoscente per stimoli, idee ed esempio, e alla cui vivacità e intelligenza d’approccio alla cultura preplatonica sono debitore di non pochi elementi di riflessione. Per rintracciare nel tempo le origini di questo specifico interesse eleatico, devo invece risalire agli anni universitari pisani, alle lezioni di Giorgio Colli, nel periodo in cui i volumi della Sapienza greca stavano vedendo la luce presso l’editore Adelphi: il primo impatto con il pensatore di Elea avvenne infatti nei riferimenti alla discussione intorno alla natura della dialettica arcaica e all’origine della filosofia, nonché attraverso la lettura del Parmenide platonico, proprio in occasione di un corso seguito, tra gli altri, anche da due affermati studiosi e recenti editori dell’opera del sapiente di Elea: Angelo Tonelli e Riccardo Di Giuseppe. Prima dell’impegnativo lavoro di esegesi che ha richiesto una paziente frequentazione delle interpretazioni classiche e contemporanee, la mia fatica (la fatica di chi non ha ricevuto un’educazione filologica) si è concentrata sulla restituzione di un testo greco che tenesse conto dei contributi originali degli editori più recenti, conservando tuttavia, a dispetto delle molte suggestioni, una coerenza complessiva. La traduzione non ha alcuna pretesa di conservare le qualità letterarie del verso epico, puntando piuttosto alla massima prossimità possibile ai termini e alla costruzione dei versi stessi. Il mio sforzo non attende quindi riconoscimenti per originalità ed efficacia nella resa del testo parmenideo: esso ha puntato piuttosto, sin dall’inizio, a ricostruire la fi- sionomia di un’opera complessa, cercando di strapparla alle ipoteche metafisiche da cui è stata spesso condizionata la lettura. Ho già avuto modo di proporre le mie idee sulla posizione del poema nel quadro della storia della sapienza arcaica in due saggi stesi in parallelo alla composizione della presente edizione: Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero, della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011; Parmenide e la περὶ φύσεως ἱστορία, in Elementi eleatici, a cura di I. Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2012. Il lettore troverà nel commento ai frammenti e nella introduzione generale un’ampia difesa della lettura “cosmologica“ del poema, ma, allo stesso tempo, attenzione per le tracce delle interazioni di Parmenide con la cultura del suo tempo: un campo d’indagine che ritengo ancora del tutto aperto a nuove suggestioni. Nel presentare il risultato del mio lavoro mi sia concesso ringraziare i miei anziani genitori per il sostegno che non mi hanno fatto mai mancare e che ha reso possibile le mie ricerche e i mei studi, e Umbi e Gigì per la loro pazienza. Nonostante tutto. A loro questa fatica è dedicata. Dario Zucchello Como, febbraio 2014 4 INTRODUZIONE IL POEMA E IL SUO TEMA Secondo quanto ci attesta Diogene Laerzio (II-III secolo), Parmenide sarebbe autore di un'unica opera: οἱ δὲ [sc. κατέλιπον] ἀνὰ ἓν σύγγραμμα· Μέλισσος, Π., Ἀναξαγόρας altri – Melisso, Parmenide e Anassagora – [lasciarono] un unico scritto (DK 28 A13), un poema in esametri, cui la tradizione posteriore attribuisce la titolazione di Περὶ φύσεως: ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.... καὶ μέντοι οὐ περὶ τῶν ὑπὲρ φύσιν μόνον, ἀλλὰ καὶ περὶ τῶν φυσικῶν ἐν αὐτοῖς τοῖς συγγράμμασι διελέγοντο καὶ διὰ τοῦτο ἴσως οὐ παρηιτοῦντο Περὶ φύσεως ἐπιγράφειν Sia Melisso sia Parmenide intitolarono i loro scritti Sulla natura.... E certo in questi scritti trattano non solo di ciò che è oltre la natura, ma anche delle cose naturali e per questo probabilmente non disdegnarono di intitolarli Sulla natura (Simplicio; DK 28 A14). 5 L'indagine περὶ φύσεως Che in effetti tale intestazione potesse risalire a Parmenide è stato sostenuto da Guthrie1, sulla scorta della parodia che ne avrebbe fatto Gorgia con il suo Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως, anche se è comune la convinzione che, prima dei sofisti, la designazione di un testo avvenisse attraverso la citazione dell’incipit (che doveva risultare particolarmente incisivo), con l'indicazione del contenuto, preceduta dal nome dell'autore (sulla prima riga del testo, analogamente a quanto registriamo nel caso di Erodoto)2. Il trattato ippocratico Sull'antica medicina riferisce la formula indentificativa περὶ φύσεως almeno ai testi della metà del V secolo a.C.: Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ περὶ φύσιος γεγράφασιν Empedocle e gli altri che scrissero sulla natura (De prisca medicina cap. 20). È opinione ampiamente condivisa che essa abbia funzionato, a posteriori, da etichetta per classificare una certa tipologia di scritti, manifestandone il tema: in questa direzione è possibile che, in particolare, la Συναγωγή di Ippia abbia contribuito a fissare un certo numero di categorie storiografiche tradizionali, tra cui appunto la nozione unificante di φύσις, la denominazione Περὶ φύσεως, il termine generico φυσιόλογος3. Si tratta, infatti, di uno dei primi4 sforzi "dossografici", un'opera (molto utilizzata da Platone e Aristotele) intesa a selezionare, raccogliere, mettere in relazione e commentare gli enunciati trovati in ogni genere testuale (poetico e 1 W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, p. 194. 2 G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, SUNY Press, New York 2005, p. 16; W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 12. 3 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, p. 296. 4 Gorgia ne avrebbe portato avanti uno analogo, ma connotato più in senso critico, per sottolineare gli insolubili contrasti tra filosofie. Gorgia avrebbe influenzato direttamente Isocrate, Platone e lo stesso Aristotele. 6 in prosa), di ogni epoca, per coglierne convergenze e stabilire linee di continuità 5. In ogni caso, al di là della discussione sull'attendibilità storica di quel titolo per le opere del V secolo a.C., non è contestato il fatto che tra V e IV secolo a.C. fosse individuabile un gruppo di autori περὶ φύσεως, impegnato, in altre parole, in ricerche sulla natura delle cose: sebbene risulti problematico accertare se coloro che chiamiamo «filosofi presocratici» fossero consapevoli di contribuire a una specifica impresa culturale (sottolineandola nell'intestazione o incipit dei propri contributi), è tuttavia difficile negare che, almeno tra i contemporanei di Platone, si fosse diffusa la convinzione dell'esistenza di una tradizione di ricerca sulla natura (φυσιολογία), iniziata con Talete e conclusasi con Socrate6. L'espressione περὶ φύσεως A quali contenuti ci si intendeva riferire con l'etichetta περὶ φύσεως? Quale significato è da attribuire a tale espressione? Secondo Naddaf7, che al problema ha dedicato un'ampia indagine, con ἱστορία περὶ φύσεως si doveva intendere una storia dell'universo, dalle origini alla presente condizione: una storia che abbracciava nel suo insieme lo sviluppo del mondo (naturale e umano), dall'inizio alla fine. In effetti, origini e sviluppo sono etimologicamente implicati in φύσις: nella forma attiva-transitiva φύω, il radicale del sostantivo significa «crescere, produrre, generare»; in quella mediopassiva-intransitiva φύομαι, invece, «crescere, originare, nascere». La prima occorrenza del termine φύσις, nel libro X dell'Odissea (303), si registra nell'ambito delle istruzioni (da parte di Hermes all'eroe) per la preparazione di una «pozione efficace» (φάρμακον 5 Balaudé, op. cit., p. 291. 6 W. Leszl, Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 357. 7 Op. cit., pp. 28-29. 7 ἐσθλόν) contro gli effetti delle «pozioni velenose» (φάρμακα λύγρα) di Circe: Odisseo racconta come Hermes, estratta dalla terra (ἐκ γαίης ἐρύσας) una pianta medicamentosa (μῶλυ), ne illustrasse la «natura» (καί μοι φύσιν αὐτοῦ ἔδειξε). Per un verso, in quel contesto, φύσις può apparire immediatamente sinonimo di εἶδος, μορφή, φύη, termini (ricorrenti in Omero) indicanti la «forma»: è per altro evidente, tuttavia, che quanto Hermes rivela non riguarda semplicemente l'aspetto esteriore, identificativo della pianta, piuttosto le sue effettive qualità e la costituzione interna da cui esse discendono. In particolare Hermes si riferisce alla radice, nera, da cui cresce il fiore dal colore opposto, bianco: utilizza il termine, quindi, per denotare non tanto la forma fenomenica, né propriamente quella che potremmo anacronisticamente definire l'essenza della pianta, quanto la sua origine (la radice), differente da quel che appare (il fiore, che ne è comunque sviluppo). In questo senso il termine φύσις occorre nelle più antiche citazioni della sapienza greca: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) φύσις δὲ καθ’ Ἡράκλειτον κρύπτεσθαι φιλεῖ 8 la natura, secondo Eraclito, ama [è solita] nascondersi (Temistio; DK 22 B123). Sebbene nell'incipit dello scritto di Eraclito l'espressione κατὰ φύσιν sia per lo più resa dagli interpreti moderni intendendo φύσις come «natura, essenza», incrociando i due frammenti eraclitei è inevitabile pensare al passo omerico sull'erba moly: l'«origine» che si cela dietro il fenomeno8. In questa accezione la φύσις – secondo l'Efesio – «ama nascondersi». Kahn9 ha marcato, invece, come la formula del frammento B1 di Eraclito attesti già un uso "tecnico" del termine nel linguaggio contemporaneo, per designare il «carattere essenziale» di una cosa, unitamente al processo da cui scaturirebbe: la comprensione della «natura» di una cosa passerebbe attraverso la ricostruzione del suo processo di sviluppo. Analogamente Naddaf valorizza la dimensione dinamica implicita in φύσις: «la costituzione reale di una cosa così come si realizza – dall'inizio alla fine – con tutte le sue proprietà»10. Il modello nella tradizione medica Se ora torniamo al trattato ippocratico sull'Antica medicina, da cui abbiamo tratto conferma dell'esistenza (almeno alla metà di V secolo a.C.) di una produzione a posteriori classificata come περὶ φύσιος, possiamo evincere dal contesto alcuni elementi del modello: Λέγουσι δέ τινες καὶ ἰητροὶ καὶ σοφισταὶ ὡς οὐκ ἔνι δυνατὸν ἰητρικὴν εἰδέναι ὅστις μὴ οἶδεν ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος·ἀλλὰ τοῦτο δεῖ καταμαθεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς θεραπεύσειν τοὺς ἀνθρώπους. Τείνει δὲ αὐτέοισιν ὁ λόγος ἐς φιλοσοφίην, καθάπερ Ἐμπεδοκλῆς ἢ ἄλλοι οἳ 8 M.L. Gemelli Marciano, Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques, «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 16-17. 9 Ch.H. Kahn, Anaximander and The Origins of Greek Cosmology, Hackett Publishing Company, Indianapolis 1994 (edizione originale 1960), pp. 201-202. 10 Naddaf, op. cit., p. 15. 9 περὶ φύσιος γεγράφασιν ἐξ ἀρχῆς ὅ τί ἐστιν ἄνθρωπος, καὶ ὅπως ἐγένετο πρῶτον καὶ ὅπως ξυνεπάγη. Ἐγὼ δὲ τουτέων μὲν ὅσα τινὶ εἴρηται σοφιστῇ ἢ ἰητρῷ, ἢ γέγραπται περὶ φύσιος, ἧσσον νομίζω τῇ ἰητρικῇ τέχνῃ προσήκειν ἢ τῇ γραφικῇ. Νομίζω δὲ περὶ φύσιος γνῶναί τι σαφὲς οὐδαμόθεν ἄλλοθεν εἶναι ἢ ἐξ ἰητρικῆς. Alcuni medici e sapienti [sofisti] sostengono che nessuno possa conoscere la medica a meno di non sapere che cosa sia l'uomo, ma che ciò debba conoscere colui che intenda curare correttamente gli uomini. Il loro discorso verte dunque sulla filosofia, proprio come nel caso di Empedocle o degli altri che scrissero sulla natura: che cosa sia dal principio l'uomo, come sia stato dapprima generato e come costituito. Io ritengo che quanto è stato scritto da medici e filosofi sulla natura abbia più a che fare con il disegno che con la medicina. Ritengo che in nessun altro modo si possa conoscere qualcosa di chiaro sulla natura se non attraverso la medicina (De prisca medicina cap. 20). L'autore, evidentemente polemico, marca in effetti lo scarto tra indagine medica e indagine περὶ φύσιος: nell'apertura dell'opera aveva contrapposto all'approccio di coloro che ricorrevano a postulazioni e ipotesi (ὑποθέμενοι) – cioè speculazioni - per l'indagine dei fenomeni celesti e terrestri (περὶ τῶν μετεώρων ἢ τῶν ὑπὸ γῆν), il principio e il metodo (ἀρχὴ καὶ ὁδὸς) della medicina, in altre parole le «scoperte» (τὰ εὑρημένα) avvenute nel corso del tempo e l'osservazione11. Per avere un'idea più precisa dell'impostazione alternativa che egli andava criticando, possiamo leggere un altro trattato ippocratico – il De carnibus – il cui estensore sottolinea di prendere le mosse da convinzioni condivise (κοινῇσι γνώμῃσι): Περὶ δὲ τῶν μετεώρων οὐδὲ δέομαι λέγειν, ἢν μὴ τοσοῦτον ἐς ἄνθρωπον ἀποδείξω καὶ τὰ ἄλλα ζῶα, ὁκόσα ἔφυ καὶ ἐγένετο, καὶ ὅ τι ψυχή ἐστιν, καὶ ὅ τι τὸ ὑγιαίνειν, 11 Naddaf, op. cit., pp. 24-25. 10 καὶ ὅ τι τὸ κάμνειν, καὶ ὅ τι τὸ ἐν ἀνθρώπῳ κακὸν καὶ ἀγαθὸν, καὶ ὅθεν ἀποθνήσκει. Non devo parlare di questioni celesti se non per quanto necessario a mostrare, rispetto all'uomo e a tutti gli altri viventi, come si sono generati e sviluppati, che cosa sia l'anima, che cosa la salute e la malattia, che cosa sia cattivo e buono nell'uomo, e perché muoia (De carnibus 1). Il passo rivela quelle che dovevano essere le comuni assunzioni (le ὑποθέσεις contro cui polemizza l'Antica medicina) nella tradizione della ἱστορία περὶ φύσεως: lo schema adottato è infatti il seguente: (i) originaria caoticità e indistinzione di tutte le cose; (ii) processo di discriminazione degli elementi (etere, aria, terra); (iii) formazione dei corpi. Centrale risulta il parallelo tra formazione dei viventi e formazione del cosmo che deve aver effettivamente costituito un asse portante nella cultura arcaica, sin dalla produzione teogonica. Ciò risulta confermato dall'autore anonimo del De diaeta: Φημὶ δὲ δεῖν τὸν μέλλοντα ὀρθῶς ξυγγράφειν περὶ διαίτης ἀνθρωπίνης πρῶτον μὲν γνῶναι καὶ διαγνῶναι· γνῶναι μὲν ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς, διαγνῶναι δὲ ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται· εἴ τε γὰρ τὴν ἐξ ἀρχῆς σύστασιν μὴ γνώσεται, ἀδύνατος ἔσται τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα γνῶναι· εἴ τε μὴ γνώσεται τὸ ἐπικρατέον ἐν τῷ σώματι, οὐχ ἱκανὸς ἔσται τὰ ξυμφέροντα τῷ ἀνθρώπῳ προσενεγκεῖν Affermo che colui che intenda scrivere correttamente sul regime di vita dell'uomo deve prima conoscere e riconoscere la natura di tutto l'uomo: conoscere allora da quali cose è composto dal principio, riconoscere da quali parti è governato. Se non conosce infatti quella composizione originaria, sarà incapace di conoscere quanto da essa generato; se poi non conosce quel che prevale nel corpo, non sarà in grado di prescrivere all'uomo il trattamento adeguato (De diaeta I, 2) Conoscere «la natura di tutto l'uomo» (παντὸς φύσιν ἀνθρώπου) è condizione del corretto intervento medico: ciò implica eviden- 11 temente conoscere (i) quanto costituisce originariamente l'uomo (ἀπὸ τίνων συνέστηκεν ἐξ ἀρχῆς), per rintracciarne e riconoscerne gli effetti (τὰ ὑπ’ ἐκείνων γιγνόμενα), e (ii) le componenti che lo governano (ὑπὸ τίνων μερῶν κεκράτηται). Conoscere la natura comporta, insomma, risalire alla composizione originaria e al successivo processo. Significativamente questa riduzione al principio riconduce «tutte le cose» a due elementi originari, fuoco e acqua: Ξυνίσταται μὲν οὖν τὰ ζῶα τά τε ἄλλα πάντα καὶ ὁ ἄνθρωπος ἀπὸ δυοῖν, διαφόροιν μὲν τὴν δύναμιν, συμφόροιν δὲ τὴν χρῆσιν, πυρὸς λέγω καὶ ὕδατος I viventi e tutte le altre cose e anche l'uomo sono composti da due elementi, l'uno ha il potere di differenziare, l'altro il temperamento che combina: intendo il fuoco e l'acqua (De diaeta I, 3) L'analogia tra formazione biologica dell'individuo umano (nel senso dell'odierna embriologia) e processi di strutturazione dell'universo (cosmogonia), è un dato riscontrato anche nelle testimonianze relative ad Anassimandro e autori pitagorici, oltre che nei precedenti mitici 12: l'antropologia non poteva prescindere dalla antropogonia, come la cosmologia dalla cosmogonia. Altre tracce antiche del modello Se queste indicazioni - ricavate dalla letteratura scientifica risalente plausibilmente al V-IV secolo a.C. – consentono di farsi un'idea circa la ricezione antica della περὶ φύσεως ἱστορία e dunque dell'argomento cui i pensatori arcaici avevano dedicato le loro opere, alle origini della letteratura filosofica, prima che il modello si affermasse e consolidasse definitivamente nella narrazione peripatetica, un primo abbozzo ne era stato tracciato in un celebre passo del Fedone platonico: 12 Naddaf, op. cit., pp. 22-23. 12 ἐγὼ γάρ, ἔφη, ὦ Κέβης, νέος ὢν θαυμαστῶς ὡς ἐπεθύμησα ταύτης τῆς σοφίας ἣν δὴ καλοῦσι περὶ φύσεως ἱστορίαν· ὑπερήφανος γάρ μοι ἐδόκει εἶναι, εἰδέναι τὰς αἰτίας ἑκάστου, διὰ τί γίγνεται ἕκαστον καὶ διὰ τί ἀπόλλυται καὶ διὰ τί ἔστι Io, Cebete, da giovane ero straordinariamente affascinato da quella sapienza che chiamano indagine sulla natura. Mi sembrava fosse magnifico conoscere le cause di ogni cosa, perché ogni cosa si generi, perché si corrompa e perché esista (96a). Il filosofo racconta la storia della fascinazione esercitata (non è chiaro se effettivamente sul protagonista Socrate o sullo stesso autore) da una forma di sapere – evidentemente già riconoscibile e dunque assestato, come rivela la formula impiegata («che chiamano», ἣν δὴ καλοῦσι) - in grado di rispondere agli interrogativi sulla generazione e corruzione, e così di dar ragione dell'esistenza di ciascuna cosa. Anticipando lo schema del primo libro della Metafisica aristotelica, Platone disegna una storia della sapienza incentrata sull'efficacia della esplicazione causale, nella quale intende marcare la svolta radicale rappresentata dalla propria «seconda navigazione» (δεύτερος πλοῦς): il filosofo non discute la necessità di ricondurre le cose alla loro ragion d’essere; contesta invece la riduzione limitata all’orizzonte delle cause fisiche, per Platone insufficienti a dar adeguatamente conto del perché della disposizione del tutto. È probabile che, pur attingendo a raccolte dossografiche organizzate in ambito sofistico, egli ne adottasse il materiale in modo creativo, allo scopo di giustificare e valorizzare una prospettiva filosofica peculiare13. Un'ulteriore attestazione dell'originaria accezione dell'espressione περὶ φύσεως ἱστορία ritroviamo, tra i contemporanei di Platone, nel riscontro accidentale di un non-specialista come Senofonte: 13 M. Adomenas, Plato, Presocratics and the Question of Intellectual Genre, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, cit., p. 344. 13 οὐδεὶς δὲ πώποτε Σωκράτους οὐδὲν ἀσεβὲς οὐδὲ ἀνόσιον οὔτε πράττοντος εἶδεν οὔτε λέγοντος ἤκουσεν. οὐδὲ γὰρ περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως, ᾗπερ τῶν ἄλλων οἱ πλεῖστοι, διελέγετο σκοπῶν ὅπως ὁ καλούμενος ὑπὸ τῶν σοφιστῶν κόσμος ἔχει καὶ τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων Ma nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire alcunché di irreligioso o empio. Egli infatti non si interessava della natura di tutte le cose, alla maniera della maggior parte degli altri, indagando come è fatto ciò che i sapienti chiamano "cosmo" e per quali necessità si produca ciascuno dei fenomeni celesti (Senofonte, Memorabili I, 1, 11). Non solo appare assodata - a livello di opinione diffusa - (i) la sostanziale equivalenza tra sapienza e ricerca «sulla natura di tutte le cose» (περὶ τῆς τῶν πάντων φύσεως), ma anche (ii) la funzionalità di cosmogonia e cosmologia (ὅπως [...] κόσμος ἔχει), e ulteriormente (iii) l'attenzione per la spiegazione di fenomeni specifici (ὅπως [...] τίσιν ἀνάγκαις ἕκαστα γίγνεται τῶν οὐρανίων). Una "istantanea" che aiuta a fissare, dall'esterno, i caratteri del naturalismo presocratico è infine costituita dal frammento dell’Antiope di Euripide (fr. 910 Nauck)14: ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν, μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνην μήτ’ εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως. τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’ αἰσχρῶν ἔργων μελέδημα προσίζει 14 A. Laks, «Philosophes Présocratiques». Remarque sur la construction d’une catégorie de l’historiographie philosophique, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, p. 20. 14 Beato è colui che alla ricerca ha dedicato la sua vita; egli né i suoi concittadini danneggerà né contro di loro compirà atti malvagi, ma, osservando della immortale natura l'ordine che non invecchia, ricercherà da quale origine fu composto e in che modo. Tali individui non saranno mai coinvolti in atti turpi. In questo caso, addirittura, abbiamo il privilegio di veder sottolineato dal poeta il nesso tra contemplazione (καθορᾶν) dell'«ordine che non invecchia» (κόσμον ἀγήρων) della «natura immortale» (ἀθανάτου φύσεως) e ricostruzione delle sue modalità di formazione. A dispetto degli aggettivi coinvolti - ἀθάνατος e ἀγήρως (di uso omerico ed esiodeo) – evidentemente il κόσμος oggetto d'attenzione – l'ordinamento attuale dei fenomeni – è percepito come il risultato di un processo di composizione (πῇ τε συνέστη καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως), e il suo studio non può prescindere dall'indagine (speculativa) sulle sue tappe. Il modello peripatetico Della περὶ φύσεως ἱστορία la storiografia peripatetica ha certamente fissato il canone interpretativo che ha pesato su tutta la tradizione: nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia, infatti, si attribuisce alla «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι) la convinzione che «principi di tutte le cose» (ἀρχὰς πάντων) fossero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), così argomentando: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης 15 ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre. (Metafisica I, 3 983 b8-13) Nella lettura di Aristotele, la specificità del contributo dei «primi filosofi» risiederebbe nella riduzione degli enti (ἅπαντα τὰ ὄντα) soggetti a divenire alla stabilità della φύσις soggiacente, ovvero, come lo stesso Aristotele precisa: ὥσπερ φασὶν οἱ μίαν τινὰ φύσιν εἶναι λέγοντες τὸ πᾶν, οἷον ὕδωρ ἢ πῦρ ἢ τὸ μεταξὺ τούτων come affermano coloro che sostengono che il tutto [l'universo] è una certa, unica natura, quale l'acqua o il fuoco o qualcosa di intermedio (Fisica I, 6 189 b2), all'unità di una sostanza materiale originaria, «elemento» (στοιχεῖον) e «principio» (ἀρχή) delle cose (τῶν ὄντων). Il quadro si definisce ulteriormente nella ricostruzione che Teofrasto propone delle origini in Anassimandro: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ 16 ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] Anassimandro [...] affermò l’infinito principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: «è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione; esse, infatti, pagano la pena e reciprocamente il riscatto della colpa, secondo l’ordine del tempo» [B1]. Così si esprime in termini molto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, preferendo piuttosto qualcos’altro al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dalla alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno [...] (Simplicio; DK 12 A9). Senza scendere nel dettaglio dell'analisi, la testimonianza e la citazione lasciano intravedere chiaramente alcuni punti su cui si sarebbe concentrata l'indagine del Milesio: (i) l'individuazione di un principio-origine delle cose (ἀρχή τῶν ὄντων) sottoposte a generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (ii) la formazione – nel linguaggio peripatetico della testimonianza - degli «elementi» (στοιχεία), costitutivi materiali da cui (ἐξ ὧν, «dalle quali cose») le cose hanno la loro generazione, e verso cui (εἰς ταῦτα, «verso quelle stesse cose») si produce (γίνεσθαι) la loro corruzione; (iii) le modalità del processo dalla natura originaria, attraverso gli elementi, agli enti: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν); (iv) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Le osservazioni di Teofrasto documentano quindi, agli albori dell'indagine περὶ φύσεως, un'attenzione che non si esaurisce nella determinazione della materia originaria (secondo l'interpretazione 17 di Burnet15), ma si rivolge almeno anche ai processi di formazione delle «cose che sono» (come pensava Jaeger, accostando φύσις e γένεσις 16 ). Complessivamente ciò doveva conferire alla ricerca quella caratteristica impronta speculativa da cui l'autore dell'Antica medicina prendeva le distanze. Che l'interesse non dovesse comunque risolversi in una mera dimensione archeologica e abbracciare invece anche i risultati dei processi, e dunque l'ordinamento dei fenomeni, è suggerito da varie fonti. Aristotele, per esempio, marca in modo sufficientemente netto il focus cosmologico: οἱ μὲν οὖν ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες περὶ φύσεως περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς καὶ τῆς τοιαύτης αἰτίας ἐσκόπουν, τίς καὶ ποία τις, καὶ πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον, καὶ τίνος κινοῦντος, οἷον νείκους ἢ φιλίας ἢ νοῦ ἢ τοῦ αὐτομάτου, τῆς δ’ ὑποκειμένης ὕλης τοιάνδε τινὰ φύσιν ἐχούσης ἐξ ἀνάγκης, οἷον τοῦ μὲν πυρὸς θερμήν, τῆς δὲ γῆς ψυχράν, καὶ τοῦ μὲν κούφην, τῆς δὲ βαρεῖαν. Οὕτως γὰρ καὶ τὸν κόσμον γεννῶσιν. Gli antichi, che per primi filosofarono intorno alla natura, indagarono, circa il principio materiale e la causa siffatta, che cosa e quale fosse, e in che modo da questa si generasse l'intero, e da che cosa il movimento, ad esempio dall'odio o dall'amore, o dall'intelletto, o dal caso, poiché la materia sostrato ha una certa siffatta natura per necessità, ad esempio calda quella del fuoco, fredda quella della terra, una leggera, l'altra pesante; in questo modo, infatti generano anche il cosmo. (Aristotele, Le parti degli animali, 640 b4-12. Traduzione di A. Carbone, BUR Rizzoli, Milano 2002). La ricerca περὶ φύσεως degli «antichi primi filosofi» (ἀρχαῖοι καὶ πρῶτοι φιλοσοφήσαντες) sarebbe stata variamente modulata intorno a: 15 J. Burnet, Early Greek Philosophy, Black, London 19203, pp. 11-12. 16 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 32. 18 (i) natura e proprietà del «principio materiale» (περὶ τῆς ὑλικῆς ἀρχῆς); (ii) individuazione della causa del movimento (καὶ τίνος κινοῦντος); (iii) modalità di generazione dell'«intero» (πῶς ἐκ ταύτης γίνεται τὸ ὅλον) ovvero del «cosmo» (τὸν κόσμον γεννῶσιν). Parmenide e la φύσις Tornando ora alla titolazione del Poema parmenideo, le testimonianze di coloro che hanno contribuito a trasmetterne citazioni – sopra tutti Sesto Empirico e Simplicio (il secondo molto probabilmente disponeva di copia dell'opera, il primo plausibilmente) – sono univoche nell'attribuirgli l'intestazione Περὶ φύσεως. Abbiamo già letto le affermazioni di Simplicio (ἢ ὅτι Περὶ φύσεως ἐπέγραφον τὰ συγγράμματα καὶ Μέλισσος καὶ Π.), in linea con quelle di Sesto: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης [...] ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον «Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide [...] iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo […]» (Adv. Math. VII, 111). Si tratta ora di capire entro quali schemi avvenisse la ricezione dell'opera e del pensiero di Parmenide nella tradizione περὶ φύσεως. Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Prescindendo dagli inquadramenti della produzione per noi frammentaria di Gorgia e Ippia, alla collocazione e al ruolo di Parmenide nel quadro della sapienza antica pensò per primo Platone. Delineando in un lungo passo del Sofista (242 b6-251 a4), che costituisce indubbiamente l'antecedente diretto della disamina 19 dossografica aristotelica, il panorama delle teorie dell’essere, egli introduce di fatto alcune categorie destinate a grande fortuna storiografica: l'occasione è fornita proprio da un rilievo su Parmenide: Εὐκόλως μοι δοκεῖ Παρμενίδης ἡμῖν διειλέχθαι καὶ πᾶς ὅστις πώποτε ἐπὶ κρίσιν ὥρμησε τοῦ τὰ ὄντα διορίσασθαι πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν Mi sembra che con leggerezza si siano rivolti a noi Parmenide e tutti coloro che a un certo punto si sono impegnati a determinare gli enti: quanti e quali enti esistano (242 c4-6). L’opposizione tra pensatori pluralisti e unitari, e la «battaglia di giganti» (γιγαντομαχία) tra coloro che riducono «tutto a corpo» (εἰς σῶμα πάντα) e coloro che, al contrario, pongono l'essere (οὐσία) «nelle idee» (ἐν εἴδεσιν), sono fatte scaturire proprio dai problemi (πόσα τε καὶ ποῖά ἐστιν, «quanti e quali enti esistano») sollevati (anche) dal Poema. L'ottica "ontologica" adottata non può nascondere, nel contesto, il riferimento all'indagine περὶ φύσεως, e, in particolare, l'equivalenza tra ὄντα e ἄρχαί17: Μῦθόν τινα ἕκαστος φαίνεταί μοι διηγεῖσθαι παισὶν ὡς οὖσιν ἡμῖν, ὁ μὲν ὡς τρία τὰ ὄντα, πολεμεῖ δὲ ἀλλήλοις ἐνίοτε αὐτῶν ἄττα πῃ, τοτὲ δὲ καὶ φίλα γιγνόμενα γάμους τε καὶ τόκους καὶ τροφὰς τῶν ἐκγόνων παρέχεται· δύο δὲ ἕτερος εἰπών, ὑγρὸν καὶ ξηρὸν ἢ θερμὸν καὶ ψυχρόν, συνοικίζει τε αὐτὰ καὶ ἐκδίδωσι Mi sembra che ognuno racconti una storia, come fossimo bambini: l'uno [racconta] che gli esseri sono tre, alcuni di essi talvolta sono in qualche modo in lotta reciproca, talvolta al contrario, diventano amici, si sposano, fanno figli e procurano nutrimento alla progenie; un altro, invece, sostiene che [gli esseri] sono due - umido 17 Su questo punto N.L. Cordero nel suo commento a Platon, Le Sophiste, traduction et presentation par N.L. Cordero, Flammarion, Paris 1993, p. 240; J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 190. 20 e secco ovvero caldo e freddo -, li fa convivere e li unisce in matrimonio (242 c8-d4). È appunto all'interno di questo ampio disegno di ricostruzione della tradizione di pensiero precedente che Platone fa della «stirpe eleatica» (Ἐλεατικὸν ἔθνος) 18 il prototipo del “monismo”. È chiaro nel contesto come esso sia, tuttavia, da intendere non ingenuamente - non come se esistesse una sola cosa -, ma in riferimento alla discussione sulla realtà fondamentale: alcuni pongono tre principi, altri due, gli Eleati uno solo: τὸ δὲ παρ’ ἡμῖν Ἐλεατικὸν ἔθνος, ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον, ὡς ἑνὸς ὄντος τῶν πάντων καλουμένων οὕτω διεξέρχεται τοῖς μύθοις da noi la stirpe eleatica - che ha avuto inizio da Senofane e anche prima – riferisce le proprie storie secondo cui ciò che è chiamato "tutto" [tutte le cose] non è che un solo essere (Sofista 242 d5-6). Nell'intenzione di Platone, ricondurre l'eleatismo a Senofane era probabilmente funzionale alla sua collocazione entro un dibattito culturalmente definito19: nella prospettiva di questa ricerca, in particolare, risulta significativa la scelta di non isolare il contributo di Parmenide dallo sfondo d'indagine sui principi (τὰ ὄντα διορίσασθαι). In termini analoghi il Parmenide (180a) delinea le posizioni di Parmenide e Zenone: σὺ μὲν γὰρ ἐν τοῖς ποιήμασιν ἓν φῂς εἶναι τὸ πᾶν, καὶ τούτων τεκμήρια παρέχῃ καλῶς τε καὶ εὖ· ὅδε δὲ αὖ οὐ πολλά φησιν εἶναι, τεκμήρια δὲ καὶ αὐτὸς πάμπολλα καὶ παμμεγέθη παρέχεται. τὸ οὖν τὸν μὲν ἓν φάναι, τὸν δὲ μὴ 18 È probabile che la genealogia sfumata del gruppo eleatico (ἀπὸ Ξενοφάνους τε καὶ ἔτι πρόσθεν ἀρξάμενον) fosse motivata dall'intenzione di accentuare la "profondità" (l'antichità) della dottrina di Parmenide in direzione delle origini. Su questo il commento di F. Fronterotta in Platone, Sofista, a cura di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2007, p. 341-342. 19 Palmer, op. cit., pp. 191-192. 21 πολλά, καὶ οὕτως ἑκάτερον λέγειν ὥστε μηδὲν τῶν αὐτῶν εἰρηκέναι δοκεῖν σχεδόν τι λέγοντας ταὐτά Tu [Parmenide], infatti, nel tuo poema affermi che il tutto [l'universo] è uno, e porti prove di ciò in modo brillante ed efficace; questi [Zenone], invece, sostiene che i molti non esistono, e anche lui porta prove molto numerose e consistenti. Il primo dice quindi che esiste l'uno, l'altro che i molti non esistono: così ciascuno parla in modo che sembri che non sosteniate alcunché di simile, mentre in realtà affermate le stesse cose, mentre il Teeteto (180e) sottolinea la continuità tra Parmenide e Melisso: καὶ ἄλλα ὅσα Μέλισσοί τε καὶ Παρμενίδαι ἐναντιούμενοι πᾶσι τούτοις διισχυρίζονται, ὡς ἕν τε πάντα ἐστὶ καὶ ἕστηκεν αὐτὸ ἐν αὑτῷ οὐκ ἔχον χώραν ἐν ᾗ κινεῖται e le altre [dottrine] che i vari Melissi e Parmenidi propongono con convinzione, opponendosi a tutti costoro [i sostenitori della dottrina del flusso universale], secondo cui tutte le cose sono uno e questo rimane stabile in se stesso, non avendo luogo in cui muoversi. Ciò che questi passi confermano è – almeno nell’elaborazione della maturità di Platone20 - la riduzione della dottrina eleatica alla formula ἓν τὸ πᾶν (ovvero ἕν πάντα), con un’implicita valenza cosmologica che si affaccia, oltre che in Parmenide (180a), nel Sofista (244e): Εἰ τοίνυν ὅλον ἐστίν, ὥσπερ καὶ Παρμενίδης λέγει, πάντοθεν εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ, 20 Sulle fasi della ricezione platonica di Parmenide è oggi fondamentale J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, cit.. 22 τοιοῦτόν γε ὂν τὸ ὂν μέσον τε καὶ ἔσχατα ἔχει, ταῦτα δὲ ἔχον πᾶσα ἀνάγκη μέρη ἔχειν Se allora è un intero, come sostiene anche Parmenide: «da tutte le parti simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: è necessario infatti che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra», essendo tale ciò che è avrà un centro e dei limiti estremi, e, avendoli, necessariamente avrà parti, e che il Timeo sembra esplicitare21, riferendo l'opera di produzione del cosmo da parte del demiurgo: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν - οὐδὲ γὰρ ἦν - αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντα ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ’ ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé 21 Secondo le indicazioni di Palmer (op. cit., pp. 193 ss.) sulla concentrazione di termini parmenidei nel dialogo. 23 tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era intorno aria, che dovesse essere respirata, né aveva bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori; infatti, è stato prodotto in modo da offrire a se stesso, come nutrimento, la propria corruzione e da avere in sé e da sé ogni azione e ogni passione (33 b-c)22. Indizi lessicali che invitano a supporre che Platone vedesse nell'Essere di Parmenide una sorta di entità cosmica23, nell'interpretazione platonica modellata secondo il precedente della divinità cosmica di Senofane24. Come ha prospettato Brisson25, la stessa discussione del Parmenide potrebbe essere imperniata sull'alternativa: (a) tutte le cose (l'universo) costituiscono una realtà unica (ἓν εἶναι τὸ πᾶν) – come sarebbe stato affermato da Parmenide; la molteplicità degli enti è solo apparente, dal momento che la loro pluralità reale condurrebbe a paradossi: in questo senso «i molti non esistono» (οὐ πολλά εἶναι) - secondo quanto argomentato da Zenone; 22 Platone, Timeo, introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR Rizzoli, Milano 2003. 23 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 24. 24 Su questo punto Palmer, op. cit., pp. 193 ss.. 25 L. Brisson, Introduction a Platon, Parménide, présentation et traduction par L. Brisson, Flammarion, Paris 1994, pp. 20-21. 24 (b) esistono realmente molteplici realtà sensibili, esse sono componenti dell'universo a loro volta costituite da componenti elementari26. Eccentricità di Parmenide nella περὶ φύσεως ἱστορία Nel terzo capitolo del primo libro della Metafisica, Aristotele, riprende uno schema platonico, contrapponendo «coloro [...] che sostennero che uno solo è il sostrato» (οἱ [...] ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον) a «coloro che ammettono più principi» (τοῖς δὲ δὴ πλείω ποιοῦσι), ribadendone poi (nel quinto capitolo) le implicazioni cosmologiche, in conclusione della discussione sui Pitagorici: τῶν μὲν οὖν παλαιῶν καὶ πλείω λεγόντων τὰ στοιχεῖα τῆς φύσεως ἐκ τούτων ἱκανόν ἐστι θεωρῆσαι τὴν διάνοιαν· εἰσὶ δέ τινες οἳ περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως ἀπεφήναντο, τρόπον δὲ οὐ τὸν αὐτὸν πάντες οὔτε τοῦ καλῶς οὔτε τοῦ κατὰ τὴν φύσιν. Da queste cose è possibile intendere a sufficienza il pensiero degli antichi che sostenevano la pluralità di elementi della natura. Ci sono poi coloro che parlarono del tutto [dell'universo] come di un'unica natura, ma non tutti allo stesso modo, né per convenienza né per conformità alla natura (986 b8-12). Evidentemente in relazione a Parmenide e ai suoi seguaci, Aristotele osserva: εἰς μὲν οὖν τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων οὐδαμῶς συναρμόττει περὶ αὐτῶν ὁ λόγος (οὐ γὰρ ὥσπερ ἔνιοι τῶν φυσιολόγων ἓν ὑποθέμενοι τὸ ὂν ὅμως γεννῶσιν ὡς ἐξ ὕλης τοῦ ἑνός, ἀλλ’ ἕτερον τρόπον οὗτοι λέγουσιν· ἐκεῖνοι μὲν γὰρ προστιθέασι κίνησιν, γεννῶντές γε τὸ 26 Ivi, p. 21. 25 πᾶν, οὗτοι δὲ ἀκίνητον εἶναί φασιν)· οὐ μὴν ἀλλὰ τοσοῦτόν γε οἰκεῖόν ἐστι τῇ νῦν σκέψει. Una discussione intorno a costoro esula dall’esame attuale delle cause: essi, infatti, non parlano come alcuni dei naturalisti, i quali, posto l’essere come uno, fanno comunque nascere [le cose] dall’uno come da materia; essi parlano, invece, in altro modo. Mentre quelli, in effetti, aggiungono il movimento, facendo nascere il tutto [l’universo], questi, al contrario, sostengono che [il tutto] sia immobile. Almeno quanto [segue], tuttavia, è appropriato alla presente ricerca (986 b12-18). Nell'ambito di una indagine sulle cause e sui principi primi, il confronto con le dottrine eleatiche non avrebbe dovuto trovare spazio: in questo senso è marcata una radicale differenza rispetto alla ricerca dei «naturalisti» (ἔνιοι τῶν φυσιολόγων). Essendosi espressi «sull'universo [sul tutto] come fosse un'unica natura [realtà]» (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), «immobile» (ἀκίνητον) e immutabile, gli Eleati, in effetti, lo avevano pensato incausato27. In De Caelo si sottolinea ulteriormente la peculiare posizione di Parmenide e Melisso: Οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας καὶ πρὸς οὓς νῦν λέγομεν ἡμεῖς λόγους καὶ πρὸς ἀλλήλους διηνέχθησαν. Οἱ μὲν γὰρ αὐτῶν ὅλως ἀνεῖλον γένεσιν καὶ φθοράν· οὐθὲν γὰρ οὔτε γίγνεσθαί φασιν οὔτε φθείρεσθαι τῶν ὄντων, ἀλλὰ μόνον δοκεῖν ἡμῖν, οἷον οἱ περὶ Μέλισσόν τε καὶ Παρμενίδην, οὕς, εἰ καὶ τἆλλα λέγουσι καλῶς, ἀλλ’ οὐ φυσικῶς γε δεῖ νομίσαι λέγειν· τὸ γὰρ εἶναι ἄττα τῶν ὄντων ἀγένητα καὶ ὅλως ἀκίνητα μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως. Ἐκεῖνοι δὲ διὰ τὸ μηθὲν μὲν ἄλλο παρὰ τὴν τῶν αἰσθητῶν οὐσίαν ὑπολαμβάνειν εἶναι, τοιαύτας δέ τινας νοῆσαι πρῶτοι φύσεις, εἴπερ ἔσται τις γνῶσις ἢ φρόνησις, οὕτω μετήνεγκαν ἐπὶ ταῦτα τοὺς ἐκεῖθεν λόγους 27 Perplessità analoghe sono espresse e discusse da Aristotele nei primi capitoli della Fisica (I, 2 e 3). 26 Coloro dunque che dapprima filosofarono intorno alla verità sono stati in disaccordo sia rispetto ai discorsi che noi proponiamo, sia reciprocamente. Gli uni, infatti, eliminarono completamente generazione e corruzione: sostengono in vero che nessuna delle cose che sono si generi o si corrompa, ma semplicemente che ciò sembra a noi. Così i seguaci di Melisso e Parmenide, i quali, anche se si esprimono adeguatamente sulle altre cose, tuttavia non si deve credere che parlino da un punto di vista fisico, dal momento che l'essere alcuni degli enti ingenerati e completamente immobili è proprio piuttosto di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica. Costoro, invece, da un lato non ritenevano esistesse altro oltre la sostanza dei sensibili, dall'altro per primi pensarono delle nature di tale specie, se doveva esserci una qualche forma di conoscenza o intelligenza: così trasferirono su questi enti [sensibili] i ragionamenti riferiti a quell'ambito»(Aristotele, De Caelo III, 1 298 b12-24). Alludendo esplicitamente a Melisso e Parmenide, Aristotele ne disloca il contributo rispetto a una ricerca incardinata sulla ricostruzione dei processi di «generazione e corruzione» (γένεσις καὶ φθορά): considerare gli enti «ingenerati» (ἀγένητα) e «completamente immobili» (ὅλως ἀκίνητα) è proprio «di un'indagine diversa e prima rispetto a quella fisica» (μᾶλλόν ἐστιν ἑτέρας καὶ προτέρας ἢ τῆς φυσικῆς σκέψεως). Eppure l'analisi della Metafisica rivela come, secondo Aristotele, l’eleatismo presentasse al proprio interno incrinature e fratture che l'appiattimento operato dalla dossografia sofistica doveva aver coperto o trascurato28. Nel primo libro (Ι, 3 984 a27-b4) – dopo aver discusso «l'opinione circa la natura» (περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα) dei pensatori orientati a ricercare la causa prima (περὶ τῆς πρώτης αἰτίας) in ambito materiale (di cui Talete sarebbe stato «i- 28 J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, OUP, Oxford 2009, p. 35 giustamente sottolinea come i raggruppamenti operati da Gorgia nel suo Sulla natura o sul non essere avessero incoraggiato l'assimilazione "riduttiva" di Parmenide e Melisso. Aristotele avrebbe avuto il merito di recuperare le differenze tra le relative posizioni. 27 niziatore», ἀρχηγὸς) – lo Stagirita marca una discontinuità nel contributo di Parmenide, capace di individuare la causa specifica del mutamento (τῆς μεταβολῆς αἴτιον): οἱ μὲν οὖν πάμπαν ἐξ ἀρχῆς ἁψάμενοι τῆς μεθόδου τῆς τοιαύτης καὶ ἓν φάσκοντες εἶναι τὸ ὑποκείμενον οὐθὲν ἐδυσχέραναν ἑαυτοῖς, ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μετα βολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν. τῶν μὲν οὖν ἓν φασκόντων εἶναι τὸ πᾶν οὐθενὶ συνέβη τὴν τοιαύτην συνιδεῖν αἰτίαν πλὴν εἰ ἄρα Παρμενίδῃ, καὶ τούτῳ κατὰ τοσοῦτον ὅσον οὐ μόνον ἓν ἀλλὰ καὶ δύο πως τίθησιν αἰτίας εἶναι· Coloro, dunque, che fin dall’inizio aderirono completamente a tale tipologia di ricerca e sostennero che uno solo è il sostrato, non si resero conto di questa difficoltà, ma alcuni di coloro che affermano tale unicità, quasi sopraffatti da questa ricerca, sostengono che l’uno è immobile e che lo è anche la natura nel suo complesso, non solo rispetto a generazione e corruzione - questa è, infatti, [convinzione] antica, su cui tutti concordavano -, ma anche rispetto a ogni altro genere di mutamento. Questa è loro peculiarità. A nessuno, pertanto, di coloro che affermarono che il tutto [l’universo] è uno è capitato di scoprire tale tipologia di causa, tranne, forse, a Parmenide, e a costui nella misura in cui pone non solo l’uno, ma anche che le cause sono in un certo modo due. È significativo che, illustrando queste affermazioni di Aristotele nel proprio commento (in Metaphys. Ι, 3 984 b3), Alessandro di Afrodisia citi Teofrasto: τούτωι δὲ ἐπιγενόμενος Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης (λέγει δὲ [καὶ] Ξενοφάνην) ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ 28 ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Venuto dopo costui (si riferisce a Senofane), Parmenide - figlio di Pyres, da Elea - percorse entrambe le strade. Dichiara infatti che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione degli enti, pur non affrontando entrambe allo stesso modo: piuttosto sostenendo, secondo verità, che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; ponendo invece, secondo l’opinione dei molti – allo scopo di spiegare la generazione dei fenomeni [delle cose che appaiono] - che i principi siano due, fuoco e terra, l'una come materia, l'altro come causa e agente (DK 28 A7). Condizionata dalla stessa ricezione schematica, in entrambi i casi la valutazione del contributo di Parmenide è chiaramente orientata dalla prospettiva della περὶ φύσεως ἱστορία: non solo per l'attenzione alla «natura nel suo complesso» (τὴν φύσιν ὅλην), al «tutto uno» (ἓν τὸ πᾶν), ma soprattutto per l'evidenza della «ricerca dell'altro principio» (τὸ τὴν ἑτέραν ἀρχὴν ζητεῖν), cioè del «principio del movimento» (ἡ ἀρχὴ τῆς κινήσεως), per «spiegare la produzione dei fenomeni» (εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων). In questo senso Teofrasto poteva proporre Parmenide al centro di una delle due serie di pensatori affrontati sistematicamente: quella che collegava i primi a «rivelare ai Greci l’indagine intorno alla natura» (τὴν περὶ φύσεως ἱστορίαν τοῖς Ἕλλησιν ἐκφῆναι) 29 agli atomisti30. 29 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, Milano 1978, Adelphi, p. 247. Teofrasto, in effetti, prospetta Parmenide discepolo di Senofane - come riferiscono Diogene Laerzio (IX, 21, DK 28 A1), e i commentatori aristotelici Alessandro e Simplicio (DK 28 A7) - e di Anassimandro (secondo quanto attesta sempre Diogene Laerzio), associandolo poi a Empedocle - «ammiratore» (ζηλωτής) e «imitatore» (μιμητής) di Parmenide (DK 28 A9) - e Leucippo - «unito a Parmenide nella filosofia» (κοινωνήσας Παρμενίδηι τῆς φιλοσοφίας, DK 28 A8). 29 Per quanto possa apparire inverosimile da un punto di vista cronologico, l’accostamento ad Anassimandro non è tuttavia sorprendente31 e rivela il modus operandi di Teofrasto nelle sue ricostruzioni: egli insegue le tracce di problemi che sarebbero giunti ad adeguata formulazione solo successivamente, cogliendone lo sviluppo attraverso la connessione tra le principali personalità (per altro all’interno di rigide categorie aristoteliche)32. In questa prospettiva, allora, Parmenide, come abbiamo sopra registrato, avrebbe compiuto quanto da Anassimandro solo impostato: non si sarebbe limitato a mantenere la prospettiva del divenire distinta da quella del sostrato materiale, ma ne avrebbe anche individuato chiaramente i principi diversi33. Un secondo elemento di discontinuità all'interno dell'eleatismo è da Aristotele individuato nella concezione dell'unità dell'universo (περὶ τοῦ παντὸς ὡς μιᾶς οὔσης φύσεως), di cui si sottolineano le ricadute interessanti anche «sull'indagine in corso intorno alle cause» (εἰς τὴν νῦν σκέψιν τῶν αἰτίων). Parmenide, infatti, avrebbe inteso l’uno «secondo la nozione [forma]» (κατὰ τὸν λόγον), ovvero come unità finita (essendo la finitezza espressione di determinatezza); Melisso, da parte sua, «secondo la materia» (κατὰ τὴν ὕλην), come unità indeterminata e quindi infinita. Senofane - «il primo tra costoro a essere partigiano dell'Uno» (πρῶτος τούτων ἑνίσας) e per ciò ancora una volta riconosciuto maestro di Parmenide – si sarebbe invece limitato, volgendosi «all'universo nel suo 30 L’altra doveva raccogliere Anassimandro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Empedocle, Diogene di Apollonia. Determinante il ruolo riconosciuto complessivamente ad Anassimandro. 31 Nella ricerca contemporanea è stata sottolineata la dipendenza della cosmologia del poema Sulla natura dalla cosmologia e cosmogonia attribuite al Milesio: si veda in particolare Naddaf, op. cit., p. 138. D’altra parte, a dispetto di singoli elementi di convergenza, David Furley ha opportunamente marcato la distanza tra «the centrifocal universe» del poema e quello «lineare» delle cosmologie milesie (D. Furley, The Greek Cosmologists.Volume I: The formation of the atomic theory and its earliest critics, C.U.P., Cambridge 1987, pp. 53 ss.). 32 Un’ampia discussione della storiografia teofrastea sui presocratici si trova in G. Colli, La natura ama nascondersi. Physis kruptesthai philei, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1998, cap. II (Storicismo peripatetico). 33 G. Colli, La sapienza greca, Vol. II, cit., p. 327. 30 insieme» (εἰς τὸν ὅλον οὐρανὸν), ad affermarne la divinità (τὸ ἓν εἶναί φησι τὸν θεόν). Ribadendo un giudizio di valore già espresso nel Teeteto platonico (183e), lo Stagirita registra l'acutezza del contributo di Parmenide, a dispetto della sua eccentricità rispetto al focus "aitiologico". Messi da parte Melisso e Senofane come «un po’ troppo grossolani» (μικρὸν ἀγροικότεροι), egli infatti sottolinea: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (986 b27-987 a1). Nella ricostruzione aristotelica due sarebbero i cardini della dottrina parmenidea: (i) la convinzione circa l'unità dell'essere (ἓν οἴεται εἶναι) - da un punto di vista razionale (κατὰ τὸν λόγον) necessaria (ἐξ ἀνάγκης), imposta dalla disgiunzione e mutua esclusione tra essere e non-essere: «non esiste ciò che non è al di là di ciò che è» (παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν εἶναι); (ii) la presa d'atto dell'evidenza fenomenica: così, secondo noi, è da intendere l'espressione greca ἀναγκαζόμενος ἀκολουθεῖν τοῖς 31 φαινομένοις (letteralmente «costretto a essere guidato dai fenomeni [cose che appaiono]»). Proprio l'ineludibile rilievo empirico della molteplicità (πλείω κατὰ τὴν αἴσθησιν) avrebbe imposto un nuovo campo d'indagine, inducendo Parmenide a introdurre «due cause e due principi» (δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς), ciò legittimando la sua rilevanza per la discussione aristotelica. Si tratta di una lettura che trova conferma nella dossografia successiva, anche in un autore, Plutarco, che attingeva probabilmente a una tradizione accademica, relativamente autonoma rispetto alla linea teofrastea: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ < ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ (Parmen. B 1, 29. 30) διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo "essere" in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza» [B1.29-30], perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e 32 l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e). Le osservazioni di Plutarco sono particolarmente significative perché intervengono a correggere l'interpretazione "melissiana" di Parmenide (proposta da Colote), secondo cui «Parmenide cancella ogni cosa postulando l'essere uno» (πάντ’ ἀναιρεῖν τῷ ἓν ὂν ὑποτίθεσθαι τὸν Παρμενίδην): è appunto contro questo fraintendimento che il platonico attribuisce anacronisticamente all'Eleate l'articolazione della realtà in «intelligibile» (τὸ νοητόν) e «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), avendo in precedenza ricordato lo sforzo del Poema di produrre un «sistema del mondo» (διάκοσμον), in conformità con quanto ci si poteva attendere da un «naturalista arcaico» (ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro (Adversus Colotem 1114b, DK 28 B10). Questa testimonianza rafforza la convinzione che - sia per la tradizione dossografica antica, sia per la posteriore (in gran parte però dipendente da quella) - il tema del Poema parmenideo fosse anche la φύσις (nel senso sopra sommariamente ricostruito), seb- 33 bene se ne registrasse la "eccentricità" 34 e quindi la problematica riducibilità al paradigma della περὶ φύσεως ἱστορία. Tra ricerca περὶ φύσεως e ricerca περὶ τῆς ἀληθείας Aristotele, introducendo l’indagine «sull’essere in quanto essere» (περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν), su ciò che appartiene «a tutte le cose in quanto enti» (ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι), la differenzia rispetto a ricerche più specifiche: ciò che la connota è, infatti, accanto alla eziologia propria di ogni sapere, l'apertura alla totalità della realtà. Riguardo alla περὶ φύσεως ἱστορία, tuttavia, la sua posizione è più sfumata: l'originale speculazione sull’«essere in quanto essere» è proposta, infatti, in continuità con la precedente tradizione: ἐπεὶ δὲ τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητοῦμεν, δῆλον ὡς φύσεώς τινος αὐτὰς ἀναγκαῖον εἶναι καθ’ αὑτήν. εἰ οὖν καὶ οἱ τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων ζητοῦντες ταύτας τὰς ἀρχὰς ἐζήτουν, ἀνάγκη καὶ τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος εἶναι μὴ κατὰ συμβεβηκὸς ἀλλ’ ᾗ ὄν· διὸ καὶ ἡμῖν τοῦ ὄντος ᾗ ὂν τὰς πρώτας αἰτίας ληπτέον Dal momento che ricerchiamo i principi e le cause supreme, è evidente come esse riguardino necessariamente una certa natura [realtà] in quanto tale. Se dunque coloro che ricercano gli elementi delle cose ricercavano questi principi, è necessario che fossero anche gli elementi dell'essere non per accidente ma in quanto essere. Per questo motivo dobbiamo comprendere le cause prime dell'essere in quanto essere» (Metafisica IV, 1 1003 a26-32). «Gli elementi costitutivi delle cose che sono» (τὰ στοιχεῖα τῶν ὄντων) – nella misura in cui sono intesi come principi di tutte – 34 Ci siamo occupati di questo aspetto in Parmenide e la tradizione del pensiero greco arcaico (ovvero della sua eccentricità), in Il quinto secolo. Studi di filosofia antica in onore di Livio Rossetti, a cura di S. Giombini e F. Marcacci, Aguaplano, Perugia 2011, pp. 165-178. 34 risultano in effetti «elementi dell'essere in quanto tale» (τὰ στοιχεῖα τοῦ ὄντος ᾗ ὄν), costitutivi di tutto ciò che è. In questo senso la cifra sapienziale comune alla «scienza dell'essere in quanto essere» (ἐπιστήμη ἣ θεωρεῖ τὸ ὂν ᾗ ὂν) e all'indagine dei φυσικοί è data, in definitiva, dalla convergente modalità di realizzazione: «ricercare i principi e le cause prime» (τὰς ἀρχὰς καὶ τὰς ἀκροτάτας αἰτίας ζητεῖν) della realtà. Più avanti nello stesso libro, infatti, Aristotele rileva come «alcuni dei fisici» (τῶν φυσικῶν ἔνιοι) si fossero mostrati evidentemente consapevoli di «ricercare sulla natura [realtà] nella sua interezza e sull’essere» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος, Metafisica IV, 3 1005 a32- 33), intendendo quindi la «natura» come una totalità omogenea (dal punto di vista dell'essere), cui ineriscono determinate proprietà riconducibili a principi universali. Ritenendo così che φύσις e τὸ ὂν coincidessero, che la φύσις cioè costituisse «tutta la realtà», quei «fisici» avrebbero manifestato interesse per gli «assiomi» (ἀξιώματα), i principi più generali di tutti, quelli che «appartengono a tutti gli enti» (ἅπασι ὑπάρχει τοῖς οὖσιν), la cui discussione non è di competenza dello specialista (che si limita ad applicarli) ma appunto della «ricerca del filosofo» (τῆς τοῦ φιλοσόφου [σκέψεως]). Il riferimento è indeterminato ed è stato precisato in modo diverso dagli interpreti: noi riteniamo che esso coinvolga direttamente Eraclito (per la riflessione sul logos) e in particolare Parmenide, soprattutto in considerazione del lessico dei frammenti B2 e B8. Un lessico che effettivamente sembra istituire la riflessione ontologica, sia con l'analisi dei «segni» (σήματα), delle proprietà che manifestano τὸ ἐόν, sia con l'insistenza sulla reciproca implicazione di verità ed essere. Natura, essere, verità Lo Stagirita, in effetti, rilegge la tradizione anche alla luce di un'intenzione veritativa di fondo: 35 ὅμως δὲ παραλάβωμεν καὶ τοὺς πρότερον ἡμῶν εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων ἐλθόντας καὶ φιλοσοφήσαντας περὶ τῆς ἀληθείας consideriamo comunque anche coloro che prima di noi hanno proceduto alla ricerca intorno agli enti e hanno filosofato intorno alla verità (Metafisica I, 3 983 b1), Espressioni come «coloro che dapprima filosofarono intorno alla verità» (οἱ μὲν οὖν πρότερον φιλοσοφήσαντες περὶ τῆς ἀληθείας, De Caelo III, 1 298 b12), ovvero che «indagarono la verità intorno agli enti» (περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, Metafisica IV, 5 1010 a1), rivelano come Aristotele intendesse l'indagine sulla natura come indagine sulla verità, la prima comportando una presa di posizione circa ciò che è Realtà 35. In questo senso i primi filosofi avevano contribuito «all’indagine sugli enti» (εἰς ἐπίσκεψιν τῶν ὄντων): in quanto convinti che la natura fosse la realtà fondamentale, ricercando «sulla natura [realtà] nella sua interezza» (περί τε τῆς ὅλης φύσεως) essi avevano offerto anche riflessioni «sull’essere» (περὶ τοῦ ὄντος): ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, furono sviati come su una certa altra strada, sospinti dall'inesperienza: essi sostennero che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma ciò è 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 16. 36 impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato. E aggravando in questo modo la conseguenza immediata, affermarono che non esistano i molti ma che esista solo l'essere stesso (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Il passo è di grande interesse: nell'ambito di una discussione sui principi (il primo libro della Fisica compare nei cataloghi antichi come Περὶ ἀρχῶν), Aristotele (i) intende la riflessione dei primi filosofi (οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι) come indagine a un tempo sulla natura e sulla verità (ζητοῦντες τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων), e (ii) attribuisce il loro "sviamento", la loro erranza, a una precoce analisi ontologica condotta con imperizia (ὑπὸ ἀπειρίας). Benché spesso riferita dai commentatori specificamente agli Eleati, la difficoltà segnalata potrebbe intendersi rivolta a coloro che avevano operato la riduzione a elementi base (questo appare il significato nel contesto di τὰ ὄντα) 36. In tal caso Aristotele riconoscerebbe all'indagine dei «fisici» un filo conduttore ontologico, che in Parmenide sarebbe stato pienamente esplicitato. È significativo che dalle intestazioni attribuite (probabilmente sin dall'antichità 37) alle opere di Melisso e Gorgia (di una generazione posteriore a quella di Parmenide) emergesse già la consapevolezza dell'inadeguatezza del tradizionale repertorio Περὶ φύσεως, con la proposta di Περὶ φύσεως ἢ περὶ τοῦ ὄντος, nel primo caso, e Περὶ τοῦ μὴ ὄντος ἢ περὶ φύσεως nel secondo; e che in ambi- 36 Su questo in particolare Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 130 ss.. 37 È tradizionalmente riconosciuto che l'intenzione dello scritto gorgiano era di ribaltare le tesi eleatiche (per esempio, W.K.C. Guthrie, The Sophists, C.U.P., Cambridge 1971, pp. 270-271). I due resoconti dell'opera – quello di Sesto Empirico (che ci fornisce anche la titolazione completa) e quello dell'Anonimo del De Melisso, Xenophane et Gorgia (forse I secolo d.C.) – potrebbero dipendere da Teofrasto ed essere stati semplicemente elaborati in modo diverso. In alternativa, per la seconda redazione, si è supposta la mano di un peripatetico antico (si veda la nota di M. Untersteiner in Sofisti, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, con la collaborazione di A. Battegazzore, Bompiani, Milano 2009, p. 234). 37 to sofistico proliferassero opere sulla «Verità» (Περὶ τῆς ἀληθείας e Ἀλήθεια sono le titolazioni attribuite alle opere principali rispettivamente di Antifonte e di Protagora). Aristotele, in ogni caso, con la formula «indagine sulla verità» intende un’indagine sulla realtà genuina, tesa ad accertare quale essa sia, spingendosi oltre le apparenze che la occultano38. Illuminante un passo di De generatione et corruptione: Ἐκ μὲν οὖν τούτων τῶν λόγων, ὑπερβάντες τὴν αἴσθησιν καὶ παριδόντες αὐτὴν ὡς τῷ λόγῳ δέον ἀκολουθεῖν, ἓν καὶ ἀκίνητον τὸ πᾶν εἶναί φασι καὶ ἄπειρον ἔνιοι· τὸ γὰρ πέρας περαίνειν ἂν πρὸς τὸ κενόν. Οἱ μὲν οὖν οὕτως καὶ διὰ ταύτας τὰς αἰτίας ἀπεφήναντο περὶ τῆς ἀληθείας· ἐπεὶ δὲ ἐπὶ μὲν τῶν λόγων δοκεῖ ταῦτα συμβαίνειν, ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων μανίᾳ παραπλήσιον εἶναι τὸ δοξάζειν οὕτως A partire dunque da questi ragionamenti, e spingendosi oltre la sensazione e ignorandola, dal momento che si dovrebbe seguire il ragionamento, alcuni dicono che il tutto [l'universo] è uno, immobile e infinito: il limite, infatti, confinerebbe con il vuoto. Costoro, dunque, in questo modo e per queste ragioni si sono espressi sulla verità: ora, alla luce dei ragionamenti sembra che queste cose accadano così; alla luce dei fatti, invece, il pensare così sembra quasi follia (Aristotele, De generatione et corruptione I, 8 325 a13ss.). Qui Aristotele stigmatizza, per la sua paradossalità (sintomatico il riferimento alla «follia»), una forma di «razionalismo eleatico» 39 che, nel riferimento all'infinito, appare sostanzialmente melissiano40: il contributo all'indagine sulla verità scaturisce da una 38 Leszl, op. cit., p. 17. 39 Così Migliori, Aristotele, La generazione e la corruzione, traduzione, introduzione e commento di M. Migliori, Loffredo Editore, Napoli 1976, p. 200. 40 Non è un caso che Reale abbia accolto le prime righe del passo aristotelico come un vero e proprio frammento di Melisso: Melisso, Testimonianze e frammenti, traduzione, introduzione e commento di G. Reale, Firenze 1970, La Nuova Italia, pp. 98-104. 38 ricerca volta alla comprensione della realtà naturale nel suo insieme (τὸ πᾶν). Una ricerca, dunque, a un tempo "ontologica" ed "epistemologica" (in senso lato), nella misura in cui la determinazione della realtà genuina dipende da considerazioni di ordine gnoseologico (delineate nella contrapposizione ἐπὶ μὲν τῶν λόγων - ἐπὶ δὲ τῶν πραγμάτων). Ora, nei frammenti parmenidei non mancano indizi (come rivelano le letture antiche) della possibilità che l'espressione τὸ ἐόν («ciò che è» ovvero «l'essere»), di cui si definiscono proprietà strutturali - «senza nascita» (ἀγένητον) «senza morte» (ἀνώλεθρον), «tutto intero» (οὖλον), «uniforme» (μουνογενές), «saldo» (ἀτρεμές) (B8.4-5) – si riferisca a quel che Aristotele indica come τὸ πᾶν, il Tutto dell’universo41: Parmenide, nel suo sforzo di evitare le incongruenze colte nelle coeve indagini sull'origine e sulla struttura del mondo naturale42, avrebbe trasfigurato lo spazio cosmico nel compiuto, omogeneo, immutabile campo dell’«essere», così spingendo la filosofia naturale ai limiti di logica e metafisica43. Né, d'altra parte, mancano tracce di una trattazione περὶ τῆς ἀληθείας44: la prima sezione del Poema si apre e si chiude con chiare menzioni della Verità – intesa come la Realtà oggetto dell'esposizione stessa, mentre l'impianto dicotomico dell'opera tràdita riflette la tensione tra il resoconto genuino di quella realtà e una sua accettabile ricostruzione a partire dall'esperienza che gli uomini ne hanno. 41 Interpreta in questo senso D. Furley, The Greek Cosmologists, cit., p. 54. Conche – in Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1996, p. 182 – osserva come l’essere abbia a che fare con il Tutto, con l’insieme di ciò che è, e sia dunque coestensivo al mondo. Una prospettiva analoga a quella che proponiamo è espressa da M. Kraus, "Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides", in G. Rechenauer (Hg.), Frügriechisches Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269. Di particolare rilievo le pagine 260-1. 42 Lasciamo qui indeterminati i bersagli possibili, da ricercare comunque in ambito ionico e pitagorico. 43 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, p. 175. 44 Leszl, op. cit., p. 19. 39 Natura e verità in Parmenide In effetti, nel caso del poema di Parmenide, presumendone unitarietà e coerenza, possiamo registrare: (i) lo squilibrio di struttura: la (seconda) sezione dedicata all'esposizione dell'«ordinamento [del mondo] del tutto appropriato» (διάκοσμον ἐοικότα πάντα, B8.60) doveva essere assai più consistente di quella (la prima) relativa al «percorso di Persuasione, che si accompagna a Verità» (Πειθοῦς κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ, B2.4); (ii) il costante richiamo, nell'introduzione del διάκοσμος, a un lessico di conoscenza: B10 appare, in questo senso, un vero e proprio programma di istruzione cosmologica e cosmogonica, tra l'altro in sintonia con il modello poetico esiodeo della Teogonia45: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. 45 L’accostamento è naturale in Aristotele, quando, in apertura di Metafisica I, 4, introduce l’analisi della causalità efficiente, rinviando proprio ai precedenti di Esiodo e Parmenide sul ruolo cosmogonico di Amore. 40 Che l'articolata indagine prospettatavi possa essere rubricata come περὶ φύσεως ἱστορία sembra, alla luce delle considerazioni introduttive, indiscutibile, così come appare chiara la sua intenzione cognitiva: nella costruzione del Poema, è allora possibile rintracciare una corrispondenza tra la ricerca della seconda sezione e l'impegno ontologico-veritativo dei frammenti B2-B8. L'obiettivo dichiarato (nel proemio) della comunicazione divina è compiutamente conoscitivo, scandito da espressioni verbali dalla inequivocabile valenza cognitiva, in relazione tanto a Ἀληθείη quanto ai δοκοῦντα: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (B1.28b-32). La Dea sottolinea il proprio impegno a (i) rivelare la realtà genuina (Ἀληθείη), tradizionale appannaggio divino, e (ii) denunciare le infondate (senza «reale credibilità», πίστις ἀληθής) «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας), in ciò riflettendo il canonico pessimismo sulla condizione e comprensione umana che aveva trovato espressione nella poesia e nella sapienza antica: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον· οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο [πάντων, ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει.] οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, ὄφρ’ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ’ ὀρώρῃ· ἀλλ’ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέωσι, 41 καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ. τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε. Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi: nulla è più inconsistente dell'uomo tra tutte le cose che nutre la terra, e sulla terra camminano e si muovono. Egli sostiene che nulla di male mai gli accadrà, fin quando gli dei concedono forza e le membra sono in movimento. Quando invece gli dei beati infliggono anche dolori, pure questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente. Tale è la comprensione degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli dei e degli uomini (Odissea XVIII, 129-137) θνατὰ χρὴ τὸν θνατόν, οὐκ ἀθάνατα τὸν θνατὸν φρονεῖν il mortale deve pensare cose mortali, non cose immortali (Epicarmo, DK 23 B20) ἄρα θεὸς μὲν οἷδε τὴν ἀλήθειαν δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται soltanto dio conosce la verità, a tutti è dato solo opinare (Senofane, DK 21 A24). Ma il programma non si esaurisce nella contrapposizione tra comprensione divina e incomprensione umana, pur limpidamente e criticamente evocata. La rivelazione della realtà autentica - per la quale Parmenide ricorre a una perifrasi, impiegando due immagini: letteralmente «cuore che non trema» (ἀτρεμὲς ἦτορ) di «Verità ben rotonda» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ovvero, secondo altri codici, «ben convincente», εὐπειθέος) - è certamente occasione per condannare di fronte al giovane poeta (κοῦρος) l’inattendibilità delle convinzioni umane. Essa, nell'economia del poema, appare tuttavia funzionale anche alla presentazione di un resoconto alternativo, plausibile (δοκίμως), del mondo dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα): 42 a dispetto dell'inaffidabilità delle correnti opinioni mortali, è possibile delinearne una sintesi compatibile con la lezione di verità della prima istruzione. Difficile credere che Parmenide non fosse in qualche misura convinto della bontà del punto di vista espresso negli attuali frammenti B9-B1246, ovvero della ἱστορία περὶ φύσεως tracciatavi, anche perché i rilievi del testo richiamano puntualmente i divieti di B2-B8: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Discorso affidabile e ordinamento verosimile Eppure il passaggio tra le due sezioni è marcato in modo inequivocabile: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando che può ingannare (B8.50-2). 46 Lesher, op. cit., p. 240. 43 In questi versi si incrociano le due prospettive che Parmenide tenta di salvaguardare all'interno della tradizionale opposizione tra umano e divino: (i) da un lato la "superiore" ottica della divinità, che si esprime in un logos degno di fiducia: svolgendo rigorosamente la propria disamina dall'alternativa «è e non è possibile non essere»-«non è ed è necessario non essere», esso riconosce che: ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.3b-6a), (ii) dall'altro i punti di vista umani, molteplici e concorrenti, insidiosi e potenzialmente dispersivi: è esplicitamente all'interno di questo orizzonte che la Dea introduce la seconda sezione: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Nessun resoconto cosmologico, nella misura in cui si riferisca alle vicende di una molteplicità di enti in divenire (instabili e mutevoli), può essere considerato completamente affidabile, come, invece, il discorso su «ciò che è» (τὸ ἐόν), sulla realtà colta come totalità (unitaria, immutevole, essendo nel suo complesso tutto ciò che è). Per valutare correttamente l'impresa parmenidea dobbiamo tenere conto di due elementi: 44 (a) del contributo scientifico47 (prevalentemente in campo cosmologico48) riconosciuto a Parmenide nell’antichità: ancora una volta è interessante soprattutto il fatto che Teofrasto (DK 28 A44) gli attribuisse la scoperta della sfericità della Terra: ἀλλὰ μὴν καὶ τὸν οὐρανὸν πρῶτον ὀνομάσαι κόσμον καὶ τὴν γῆν στρογγύλην, ὡς δὲ Θεόφραστος [Phys. Opin. 17] Παρμενίδην, ὡς δὲ Ζήνων Ἡσίοδον [in riferimento a Pitagora] ma fu anche il primo a chiamare il cielo cosmo e la terra sferica; per Teofrasto fu invece Parmenide, per Zenone Esiodo, e che altre fonti risalissero all’Eleate per osservazioni sulla identità di Espero e Lucifero (DK 28 A40a): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ Parmenide pone come primo nell'etere Eos, lo stesso da lui chiamato anche Espero; dopo di esso pone il Sole, sotto questo, nella parte ignea che chiama cielo, gli astri, e sulla natura solare della luce della Luna: Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται 47 Per una recente valorizzazione di questo aspetto G. Cerri, La riscoperta del vero Parmenide, introduzione a Parmenide di Elea, Poema sulla natura, introduzione, testo, traduzione e note a cura di G. Cerri, Milano 1999, BUR Rizzoli (in particolare pp. 52-57); D.W. Graham, Explaining the Cosmos.The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, pp. 179-182. 48 Naddaf ha d’altra parte segnalato come il modello cosmogonico della seconda sezione del poema dovesse essere influenzato da una prospettiva biologica e ricordato opportunamente le tracce di una «antropogonia», attestata da Diogene Laerzio (DK 28A1). Si veda G. Naddaf, The Greek Concept of Nature, cit., pp. 137-138. 45 Parmenide [dice che] la luna è uguale al sole: da esso è infatti illuminata (DK 28 A42); (b) dell'evidente contrasto tra la condanna della confusione "mortale" tra le due vie: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9) οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα Mai questo sarà forzato: che siano cose che non sono (B7.1), ovvero dell’irrisolta opposizione nelle cosmogonie correnti (ioniche? pitagoriche?): μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4), e la sottolineatura (nel già citato B9) della riduzione omogenea all'essere delle forme introdotte per il διάκοσμος ἐοικώς: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). 46 La distinzione tra i due momenti dell'istruzione divina sembra quindi consapevolmente delineare due distinte forme di conoscenza: (a) la certezza della comprensione razionale – evocata dalla reiterazione di νοεῖν (comprendere, concepire, pensare) e νόος (intelligenza, pensiero), nonché di espressioni come κρῖναι δὲ λόγῳ («giudica con il ragionamento») - degli attributi universali di «ciò che è» (τὸ ἐόν, il complesso della realtà colto come tutto-intero); (b) la plausibilità di una conoscenza – l'uso di verbi di conoscenza è indiscutibile nei frammenti attribuiti alla seconda sezione - che possiamo definire "empirica", dal momento che si concentra sulla natura delle cose che incontriamo nella nostra esperienza49. In realtà il quadro è più complesso, perché fortemente condizionato da una cornice religiosa che deve indurre cautela. Intanto, quella che abbiamo indicato come «conoscenza razionale» (via d'accesso privilegiata alla Verità) è proposta come contenuto diretto di una rivelazione (B1) che costituisce il contesto dell'intera esposizione del Poema, e che pone immediatamente (B2) le premesse da cui dipendono i ragionamenti successivi. Come avremo modo di sottolineare nel commento, tale rivelazione non appare un semplice escamotage poetico, estrinseco rispetto alla comunicazione di verità, ma, al contrario, il vero nucleo propulsivo dell’opera, la condizione di continuità entro cui le due sezioni assumono il loro senso e il loro statuto50. Un elemento andato perduto nella ricezione di Parmenide nel IV secolo a.C. (che, infatti, non ci ha conservato citazioni dal proemio), ma in sé di grande interesse per la collocazione culturale dell'Eleate e per la valutazione del suo contributo. L'oggetto di tale conoscenza - τὸ ἐόν – appare, a sua volta, nei frammenti sia come risultato di una costruzione logica: 49 Lesher, op. cit., p. 241. 50 Su questo punto insiste Lambros Couloubaritsis, nella nuova edizione (La pensée de Parménide, Éditions Ousia, Bruxelles 2008) del suo Mythe et Philosophie chez Parménide. 47 ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15b-18), sia come concrezione di una sintesi intuitiva, a partire dallo sguardo rivolto alla molteplicità degli enti: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4). In questo secondo caso, la costante presenza dell'essere è giustapposta alla presenza-assenza degli enti, prefigurando l'opposizione tra l'immutabile presente dell'uno: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6a) e il divenire - scandito da passato, presente e futuro – degli altri: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι 48 καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine (B19.1-2). Ciò può suggerire che i due momenti del discorso divino riflettano l'originale rielaborazione parmenidea della tensione, implicita nella cultura delle origini, tra la dimensione temporale delle cose in divenire (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, «le cose che sono, le cose che sono state e le cose che saranno», Iliade I, 70) e quella peculiare alla concezione arcaica del divino (θεοὶ αἰὲν ἐόντες, «dei che sono sempre», Iliade I, 290)51. La distinzione ben delineata nei frammenti tràditi, come abbiamo visto, è quella tra: (i) la certezza (πίστιος ἰσχύς) che scaturisce dal giudizio razionale su τὸ ἐὸν: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario: essere è infatti possibile, il nulla, invece, non è (B6.1-2a); (ii) la verosimiglianza del resoconto cosmologico, che pur legittimato dalla parola divina: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (B8.60-1) si rivolge all'origine e sviluppo di fenomeni prodotti dall'azione celeste: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα 51 Ivi, p. 102. 49 σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura (B10.1-5a), e, ulteriormente, ai fondamenti cosmogonici e cosmologici (in questo senso alle condizioni generali del mondo naturale): εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri (B10.5b-7). La certezza è prodotto del «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος) associato a Verità (Ἀληθείη) ed essere (τὸ ἐὸν): Parmenide insiste sulla necessità di tale sapere, chiaramente correlata a immutabilità, identità e stabilità del suo oggetto. La ricostruzione del διάκοσμος ἐοικώς riflette, d'altra parte, la mutevolezza dei fenomeni fissati dall'arbitrio delle denominazioni umane: in questo senso, rispetto all'affidabilità del «percorso di Persuasione» che manifesta la genuina realtà (la Verità), essa è proposta dalla Dea come κατὰ δόξαν, «secondo opinione». Essere e natura in Parmenide Nel proprio schema (Metafisica I, 5 986 b27-987 a1) - che già abbiamo commentato - Aristotele aveva dunque colto sostanzialmente nel segno: 50 Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν (περὶ οὗ σαφέστερον ἐν τοῖς περὶ φύσεως εἰρήκαμεν), ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere. La lettura aristotelica suggerisce, infatti, che l'oggetto – apparentemente diverso - delle due sezioni del Poema sia in verità identico, sebbene prospettato secondo differenti modalità gnoseologiche: «secondo ragione» (κατὰ τὸν λόγον) e «secondo sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Una considerazione puramente razionale fa emergere la realtà (naturale) come uno-tutto; il riferimento all'esperienza manifesta la pluralità dei fenomeni: nel primo caso il livello di astrazione fa perdere di vista i connotati fenomenici e risaltare i tratti di fondo della realtà; nel secondo l'urgenza di dar conto dei fenomeni spinge all'individuazione di efficaci principi esplicativi. Come non è possibile parlare di due oggetti diversi, così non può sfuggire nei frammenti il tentativo di Parmenide di ripensare il problema dei principi in termini ontologici, attribuendo cioè ai principi alcune caratteristiche dei «segni» di τὸ ἐὸν: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, 51 τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (B8.55-9) τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9). Questo autorizza l'ipotesi che la prima sezione – pur compiuta, autosufficiente e autonoma – fosse effettivamente intesa come preparatoria alla seconda, con la quale l'autore entrava in competizione (come sottolineato anche dalle parole della divinità) con altre cosmologie. È plausibile che il modello esplicativo del mondo naturale che vi si delinea abbia profondamente influenzato quello, fondato sulla nozione di mescolanza, adottato da Empedocle e Anassagora52, sensibili, tra l'altro, ai rilievi “ontologici” di 52 In modo diverso giungono a sostenere questa ipotesi P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998; P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, cit.; D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 52 Parmenide53 – come risulterebbe da una serie di frammenti (DK 31 B8, B9, B11, B12; DK 59 B17). 53 D.W. Graham, “Empedocles and Anaxagoras: Responses to Parmenides”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., p. 167. Per una più meditata e articolata riflessione sullo stesso tema, si può ora consultare D.W. Graham, Explaining the Cosmos, cit.. 53 IL TESTO DI PARMENIDE E LA SUE FONTI Si ipotizza che la consistenza dell'unica opera di cui la tradizione sostiene Parmenide sia stato autore, fosse approssimativamente di un migliaio di versi, 160 (circa) dei quali abbiamo ricevuto attraverso posteriori citazioni da parte di altri autori. Essi riferivano in qualche caso direttamente da una copia del poema, in altri indirettamente da selezioni antologiche ovvero da citazioni altrui. Riflettendo sulla storia di queste citazioni testuali, possiamo concludere che il poema di Parmenide sia stato oggetto di due distinti momenti di attenzione, a distanza di 4 secoli l’uno dall’altro, prima di scomparire definitivamente54. Il materiale del Poema Possiamo supporre che una prima diffusione di copie del Poema avvenisse sotto il controllo dell'autore e che forme di controllo sul testo e sulla sua circolazione fossero esercitate dagli allievi nel periodo immediatamente successivo alla sua morte. È plausibile che nel mondo greco occidentale si conservasse una memoria testuale autonoma, da collegare forse ad ambienti pitagorici 55, e che, analogamente, tradizioni del testo si affermassero anche in altre aree di civilizzazione greca, come l'Asia Minore, dove il poema sembra essere stato conosciuto abbastanza presto. Si tratta solo di congetture, dal momento che non disponiamo di evidenze di questa fase pre-platonica, ma, secondo Passa56, non è da escludere che a una di queste tradizioni abbia attinto Sesto Empirico. La prima attestazione del Poema risale a Platone, che cita per cinque volte Parmenide: nel Teeteto (180d a proposito della tesi dell’unità e della immobilità dell’Uno-Tutto), nel Simposio (178b 54 N.-L- Cordero, L’histoire du texte de Parménide, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II, Problèmes d’interpretation, Vrin, Paris 1987, p. 4. 55 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 143. 56 Ibidem. 54 a proposito del primato di Eros), tre volte nel Sofista (237a e 258d a proposito del «parricidio»; 244e a proposito della struttura e indivisibilità del Tutto). Aristotele, a sua volta, replica la descrizione del Tutto già citata da Platone (Fisica 207 a18), cita il verso su Eros (Metafisica 984 b26) e trascrive l'attuale frammento 16 (Metafisica IV, 5 1009 b22). L’ultima citazione della prima "esistenza postuma" del Poema è in Teofrasto, che riprende tre volte il fr. 16 (in una versione diversa da quella aristotelica). È probabile che le citazioni del frammento 8 nello pseudo-aristotelico Su Melisso, Senofane e Gorgia e in Eudemo derivino da Platone 57. Dopo un lungo silenzio - segnale, secondo Cordero58, non propriamente di scomparsa del testo parmenideo, piuttosto di «mancato utilizzo» - il platonico Plutarco (I secolo d.C.) torna a fare uso abbondante dei frammenti del poema, aprendo di fatto la seconda stagione d’attenzione per l'opera - la più ricca di citazioni testuali - che dura fino a tutto il VI secolo. Caratteristica di questa fase è il ricorso al Poema non per illustrare la posizione dell'autore, ma per confermare o chiarire il tema oggetto di analisi da parte dei commentatori: è probabile che le citazioni non siano di prima mano, ma dipendano in gran parte da Platone, Aristotele e Teofrasto. A Simplicio, l’ultimo autore conosciuto che abbia usato un manoscritto dell’intera opera di Parmenide 59, dobbiamo la citazione (in gran parte come unica fonte) dei due terzi dei 160 versi tràditi del poema: egli cita estensivamente anche perché consapevole della rarità del testo già nella sua epoca (clamorosamente quella in cui aumenta il numero di autori che direttamente o indirettamente citano Parmenide: Damascio, Filopono, Asclepio, Boezio, Olimpiodoro60): καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε 57 Cordero, op. cit., pp. 4-5. 58 Ivi, p. 5. 59 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, p. 1. 60 Cordero, op. cit., p. 6. 55 τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). Cordero giudica molto probabile – sulla scorta del lavoro filologico di Diels – l'utilizzazione da parte di Proclo (V secolo) e Simplicio (VI secolo) di due differenti versioni del poema di Parmenide61. Damascio (V-VI secolo d.C.) cita sulla scorta del commento perduto di Giamblico (III-IV secolo d.C.) al Parmenide platonico. Altri autori antichi (V e VI secolo d.C.) come Ammonio, Filopono, Olimpiodoro e Asclepio potrebbero non aver avuto la possibilità di accedere direttamente a copia dell’intero poema62. Le fonti e i loro problemi Da un punto di vista culturale, possiamo rileggere questa storia disponendo le fonti in tre raggruppamenti63: (i) Platone, Aristotele, Teofrasto e Eudemo (tutti del IV secolo a.C.), gravitanti intorno alle due principali istituzioni filosofiche ateniesi: Accademia e Liceo; (ii) figure eterogenee appartenenti a centri di cultura ellenistico-romana: Plutarco (I sec.), Galeno (II sec.), Clemente Alessandrino e Sesto Empirico (II-III sec.), Diogene Laerzio (III sec.); (iii) figure cronologicamente e geograficamente distanti, ma unite culturalmente dal fondamentale neoplatonismo: Plotino (III sec.), Giamblico (III-IV sec.), Proclo (IV-V sec.), Damascio e Ammonio (V-VI sec.): Simplicio è loro discepolo. 61 Cordero, op. cit., p. 5. 62 Coxon, op. cit., p. 2. 63 Seguiamo Passa, op. cit., p. 21. 56 Fonti attiche Possiamo supporre che le fonti del primo gruppo abbiano avuto accesso a copie del poema: secondo Passa64, si può facilmente dimostrare, tuttavia, che in molti casi esse citano a memoria, ma è probabile che sfruttassero anche la prima sistemazione del materiale presocratico a opera dei sofisti. Si ritiene, infatti, che Platone e Aristotele ricorressero alle selezioni approntate nella seconda metà del V secolo a.C. da Ippia (che nella sua Συναγωγή aveva estratto, messo in relazione e commentato tesi presenti in opere poetiche e in prosa65) e Gorgia (che, a sua volta, aveva estrapolato dalla prima produzione filosofica enunciati teorici che potevano essere organizzati per contrapposizioni, così sottolineando gli insolubili contrasti tra filosofie: un'impostazione che certamente ha lasciato tracce ancora nelle opere ippocratiche, in Senofonte e Isocrate). Platone e Aristotele, che rivelano nelle loro opere di combinare i due approcci, pur avendo modo di consultare direttamente almeno una parte delle opere attribuite ai primi filosofi, sarebbero stati comunque condizionati dagli schemi sofistici nella loro lettura66. Se è plausibile, dunque, che le nostre fonti più antiche - Platone, Aristotele e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo - avessero accesso a copie dell’intero poema, è tuttavia significativo che Teofrasto e Eudemo non siano fonti primarie dei versi che citano e che lo stesso Aristotele citi (3 volte su 4) probabilmente sulla scorta dei dialoghi platonici (per altro poco accurati nel riportare il testo parmenideo)67. La disponibilità, inoltre, di differenti versioni dello stesso frammento (B16) in Aristotele e Teofrasto può essere indizio dell’esistenza, già nel IV secolo a.C., di almeno due distinte tradizioni manoscritte. Nonostante sia praticamente impossibile per noi risalire oltre la redazione attica del poema pos- 64 Ivi, p. 25. 65 J.-F. Balaudé, Hippias le passeur, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 288 ss.. 66 J. Mansfeld, Sources, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 26-27. 67 Ivi, pp. 2-3. 57 seduta dall'Accademia e dal Peripato, è dunque almeno ipotizzabile discriminare al suo interno tra il testo usato (o citato a memoria) da Platone e Aristotele e quello usato da Teofrasto. Né, come abbiamo in precedenza segnalato, si può escludere che redazioni alternative autonome siano sopravvissute nella tradizione più tarda68. La recente ricerca linguistica69 sottolinea come Platone citi da una versione già in parte "atticizzata" del Poema, che aveva dunque sopportato interventi simili a quelli operati (nello stesso periodo) sul testo omerico: modificazioni del vocalismo e introduzione di aspirazioni (in origine il testo doveva essere psilotico). Il testo riportato da Platone è nel complesso accurato, sebbene, secondo Passa, proprio a Platone si possa far risalire la spiccata propensione a interpretarlo, che diventerà poi norma per i neoplatonici, con conseguenti gravi alterazioni nelle loro redazioni. Da Platone e dalla sua scuola deriverà, fino a Proclo, quella tradizione "accademica" da cui è tratta la maggioranza delle citazioni del Poema disponibili. In considerazione di quanto sopra osservato, è plausibile che Aristotele, a sua volta, dipenda da Platone, mentre Teofrasto potrebbe aver attinto da fonte alternativa: è dalla ricerca dell'allievo di Aristotele che si sarebbe formata, in ambiente peripatetico, la tradizione "dossografica", quella delle fonti che derivano le proprie citazioni da compilazioni70. 68 Passa, op. cit., p. 26. 69 Ibidem. 70 La tradizione dossografica si apre in effetti con le Φυσικαὶ Δόξαι (nella tradizione per lo più indicato come Physicorum Opiniones) di Teofrasto (in 16 libri): integrata in periodo ellenistico, l’opera sarebbe stata poi utilizzata dagli Epicurei, Cicerone, Varrone, Enesidemo (fonte di Sesto Empirico, seconda metà II secolo), dal fisico Sorano (I-II secolo), Tertulliano (II-III secolo). Diels denominò questa revisione Vetusta Placita. Essa sarebbe stata ulteriormente rivisitata, abbreviata e integrata – nel I secolo – da un autore indicato come Aëtius, la cui raccolta, per noi perduta, è stato ricostruita da Diels. Il filologo tedesco ha mostrato come i Placita attribuiti a Plutarco (in realtà pseudo-Plutarco, II secolo) fossero una sintesi dell’opera di Aëtius (e il De historia philosophica di Galeno un’ulteriore riduzione di pseudoPlutarco) e soprattutto come da Aëtius (anche attraverso il materiale riassunto da pseudo-Plutarco) dipendessero la monumentale antologia (solo 58 Fonti ellenistico-romane Plutarco (esponente di punta della Media Accademia) è il primo autore, dopo il lungo silenzio dell'età ellenistica, a citare passi del Poema: gli attuali frammenti B1.29-30, B8.4, B13, B14, B15 hanno Plutarco come fonte; degli ultimi due egli è la nostra unica fonte. Sebbene dichiari di ricorrere ad appunti (ὑπομνήματα), alcune varianti di testo fanno supporre che egli citi da fonti attendibili71. È probabile attingesse a una tradizione vicina o identica a quella "accademica" (le sue citazioni presentano coincidenze con varianti trasmesse da Proclo), prima, tuttavia, delle alterazioni intervenute nella successiva tradizione neoplatonica. La redazione plutarchea di B1.29, infatti, coincide con quella di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, ed è alternativa a quelle di Proclo e Simplicio72. Indicativo della validità della fonte plutarchea è soprattutto il caso di B13 (trasmesso anche da Platone, Aristotele, Sesto Empirico, Simplicio, Stobeo): Plutarco è l'unico testimone in grado di menzionare chiaramente soggetto e contesto del frammento, con l'indicazione della sezione cui la citazione apparteneva (un unicum nelle fonti)73. Dimestichezza con il Poema, secondo Coxon74, mostrerebbe nel complesso Clemente Alessandrino (per noi fonte più antica di quasi tutto ciò che cita75: B1.29 s., B3, B4, B8.3 s., B10), ma il fatto che di B8.4 egli sia l'unico a riportare la variante ἀγένητον (nella dossografia impiegata per sottolineare l'accordo di Parmenide con Senofane) - dove Simplicio presenta ἀτέλεστον - fa suppore, nella ricezione del testo, un condizionamento da parte di in parte conservata) di Stobeo (V secolo), Eclogae physicae, e la Graecarun affectionum curatio di Teodoreto (V secolo). A Teofrasto sarebbero in ultimo da ricondurre anche la Refutatio omnium haeresium di Ippolito (III secolo), gli Stromateis di altro pseudo-Plutarco (conservato da Eusebio), i capitoli dedicati ai primi filosofi greci nelle Vitae philosophorum di Diogene Laerzio (III secolo). Su questo Mansfeld, op. cit., pp. 23-24. 71 Passa, op. cit., p. 27. 72 Ivi, pp. 27-28. 73 Ivi, p. 28. 74 Coxon, op. cit., p. 5. 75 Ivi, p. 3. 59 versioni dossografiche. Più recisa la valutazione di Passa76, secondo cui gli atticismi delle citazioni rivelerebbero come Clemente lavorasse su un testo fortemenete modificato, di fonti atticizzate. Il livello di corruttela farebbe escludere (contro l'ipotesi di Coxon) la disponibilità di copia integrale del Poema. La ricerca di Passa ha evidenziato la peculiarità del contributo di Sesto Empirico nella storia del testo del Poema: egli sarebbe, in effetti, il solo a conservare nelle proprie citazioni tracce di una tradizione testuale alternativa a quella attica77. In particolare è Sesto - cui dobbiamo anche la citazione di B7.2-7 e B8.1-2) – l'unica fonte del Proemio (B1.1-30) e una sua interpretazione allegorica: in genere si afferma che esse dipendano da fonte intermedia, probabilmente di ambiente vicino a Posidonio, ma lo studioso italiano ha avanzato l'ipotesi che Sesto abbia utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi78. Questa dipenderebbe effettivamente da commento stoico; nel caso del testo del Proemio, tuttavia, Sesto è l'unico a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema: probabile, dunque, che egli disponesse di una buona copia del Proemio, verosimilmente da esemplare di tutto il poema79. Che Sesto (ovvero la sua fonte) possa aver attinto a una terza tradizione testuale, è ipotesi che anche Cordero80 avanza, sebbene la citazione di B1.29-30 in tre lezioni differenti non ne possa costituire prova conclusiva. A tradizione testuale molto vicina a quella sestana (quindi non attica), potrebbe aver attinto anche Diogene Laerzio, che fornisce identica redazione di B1.29 e, con Sesto, una buona porzione di B7 (vv. 3-5)81. Fonti neoplatoniche La prima fonte neoplatonica – ovviamente dopo lo stesso Plotino (III secolo d.C.), che cita solo di passaggio frammenti isolati: 76 Passa, op. cit., p. 32. 77 Passa, op. cit., p. 29. 78 Ivi, p. 31. 79 Ibidem. 80 Cordero, op. cit., p. 5. 81 Coxon (op. cit., pp. 2-3) presume invece, nel caso di Sesto e di Diogene, fonti peripatetiche e stoiche. 60 B3, B8.5, B8.25, B8.43 - è costituita da Proclo, che fu scolarca dell'Accademia fino alla morte (fine V secolo). A lui dobbiamo un consistente numero di citazioni: gli attuali B1.29-30, B2, B3, B4.1, B5, B8.4, B8.5, B8.25, B8.26, B8.29-32, B8.35-36, B8.43- 45, che rivelano la sua familiarità con l’opera parmenidea82, ciò suggerendo la possibilità che avesse accesso a testo completo. Oggi si concorda83 sostanzialmente sulla notevole approssimazione dei suoi riferimenti, probabilmente risultato di citazioni a memoria, eppure si conviene che, in considerazione delle coincidenze non casuali con la versione di Plutarco, il testo di Proclo dovesse essere antico almeno quanto quello di Plutarco, e derivare dalla medesima tradizione testuale accademica84, sebbene ormai modificata dall'interpretazione neoplatonica di Parmenide. Nella propria edizione del Poema (1897)85 Hermann Diels attribuì a Simplicio - come fonte per la ricostruzione dell'opera di Parmenide - enorme valore. A conclusione della propria introduzione, il filologo tedesco da un lato assumeva che l'esemplare di Simplicio dovesse essere di qualità eccellente (im Ganzen vortrefflich), forse (vermutlich) risalente alla stessa biblioteca della scuola di Platone86, di cui egli fu uno degli ultimi esponenti prima della chiusura a opera di Giustiniano (529 d.C.); dall'altro, però, riconosceva anche come Simplicio e Proclo non potessero aver ricavato dalla stessa copia le rispettive citazioni. Così, nonostante risultassero legati alla stessa istituzione, secondo Diels i due commentatori neoplatonici avrebbero utilizzato codici diversi87, esemplari di versioni testuali alternative all'interno della stessa tradizione accademica. L'impostazione dielsiana nello specifico è stata di recente discussa con acribia da Passa88, secondo il quale è difficile credere 82 Coxon, op. cit., pp. 2-3. 83 Coxon, op. cit., pp. 5-6; Passa, op. cit., pp. 38-39. 84 Passa, op. cit., p. 39. 85 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht, Academia Verlag, Sankt Augustin 20012, pp. 25-26. 86 Ivi, p. 26. 87 Ibidem. 88 Op. cit., pp. 35 ss. 61 che Simplicio potesse derivare la propria copia dalla biblioteca dell'Accademia, dal momento che: (i) dopo la chiusura decretata nel 529 dall'editto di Giustiniano, i filosofi neoplatonici (il diadoco Damascio e l'allievo Simplicio) prima si recarono in esilio presso il re persiano Cosroe (531), per ritirarsi poi (532) entro i confini dell'impero bizantino, a Harran (Mesopotamia) o in Siria; (ii) tutti i trattati simpliciani furono stesi dopo il ritorno dalla Persia, secondo questo ordine: (i) de caelo, (ii) in physicam, (iii) in categorias, (iv) de anima89. Simplicio – cui dobbiamo citazioni degli attuali B1.28-32, B2.3-8, B6, B7.1-2, B8, B10, B11, B12, B13, B20 - è stato, in effetti, generalmente considerato fonte attendibile anche dagli editori successivi: ancora Coxon90 giudicava l'esemplare a disposizione di Simplicio «a rare and excellent copy». Nonostante si possa registrare come un certo numero di sue citazioni sia ricavato da testi platonici, e plausibilmente sospettare che sia ricorso a ὑπομνήματα e/o compilazioni antologiche (conosce infatti due redazioni di B8.4, di cui una molto vicina all'esemplare di Plutarco e Proclo)91, a favore dell'affidabilità dell'attestazione di Simplicio depongono l'esplicito impegno a trasmettere documenti del pensiero antico ritenuti fondamentali e il fatto che egli mostri di padroneggiare la struttura del Poema sin dal primo commento aristotelico (de caelo) 92. Soprattutto hanno pesato, nella valutazione del suo contributo, i suoi espliciti rilievi, in precedenza citati: «vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo» (DK 28 A21). Passa93 ha tuttavia messo in dubbio l'attendibilità della redazione simpliciana, facendo leva in particolare su un indizio: citando i vv. B8.53-59, Simplicio (in physicam 31, 3) segnala: 89 Ivi, p. 36. 90 Coxon, op. cit., p. 6. 91 Passa, op. cit. p. 40. 92 Ibidem. 93 Ivi, pp. 41-43. 62 καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· ταῦτα γὰρ ἀπεκρίθη ἑκατέρως ἑκάτερα tra i versi si riferisce un passo in prosa come dello stesso Parmenide, che dice così: per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza. Dopo B8.57, evidentemente, nella copia utilizzata da Simplicio, uno scolio era stato incorporato (da un copista che non si era reso conto trattarsi di καταλογάδην τι ῥησείδιον, di «un passo in prosa») all'interno del testo del Poema. Il commentatore, tuttavia, nel citare il passaggio, non sembra preoccuparsene, riferendolo sostanzialmente allo stesso Parmenide (ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου)! Whittaker94 ne ha inferito che: (i) l'esemplare simpliciano del Poema doveva presentarsi come «the product of unintelligent transcription from an annotated source»; (ii) la competenza del commentatore (che non si avvede dell'inquinamento del testo) in relazione al testo parmenideo doveva essere discutibile. Una valutazione che dovrebbe far riflettere sulla problematica situazione testuale del Poema, soprattutto accreditando l'ipotesi di Deichgräber95 che tutta la copia di Simplicio fosse corredata di scolii. Passa ha proposto un'interessante spiegazione dell'atteggiamento del commentatore neoplatonico: il mancato allarme di fronte all'inserto in prosa nel corpo esametrico del Poema deriverebbe dalla piena assimilazione del quadro proposto nel Sofista platonico (237a): 94 J. Whittaker, God, Time, Being. Two Studies in the Transcendental Tradition in Greek Philosophy, Osloae 1971, p. 21. Citato da Passa, op. cit., pp. 41-2. 95 K. Deichgräber, "Xenophanes' περὶ φύσεως", «Rheinisches Museum» 87, 1938, p. 3. 63 Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων - Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato ammettere che il non essere sia: il falso, in effetti, non potrebbe darsi diversamente. Il grande Parmenide, invece, caro figliolo, a noi che eravamo ragazzi testimoniava contro ciò dall'inizio alla fine, ribadendo ogni volta, nelle sue parole e nei suoi versi, che: «Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Platone documentava una pratica di insegnamento in cui si intrecciavano la memorizzazione dei contenuti fondamentali del Poema, l'esposizione dettagliata del maestro, l'approfondimento e il chiarimento di temi attraverso la comunicazione di informazioni supplementari96: è possibile che in tal modo egli recuperasse un modello effettivamente operante in ambito eleatico97. Non va inoltre dimenticato che, proprio a partire da questa "testimonianza" platonica, nella tradizione tarda (come attesta Suda, X secolo) si diffuse la convinzione che Parmenide avesse composto, oltre al Poema, anche opere in prosa: Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης φιλόσοφος, μαθητὴς γεγονὼς Ξενοφάνους τοῦ Κολοφωνίου, ὡς δὲ Θεόφραστος Ἀναξιμάνδρου τοῦ Μιλησίου. [...] ἔγραψε δὲ φυσιολογίαν δι’ ἐπῶν καὶ ἄλλα τινὰ καταλογάδην, ὧν μέμνηται Πλάτων 96 Passa, op. cit., p. 25. 97 Ne sono sostanzialmente convinti sia Cerri sia Passa, che richiamano questo punto. 64 Parmenide, figlio di Pireto, filosofo eleate, fu discepolo di Senofane di Colofone; secondo Teofrasto, al contrario, di Anassimandro di Mileto. [...] Scrisse di scienza della natura in versi e di altri argomenti in prosa, come ricorda Platone (DK 28 A2). Non sorprenderà, quindi, che Simplicio, poco avveduto sul piano filologico, potesse frettolosamente ricondurre l'inserto in prosa a commento dello stesso autore. Queste considerazioni contribuiscono a ridimensionare la fiducia nell'attendibilità dell'attestazione simpliciana, che Passa98 giudica fondamentale ma sopravvalutata: [Simplicio] mancava infatti sia della capacità di inquadrare correttamente Parmenide nel suo vero contesto storico-culturale, sia di strumenti critici in grado di smascherare i vizi dell'esemplare in suo possesso. Quel che però risulta più preoccupante per l'editore del Poema parmenideo è la prospettiva che nelle citazioni simpliciane si riflettano interventi diretti sul testo, operati all'interno della scuola platonica, perché rispondesse alle sue aspettative teoriche: proprio il caso di Simplicio potrebbe essere esemplare, se accettiamo la ricostruzione di Passa99. Nell'ambiente siriaco in cui Simplicio avrebbe sviluppato tutta la sua opera di commento, si era radicata, a partire dal II secolo, una tradizione che, da Numenio a Giamblico (III secolo), aveva puntato a una rilettura della storia della filosofia (Φιλόσοφος ἱστορία era il titolo della grandiosa ricostruzione del maestro di Giamblico, il neoplatonico Porfirio, allievo diretto di Plotino) imperniata sulla rivelazione della Verità: la filosofia vi era infatti interpretata come recupero, con gradi variabili di approssimazione, di una verità eterna, di cui Pitagora (erede delle antiche dottrine di Zarathustra, Anassimandro, Egizi, Fenici, Caldei ed Ebrei) prima, 98 Passa, op. cit., p. 145. 99 Ivi, pp. 35 ss.. 65 e poi soprattutto Platone sarebbero stati i più lucidi testimoni100. Caratteristica dell'interpretazione siriaca di Giamblico (cui si deve un importante "canone" di lettura tematico-gerarchica dell'opera platonica101) rispetto all'interpretazione porfiriana102 era la valorizzazione dell'essenza "pitagorica" del pensiero di Platone (e Aristotele), che finiva per coinvolgere, in prospettiva, anche i pensatori presocratici: così, per esempio, Parmenide figurava nel catalogo dei pitagorici103. È in tale ambiente che Simplicio avrebbe recuperato in genere gli strumenti necessari al ripensamento di Platone e Parmenide (visto come anello di congiunzione104) e il materiale per le proprie citazioni. Le citazioni di Simplicio rimangono comunque fondamentali (in particolare per la possibilità del commentatore di ricorrere direttamente a esemplare del Poema, che consente di conservare caratteristiche formali autentiche, perdute in altri settori della tradizione105), ma non senza riconoscimento e consapevolezza della presenza - all'interno delle citazioni stesse - di (i) un evidente processo di adattamento linguistico (contrazioni, crasi) al modello attico; (ii) un possibile intervento sul lessico per impreziosire il testo106; (iii) una probabile "normalizzazione"107 del testo sul piano dei contenuti, alla luce della chiave di lettura neoplatonizzante e pitagorizzante. 100 Molto utili per la ricostruzione di questo quadro il saggio introduttivo di G. Girgenti, Interpetazione filosofica della Vita di Pitagora, in Porfirio, Vita di Pitagora, a cura di A.R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano 1998, e l'introduzione dello stesso Sodano alla sua edizione di Porfirio, Storia della filosofia, Rusconi, Milano 1997. 101 (i) Platone-etico: Alcibiade Primo, Gorgia e Fedone; (ii) Platone-logico: Cratilo, Teeteto; (iii) Platone-fisico: Sofista e Politico; (iv) Platone-teologo: Fedro, Simposio, Filebo (per il sommo bene). Il tutto era poi ricomposto nella lettura di Timeo e Parmenide, che riassumevano tutto l'insegnamento platonico sulla natura e la teologia. 102 Girgenti, op. cit., p. 11. 103 Passa, op. cit., p. 37. 104 Ivi, p. 145. 105 Ivi, p. 42. 106 Operazione caratteristica del Neopitagorismo secondo Passa, ibidem. 107 Ibidem. 66 BIBLIOGRAFIA Edizioni del testo consultate Per il testo greco e la traduzione ho tenuto conto delle seguenti edizioni contemporanee: H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Band I, Weidmannsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 19526 [indicheremo l'edizione come Diels-Kranz ovvero DK. Per la traduzione italiana, quando non abbiamo personalmente tradotto, abbiamo utilizzato quella, a cura di G. Reale: I presocratici, Bompiani, Milano 2006] P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1939 (ristampa Arno Press, New York 1976) [indicheremo l'edizione come Albertelli] I presocratici. Frammenti e testimonianze. I. La filosofia ionica. Pitagora e l’antico pitagorismo. Senofane. Eraclito. La filosofia elatica, introduzione, traduzione e note a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 [indicheremo l'edizione come Pasquinelli] Parmenide, Testimonianze e frammenti, Introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958 [indicheremo l'edizione come Untersteiner] G.S. Kirk, J.E. Raven, The Presocratic Philosophers. A Critical History with a Selection of Texts, C.U.P., Cambridge 1963 [indicheremo l'edizione come Kirk-Raven] Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965 [rimane, per i problemi testuali e la loro discussione, una edizione di riferimento. La indicheremo com Tarán] Parmenides, Über das Sein, übersetzt von J. Mansfeld, herausgegeben von H. von Steuben, Reclam, Stuttgart 1981 Les deux chemins de Parménide, édition critique, traduction, études et bibliographie par N.-L. Cordero, Vrin, Paris 1984 [da 67 integrare con l’opera interpretativa aggiornata - dello stesso autore – By Being, It Is, Parmenides Publisher, Las Vegas 2004: complessivamente offrono un grande contributo testuale, grazie alla discussione delle difficoltà e al confronto costante con la tradizione dei manoscritti. Indicheremo lo studio del 2004 come Cordero] Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, PUF, Paris 19863 (edizione originale 1955) A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986 [fondamentale, anche per i riferimenti alla tradizione testuale e ai manoscritti, nonostante le riserve di O’Brien. La indicheremo come Coxon] Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. I, Le Poème de Parménide, texte, traduction, essai critique par D. O’Brien, Vrin, Paris 1987 [strumento molto utile per la discussione delle difficoltà testuali, ma anche per la doppia traduzione, francese e inglese, con le scelte conseguenti. Lo indicheremo come O'Brien] Parmenides of Elea, Fragments. A Text and Translation with an Introduction by D. Gallop, University of Toronto Press, Toronto 1987 [indicheremo l'edizione come Gallop] Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991 [non si distingue tanto come strumento filologico, quanto per l’ampio commentario filosofico di corredo. Indicheremo la traduzione come Reale e il commento come Ruggiu] Parmenides, Die Fragmente, herausgegeben von E. Heitsch, Artemis & Winkler, Zürich 1995 [indicheremo l'edizione come Heitsch] Parménide, Sur la nature ou sur l’étant. La langue de l’être?, présenté, traduit et commenté par B. Cassin, Éditions du Seuil, Paris 1998 [indicheremo l'edizione come Cassin] Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996) [indicheremo l'edizione come Conche] 68 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999 [strumento essenziale – pur trattandosi di edizione tascabile - per la discussione dei principali problemi testuali, e la chiarificazione dei nessi con la letteratura greca arcaica. Lo indicheremo come Cerri] H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897) [rimane opera fondamentale, soprattutto per la comprensione dell’ambiente culturale e i motivi del poema. La indicheremo come Diels] Parmenide, Poema sulla natura, a cura di V. Guarracino, Edizioni Medusa, Milano 2006 Parmenide, Sull’Ordinamento della Natura. Per un’ascesi filosofica, a cura di Raphael, Edizioni Asram Vidya, Roma 2007 Die Vorsokratiker, Band II (Parmenide, Zenon, Empedokles), Auswahl der Fragmente und Zeugnisse, Übersetzung und Erläuterung von M. Laura Gemelli Marciano, Artemis & Winkler Verlag, Düsseldorf 2009 [indicheremo l'edizione come Gemelli Marciano] Le parole dei Sapienti. Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso, traduzione e cura di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 2010 [indicheremo l'edizione come Tonelli] The Texts of Early Greek Philosophy. The Complete Fragments and Selected Testimonies of the Major Presocratics, translated and edited by D.W. Graham, Part I, C.U.P., Cambridge 2010 [indicheremo l'edizione come Graham] Per specifici problemi testuali risulta ancora illuminante A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970 (ora in edizione aggiornata presso Parmenides Publisher, Las Vegas 2008) [indicheremo l'opera genericamente come Mourelatos]. 69 Molto utili per la discussione di singoli problemi interpretativi J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964 [indicheremo l'opera genericamente come Mansfeld] e W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994 [indicheremo l'opera genericamente come Leszl]. In generale, per lo status interpretativo fino alla seconda metà degli anni Sessanta, è strumento di inquadramento l’aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967 (ora ristampato come E. Zeller, R. Mondolfo, G. Reale, Gli Eleati, Bompiani, Milano 2011, con aggiornamento bibliografico a cura di G. Girgenti). Per una dettagliata analisi del frammento B8 e delle sue premesse è davvero illuminante la lettura di R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, pp. 189-229. Per la storia e lo stato del testo di rilievo, insieme al fondamentale Les deux chemins de Parménide cit., il recente lavoro di E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009 [che indicheremo come Passa]. Letteratura critica consultata J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An account of the interaction between the two schools during the fifth and early fourth centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948 J. Zafiropulo, L’Ecole Eléate, Les Belles Lettres, Paris 1950 J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, La Nuova Italia, Firenze 1961 (edizione originale 1953) 70 W.J. Verdenius, Parmenides. Some Comments on His Poem, Hakkert, Amsterdam 1964 Parmenides, herausgegeben von K. Riezler, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. (edizione originale 1934) M.C. 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Jones, Clarendon Press, Oxford 1996 PARMENIDE SULLA NATURA Frammenti testo greco e traduzione italiana1 1 Le note al testo greco si riferiscono a problemi di determinazione del testo originale; quelle alla traduzione, invece, a problemi di resa del testo greco e di interpretazione. 76 DK B1 ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι, πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος1, ἣ κατὰ †... †2 φέρει εἰδότα φῶτα· τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι [5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον. ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ < ει >3 σύριγγος ἀυτήν αἰθόμενος - δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν κύκλοις ἀμφοτέρωθεν -, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4 [10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας. ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. [15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν 1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l'arbitrarietà. 2 Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo presumibilmente corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (partendo dall'errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν >. Per la traduzione si veda nota relativa. 3 χνοίῃσιν ἵ < ει > è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL). 4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ. 5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων da Diels. 6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell'accusativo plurale di terza persona in uso nell'epica arcaica (σφε) all'interno della aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da Passa (pp. 99-100). 7 La forma Δίκη è degli editori moderni: nei codici δίκην. 77 πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι [20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9 · τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν 11 ἅρμα καὶ ἵππους. καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν, [25] ἵπποις θ’ αἵ 13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ, 8 La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels, nell'edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull'opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν. 9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores. 10 Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in verità, nell'edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero. Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII, 424) e esiodei (Scutum 237) nella formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di "omerizzazione" del poema. 11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20. 12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo - ᾱορος appare fuori posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo - ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea. 78 χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ 17 δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς 20 ἦτορ 13 I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei codici si giustifica probabilmente per l'eco quasi letterale del v. 1, che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte (ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi difettosa: introducendo l'aspirazione, l'originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana fosse psilotica. 14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto divino. 15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori. 16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l'uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Δίκη incontrata al v. 14. 17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L'epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9). 18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione - che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» - riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II, p. 12). 79 [30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21 χρῆν δοκίμως22 εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα23. 19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Caelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O'Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l'altro all'interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio l'affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80). 20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell'alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico dell'Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come l'aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario. 21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα. 22 Nella sua edizione del poema (1897) Diels propose di leggere δοκίμως εἶναι come δοκιμῶσ(αι) εἶναι. Tra gli editori novecenteschi Untersteiner è tra i pochi ad aver rilanciato tale lezione, seguito di recente da R. Di Giuseppe, 80 [vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Caelo 557-558; vv. 28b30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114] Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011, che documenta ampiamente, anche nella tradizione latina, le ragioni della propria scelta. 23 La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene che, accettando l'opzione περ ὄντα, si debba comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale, nell'uso e nella frequenza, all'interno del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto». 81 Le cavalle1 che mi portano2 fin dove il [mio] desiderio3 potrebbe giungere4, 1 Il testo greco riporta ἵπποι ταί, con il sostantivo dunque al femminile (come in Pindaro, Bacchilide e Sofocle). Il tema del tiro di «cavalle» sarebbe di origine omerica: secondo Tarán (p. 9) sarebbe forzato cogliervi prova di una influenza orfica. 2 Il verbo φέρουσιν è al presente, che, come tempo verbale, si alterna nel proemio all’imperfetto (che indica abitualmente azioni continuate) e all’aoristo (impiegato normalmente per azioni puntuali). Secondo Coxon (p. 14) l’uso del presente sottolineerebbe come il poeta sia ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé. È possibile, invece, che Parmenide intendesse effettivamente marcare delle sequenze temporali, costruendo un proemio in cui nel canto (presente) del poeta fosse rivissuta un'esperienza di rivelazione (passato): rivelazione con cui il poeta stesso giustificherebbe la propria attività, la scelta della via poetica (ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»). G.A. Privitera ("La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole di Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienza morali, storiche e filologiche» s. 9, v. 20, 2009, pp. 447- 464) osserva come il Proemio sia «fondato sulla memoria» e «autobiografico»: Parmenide avrebbe «elevato alla dignità di proemio una sua lontana esperienza». A proposito dell'uso dei tempi verbali, il presente «mi portano» indicherebbe in particolare che sono state «le solite cavalle di adesso e di sempre ad averlo indirizzato nel viaggio»; il successivo imperfetto πέμπον che l'azione è avvenuta nel passato; il sostantivo κοῦρος (v. 24) segnalerebbe l'età in cui il viaggio fu intrapreso. (p. 449). 3 Traduciamo θυμός come «desiderio», ritenendo che il termine greco, nel contesto dinamico in cui è inserito, abbia il valore di «slancio», ovvero – ma il significato appare più generico - di «animo». È plausibile che θυμός si riferisca non alle cavalle (ἵπποι) ma al poeta che parla: il termine, tuttavia, può essere simbolicamente collegato anche allo sforzo della corsa delle cavalle (Coxon, p. 157). Secondo Chiara Robbiano (Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 124), che interpreta come se i primi versi rinviassero all'inizio del viaggio verso la rivelazione, la scelta di θυμός nell’apertura del poema suggerirebbe come la guida possa dirigere all’obiettivo solo se si è già motivati e disposti ad assumere un ruolo attivo nel perseguirlo. 4 L’ottativo ἱκάνοι è stato considerato (Tarán, Coxon) iterativo, indicante cioè un’indefinita frequenza (dunque: «giunge»), ma nella poesia omerica è attestato un uso potenziale (senza ricorso alla particella ἄν: Robbiano, op. cit., pp. 65-6, n. 189), che autorizza la traduzione che proponiamo. Anche Mourelatos (The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 82 mi guidavano5, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato6 sulla via7 ricca di canti8 1970, p. 17, n. 21) sottolinea – sulla scorta di precedenti omerici - che la modalità rilevante è quella della possibilità. Cerri (p. 166) segnala come la metafora del moto del pensiero, paragonato al moto traslatorio, sia molto radicata nell’immaginario greco arcaico. 5 Il verbo greco è all’imperfetto (πέμπον): l'uso di imperfetto durativo e participio presente (φερόμην v. 4, τιταίνουσαι v.5, ἡγεμόνευον v. 5) denoterebbe che l'apertura del proemio proietta al centro dell'azione in corso; le forme dell'aoristo (βῆσαν v. 2, προλιποῦσαι v. 9), secondo uno schema ricorrente in Omero (O’Brien, p. 8), indicano, per contrapposizione, quanto precede. Conche interpreta πέμπον come “imperfetto storico”, optando dunque per una traduzione con il presente indicativo. Ferrari, nella sua analisi del proemio (F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall’Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 104; ora anche Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 162), ha sottolineato come l’intreccio dei verbi al presente e all’imperfetto sembri evidenziare la continuità tra il presente e il ritorno dall’oltretomba. 6 Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102) coglie in questo passaggio un’eco dell'iniziazione poetica di Esiodo: ciò che Parmenide intenderebbe suggerire è che le cavalle (figure dello slancio interiore del poeta) del suo θυμός lo hanno avviato sulla via poetica (connotata come ὁδός πολύφημος, «via ricca di canti»), che gli permetterebbe di comunicare la rivelazione ricevuta nell’Ade. Parmenide porrebbe in primo piano il risultato dell’incontro con la divinità iniziatrice. 7 La ὁδὸς πολύφημος δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα è contrapposta – secondo Cerri (p. 170) – alla strada pubblica, frequentata da tutti (secondo precedente omerico). Possiamo individuare nel rilievo la possibile eco di un precetto pitagorico riferito da Porfirio: τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). Maria Michela Sassi ("Parmenide al bivio", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 383- 396) – accostando sistematicamente il Proemio ai frammenti di letteratura orfica, alle laminette e ai miti escatologici platonici – interpreta l'espressione come indicante la via che precede la porta dell'oltretomba, oltre la quale Parmenide troverà la dea (p. 387): simbolicamente vi si potrebbe cogliere il riferimento al processo di iniziazione (donde poi il coinvolgimento di termini "tecnici" come εἰδώς φώς o κοῦρε. Questo potrebbe spiegare anche la presenza di guide divine: come rivelano i miti platonici (Fedone 107 ss.), le anime devono percorrere un certo cammino per giungere propriamente nell'Ade; cammino non agevole, per il quale è richiedo l'intervento di δαίμονες come ἡγεμόνες. 83 della divinità9 che10 porta †... †11 l’uomo sapiente12. Ma l'espressione potrebbe più semplicemente riferirsi all'attività poetica intrapresa (con eco esiodea), proposta in un contesto pubblico (come suggerirebbe l'eco omerica di πολύφημος). O ancora, come sostiene con buoni argomenti Palmer (J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2010, p. 56) in relazione al contesto, essa potrebbe designare il percorso che il carro del Sole deve tracciare ogni giorno. 8 Il termine πολύφημος è qui reso in senso attivo, a indicare l’abbondanza di canti, leggende, ma anche voci, suoni e informazioni: si tratta del valore più antico, omerico, riferito per esempio a una piazza (che risuona di voci e rumori), come di recente ribadito da Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., p. 102). Diels e altri decidono invece di tradurre, sottolineandone il valore passivo, come «molto celebrata». 9 Il termine δαίμων (maschile o femminile, secondo i contesti) potrebbe riferirsi al successivo (v. 22) θεά: alla Dea interlocutrice del poeta. Di diverso avviso Ferrari (La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 106-7): riferendo il successivo pronome ἣ alla divinità (e non alla via), egli osserva che «il ritmo stesso del verso» suggerisce di considerare la relativa come «una perifasi che sollecita l’identificazione della daimôn». In tal senso, essa non coinciderebbe né con la divinità in genere (come crede invece Cerri, il quale traduce ὁδὸν δαίμονος come «strada divina»), né con Dike, né con la θεά del v. 22: i paralleli omerici ed esiodei inducono a credere che questa divinità femminile, che guida su un carro condotto dalle figlie del Sole «l’uomo sapiente», sia da identificare con Ἡμέρη, la figlia di Notte, ovvero Ἠώς, Aurora. In Odissea XXIII.241-246 troviamo Aurora condotta attraverso l’Etere dai cavalli «che portano luce ai mortali», un possibile modello per Parmenide. Il genitivo è da considerare possessivo. Un’alternativa suggestiva – richiamata dal successivo coinvolgimento delle figure mitiche delle Eliadi (vedi v. 9) - è quella secondo cui l’allusione sarebbe al Sole, sul cui carro il poeta starebbe viaggiando (Leszl, p. 147). 10 Mantengo l’ambiguità di riferimento del relativo ἣ: alla Dea o alla via (ὁδός): l’analisi convincente di Ferrari spinge nella prima direzione, ma la nostra soluzione lascia aperta la possibilità che il relativo possa riferirsi a un tempo alla divinità – Helios, il Sole – e al tracciato celeste che essa percorre quotidianamente. 11 Abbiamo già segnalato in nota al testo greco il problema della corruzione del passo. Le principali proposte degli editori: κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη (Diels, seguito da molti), «per tutti i luoghi» ovvero, letteralmente, «per tutte le città»; κατὰ πάν ταύτῃ (Cordero), «là riguardo a tutto»; Conche, che accoglie la proposta di Cordero, interpreta tuttavia ταύτῃ non come forma avverbiale, bensì come dativo del dimostrativo femminile, riferito a ὁδός; κατὰ πάντ’ ἄ < ν > τη < ν > (Coxon), «through every stage straight onwards»; 84 Su questa via13 ero portato14, su questa via mi portavano15 molto avvedute16 cavalle, κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ (Cerri), «per tutte le cose che siano». Ferrari (op. cit., nota p. 114) ha sostenuto a più riprese l’opportunità di recuperare la lettura κατὰ πάντ’ ἄ < σ > τη, «come emendamento anche se non più come lezione tramandata». In questo caso sarebbe tuttavia necessario tenere ben distinta la ὁδός πολύφημος δαίμονος dell'apertura del proemio da quella di cui proprio la Dea sottolinea il fatto che è ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου («lontana dalla pista degli uomini»). 12 L’espressione greca εἰδὼς φώς si riferisce, per alcuni (Bowra, Untersteiner, Burkert), alla figura dell’«iniziato», secondo la terminologia propria della tradizione misterica: «espressione quasi tecnica in tal senso», come nota la Sassi (op. cit., p. 387), attestata nei frammenti orfici (fr. 233 Kern). Per altri (Fränkel, Tarán), invece, all’uomo che già conosce la via per averla percorsa; Coxon e Cerri insistono sul riferimento alle competenze e conoscenze preventivamente richieste per la piena conquista della verità. Di diverso avviso Mansfeld (J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 226-7), il quale, partendo da Senofane B34, sottolinea come εἰδώς abbia un valore legato all’esperienza visiva, che si conserverebbe in Parmenide: la conoscenza che il poeta rivendica è dunque legata a un esperire, vedere, diretto. Il termine εἰδώς dovrebbe rendersi allora come «[l’uomo] che ha visto» ovvero «che ha conoscenza». Nella stessa direzione si è mosso Ferrari (op. cit., pp. 102 ss.), il quale sottolinea come la qualifica di sapiente, che indirettamente viene attribuita al poeta narrante, presupponga che l'incontro con la Dea e la rivelazione siano già avvenuti. La qualifica di εἰδώς indica, infatti, ancora in Aristofane e Euripide, la condizione del «miste», di colui che ha ormai superato la prova dell’iniziazione. L’immagine del sapiente che per il mondo diffonde con la paola poetica la verità conquistata, suggerirebbe dunque di riferire la situazione (e la condizione del poeta) a un tempo successivo all’incontro con la θεά. 13 Intendo la forma avverbiale τῇ (ταύτῃ), ribadita nello stesso verso, come se si riferisse non a un luogo determinato ma alla via lungo la quale il poeta è condotto: «lungo questa via», dunque, o al limite «qui». Scegliendo di tradurre in questo modo e non come per lo più si fa («là»), intendo marcare questa sequenza – concentrata sul viaggio-missione del poeta - dalla successiva, che si apre (v. 11) con un altro locativo (ἔνθα) e che propriamente introduce alla rivelazione. La traduzione in questo caso ha un peso: dal momento che τῇ può rendersi tanto con «qui» che con «là», le indicazioni di luogo, analogamente ai tempi verbali, possono avere un'incidenza nell’interpretazione complessiva. Abbiamo scelto una perifrasi, cercando di conservare, anche in questa occasione, l'ambiguità: «questa via» 85 [5] trainando il carro17: fanciulle18 mostravano la via. Nei mozzi emetteva un sibilo acuto19 l’asse, può riferirsi alla via su cui al momento si muove il poeta nella sua missione pubblica, ovvero la via al centro del successivo racconto. 14 Le due forme verbali del verso – φερόμην e φέρον – sono imperfetti in diatesi passiva e attiva: sottolineano l'azione di trasporto (delle cavalle) e il privilegio di essere trasportato (del poeta). 15 Si tratta dell’ennesima ripetizione di una forma del verbo φέρω nei versi iniziali. Tale ripetizione, sottolineata dagli interpreti, è intesa da alcuni (Mourelatos, p. 35) come un difetto, un limite della poesia di Parmenide, da altri (P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999, p. 135), invece, come mezzo per incidere sull’audience: la ripetizione sarebbe «una tecnica per creare un effetto incantatorio». Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 124), essa avrebbe essenzialmente una funzione retorica: preparerebbe l’audience al concetto di guida, centrale nel «second journey», cioè nel viaggio intrapreso, appunto sotto la direzione della Dea, verso la verità. 16 L’aggettivo πολύφραστοι, riferito alle cavalle, significa letteralmente «che hanno molto da dire»: supponendo che πολύ comporti intensità, si può rendere con «molto avvedute», «molto sagge». Parmenide vuole forse sottolineare le affinità tra le cavalle e le guide cui si allude ai vv. 5 e 9. 17 Cerri (pp. 96-7) ricorda come il carro trainato da cavalle o cavalli sia chiara metafora della poesia, impiegata spesso nella lirica corale: il poeta sul carro guidato dalle Muse è avviato all’itinerario espressivo più adeguato all’occasione. D’altra parte anche lo sciamano mediatore tra uomini e dei, come sottolinea Mourelatos (pp. 42-3), ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Il suo viaggio, pericoloso, avviene talvolta su un carro volante: frequentemente accostata a certi animali, come i cavalli, la figura dello sciamano - spesso poeta o cantore - narra in prima persona le sue esperienze celesti. L’associazione con le Ἡλιάδες κοῦραι (v. 9) e i riferimenti (v. 9) alla «dimora della Notte» (δώματα Νυκτός) e (v. 11) alla «porta dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων) suggeriscono un nesso tra il carro (ἅρμα) di cui si parla e il carro del Sole. La possibile contestualizzazione oltremondana del viaggio fa pensare, d'altra parte, al carro di Hades. 18 Si tratta, come risulta dal v. 9, delle Eliadi. 19 Così traduciamo σύριγγος ἀυτήν, letteralmente «lamento di siringa [organetto a canne]». Ferrari rende con «sibilo di zufolo». Si tratta del sibilo prodotto dall’asse nella sua rotazione all’interno delle sedi (χνοῖαι) che lo fissano al carro. Kingsley (op. cit., pp. 89 ss.) ha rilevato che le fonti antiche (Ippolito, Plutarco, Giamblico) collegano l’esperienza del suono della σῦριγξ a 86 incandescente20 (poiché era mosso da due rotanti cerchi da ambo i lati), mentre si affrettavano21 a scortar[mi]22 le fanciulle Eliadi 23, avendo abbandonato24 la dimora25 della Notte resoconti di incubation, cioè a esperienze di trance: uno dei segni che accompagnano il passaggio a un diverso stadio di consapevolezza (tra sonno e veglia) sarebbe appunto il fischio della σῦριγξ. 20 L’aggettivo αἰθόμενος letteralmente «infiammato», ma anche «surriscaldato». 21 L’ottativo σπερχοίατο avrebbe, secondo Coxon (p. 161) e altri, valore iterativo (come ἱκάνοι, v. 1). O’Brien (p. 10), invece, ne rileva – sulla scorta di analoghe espressioni omeriche – l’uso per designare semplice concomitanza di azioni. 22 Il testo greco non riporta alcun complemento pronominale, ma è ovviamente da sottintendere, come nel precedente v. 4, che πέμπειν si riferisca al poeta. Coxon (p. 161) fa osservare come il soggetto di πέμπειν - e quindi anche della conduzione del carro del poeta - a questo punto non siano più le cavalle ma le Eliadi. 23 L'espressione greca Ἡλιάδες κοῦραι determina il precedente (v. 5) uso indefinito di κοῦραι: si tratta delle Eliadi, le figlie del Sole. In Omero (Odissea XII.127-36) esse attendono all'immortale bestiame del genitore, ma nel mito, cantato in un frammento esiodeo (fr. 311 Merkelbach-West) e ripreso in un'opera perduta (Ἡλιάδες, appunto) di Eschilo (alla cui rappresentazione in Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato, secondo quanto ipotizza A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; il riferimento a p. 52), sono direttamente coinvolte nella drammatica vicenda del fratello Fetonte, al quale consegnano il carro del Sole, all'insaputa del padre. In questo modo esse sono corresponsabili della sua impresa punita dall'intervento di Zeus con la morte di Fetonte. Per punizione Zeus le mutò in pioppi: le loro lacrime si trasformarono in ambra. Nel contesto è significativo ricordare che la prole del Sole è connotata nell’universo mitico in termini sapienziali (Cerri, p. 173), e, d'altra parte, appariva funzionale all'economia del racconto, del viaggio e della rivelazione. 24 Il participio aoristo προλιποῦσαι – secondo il precedente omerico - indica il punto di partenza dell'azione corrente (la conduzione del poeta da parte delle Eliadi). La «dimora della Notte» - luogo di soggiorno alternato di Notte e Giorno – è, dunque, naturale luogo di destinazione delle Eliadi che accompagnano il poeta. 25 Il termine δώματα è al plurale («case»), probabilmente per accentuare le dimensioni della casa della Notte. L’espressione δώματα Nυκτός richiama l’analoga Nυκτός οἰκία esiodea (Teogonia, 744) e fa pensare, dunque, a una collocazione nell’abisso del mondo infero (che in Esiodo domina sulla 87 [10] verso la luce26, rimossi con le mani i veli dal capo27. prigione dei Titani): la casa della Notte - in cui alternativamente soggiornano Notte e Giorno – è probabilmente situata, oltre la porta presso cui essi si danno il cambio, nel χάσμα sottostante. In questo senso potrebbe leggersi l'indicazione del v. 11 a «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων). Mantenendo il riferimento esiodeo, sembrerebbe quindi che Parmenide alluda in questi passaggi non a una locazione genericamente ai limiti occidentali della Terra, ma a una direzione sotterranea, verso le regioni del Tartaro e dell’Ade (Cerri, p. 173). Nella letteratura orfica (fr. 105 Kern) abbiamo attestata l'espressione ἐν τοῖς προθύροις τοῦ ἄντρου τῆς Νυκτὸς («sulla porta dell'antro della Notte»). Da notare che, in questo caso, l'«antro» è sorvegliato da Dike, Adrasteia e Nomos. D’altra parte, le porte di Notte e Giorno potrebbero intendersi come le omeriche porte del cielo (Iliade V.754 ss.), sorvegliate dalle Ore: Dike - in Esiodo - è proprio una di loro (Mourelatos, p. 15). È possibile, tuttavia, che sia Esiodo sia Parmenide in realtà si appoggino a una tradizione mesopotamica: W. Heimpel ("The Sun at Night and the Doors of Heaven in Babylonian Texts", Journal of Cuneiform Studies, 38, 127-51) ha mostrato come i testi sumerici e accadici presentassero esattamente lo stesso immaginario celeste e infero, con analogo ruolo dei cancelli del cielo rispetto al passaggio del Sole, analoga descrizione dei loro meccanismi di apertura, analogo soggiorno notturno presso un dimora locata tra mondo celeste e mondo infero (il Sole in effetti avrebbe svolto anche funzioni di giudice oltremondano). Su questo Palmer, op. cit., pp. 55-6. 26 L’espressione εἰς φάος può essere riferita a πέμπειν (v. 8), nel senso di «scortare verso la luce», ovvero, come è più naturale, a προλιποῦσαι (v. 9), scelta preferibile, anche per la prossimità del collegamento. Quindi: «[le fanciulle Eliadi] abbandonata la dimora della notte [muovendo] verso la luce». In ogni caso la costruzione appare intenzionalmente ambigua e l'interpretazione è stata spesso condizionata dalla punteggiatura: DielsKranz, per esempio, inserivano la virgola prima di εἰς φάος, forzando il suo riferimento a πέμπειν. L’espressione è ricca di implicite possibilità simboliche: un viaggio verso il regno della luce è metafora appropriata per una esperienza di illuminazione (Mourelatos, p. 15) ovvero di rivelazione; ma potrebbe richiamare il fatto che il poeta accede all’αἰθήρ, alla estrema regione di fuoco dell’universo fisico, di cui la dea innominata successivamente (v. 22) citata sarebbe personificazione (Coxon, p. 163). Ma la luce potrebbe anche rappresentare il nostro mondo, se interpretiamo il racconto come resoconto di un νόστος, di un periglioso viaggio di ritorno dal mondo dell’Ade, dove il poeta ha ricevuto la rivelazione (così Ruggiu, pp. 162-3). Cerri (p. 173) segnala come l’espressione ricorra in altri testi arcaici, per indicare l’«azione portentosa del riemergere dall’Ade». Ferrari (op. cit., pp. 101-2) con buoni argomenti sostiene questo tipo di lettura: nel 88 Là28 sono i battenti29 dei sentieri30 di Notte e Giorno: proemio il tempo del racconto scorrerebbe a ritroso: il ritorno finale alla luce precederebbe il racconto della catabasi nel regno della Notte. Secondo Privitera (op. cit., p. 460), invece, proprio l'indicazione προλιποῦσαι δώματα Nυκτός εἰς φάος rappresenterebbe «precisazione inequivocabile e scoglio funesto, contro cui è destinata a naufragare ogni interpretazione catabatica del viaggio di Parmenide». 27 Esiodo descrive la dimora della Notte avvolta nelle tenebre: καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι E di Notte oscura la casa terribile s’innalza di nuvole livide avvolta (Teogonia 744-745). Nella stessa opera, le Muse sono introdotte come figure notturne: ἔνθεν ἀπορνύμεναι κεκαλυμμέναι ἠέρι πολλῷ ἐννύχιαι στεῖχον Di là levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano (Teogonia 9-10). I due passi, che non sono sfuggiti a Cerri (p. 174), potrebbero concorrere a illustrare il moto e i gesti delle Eliadi nel dettaglio fornito da Parmenide. Anche Palmer (op. cit., p. 57) suggerisce l'accostamento. 28 Cerri (p. 174) segnala come l’avverbio locativo ἔνθα ricorra nella tradizione epico-teogonica in relazione all’Ade come connotazione aggiuntiva. Nella lettura di Ferrari, a questo punto comincia «il resoconto dell’esperienza oltremondana» (p. 103). 29 Il testo greco presenta il plurale πύλαι, letteralmente «piloni» ovvero i pilastri che sorreggono un grande portale a due battenti (su questo punto si leggano le osservazioni di O’Brien, p. 11, e Conche, p. 49). Altri (Cordero 1984, p. 180, Coxon, pp. 161-2) riferiscono il plurale a due porte distinte, una in faccia all’altra: Coxon, per esempio, seguendo le letture neoplatoniche di Simplicio e Numenio, crede che le «porte» si riferiscano a quelle celesti, per le quali le anime sono condotte, rispettivamente, a discendere εἰς γένεσιν («alla generazione, incarnazione») e ad ascendere εἰς θεούς (verso le divinità), in altre parole a viaggi di genere opposto. Il verso successivo sembra tuttavia smentire tale lettura. In Omero è attestata l'espressione πύλαι Ἀΐδαο (Iliade V, 646; IX, 312; Odissea XIV, 156) per indicare i cancelli che immettono al mondo infero; uso analogo (Ἄιδου πύλαι) nella tragedia eschilea. Secondo Privitera (op. cit., p. 453), che ricostruisce l'immagine del mondo nel mito arcaico attraverso i versi di Omero, Esiodo, Mimnermo e Stesicoro, Parmenide avrebbe rinnovato il quadro che 89 architrave e soglia31 di pietra li incornicia32; emergeva dalla tradizione unificando quelle che erano in precedenza due porte distinte: la Porta dell'Ade (attraverso cui si davano il cambio Notte e Giorno) e la Porta del Sole (attraversando la quale, a occidente, l'astro trascorreva, sul bordo dell'Oceano, verso una porta orientale, per tornare a risplendere all'alba). Secondo lo studioso italiano, Parmenide avrebbe trasferito la Porta della Notte e del Giorno sulla Terra e l'avrebbe unificata con la Porta del Sole (sdoppiandola dunque in una porta occidentale e in una orientale): la Porta varcata dalle Eliadi riassumerebbe allora la doppia funzione nella tradizione distribuita tra Porta del Giorno e della Notte e Porta del Sole. 30 Già negli usi omerici e nella tragedia eschilea, il termine κέλευθος può indicare, secondo il contesto, «via», «sentiero», «strada», ma anche ciò che viene effettuato lungo quella via, cioè «viaggio» ovvero «spedizione». Il plurale κέλευθα potrebbe rendersi in questo caso, mediando tra i due significati segnalati, come «percorsi», come suggerisce anche Ferrari (op. cit., p. 109): si tratta in effetti degli itinerari compiuti da Giorno (Ἡμήρη) e Notte (Νύξ). La Sassi (op. cit., p. 388) fa notare come la porta, presso cui si incontrano e attraverso cui accedono alternativamente al cosmo Giorno e Notte, dia accesso a un «luogo mitico, analogo al Tartaro», dove, come in Esiodo (Teogonia 736 ss.) è situata la «dimora della Notte». 31 L’Olimpica VI di Pindaro si apre con un analogo riferimento alla soglia (οὐδός), a indicare l’esordio del canto. In relazione alla espressione πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων è probabile che οὐδός sia da intendere come entrata del mondo infero, accettando il suggerimento di Cerri (p. 175) di accostare il passo parmenideo ai versi esiodei di Teogonia 748-751: […] ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσονἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται […] là dove Notte e Giorno incontrandosi si salutano, al momento di varcare la grande soglia di bronzo, l’uno per scendere dentro, l’altra per la porta se ne va, né mai entrambi a un tempo la casa trattiene dentro di sé, ma sempre l’uno, fuori della casa, la terra percorre, l’altra, dentro casa, attende la propria ora di viaggio, finché non giunga. 90 essi, alti nell’aria33, sono agganciati34 a grande telaio35. Nel poema di Parmenide troviamo λάινος οὐδός invece di χάλχεος οὐδός, come appunto in Esiodo e Omero (Iliade VIII, 15). Secondo Cerri (p. 176) la correzione nell’uso dell’aggettivo potrebbe essere dettata dalla finalità del poema fisico dell’Eleate: la collocazione nelle viscere della terra avrebbe consigliato «pietrigna» piuttosto che «bronzea». 32 Rendiamo ἀμφὶς ἔχειν come «incorniciare»: il poeta intende segnalare i limiti verticali (la soglia e l'architrave appunto) della struttura, che, così descritta non può essere propriamente un cancello ma un vero e proprio portale. Sembra da escludere anche la possibilità delle due porte. 33 L’aggettivo αἰθέριαι si riferirebbe, secondo una certa tradizione interpretativa (Deichgräber, Coxon), alla collocazione della porta nella regione estrema del cielo; per altri, più semplicemente, il poeta sottolineerebbe la dimensione in altezza del portale (Cerri: «battenti che toccano il cielo»; Ferrari: «alta fino al cielo»). Alcune traduzioni (Tarán, O’Brien) privilegiano il valore materiale dell’aggettivo, dunque la natura eterea della porta: è vero però che Parmenide marca che essa è di pietra. Proprio con l’incrocio lessicale di pietra ed etere egli potrebbe allora suggerire che la porta è punto di incontro di terra e cielo (Leszl, p. 151). La scelta dell'aggettivo sarebbe significativa, secondo Privitera (op. cit., p. 453), perché rivelerebbe come la porta che le Eliadi stanno per varcare non è quella dell'Ade, la cui volta è descritta da Esiodo come sottostante il soffitto del Tartaro. Al contrario, la PellikaanEngel (op. cit., p. 57) ritiene che l'espressione αἰθέριαι πύλαι potrebbe essere ripresa sintetica del verso esiodeo: τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio (Teogonia 746). Il riferimento ad Atlante, che con i piedi piantati per terra solleva il cielo con testa e braccia, potrebbe (come vuole Burkert) essere avvalorato proprio dall'uso di λάινος οὐδός («soglia di pietra») in relazione a αἰθέριαι πύλαι, quasi a indicare gli estremi (terra e cielo) dello sforzo del titano. Parmenide potrebbe dunque aver avuto Esiodo come modello per la sua porta dei «sentieri di Notte e Giorno», replicando l'analogo portale di Atlante (Pellikaan-Engel, op. cit., pp. 57-8). 34 La «strana» (Passa, op. cit., p. 100) forma verbale πλῆνται ha ingannato gli editori: normalmente la si riferisce a πίμπλημι («riempire»), ma, come ha con acribia dimostrato Passa (pp. 100-4), va ricondotta a πίλναμαι («avvicinarsi»), di cui rappresenterebbe forma "corta" del perfetto medio (πέπλημαι). Rendiamo, come suggerito dallo stesso Passa per il nostro contesto. 91 Dike36, che molto castiga37, ne38 detiene le chiavi dall’uso alterno39. [15] Placandola40, le fanciulle, con parole compiacenti, 35 Anche in questo caso molti editori sono stati imprecisi, lasciandosi sfuggire il significato tecnico del termine θύρετρα, che è plurale tantum usato anche come variante di θύρα («porta»), ma il cui valore primario è «telaio [della porta]», come correttamente inteso da Coxon e recentemente ribadito da Passa. 36 Nella tradizione omerica ed esiodea, Dike era, con Eunomia e Irene, una delle Ore, sorelle delle Moire, figlie di Zeus e Temi: compito delle Ore (Iliade V, 749; VIII, 393) era quello di sorvegliare le porte del Cielo. È significativo che anche Eraclito (DK B94) alluda a Dike e alle coadiutrici Erinni come garanti del corretto percorso del Sole. Secondo Robbiano (p. 155), la figura di Dike è tradizionalmente introdotta in relazione al rispetto dei confini: non a caso la ritroviamo a sorvegliare il cancello che discrimina i percorsi di Giorno e Notte. Essa sarebbe responsabile delle divisioni e distinzioni all’interno di natura e società (dei confini tra parti e gruppi): in questo senso sarebbe garante di equilibrio (p. 157). Tuttavia, come la studiosa correttamente segnala (p. 158), l’ordine cui sovrintende la Dike parmenidea, rivelato nei versi successivi, non è quello tradizionalmente inteso. 37 L’espressione Díkh πολύποινος è attestata nella letteratura orfica (fr. 158 Kern), ma la datazione è incerta (Coxon, p. 163). D'altra parte, come abbiamo già avuto modo di segnalare, Dike compare nella stessa tradizione (fr. 105 Kern) come sorvegliante (con Adrasteia e Nomos) dell'«antro della Notte». Molto critico su questa prospettiva orfica Cerri (p. 104). Certamente, come osserva Mourelatos (p. 15), la figura di Δίκη πολύποινος, che tiene le chiavi (delle retribuzioni?), ricorda quella di una divinità infernale. Ferrari nella stessa direzione traduce come «Dike sanzionatrice». Nell'economia del racconto proemiale, accettando l'ipotesi di una katabasis, la funzione di Dike sarebbe quella di permettere al poeta di accedere, vivo, alla realtà oltremondana (Sassi, op. cit., p. 389). 38 L'interpunzione dell'edizione Diels-Kranz autorizza a intendere il genitivo pronominale iniziale τῶν riferito (come il pronome αὐταί, nella stessa posizione del verso precedente) a πύλαι. 39 L’aggettivo ἀμοιϐός – raro – sembrerebbe indicare successione: potrebbe riferirsi al fatto che le chiavi consentono l’apertura alternata della porta (Coxon, p. 164) ovvero al loro uso complementare (O’Brien, p. 11). Nel contesto è probabile che il riferimento sia all’alternanza di Notte e Giorno: Dike regolerebbe con la propria sorveglianza il passaggio del Sole. Questo potrebbe spiegare la situazione drammatica di seguito descritta: non era in effetti plausibile che Dike potesse lasciar passare il mortale viaggiatore. 40 Il verbo πάρφημι (παράφημι) ha un valore simile al successivo πείθω, ed è spesso associato all'inganno (come segnalato da LSJ). In questo senso forse 92 [la] persuasero41 sapientemente affinché per loro la barra del chiavistello togliesse rapidamente dai battenti42. E questi43 nel telaio vuoto enorme44 produssero aprendosi, i bronzei cardini nelle cavità in senso inverso facendo ruotare, [20] applicati per mezzo di ferri e chiodi45. Per di là46, anche la scelta del complemento μαλακοῖσι λόγοισιν, per sottolineare la gentilezza dell'espressione. 41 Il racconto della (possibile) catabasi, introdotto con la descrizione del portale al v. 11, ha qui il suo effettivo inizio, segnalato dall’uso del primo aoristo (βῆσαν al v. 2 era stato utilizzato all’interno di una subordinata), cui seguono quelli ai vv. 18, 22, 23. Il racconto, secondo Ferrari cui si devono queste osservazioni (op. cit., p. 105), è prospettato come premessa e ragione del “ritorno”, cui sono stati dedicati i versi iniziali del proemio. 42 Un analogo repertorio di immagini, movimenti, meccanismi di chiusura e apertura di portali, così come analogo superamento divino dello stesso portale che discrimina mondo celeste e mondo infero a opera del Sole è documentato negli antichi testi sumerici (per i quali si rinvia ancora a Heimpel e Palmer, op. cit., pp. 55-6). 43 Anche in questo caso, come nei precedenti ai vv. 13-14, il pronome ταί si riferisce a πύλαι. 44 L’espressione χάσμ΄ ἀχανὲς sembra evocare il χάσμα μέγα esiodeo (in entrambi i casi χάσμα è in relazione con il genitivo πυλέων), il baratrochaos che Esiodo nella Teogonia (740) pone al di là della soglia della porta di Giorno e Notte: si tratta della voragine al fondo della quale è collocata la prigione in cui, al termine della titanomachia, furono rinchiusi i titani sconfitti. Leszl fa notare (p. 151), comunque, come non si abbia l’impressione che la porta di cui parla Parmenide sia la porta di accesso alla casa della Notte. La Robbiano (p. 150), invece, rileva la funzione drammatica dell’immagine, che si frappone, con la soglia petrigna, tra la quotidiana esperienza mortale del viaggiatore e l’incontro con la divinità. A rendere estremamente probabile la diretta evocazione di Esiodo da parte di Parmenide contribuisce un dato significativo: il termine χάσμα non ricorre in letteratura almeno fino alla metà del V secolo a.C. (M.E. Pellikaan-Engel, op. cit., p. 53). 45 A struttura e dinamica della “porta” dedicano spazio i commenti di Diels e Conche, che si servono anche di opportune illustrazioni a sostegno della spiegazione. 46 Seguiamo Ferrari nel rendere in italiano la formula greca τῇ ῥα δι΄ αὐτέων, costruita con la particella avverbiale locativa e il complemento di (moto attraverso) luogo. Letteralmente si dovrebbe tradurre: «Là, attraverso quella [porta]». 93 dritto condussero le fanciulle lungo la via maestra47 carro e cavalli. E la Dea48 benevola mi accolse: con la mano [destra] la [mia] mano 47 L'aggettivo (qui in forma sostantivata) ἀμαξιτός, comunemente associato a ὁδός, indica la strada attrezzata per il passaggio dei carri, quindi, derivatamente, una strada principale. Secondo la Pellikaan-Engel (op. cit., p. 54), la scelta del termine segnalerebbe che dalla porta al luogo dell'incontro con la Dea il percorso non è breve. In questo senso potrebbe dunque approfondirsi la dimensione sotterranea del viaggio. 48 Traduco θεά con «la Dea» per accentuarne il valore religioso: mi pare plausibile alla luce del suo ruolo personale di interlocutrice privilegiata, che guida, sollecita, espone, proibisce ecc.. Per l'identificazione dell’anonima divinità, tra le proposte degli ultimi decenni è interessante l’indicazione di Cerri (pp. 180-1): nelle città della Magna Grecia (Locri, Posidonia e varie altre) erano diffuse iscrizioni alla «dea infera», «ninfa infera» o semplicemente «alla dea», in cui il riferimento era chiaramente a Persefone. A conclusioni analoghe è giunto, indipendentemente, Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.). Anche Passa (p. 53) ha di recente riconosciuto in Persefone la dea rivelatrice del poema. Secondo West (M.L. West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993, p. 289 n. 57), la θεά alluderebbe a Θεία (Tia), in Esiodo (Teogonia 135) una delle Titanidi (come Temi), figlie di Urano e Gea, e madre di Sole, Luna e Aurora (371-4). Anche in Pindaro (Istmiche V.1) Θεία è invocata come «Madre del Sole». Pugliese Carratelli (“La Θεά di Parmenide”, «La Parola del Passato» XLIII, 1988, pp. 337-346) ha proposto – sulla scorta di una laminetta orfica dedicata a Μνημοσύνη, ritrovata nel 1974 a Ipponio – l'identificazione della dea appunto con Mnemosyne (a sua volta una Titanide). La stessa ipotesi è avanzata su basi analoghe da Sassi (op. cit., p. 393). Ferrari (op. cit., pp. 107-8), sulla scia di J.S. Morrison ("Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68) e W. Burkert ("Das Proömium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras", «Phronesis», 14, 1969, pp. 1-30), ha di recente concluso che la non meglio definita divinità del v. 22 altri non sarebbe che Νύξ (Notte), variamente attestata nella tradizione oracolare e orfica. In particolare egli ha osservato come, nella tradizione epica, l’uso di θεά senza ulteriori determinazioni sia anaforico: nel contesto, a parte Dike guardiana del portale, l’unica divinità nominata è appunto Νύξ. Anche Palmer (op. cit., pp. 58-61), seguendo Morrison e Mansfeld (pp. 244-7), è tornato a insistere su Νύξ, giustificando la propria opzione non solo nel contesto del proemio, ma rinviando anche all'ambiente culturale orfico, in particolare al poema oggetto di commento nel Papiro di Derveni, e alle funzioni oracolari associate alla figura di Notte nel mondo greco. A suo tempo la Pellikaan- 94 destra prese49, e così parlava e si rivolgeva50 a me: O giovane51, che, compagno52 a immortali guide53 Engel (op. cit., pp. 61-2) aveva opposto a questa proposta di identificazione l'osservazione sensata che la compresenza di Eliadi e Notte era quanto mai improbabile, proprio alla luce del precedente esiodeo. In alternativa, quindi, aveva suggerito l'esiodea Ἡμέρη (il Giorno), da Parmenide evocata come Ἤμαρ. A Πειθώ, invece, ha pensato Mourelatos (op. cit., p. 161). Di recente, riprendendo il suggerimento di Hermann Fränkel, Privitera (op. cit., pp. 461-2) ha proposto la Musa, portando sostanzialmente tre argomenti: (i) la ricorrenza del termine θεά all'interno del proemio di un poema epico; (ii) l'analogia con Iliade, nel cui primo verso la Musa è allusa appunto come θεά; (iii) il costume che prevedeva una invocazione alla Musa per poema "epico" di argomento sapienziale. In ogni caso, è significativo che questa δαίμων subito interpelli il poeta: ciò ha riscontro nell'immaginario viaggio oltremondano tratteggiato nelle laminette orfiche conservate, dove l'iniziato è interrogato da «custodi» (φύλακες) presso la palude di Mnemosine (Sassi, op. cit, p. 390). 49 Kingsley (op. cit., pp. 93 ss.) rinvia a testimonianze vascolari che ritraggono Persefone nell'atto di accogliere nell'Ade Eracle e Orfeo, offrendo loro appunto la mano destra. 50 Il verbo greco προσηύδα è all’imperfetto, come il successivo προὔπεμπε (v. 26: «spingeva»): i verbi che esprimono l’idea di un ordine o di una missione sono impiegati all’imperfetto perché implicano uno sforzo e indicano il punto di partenza di uno sviluppo. Così per i verbi che significano «dire» (O’Brien, p. 8): la forma epica φάτο, in effetti, può essere anche imperfetto. 51 Il termine vocativo κοῦρε non si riferisce necessariamente alla giovinezza del poeta, potrebbe piuttosto marcare lo scarto tra la natura divina e quella umana degli interlocutori. Il termine κοῦρος (forma epica e ionica di κόρος), relativamente raro nei testi arcaici, indica sia il giovane contrapposto all’anziano, sia il figlio, sia il ragazzo contrapposto alla ragazza. Esso può implicare anche un legame particolare con la divinità, dal momento che κοῦρoι erano chiamati i giovani addetti ai sacrifici, ma anche i figli degli dei (negli inni omerici a Hermes e Pan, e in Pindaro Olimpiche VI): in ogni caso, il termine sarebbe titolo di onore (Coxon e Kingsley). Conche (p. 59) fa notare come l’appellativo sia coerente con il contesto educativo, giustificando la disponibile e benevola accoglienza della dea. La Sassi (op. cit., p. 387) associa l'appellativo κοῦρε a εἰδὼς φώς, come espressione legata a una prospettiva iniziatica. 52 Il termine συνάορος non significa semplicemente «accompagnato da», ma «associato a», «collegato a»: la traduzione «compagno» è sufficientemente ambigua da accoglierne le sfumature. Etimologicamente è connesso a συναείρω («aggiogare»), con il significato immediato di «aggiogato insieme»: anche in questo caso, dunque, è evidente il debito del proemio 95 [25] e cavalle che ti conducono, giungi alla nostra casa54, rallegrati, poiché non Moira55 infausta ti spingeva a percorrere questa via56 (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini57), ma Temi58 e Dike 59. Ora60 è necessario61 che tutto62 tu63 apprenda64: parmenideo all'immaginario dell'ippica (Passa, p. 137). Da sottolineare il fatto che la formula utilizzata dalla Dea fa del κοῦρος in questo modo un «compagno» delle Eliadi, a loro volta presentate (v. 5) come κοῦραι. Secondo Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986, p. 93), il rilievo della Dea si riferirebbe alla comune giovinezza delle Eliadi – κοῦραι - e del poeta - κοῦρος. 53 Il sostantivo maschile ἡνίοχος designa chi guida un carro, l'«auriga»; derivatamente è utilizzato anche per indicare chi governa e indirizza una nave, e, in senso lato chi guida e governa. Nel contesto il termine si riferisce alle Eliadi. 54 Secondo Ferrari (op. cit., p. 107), l'espressione ἡμέτερον δῶ («la nostra casa») richiamerebbe δώματα Nυκτός («la dimora della Notte») del v. 9, spingendo alla conclusione che la Dea sia da identificare appunto con Νύξ. 55 In Esiodo abbiamo tre Moire, figlie di Zeus e Temi. L’espressione μοῖρα κακή ricorre in Iliade XIII, 602 per indicare la morte: nel contesto, dunque, essa potrebbe alludere a un luogo preciso dell’incontro con la divinità: l’oltretomba. In questo senso Cerri e Ferrari traducono come «sorte maligna»: i traduttori, in effetti, per lo più preferiscono associare al termine, nel nostro contesto, il valore di «fato» o «destino». Così intende anche la Sassi (op. cit., p. 389). 56 L'espressione τήνδ΄ ὁδόν sottolinea, con il dimostrativo, il privilegio del κοῦρος: a partire dalla prima evocazione (vv. 2-3) della ὁδός πολύφημος δαίμονος, il tema della strada/via è rimasto dominante sullo sfondo del racconto, che si è sviluppato lungo l'itinerario del poeta. 57 Conche (p. 60) osserva che il riferimento coinvolge costumi, abitudini, modi di pensare diffusi tra gli uomini. È probabile ritrovare in questo passaggio un’eco del precetto pitagorico conservato da Porfirio (e sopra citato proprio in relazione alla ὁδός πολύφημος δαίμονος dei vv. 2-3): τὰς λεωφόρους μὴ βαδίζειν («non percorrere le strade popolari»). 58 In alternativa: «norma divina», ovvero «legge» (θέμις). Temi era una delle Titanidi, figlie di Urano e Gea, madre delle Moire e delle Ore, nonché una delle spose di Zeus. 59 Complessivamente il coinvolgimento di Temi e Dike sembrerebbe essere proposto a garanzia della eccezionalità dell’evento rivelativo. Il riferimento a Temi potrebbe giustificare l’intervento delle Eliadi presso Dike per persuaderla ad aprire una porta che avrebbe altrimenti dovuto rimanere 96 sia di Verità65 ben rotonda66 il cuore67 fermo68, serrata per un mortale (in vita), e il rilievo della associazione delle due dee nelle parole della divinità innominata. Tenendo conto della associazione delle due dee con la norma e la giustizia divine, il loro coinvolgimento proietta e impone sulla successiva “rivelazione” una forte impronta d’ordine e di necessità (cosmici). In questo senso Tonelli, nella sua edizione dei frammenti (p. 116), rileva come Moira, Temi e Dike, unitamente ad Ananke (Necessità), rappresenterebbero «la divinità femminile nella sua dimensione di norma cosmica». 60 Pochi traduttori traducono la particella δέ. Ferrari le riconosce valore avversativo («Ma»), altri continuativo: Diels («so»), Gemelli Marciano («also»), Tonelli («e»). L'introduzione della particella non è legata forse solo a ragioni di equilibrio metrico, ma anche al senso della rassicurazione iniziale della Dea: ella dapprima tranquillizza il poeta circa il suo destino, quindi sottolinea il compito che lo aspetta. 61 Il termine χρεώ è associato nell'epica a χρειώ, che nelle fasi antiche dell'epica era utilizzato come vero e proprio nome femminile: nel corso del tempo esso fu trattato come un neutro. Analogamente χρεώ, che, preso il posto di χρειώ, finì per diventare un sinonimo di χρή (Passa, p. 77-8). La formula (con copula sottintesa) χρεώ rende una necessità soggettiva, dunque opportunità, convenienza, piuttosto che una costrizione oggettiva: si potrebbe rendere anche con «è giusto», «è opportuno». In ogni modo, l’uso di tale formula implica che quanto la Dea sta per esprimere è parte del compito, del dovere che il viaggiatore deve assumere (Robbiano, op. cit., p. 75). Ferrari (op. cit., p. 104) giustamente osserva come il kouros per la dea sia in fondo solo un «apprendista» (apostrofato appunto come κοῦρε). 62 La scelta del pronome neutro plurale πάντα («tutto», ovvero «tutte le cose») è significativa perché garantisce al programma della comunicazione (rivelazione) della Dea un orizzonte di verità piena, totale, giustificandone le articolazioni annunciate negli ultimi versi. 63 L'insistenza sui pronomi personali è confermata anche nei frammenti successivi (soprattutto la polarità «tu» e «io», in contrapposizione ai «mortali»). 64 Il verbo πυνθάνομαι ha il valore di «imparare per sentito dire (raccogliendo informazioni)» ovvero «imparare per indagine». Può implicare dunque sia un atteggiamento di passiva ricezione, sia di attiva ricerca («di tutto fare esperienza»). 65 Secondo Coxon (p. 168) il sostantivo ἀληθείη e l’aggettivo ἀληθής non significherebbero nel contesto del poema «verità» e «vero», ma «realtà» e «reale». Di recente Palmer (op. cit., pp. 89-93) ha rilanciato con buoni argomenti. Anche Ferrari traduce con «Realtà». Nel suo Parmenides und die Anfänge der Erkenntniskritik und Logik (Auer, Donauwörth 1979, pp. 33 ss.), E. Heitsch mostra, sulla scorta della preistoria del termine, come 97 ἀλήθεια etimologicamente (non occultamento e non dimenticanza) suggerisca una originaria affinità tra il senso oggettivo e soggettivo di verità: ἀλήθειαν εἰπεῖν verrebbe per esempio a significare «riportare nel discorso qualcosa che nel mondo si mostra come non nascosto». In effetti, in Omero ἀληθείη e ἀληθέα compaiono in dipendenza da verba dicendi: Gloria Germani ("ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206) ha sottolineato in questo senso la «peculiarità sintattica» del termine nella individuazione del processo unitario che connette soggetto e oggetto (p. 181). Tipico di ἀληθείη sarebbe infatti il riferimento a chi parla: l'oggetto si manifesta solo se c'è un soggetto a cogliere tale manifestazione. Il termine designerebbe dunque una relazione in cui «conoscere e realtà si completano e si realizzano a vicenda» (p. 185). In effetti, già Aristotele, riferendosi ai pensatori presocratici (Metafisica IV, 5 1010 a1-3), poteva sottolineare: αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον la causa di questa opinione presso di loro è che essi certamente ricercavano la verità intorno agli esseri, ma supponevano che gli enti fossero solo quelli sensibili. L'accostamento verità-realtà (sensibile) proprio in relazione ai pensatori presocratici è ribadito in Aristotele, per esempio: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti (Fisica I, 8 191 a25). Ma rispetto al nostro contesto è significativo, come ha fatto notare Leszl (p. 16), il fatto che, a un certo punto, in relazione alle opere di Melisso e Gorgia (seconda metà V secolo a.C.), siano state utilizzate, accanto alla corrente indicazione περὶ φύσεως, rispettivamente le formule περί τοῦ ὄντος e περί τοῦ μὴ ὄντος (rivelando una certa consapevolezza della inadeguatezza della tradizionale titolazione). Passa (p. 53), che interpreta il proemio come itinerario dell'iniziato verso la Verità, sostiene che esso contiene «la rappresentazione poetica di esperienze sciamaniche vissute da Parmenide»: Ἀληθείη, in questo senso, sarebbe «figura del contenuto essenziale rivelato dalla dea, assurto esso stesso a ipostasi divina». Come segnala l'autore, per altro, Verità ritorna, "ipostatizzata", anche nei reperti archeologici (placche d'osso) recuperati a Olbia Pontica. 98 È allora da soppesare con attenzione l'ipotesi interpretativa che fa della figura divina appena introdotta il perno simbolico della ripresa e della soluzione parmenidea del problema della verità, dopo la profonda incrinatura dell'orizzonte arcaico, soprattutto a opera di Senofane: il tema dell'accesso alla verità potrebbe fungere da chiave di lettura generale (oltre che, specificamente, dello stesso proemio). Su questo punto ancora la Germani, op. cit., pp. 186-7. 66 Accogliendo la lezione εὐκυκλέος rendiamo letteralmente con «[Verità] ben rotonda». Effettivamente ci sarebbero buone ragioni per l'adozione di εὐπειθέος, se si potesse senza problemi tradurre come «persuasiva» (o «ben persuasiva»). Nel verso successivo si rileverà come nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας) non vi sia «vera credibilità» (πίστις ἀληθής): con una inversione, Parmenide passerebbe da una «verità» (ἀληθείη) «persuasiva [credibile]» (εὐπειθής) a una «vera» (ἀληθής) «credibilità» (πίστις). In B2.4, la Dea rimarcherà come la via «che è» (ὅπως ἔστιν) sia «sentiero di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), in quanto «a Verità si accompagna» (ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). In conclusione della sua esposizione della verità, la stessa Dea sottolineerà (B8.50-1): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla verità. È indiscutibile l'insistenza parmenidea sul nesso tra ἀληθείη e πειθώ, che in B2 sono proposte sostanzialmente come ipostasi divine. Il vero problema dell'opzione εὐπειθέος è che il significato antico dell'aggettivo εὐπειθής – attestato ancora in Platone e Aristotele - è quello di «obbediente» «disponibile/pronto all'obbedienza»: il significato di «persuasivo» è posteriore. Nell'economia del poema, anche l'aggettivo εὔκυκλος – attestato sia in Pindaro sia in Eschilo – è comunque denso di implicazioni, soprattutto in relazione ai versi del poema più citati in assoluto nell'antichità (vv. B8.43-5), dove ritroviamo il ricorso a un'immagine: εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ («simile a massa di ben rotonda palla»). 67 Il sostantivo ἦτορ era impiegato prevalentemente per animali, uomini, dei, quindi in senso non astratto: il suo significato sarebbe vicino a quello di θυμός, per veicolare l’idea di un’attività intellettuale emotivamente tonalizzata. In Omero il termine ἦτορ (insieme a κραδίη), come θυμός, sembrerebbe coinvolgere soprattutto la sfera degli affetti, dei sentimenti. È significativo che Parmenide opti di correlare Ἀληθείη a ἦτορ, la verità all’uomo che la deve conoscere (Stemich, op. cit., pp. 78-80): nella letteratura arcaica ἦτορ è piuttosto 99 [30] sia dei mortali le opinioni69, in cui non è reale credibilità70. connesso al corpo (Passa, p. 52). Il termine ἦτορ può indicare la «coscienza vigile» («un cuore di bronzo», in Omero), da cui la fermezza rilevata da Parmenide, ma anche la parte essenziale dell’uomo: in riferimento al Tutto, la «verità ben rotonda», compiuta, perfetta (Ruggiu, p. 199). R.B. Onians (The Origins of the European Thought, C.U.P., Cambridge 1951, p. 106) vi vede racchiusa «la sostanza della coscienza», cui è associata la sede del linguaggio. Questo può significare che all'espressione Ἀληθείης ἦτορ Parmenide intendesse far corrispondere la «sostanza conoscitiva e insieme linguistica del messaggio in esso [poema] contenuto» (Passa, p. 53). 68 L'aggettivo ἀτρεμές (letteralmente «che non trema»), variamente tradotto (per adeguarlo al contesto) come «intrepido» (Ferrari), «saldo» (Reale), «incrollabile» (Cerri, che rende però la formula ἀτρεμὲς ἦτορ come «il sapere incrollabile»), suggerisce immobilità, saldezza (e in questo senso lo ritroveremo annoverato tra i σήματα in B8.4). 69 Contrapposte alla Verità, la Dea propone βροτῶν δόξας («opinioni dei mortali»), insistendo sia sul tradizionale discrimine tra sapere divino e ignoranza umana, sia sulla opposizione tra «l’uomo che sa» (εἰδώς φώς, v. 3) e «i mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν B6.4): a dispetto dei mortali che non hanno conoscenza, il kouros deve conoscere tutto. Per connotare il punto di vista dei mortali, la dea (Parmenide) ricorre a un termine – δόξαι – che, a differenza del mero manifestarsi (φαίνεσθαι) e di una passiva registrazione empirica, implica giudizio e accettazione (ancorché affrettati e scorretti), opinione assunta attraverso una decisione, di cui, dunque, i «mortali» non sono vittime ma responsabili. In questo senso Couloubaritsis, per esempio, traduce con «considerazioni». È allora opportuno il rilievo di Conche (p. 66): Parmenide evita di contrapporre la sua verità a quella degli altri, un punto di vista ad altri alternativi. Il poeta, invece, è presentato come portavoce di una divinità anonima, scevra della soggettività dei mortali, impersonale: ella non è altro che la Verità stessa. Significativo l’accostamento a Eraclito: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50). Interessante il rilievo di Leszl (p. 37), in conclusione di un lungo esame della nozione di ἀληθεια: δόξα indicherebbe a un tempo l’opinione che abbiamo circa le cose e il modo in cui le cose si presentano a noi. 70 Il termine greco πίστις conserverebbe – secondo Heitsch (Parmenides, Die Fragmente, p. 95) – il valore di «prova, dimostrazione per credibilità o 100 Nondimeno71 anche questo72 imparerai73: come le cose accolte nelle opinioni74 fiducia» o semplicemente di «prova, dimostrazione» (Beweis) sia negli oratori attici, sia in Platone e Aristotele. Egli propone di utilizzare questo valore anche nel contesto di B1. Palmer (op. cit., p. 92) osserva, invece, come πίστις sia in questo passaggio impiegato con valore soggettivo, dunque nel senso di «trustworthiness»: tale (non genuina) «credibilità» si riferirebbe, tuttavia, non direttamente alle βροτῶν δόξαι, ma alla loro esposizione nel resoconto della Dea. 71 Come segnala LSJ, la formula ἀλλ΄ ἔμπης - composta da congiunzione avversativa (ἀλλά) e avverbio (ἔμπης) – è impiegata nel greco omerico come sinonimo di ὅμως (all the same, nevertheless, «nondimeno»), più tardi con valore più debole (at any rate, yet, «tuttavia, comunque»). Cordero (p. 32) osserva come la formula ἀλλ΄ ἔμπης sia utilizzata in Omero per introdurre una restrizione di senso rispetto a quanto appena enunciato: nel nostro contesto, dunque, secondo lo studioso argentino, la Dea intenderebbe sottolineare il fatto che, a dispetto della loro non-verità, il kouros dovrà essere informato sulle opinioni. La stessa convinzione era stata espressa da un altro grande interprete di Parmenide, Tarán: i vv. 31-32 del frammento «show the purpose that the goddess has in mind in asking Parmenides to learn the opinions of men in spite [rilievo nostro] of the fact that they are false» (p. 211). 72 Il pronome ταῦτα (letteralmente «queste cose») può indicare quanto precede immediatamente, quindi riferirsi alle «opinioni dei mortali», ovvero specificare ulteriormente πάντα («tutto», v. 28), riferendosi a quanto segue (in funzione prolettica rispetto a quanto introdotto con ὡς). La prima soluzione appare più naturale rispetto all'uso corrente, tuttavia è possibile la lettura dei due versi finali con un futuro programmatico (μαθήσεαι) e una proposizione dipendente introdotta per definirne gli obiettivi. In effetti, come nota Cerri, nell’uso corretto greco, per anticipare quanto segue sarebbe stato più naturale τάδε; ma, come dimostra M.C. Stokes (One and Many in Presocratic Philosophy, The Center for Hellenic Studies, Washington 1971, p. 302 nota 27) con paralleli in Erodoto, l'uso contemporaneo non escludeva un valore prolettico del pronome. Nella nostra lettura, la Dea, effettivamente, si riferisce ancora alle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), i cui contenuti («le cose accolte nelle opinioni», τὰ δοκοῦντα) intende riscattare: ταῦτα, quindi, a un tempo (e ambiguamente) evoca quel che precede, precisandone il senso, e introduce l’ultimo punto del programma della rivelazione (corrispondente alla seconda grande sezione del poema). 73 Il verbo μανθάνομαι ha il valore di «imparare per esperienza o studio» (analogamente a πυνθάνομαι), ma anche di «comprendere, discernere». 101 Patricia Curd (The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 113-4) ha marcato le differenti implicazioni semantiche rispetto al precedente πυνθάνομαι: πυνθάνομαι suggerisce che si raccolga informazioni e apprenda per esperienza, mentre μανθάνω suggerisce piuttosto apprendimento e comprensione acquisiti con un atto di giudizio. 74 Abbiamo scelto questa traduzione faticosa per τὰ δοκοῦντα, cercando di salvarne le implicazioni semantiche. L'espressione participiale τὰ δοκοῦντα indica le cose accettate nella opinione di qualcuno, ovvero che sono accolte nel giudizio di qualcuno. Non si tratta di punti di vista soggettivi, quanto del loro contenuto, delle cose cui ci si riferisce (che si manifestano) in quei punti di vista, delle cose (plurale), di quelle che sono dette anche τὰ ἐόντα (Ruggiu, p. 207). Cordero (p. 33) rende come «ciò che appare nelle opinioni», le cose che sembrano, che sono pensate, tra i mortali: il mondo come è visto dai mortali. Conche (p. 64) parla, a proposito di τὰ δοκοῦντα, di «correlati intenzionali (nel senso della fenomenologia) delle doxai». Mourelatos (p. 204), che ha scritto pagine illuminanti sul significato dei termini greci in radice dok-*, marca l’ambiguità del valore di τὰ δοκοῦντα: «le cose che i mortali ritengono accettabili», ma anche «le cose come i mortali [le] ritengono accettabili». Parmenide intenderebbe, insomma, suggerire che i termini con cui i mortali accettano o riconoscono le cose costituiscono l'identità propria dell’oggetto della accettazione dei mortali. Brague (Études sur Parménide, t. II, Problèmes d'interpretation, pp. 54-5) ricorda come in Simplicio ricorra la formula τὸ δοκοῦν ὄν, «l’essere apparente», «ciò che sembra [essere] ente» in contrapposizione a τὸ ὄν ἁπλῶς, «l’essere in senso pieno, assoluto». Una formulazione senza paralleli, che potrebbe quindi essere eco di una espressione autenticamente parmenidea. Couloubaritsis (op. cit., pp. 267 ss.), ribadendo il doppio registro semantico di τὸ δοκοῦν (τὰ δοκοῦντα) - in una direzione rivolto al discorso, in altra alla cosa - segnala il posteriore accostamento aristotelico (Confutazioni sofistiche, 33, 182 b38) di τὰ δοκοῦντα a τὰ ἔνδοξα e in genere la convergenza insistita in ambito peripatetico tra τὸ δοκοῦν ἑκάστῳ e τὸ φαινόμενον ἑκάστῳ. La specificità di τὸ δοκοῦν rispetto all'altro termine sarebbe tuttavia da rintracciare proprio nell'aspetto opinativo, nell'implicazione di un giudizio. Il nesso con δοξάζειν («considerare») si preciserà in relazione all'atto del nominare: è in quanto legata alla parola e all'imposizione di nomi, che la via della doxa viene sviluppata nel poema. In questo senso Couloubaritsis (op. cit., pp. 269-270) crede che l'espressione τὰ δοκοῦντα rimandi alle cose in quanto designate dai mortali piuttosto che da loro percepite. Più puntualmente: le cose che i mortali hanno designato per spiegare il mondo in divenire. 102 era necessario75 fossero effettivamente76, tutte insieme77 davvero esistenti78. 75 L’imperfetto χρῆν seguito dall’infinito può indicare un tempo reale del passato (pensando soprattutto all’origine delle erronee opinioni mortali e all'alternativa proposta esplicativa di Parmenide), ovvero un tempo irreale, del passato o del presente. Nel contesto, come segnala Robbiano (p. 180), la forma verbale può riferirsi a un requisito nel passato che o è stato o non è stato ottemperato. Ricordiamo che nel greco arcaico il verbo esprime piuttosto convenienza che necessità logica (quindi «è giusto, opportuno»). La concomitante presenza di δοκίμως rende, secondo noi, più logico pensare che Parmenide intendesse contrapporre alle «opinioni dei mortali» una prospettiva esplicativa alternativa e plausibile rivolta agli stessi oggetti di quell'opinare: questo passaggio del testo è colto efficacemente nella resa di Palmer (op. cit., p. 363): «Nonetheless these things too will you learn, how what they resolved had actually to be [...]». 76 L’avverbio δοκίμως è qui usato come complemento dell’infinito εἶναι: il predicato in effetti può essere espresso da un avverbio, facendo così assumere al verbo «essere» il suo valore pieno di esistenza. L’avverbio può tradursi sia con «plausibilmente», «accettabilmente» (Mourelatos, p. 204), sia con «realmente, genuinamente» (secondo l’uso eschileo). Rendendo l’imperfetto (χρῆν) come forma di irrealtà, si determina una costruzione ambigua, che afferma e nega a un tempo (come irreale) un’esistenza qualificata come reale ovvero plausibile. Ne deriva una sorta di gioco espressivo, del tipo rintracciabile nei frammenti di Eraclito (O’Brien, pp. 13- 4). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 43) cita in proposito DK 22 B28: δοκέοντα γὰρ ὁ δοκιμώτατος γινώσκει, φυλάσσει... (anche) l'uomo più considerato conosce e custodisce cose apparenti [ovvero opinioni]. Secondo lo studioso italiano, proprio la relazione tra τὰ δοκοῦντα e δοκίμως comporterebbe un «cortocircuito etimologico»: il participio sostantivato, con le sue potenzialità semantiche negative (parvenze), è coniugato con un avverbio dal significato positivo di accettabilità, plausibilità. δοκίμως deriva da δόκιμος («accettabile», «approvato», «stimato»); il verbo δοκιμάζω conferma il senso di «mettere alla prova» e «approvare»: l'avverbio ha dunque in sé implicite le sfumature di «come conviene» e di «realmente», «veramente». La sua radice indoeuropea *dek- evidenzierebbe il senso di adeguazione, conformità (Couloubaritsis, op. cit., p. 271). Accettando, invece, la vecchia lezione di Diels (δοκιμῶσ(αι) εἶναι), ripresa, tra gli altri, da Untersteiner e recentemente da Di Giuseppe, il senso di ὡς τὰ 103 δοκοῦντα χρῆν δοκιμῶσ(αι) εἶναι sarebbe: «come era necessario acconsentire (riconoscere) che le cose che appaiono ai mortali sono». 77 Traduco in questo modo il testo greco, intendendo διὰ παντὸς πάντα come una formula, secondo il suggerimento di Mourelatos (p. 204), il quale fa leva su paralleli testuali che vanno dalla letteratura ippocratica a quella platonica. Essi suggeriscono la traduzione «tutte [le cose] insieme» (all of them together), ovvero «tutte [le cose] continuamente». Sulla scorta dell’uso platonico (Repubblica, 429b-430b), Mourelatos (p. 205) propone di leggere in διὰ παντὸς il riferimento alle prove sopportate nel corso di una competizione. In alternativa si traduce διὰ παντὸς come «in ogni senso» (Tonelli), «in un tutto» (Cerri), «dappertutto» (Ferrari»), mantenendo autonomo il significato e la funzione di πάντα («tutte le cose»). 78 Si è dato notizia, in nota al testo greco, delle due lezioni (περ ὄντα e περῶντα) dei codici di Simplicio. Come ha giustamente fatto notare la Curd (op. cit., p. 114, nota 52), entrambe le letture rendono complessivamente lo stesso significato. Traduciamo ὄντα come participio e non come sostantivo (manca, in effetti, l’articolo τὰ), ricordando, tuttavia, come il termine, in Omero e Esiodo, designasse le realtà che esistono davvero e nei filosofi ionici l’oggetto della ricerca, la realtà permanente del mondo (Brague, pp. 61-2). 104 DK B2 εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν 1 ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας, αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι· ἡ μὲν ὅπως ἔστιν2 τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, Πειθοῦς 3 ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ 4 γὰρ ὀπηδεῖ -, [5] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών5 ἐστι μὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα6 ἔμμεν ἀταρπόν7 · οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν8 - 1 Coxon, invece di ἄγ΄ ἐγὼν (proposto come emendazione dei codici di Proclo da Karsten e accolto da Diels-Kranz e dagli editori posteriori), legge con i codici εἰ δ΄ ἄγε, τῶν («orsù, parlerò di queste cose»), difendendo la propria scelta con la consuetudine epica del genitivo di argomento in dipendenza da verba dicendi. La proposta di Karsten non solo è considerata più naturale dal punto di vista paleografico, ma valorizza anche l’opposizione ἐγώ - σύ, che nel testo pare significativa. La forma ἐγών riflette l'uso omerico, che dissimulava l'antico digamma perduto nel dialetto degli aedi ionici: per eliminare gli iati creatisi nella dizione, fu introdotto –ν nel testo omerico (Passa, p. 74 nota). Qui il –ν di ἐγὼν supplisce il digamma iniziale di ἐρέω. 2 Come segnala Cordero (N.L. Cordero, "Histoire du texte de Parménide", in Études sur Parménide, cit., t. II: Problèmes d'interprétation, p. 21), ἔστιν è correzione di Mullach: la tradizione manoscritta conserva ἔστι. Il codice moscovita W di Simplicio è l'unico a presentare la forma similare ἐστίν. Passa (p. 97) osserva come i sei casi, in Parmenide, di ἐστιν con ν efelcistico davanti a consonante rappresentino «una vistosa innovazione rispetto alla dizione omerica». 3 Come in casi precedenti, intendo Πειθώ come nome personale. 4 Seguiamo Gemelli Marciano (II, p. 14) nell'intendere il sostantivo greco maiuscolo. I codici di Proclo e Simplicio riportano ἀληθείη: ἀληθείῃ è proposta degli editori. 5 La formula χρεών ἐστι è tipica della prosa: nella tragedia e in Pindaro si trova solo l'uso assoluto dell'accusativo χρεών, nel senso di χρή (Passa, p. 79). 6 I codici di Proclo riportano παναπειθέα e παραπειθέα; quelli di Simplicio παναπευθέα, forma corretta, come rivela il confronto con Odissea III, 88. Secondo Passa (p. 38), è evidente che in questo caso Proclo cita a memoria. 7 Si tratta della forma ionica - ἀταρπός – dell'attico ἀτραπός (da τρέπω). 8 I codici di Proclo riportano ἐφικτόν («che si può raggiungere», da ἐφικνέομαι), quelli di Simplicio ἀνυστόν. La lezione di Proclo, che presenta paralleli in Empedocle (B133) e Democrito (B58, B59), ha una sua 105 οὔτε φράσαις· [vv. 1-8 Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; vv. 3-8 Simplicio, In Aristotelis Physicam 116-7; vv. 5b-6 Proclo, In Platonis Parmenidem, 1078, 4-5] plausibilità, ma la forma ἀνυστόν («che può essere compiuto») ha riscontri "eleatici" in Melisso (B2 e B7), e si trova ancora in Anassagora (B5). In questa occasione Proclo potrebbe nuovamente aver fatto ricorso alla citazione a memoria: il significato di οὐ ἐφικτόν è prossimo a quello di οὐ ἀνυστόν: «risultato che non si può raggiungere». 106 Orsù1, io dirò - e tu2 abbi cura3 della parola4 una volta ascoltata5 - 1 La formula εἰ δ΄ ἄγε per «orsù» è ampiamente attestata nell’epica, anche in relazione al pronome ἐγώ (Cerri – p. 187 - cita a esempio un verso formulare che ricorre identico in molti luoghi di Iliade e Odissea). 2 Il pronome personale «tu» (σύ) si riferisce al poeta\filosofo, cui la Dea si rivolge. Questa interpretazione dà continuità a B1 e B2. Untersteiner (p. LXXX) ipotizza, invece, che a parlare sia lo stesso Parmenide: alcune espressioni che ricorrono nei frammenti (in relazione ai «mortali») confermano la lettura tradizionale. 3 Il senso dell’imperativo aoristo κόμισαι è quello di ricezione e cura (come di cosa preziosa), forse anche di trasmissione (come vuole Mansfeld, pp. 95-6). Tonelli (p. 119) rende questo complesso di significati con «accompagna la mia parola». Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 135) recupera, invece, da Kingsley il senso di «take away» e traduce come «riporta con te». 4 Il termine greco è μῦθος, che nella lingua greca tarda significa (come il latino fabula) una narrazione meravigliosa, in origine indicava qualcosa di completamente diverso: la «parola», la parola che esprime ciò che è realmente, effettivamente accaduto, implicando quindi la dimensione della oggettività: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole (W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in W.F. Otto, Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 30-32). Parola, quindi, intesa non come termine isolato, ma come discorso, comunicazione di verità. Mourelatos (p. 94, nota) contesta la traduzione di Tarán («word»), preferendole nel contesto di B2.1 «account», quanto la Dea ha da dire, la sua comunicazione. In questo senso egli si appoggia a Omero, in cui il valore del termine è quello di «discorso», «pensiero» o «consiglio». Solo progressivamente, nell’uso post-omerico, il significato di «discorso» sarebbe sfumato in quello di «resoconto», finendo poi per indicare «mito». Anche alla luce di tale evoluzione, altri autori (Coxon, Robbiano, Curd) hanno preferito tradurre con «story». Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, C.U.P., Cambridge 2000, pp. 17-18) distingue tra l’uso di ἔπος per «parola» o genericamente «affermazione» e quello di μῦθος, che, come rivelerebbero alcune ricorrenze omeriche, si riferirebbe a un «authoritative speech act». In questo senso, di recente Couloubaritsis, nella nuova edizione del suo volume su Parmenide, ha insistito su una resa poco familiare ma attenta a conservare un aspetto essenziale del valore originario del termine greco: egli traduce (La pensée de Parménide,, Ousia, Bruxelles, 2008, p. 541) come «ma façon de parler autorisée». Una traduzione di compromesso potrebbe essere: «e tu abbi cura delle mie parole dopo averle ascoltate». 5 Tutto il verso ha una forte assonanza con Odissea XVIII, 129: 107 quali sono le uniche6 vie7 di ricerca8 per pensare9: τοὔνεκά τοι ἐρέω, σὺ δὲ σύνθεο καί μευ ἄκουσον Per questo io ti dico e tu ascolta e comprendi. 6 Il valore di μοῦναι è stato da alcuni interpreti relativizzato, intendendolo nel senso debole di «le sole legittime» (Conche, p. 76), da altri reso in senso forte, come se le «vie di ricerca» indicate costituissero le due sole possibilità per pensare (Cordero, p. 39). In effetti è difficile scindere il valore di μοῦναι dal successivo infinito e dal relativo significato. 7 È interessante segnalare come il termine ὁδός – che, nota Cerri (p. 60), ossessivamente ritorna nel versi parmenidei – non abbia solo il valore metaforico di metodo, cioè del percorso lungo il quale si sviluppa un’indagine per giungere alla verità: esso può suggerire anche l’idea di «direzione di vita», linea di condotta (Stemich, op. cit., p. 199), come è possibile riscontrare in Eraclito, letteralmente e metaforicamente (in riferimento al comportamento da assumere nella ricerca della verità). In Parmenide, tuttavia, nel ricorso a ὁδός prevarrebbe la suggestione di un peculiare metodo di pensiero e ricerca. La Stemich in questo senso indica (op. cit., pp. 200-1) una convergenza tra l’illustrazione parmenidea del metodo per giungere alla conoscenza dell’essere – inteso come via che conduce oltre l’ambito sensibile in un ambito metafisico - e il percorso di ascesi filosofica all'idea del Bello nel Simposio di Platone. 8 Coxon (p. 173) osserva come l’espressione ὁδοὶ διζήσιος occorra solo in Parmenide (e in un frammento orfico di dubbia congettura), forse per sottolineare la peculiarità della propria ricerca rispetto a quella ionica. Secondo Kahn (Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, p. 147) δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). Oggetto di investigazione è (B6-B8) l’essere (τὸ ἐόν), ovvero (B1.29 e B8.51) la realtà (ἀληθείη): «vie di ricerca», dunque, perché hanno come obiettivo la verità. Leszl (pp. 124-5) rileva come il verbo δίζημαι, corrente in Omero nel significato di ricercare una persona o cosa scomparsa, ovvero ricercare per identificare qualcuno, assuma il senso definito di indagare (e anche interrogare) in Eraclito e Erodoto. L’espressione δίζησις sottolineerebbe così che la ricerca riguarda qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. Secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 125) il termine suggerisce anche l’attiva partecipazione richiesta per l’indagine stessa. 9 Come puntualmente rileva Cordero (p. 40), l’infinito aoristo νοῆσαι ha valore di infinito finale o consecutivo, ma è spesso stato letto con valore passivo, come se εἰσι («sono») avesse a sua volta valore di possibilità («siano [possibili] da pensare», «logicamente pensabili»). La scelta del valore attivo 108 l’una10: [che11] è12 e [che] non è possibile13 non essere14 – comporta che sia più facile spiegare la presenza delle successive congiunzioni dichiarative (ὅπως, ὡς), che possono corrispondere alla attività di pensare («l’una per pensare che …», «l’altra per pensare che …»). È possibile inoltre trovare un riscontro nel poema Sulla natura di Empedocle, dove il frammento DK 31 B3.12 presenta costruzione analoga: ὁπόσηι πόρος ἐστὶ νοῆσαι («dove ci sia passaggio per conoscere»). O’Brien (pp. 153-4) fa dipendere invece νοῆσαι da μοῦναι ovvero dall’unità sintattica μοῦναι + εἰσι: «Je dirai quelles sont les voies de recerche, les seuls à concevoir». La Robbiano (op. cit., p. 82) valorizza l’ambiguità nell’espressione di Parmenide, e propone, di conseguenza, di accettare contestualmente entrambe le interpretazioni: quella che fa delle vie l’oggetto del νοεῖν (da pensare) e quella che fa del νοεῖν la meta delle vie (per pensare). Contro la resa attiva e finale dell’infinito le osservazioni di Sellmer (S. Sellmer, Argumentationsstrukturen bei Parmenides. Zur Methode des Lehrgedichts und ihren Grundlagen, Peter Lang, Frankfurt a.M. 1998, pp. 11-12), in particolare il problema dell’impraticabilità della seconda via per il pensiero. Contro la lettura potenziale di εἰσι νοῆσαι Kahn, Essays on Being, cit., p. 146, nota 4. Abbiamo reso νοεῖν genericamente con «pensare», ma – come suggerito da vari interpreti - si potrebbe scegliere una espressione più specifica, come «comprendere», o anche «afferrare», che ancora conservano traccia dell'originario valore di percezione mentale, capace di vedere in profondità e più lontano, nel tempo e nello spazio (su questo punto Mourelatos, pp. 68 ss.). Vero è che nei frammenti ci si riferisce a νόος (πλακτὸν νόον, B6.6) anche per designare una intelligenza offuscata, confusa: ciò potrebbe indicare che Parmenide non si senta vincolato a un uso di νοεῖν e derivati nel loro significato cognitivo più forte, che, a nostro giudizio, rimane, tuttavia, l'unico a giustificare l'alternativa che la Dea qui propone. Recentemente Palmer (op. cit., pp. 69 ss.), nel tentativo di mediare tra una resa generica e una più specifica, ha proposto understanding ovvero achieving understanding. Tonelli, invece, rende direttamente come «intuire», per la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, che implica un vedere che «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 10 L’indicazione delle «uniche vie» è introdotta (v. 3 e v. 5) dalla formula ἡ μὲν - ἡ δέ: si tratta di una alternativa ulteriormente delineata con coerente corrispondenza anche nella costruzione sintattica. 11 Consideriamo in questo contesto ὅπως e il successivo ὡς congiunzioni che introducono una dichiarativa (retta da un sottinteso: «per pensare» ovvero «che pensa», «che dice»). In questo senso, suggeriamo la possibilità di 109 di Persuasione15 è il percorso16 (a Verità17 infatti si accompagna) – leggere il verso come: «l’una: è e non è possibile non essere» (analogamente il v. 5: «l’altra: non è ed è necessario non essere»). L’uso di ὅπως e ὡς per introdurre le due vie sarebbe – secondo Chiara Robbiano (op. cit., p. 82) - illuminante: esso suggerisce che esse sono due modi di guardare alle cose, due prospettive: ὡς sarebbe, infatti, preferito a ὅτι quando si voglia accentuare una affermazione come opinione, ovvero introdurre qualcosa intorno a cui esistano opinioni differenti. Per la studiosa italiana (p. 83), insomma, ὅπως\ὡς, con le loro implicazioni avverbiali, servirebbero a esprimere uno stato di cose da una certa prospettiva, manifestando dunque il proprio punto di vista. Analogamente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 40), il quale rende in entrambi i casi con «secondo cui». 12 La terza persona singolare – ἔστιν - del presente di εἶναι, «essere», è qui resa letteralmente, senza decidere del suo valore (esistenziale, copulativo, veritativo), per conservarle tutte le sfumature. Tra i traduttori moderni, Tarán sceglie di renderla con «exists», Conche con «il y a», per sottolineare l’idea di presenza. In coerenza con il testo greco, non attribuiamo un soggetto al verbo, lasciandolo sottinteso: si rinvia al commento per un chiarimento. Coxon ricorda che l’omissione del pronome indefinito come soggetto sia ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore (p. 175). 13 Letteralmente ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι si potrebbe rendere come «che non [c’]è/esiste non essere», ovvero, sostantivando il μὴ εἶναι finale, «che il non-essere non è», cui corrisponderebbe, simmetricamente ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι: «che, come necessario, il non essere è». Ma, proprio considerando l’emistichio 5b (dove la traduzione «è necessario che… appare più naturale), optiamo per attribuire a ἔστι valore potenziale e considerare μὴ εἶναι come infinitiva: «che non è possibile non essere» (più ambigua), ovvero «che non è possibile che non sia». Si tratta, in ogni caso, di un passaggio controverso, anche per le sue implicazioni logiche, per le quali è molto lucida l’analisi di Leszl (pp. 131 ss.). 14 La nostra traduzione è vicina a quella di Heitsch: «Der eine, (der da laPomba) “es ist, und Sein ist notwendig”». Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai. Ontologie, Théologie, Cosmologie, Kimé, Paris 2012) rende: «Le premier chemin énonçant: est, et aussi: il n’est pas possible de ne pas être». 15 Come divinità, Persuasione è nella cultura arcaica (Pindaro) collegata ad Afrodite, alla dea dell'Amore, in quanto esercita fascinazione e seduzione. È dunque originale e significativa la connessione stabilita da Parmenide, in apertura della comunicazione divina, tra Πειθώ e Ἀληθείη: nel suo caso i legami persuasivi saranno il risultato del rigore e della coerenza logica 110 [5] l’altra: [che] non è e [che] è necessario18 non essere19. Proprio20 questa ti dichiaro21 essere sentiero22 del tutto privo di informazioni23: impliciti nella affermazione appena introdotta:«è e non è possibile non essere». 16 Il termine κέλευθος viene da Coxon distinto da ὁδός come il «viaggio» lungo la «via», contribuendo in questo modo a determinare successivamente (Platone) la nozione di μέθοδος, e di filosofia appunto come viaggio (p. 174). 17 Abbiamo già segnalato in nota a B1, come nel poema ἀληθής (e ἐτήτυμος) significhino «reale» e ἀληθείη «realtà». Heitsch (p. 97) argomenta a favore di una resa più esplicita, che ricava dai contraddittori caratteri negativi di μὴ ἐὸν (verso 7): egli traduce, infatti, con «evidenza» (Evidenz). Palmer ricorre a una formula inequivocabile: «true reality». Pur concordando che la Dea si riferisce alla realtà, insistiamo nel tradurre con il nostro «verità» e con la maiuscola, intendendo Verità come entità divina. In ogni modo, come nel linguaggio omerico, anche in Parmenide il contrario di ἀληθείη non sarà il falso, indicato da ψεῦδος o ψεύδεσθαι, ma l'assenza di ἀληθείη, la mancata manifestazione della realtà (su questo Germani, op. cit., pp. 183-4). 18 Colleghiamo, come appare naturale, l’espressione greca χρεών al verbo ἔστι, traducendo con «è necessario», conservando il valore modale. Come segnala Leszl (p. 136), χρεών può stare da solo, inteso come un participio (χρή ἐόν), che, preceduto da ὡς, assume valore avverbiale: ὡς χρεών potrebbe essere dunque inciso avverbiale in una frase il cui significato complessivo non sarebbe modale («come conveniente»). Il termine è usato nella cultura greca arcaica (e non) in espressioni come κατὰ τὸ χρεών (Anassimandro DK 12B1: «that which must be» secondo LSJ), ma per lo più nell'espressione χρεών [ἐστι] con il significato di χρή («è necessario»). 19 Considerato μὴ εἶναι come infinito sostantivato e interpretato ὡς χρεών avverbialmente, la traduzione del secondo emistichio potrebbe essere: «e, come conveniente, il non-essere è». Si tratta di una possibilità, che suona tuttavia piuttosto improbabile. Così come la traduzione proposta da Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 137-8): «l'una (via) secondo cui è lecito e non è possibile che non sia lecito... l'altra secondo cui non è lecito ed è necessario che non sia lecito». Coerentemente con la scelta del v. 3, Heitsch traduce: «Der andere, (der da laPomba) “es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig”»; Frère (J. Frère, Parménide ou le Souci du Vrai…, cit.) rende: «L’autre chemin énonçant: n’est pas, et aussi: il est nécessaire de ne pas être». 20 Traduciamo avverbialmente la particella δή, che molti decidono di non rendere ovvero di rendere come congiunzione («e») per marcare una 111 poiché non potresti conoscere ciò che non è24 (non è infatti cosa fattibile25), né potresti indicarlo26. transizione nel discorso della Dea. In effetti, δή è frequentemente posposto a un pronome (nel nostro contesto τὴν con funzione pronominale), con il risultato di accentuare il rilievo nella frase. 21 Coxon osserva che il verbo φράζω, che in epica significa «indicare, evidenziare», è usato da Parmenide con oggetto diretto o accusativo e infinito nel senso (poi regolare) di «spiegare» (p. 177). 22 Il termine ἀταρπός è contrapposto a ὁδός e κέλευθος, impiegati in B1 (vv. 2 e 11) e qui ai vv. 2 e 4: mentre in B1.21 eravamo informati del fatto che il poeta viaggiava κατ΄ ἀμαξιτὸν «lungo la via maestra», in questo passaggio, accennando alla seconda via, Parmenide ricorre a un’espressione che veicola l'idea di sentiero, tracciato secondario, scorciatoia. 23 L’aggettivo παναπευθής può indicare – attribuendogli senso passivo - ciò che è del tutto ignoto, ovvero, in senso attivo, appunto «ciò che è del tutto privo di informazioni», ovvero «imperscrutabile» (Tonelli p. 119), come la via che pensa che «non è». Si tratta, nell'economia del discorso divino (e del poema), di un punto essenziale: la seconda via delineata non è proposta come «falsa», non è scartata come follia (non è prodotto di un πλακτὸς νόος, come si sottolinea in B6.6 a proposito della presunta ὁδος διζήσιός «inventata» da coloro che sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν); di essa si afferma che è sentiero lungo il quale non si possono raccogliere informazioni, che non può manifestare la realtà, come chiarisce immediatamente il verso successivo. 24 L’espressione τό μὴ ἐὸν si potrebbe rendere anche come «il non essere». Secondo Coxon (p. 177) essa si riferisce al soggetto della seconda via, di «non è», come manifestato in B6.2 dall’uso del pronome indefinito μηδέν (nulla). In effetti l'espressione τό μὴ ἐὸν è introdotta a giustificazione della dichiarazione del verso precedente, dunque per identificare il presunto contenuto della seconda via, necessariamente priva di informazioni. 25 L’aggettivo verbale ἀνυστόν è attestato in Simplicio: con la precedente negazione (οὐ), il valore – da ἀνύω («fare, compiere») - è quello di cosa che non è possibile compiere. Nel suo commento (p. 220), Ruggiu sottolinea come il valore di οὐ ἀνυστόν sia prossimo a quello del termine ἀμηχανίη: esprime una impossibilità che scaturisce da ontologica impotenza. Mourelatos (p. 100) insiste sull'idea di impraticabilità che οὐ ἀνυστόν porta con sé: «that which cannot be consummated». 26 La traduzione di φράζω con «indicare» vuol rendere il senso di «manifestare in segni» (anche a parole): ciò che non è non può rendersi (e essere reso) manifesto attraverso tracce, come saranno i σήματα dell’ἐόν in B8. 112 Mourelatos (p. 76) segnala che φράζω è impiegato nell’Odissea all’interno del motivo del viaggio, in riferimento al gesto di una guida che mostri a un viaggiatore il luogo o il percorso della sua destinazione. Si potrebbe rendere οὔτε φράσαις, restringendo il campo semantico del verbo, con «né potresti parlarne». 113 DK B3... τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν1 τε καὶ εἶναι. [Clemente Alessandrino, Stromata VI, 2.23 (II, 440); Plotino, Enneadi V, 1.8; V, 9.5; Proclo, In Plat. Parm. 1152, Theologia platonica I, 66 (ed. Saffrey, Westerink)] 1 Il codice di Clemente riporta ἐστί; il testo di Plotino, in due luoghi diversi, ἐστί e ἔστι. ἐστίν è correzione degli editori. 114 La stessa cosa, infatti, è1 pensare2 ed essere3. 1 Zeller, seguito da Burnet, Cornford, Raven e altri, rende i due infiniti come dipendenti da ἔστιν (non ἐστίν) con valore potenziale (analogamente a B2.3: εἰσι νοῆσαι), quindi con «denn dasselbe kann gedacht werden und sein». Tarán, che accetta il suggerimento di Zeller, rende con «for the same thing can be thought and can exist». Anche per O’Brien (pp. 19-20) i due infiniti sono complementi del pronome (τὸ αὐτὸ) o dell’unità sintattica pronomeverbo. Quest’uso completivo dell’infinito (νοεῖν) ammetterebbe che lo si traduca come un passivo o equivalente: «C'est en effet une seule et même chose que l'on pense et qui est» («For there is the same thing for being thought and for being»). Il fatto che, optando per questa soluzione interpretativa, il soggetto di uno dei due infiniti (εἶναι) diventi oggetto dell’altro (νοεῖν), non rappresenterebbe un problema, essendo già attestato nei poemi omerici. È un fatto, comunque, come osserva Conche (op. cit., p. 89), che Parmenide ha scritto νοεῖν e non νοεῖσθαι. D’altra parte, seguendo Plotino, la resa «più fedele» (Heitsch, p. 144), il senso «ovvio» del greco (Conche, p. 89) sarebbe «pensare ed essere sono la stessa cosa», con τὸ αὐτὸ predicato, νοεῖν e εἶναι soggetti della frase. Un’alternativa sensata, che tiene conto di analoghe costruzioni nei frammenti sopravvissuti e soprattutto del senso dei vv. 34-36a di B8: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν è quella di Coxon («for the same thing is for conceiving as is for being»), variata nella recente resa di Palmer (op. cit., p. 122): «for the same thing is (there) for understanding and for being». 2 Secondo Cerri (p. 194), qui per la prima volta νοεῖν assumerebbe il significato specifico di «capire razionalmente», significato che, tuttavia, non si può regolarmente attribuire a νοεῖν (e νόος) nei frammenti. In una sua classica ricerca filologica, von Fritz (K. von Fritz, “Νοῦς, νοεῖν and Their Derivatives in Presocratic Philosophy (Excluding Anaxagoras). I: From the Beginnings to Parmenides”, «Classical Philology» 40, 1945, pp. 223-242) osserva come νοεῖν in Omero significhi «comprendere una situazione» e come questo valore sia ancora presente nel poema di Parmenide, indicando qualcosa di diverso da un processo di deduzione logica: sarebbe ancora sua funzione primaria essere in contatto con la realtà ultima (p. 237). Abbiamo sopra ricordato come Tonelli renda νοεῖν come «intuire», cogliendo la continuità tra il verbo greco e l'intueor latino, nella percezione che 115 «attraversa e penetra l'oggetto di conoscenza [...] facendosi tutt'uno con esso» (p. 118). 3 Gallop (p. 8) e Heitsch (p. 144) osservano che, sebbene la continuità di B3 con B2 sia incerta, metricamente B3 costituirebbe con B2.8 una perfetta linea di testo. Calogero (op. cit., pp. 22-23) aveva in effetti già proposto di leggere B3 come prosecuzione di B2, integrando il testo tràdito in questo modo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· [B2.7-8] τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι < ὅσσα νοεῖς φάσθαι >, Ché quel che non è non lo puoi né pensare né dire: pensare infatti è lo stesso che dire che è quel che pensi!. 116 DK B4 λεῦσσε δ΄ ὅμως1 ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει2 τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. [vv. 1-4 Clemente Alessandrino, Stromata V, 2 (II, 335); v. 1 Proclo, In Platonis Parmenidem 1152; Teodoreto, Graecarum Affectionum Curatio I, 72 (22); v. 2 Damascio, Dubitationes et Solutiones de Primis Principiis in Platonis Parmenidem I, 67] La proposta e l'integrazione sono state poi ancora rilanciate da Giannantoni. 1 Due codici di Teodoreto con la citazione di Clemente riportano ὁμῶς («ugualmente») in vece di ὅμως. Tra gli editori moderni solo Hölscher e Untersteiner preferiscono quella lezione. 2 I manoscritti di Clemente riportano ἀποτμήξει, quelli di Damascio ἀποτμήσει: ἀποτμήξει sarebbe effetto di una atticizzazione del testo parmenideo, probabilmente antica (come evidenziato dall'unanimità dei manoscritti). Secondo Passa (pp. 34-5), come avevano colto gli editori ottocenteschi che correggevano ἀποτμήξει in ἀποτμήξεις, la forma verbale corretta sarebbe quella della seconda persona singolare del futuro medio (ἀποτμήξῃ) nella probabile trascrizione di un esemplare attico. 117 Considera1 come cose assenti 2 siano comunque3 al pensiero4 saldamente5 presenti6; 1 Il verbo λεῦσσω è già impiegato da Omero (Couloubaritsis, pp. 336-7) per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente: capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento, contrapposto alla precipitazione dei giovani. Molti traduttori optano per una resa che ne accentui il valore percettivo: «osserva», «guarda». Etimologicamente, d’altra parte, il verbo deriva dall’aggettivo λευκός, che nel linguaggio omerico significa «chiaro», «limpido»: porta con sé, dunque, l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza, come nell’italiano «chiarire», «rischiarare». 2 Ovvero «cose lontane». Il verbo ἄπειμι, come il successivo πάρειμι, ha un valore a un tempo materiale e mentale, indicando la distanza (πάρειμι la vicinanza) nel tempo e nello spazio. Manteniamo in traduzione un senso indefinito. 3 Traduciamo così la congiunzione ὅμως: nelle varie versioni, il suo valore oscilla tra l’avversativo e il concessivo, secondo i contesti. Dal momento che è possibile legare il termine sia al verbo iniziale, sia a ἀπεόντα, Ruggiu (p. 238) suggerisce che la collocazione sia intenzionalmente polisignificante, secondo lo stile attestato anche in Eraclito. 4 A chi debba essere immediatamente riferito il dativo νόῳ è oggetto di discussione: è possibile infatti accostarlo direttamente a lεῦσσε, nel senso di «chiarisci con intelligenza\intendimento», ovvero lasciarlo legato a παρεόντα, sottolineando come il nesso ἀπεόντα-παρεόντα dipenda dalla visione dell’intelligenza: l’espressione νόῳ παρεῖναι avrebbe appunto il valore di «essere presente alla mente, allo spirito». 5 L’avverbio βεϐαίως (saldamente) può essere collegato direttamente al verbo, come suggerisce Coxon (p. 188): «gaze steadily with your mind…». Lo studioso giustifica la proposta per il parallelo con il verso di Empedocle DK 31 B17.30: τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Guardala con intelligenza, non restare con sguardo esterefatto. La collocazione dell’avverbio fa pensare tuttavia a un rapporto stretto con παρεόντα, di cui esprimerebbe il modo d’essere, la solidità, la permanenza. L’avverbio veicola infatti l’idea di stabilità, ma anche quella di costanza e lealtà. Robbiano (op. cit., p. 130) rileva la connessione con ἀτρεμὲς ἦτορ 118 non impedirai7, infatti, che l’essere8 sia connesso all’essere, (B1.29): βεϐαίως esprimerebbe l’attitudine dell’uomo che ricerca sulla via della verità; un modo di guardare, ma anche un modo d’essere. 6 Ovvero «prossime». Sulla struttura del verso (lεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως) ha richiamato di recente l’attenzione Graham (Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006, p. 151), il quale ne ha rilevato la struttura a chiasmo, che ricorderebbe quella di alcuni frammenti eraclitei, per esempio DK 22 B25: μόροι γὰρ μέζον ε ς μ έ ζ ο ν α ς μ ο ί ρ α ς λ α γ χ ά ν ο υ σ ι destini di morte più grandi ottengono sorti più grandi. 7 La forma verbale ἀποτμήξει può essere terza persona singolare del futuro indicativo attivo (così intendono per lo più gli editori moderni, sottintendendo νόος come soggetto), ovvero, considerando la probabile atticizzazione del testo parmenideo, come forma (attica appunto) della seconda persona singolare dell’indicativo futuro medio: «tu non impedirai…». Secondo Passa (pp. 34-5) sarebbe questa, in coerenza con analoghe espressioni del poema (εἶργε, «allontana» B7.2b; μάνθανε, «impara» B8.52; εὑρήσεις, «troverai» B8.36), l'interpretazione corretta del passo. 8 Traduciamo il participio ἐόν preceduto dall’articolo (τὸ ἐόν) come «l’essere», senza articolo come «ciò che è»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la formula con articolo è più astratta. Come nota Cordero (By Being, It is, cit., p. 169), Parmenide molto raramente usa l’articolo τò davanti al participio ἐόν; in effetti participio senza articolo cattura più precisamente il carattere dinamico della presenza denotata da ἐστί: «essendo, è». Il problema della traduzione del termine è comunque complesso: Heidegger (M. Heidegger, Was heisst Denken, Niemeyer, Tübingen 1954, p. 133) richiamò l’attenzione sul duplice valore di questo participio: nominale (ciò che è) e verbale (l’Essere di ciò che è), per sostenere la tesi che già con Parmenide la filosofia sarebbe scivolata nell’oblio dell’Essere, non riuscendo a mantenere distinti i due valori, confondendo quindi Essere e enti. Di recente Thanassas (pp. 44-5) ha insistito sul fatto che Parmenide avrebbe impiegato ἐόν esclusivamente in senso verbale, come equivalente semantico di ἐστί. Il rischio di intendere il participio nel valore nominale sarebbe quello di riconoscerne implicitamente l’esistenza come unico ente, negando dunque la pluralità del mondo. Il che sarebbe contraddetto dall’uso frequente di plurali (ἐόντα) nella sezione sulla Ἀληθείη (B4.1-2, B8.25, B8.47-8). L’identità semantica e la sinonimia tra ἐόν e ἐστί sarebbe inoltre 119 né disperdendosi9 completamente10 in ogni direzione per il cosmo11, né concentrandosi. confermata da Parmenide nel poema stesso (B6.1-2). Thanassas sostiene che ἐόν possa identificarsi estensionalmente con la totalità degli enti che appaiono; intensionalmente (dal punto di vista del suo contenuto concettuale), invece, ἐόν sembrerebbe distinto da essa: il suo significato verbale, insomma, non si limiterebbe ad abbracciare la totalità degli enti, ma farebbe del loro Essere il proprio obiettivo. 9 Il participio σκιδνάμενον, come il successivo συνιστάμενον, si riferisce a τὸ ἐόν. 10 La funzione dell’avverbio πάντως (interamente, completamente) sarebbe, in congiunzione con l’altro avverbio πάντῃ (dappertutto, ovunque), quella di intensificarne valore spaziale. 11 L’espressione κατὰ κόσμον appare come uno dei più antichi passi presocratici in cui il termine κόσμος assume il valore di «ordinamento del mondo», «cosmo» (Cerri, p. 199). Tarán, tuttavia, contesta che la nostra espressione possa tradursi (così come abbiamo fatto) con un complemento di moto «nel mondo» (o «per il mondo»), preferendo renderla letteralmente come «in order», con il significato, dunque, di conformità a un ordine. Analogamente la Stemich (p. 190) sottolinea come dalla Dea il kouros sia chiamato a non alterare l’essere «secondo l’ordine delle cose», attribuendo quindi alla formula valore normativo. Coxon sottolinea il precedente omerico, traducendo «in regular order». Noi preferiamo attribuirgli il valore cosmico, considerando κατὰ κόσμον insieme alla forma avverbiale precedente (πάντῃ πάντως). 120 DK B5 ξυνὸν δέ μοί ἐστιν, ὁππόθεν1 ἄρξωμαι· τόθι γὰρ πάλιν ἵξομαι αὖθις. [Proclo, In Platonis Parmenidem 708] 1 La forma ὁππόθεν è correzione degli editori: i codici di Proclo riportano ὅπποθεν. 121 Indifferente1 è per me da dove cominci, dal momento che là, ancora una volta, farò ritorno. 1 Bicknell (“Parmenides, DK 28 B5”, «Apeiron», 13, 1979, pp. 9-11) ha proposto di tradurre ξυνὸν come «a basic point»: «It is a basic point from which I shall begin: I shall come back to it repeatedly». Collocando il frammento subito prima di B2, il senso complessivo effettivamente è assicurato e, come è stato notato (Gallop, p. 37), suggestivo. Difficile però avere un riscontro della traduzione proposta per ξυνὸν. 122 DK B6 χρὴ τὸ λέγειν τò1 νοεῖν τ΄ ἐὸν 2 ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν· τά σ΄ ἐγὼ 3 φράζεσθαι ἄνωγα. πρώτης γάρ σ΄4 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος †... † 5, 1 I codici di Simplicio riportano unanimente τό; nel 1835 Karsten congetturò invece τε νοεῖν, ripreso poi da Diels. Il testo corretto, dopo la riscoperta a opera di Tarán e la ripresa da parte di Cordero, è tuttavia accolto solo da una minoranza di editori contemporanei. 2 I codici D e E di Simplicio riportano τὸ ὂν, il codice F τεὸν: τ΄ ἐὸν è correzione degli editori. 3 Il testo greco in DK è τά σ΄ ἐγὼ, secondo la lezione di Bergk. Cordero (pp. 101-2) preferisce la versione del codice D di Simplicio (considerato il più affidabile dallo stesso Diels 1897): τά γ΄ ἐγὼ. Il codice E riporta: τοῦ ἐγὼ; il codice F: τά γε. 4 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 5 La tradizione manoscritta presenta a questo punto una lacuna: la proposizione manca del verbo. Congettura Diels, tradizionalmente accettata: εἴργω («tengo lontano», «distolgo»), sulla scorta di B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα - «ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero»). Congettura Mourelatos: εἷργον («tenevo lontano»), in riferimento al rifiuto della seconda via di B2. Congettura Cordero: ἂρξει («comincerai»). Congettura Nehamas: ἂρξω («comincerò»), ripresa di recente anche da Patricia Curd, che la preferisce alla precedente in quanto mantiene il baricentro del discorso sulla divinità, coerentemente con gli altri versi del poema. La Curd insiste in particolare sul parallelismo con i versi B8.50-52: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare. L’espressione «pongo termine» corrisponderebbe a «comincerò per te» appunto di B6.3, così come «da questo momento in poi» a «da questa via di ricerca». A più riprese (cominciando da B1.28-30) la dea sarebbe ritornata sulla 123 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν [5] < πλάσσονται > 6, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν 7 νόον· οἱ δὲ φοροῦνται κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος. [vv. 1-2a Simplicio, In Aristotelis Physicam 86; vv. 1b-9 Simplicio, In Aristotelis Physicam 117; vv. 8-9a Simplicio, In Aristotelis Physicam 78] propria strategia, enunciando i suoi principi fondamentali (B2), ribadendoli (B6.3-4) e ricontestualizzando la propria esposizione in B8.50-52 (Curd, The Legacy of Parmenides, cit., p. 58). Tarán, che pur accetta la congettura Diels, suppone una lacuna successiva, tra i versi 3 e 4. 6 La tradizione manoscritta di Simplicio riporta πλάττονται, dichiarato corrotto in apparato da Kranz. In effetti πλάττονται sarebbe, secondo Cordero e Cerri (p. 210), atticizzazione (intervenuta nella tradizione manoscritta stessa) di πλάσσονται, da πλάσσομαι («mi invento»). Dello stesso avviso O'Brien e Gemelli Marciano (II, p. 82). Coxon (p. 183) sostiene la derivazione (per corruzione) da πλάζονται («vagano»). Diels fa della espressione una corrutela medievale di πλάσσονται, variante dialettale di πλάζονται, utilizzato nel poema (e in altri autori) per indicare sbandamento intellettuale, errore. Una recente messa a punto della questione testuale si trova in Passa (pp. 104 ss.), il quale ha con acribia sostenuto, su basi parzialmente diverse, la soluzione dielsiana con precoce corruzione di πλάσσονται in πλάττονται. Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 47 nota) ha contestato tale ricostruzione, preferendo tornare alla vecchia correzione πλάζονται, coerente con πλακτὸν νόον e φοροῦνται (v. 6). Accogliamo la correzione πλάσσονται, pur considerando l'emendazione πλάζονται, come sinteticamente insegna Ferrari, una valida alternativa. 7 I codici DE di Simplicio riproducono πλακτὸν, il codice F πλαγκτὸν, forma preferita da diversi editori (Coxon, O'Brien, Conche, Cerri, Gemelli Marciano, Palmer). 124 Dire e pensare1: «ciò che è è2 », è necessario3; essere4 è infatti possibile, 1 Accogliendo la restituzione del testo originale di Simplicio proposta da Cordero (su indicazione di Tarán), abbiamo qui due infiniti (λέγειν, νοεῖν) introdotti da τό, da intendere: (i) come articolo determinativo (sarebbe allora più corretto rendere con «il [fatto di] dire e il [fatto di] pensare»), ovvero (ii) come pronome dimostrativo («dire questo e pensare questo»). Nella nostra traduzione abbiamo seguito la prima soluzione: i due infiniti articolari costituiscono soggetto congiunto del quasi impersonale χρή, come suggerisce Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 111; ma si devono registrare le riserve di Cassin, p. 146). Costruzioni alternative: (a) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è il loro articolo e ἐόν il loro complemento oggetto («è necessario che dire e pensare ciò che è sia»): così, per esempio, Fränkel e Untersteiner. Una variante interessante è quella sostenuta da Tarán e Cordero (Les deux chemins de Parménide, Vrin, Paris 1984, pp. 111-2): essi suppongono la costruzione χρὴ εἶναι (ἔμμεναι) τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν («è necessario dire e pensare ciò che è». Cordero, tuttavia, nella revisione (2004) della sua opera, traduce diversamente: «It is necessary to say and to think that by being, it is». (b) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui λέγειν e νοεῖν sono soggetti; τό è articolo e ἐόν nome del predicato di ἔμμεναι («dire e pensare è necessario che siano un essere»): così, per esempio, Diels (1897), Heidel, Verdenius. Coxon (pp. 181-2) sostiene l'uso predicativo di ἐόν, supportandolo con paralleli (ἐὸν εἶναι) in autori influenzati da Parmenide (Gorgia, Leucippo, Platone, Aristotele). La sua traduzione (che accoglie il testo emendato da Karsten) è, di conseguenza: «it is necessary to assert and conceive that this is Being». Soggetto della proposizione sarebbe τό, pronome (che Coxon riferisce a τὸ αὐτὸ di B3). (c) χρή regge direttamente ἔμμεναι, di cui τό...ἐόν è soggetto, da cui dipendono λέγειν e νοεῖν («ciò che è da dire e pensare è necessario che sia»): così, tra gli altri, Burnet e Raven. 2 Traduciamo ἔμμεναι con «essere», per mantenere l'ambiguità che a nostro avviso caratterizza il testo, attribuendogli tuttavia valore decisamente esistenziale. 3 L’impersonale χρή è formula di necessità ma anche di opportunità: il valore del vincolo implicato può variare in intensità, dal necessario, al corretto, all’opportuno. Ha insistito su questo punto Patricia Curd (1998, p. 53), 125 il nulla5, invece, non è6. Queste cose7 io ti esorto a considerare8. riducendo così l’impianto modale dei primi due versi del frammento. Ma il nesso con B2 suggerisce la forma di necessità. 4 Nel caso di B6.1b, l'impegno per l'interprete è doppio. Si ripresenta infatti il problema di traduzione di ἔστι e si aggiunge quello della traduzione dell’infinito εἶναι in questo contesto: si tratta di due problemi correlati. Se, come scelgono di fare alcuni traduttori, si considera εἶναι come infinito sostantivato, soggetto di ἔστι, avremmo: «l'"essere" esiste» (Cerri); «infatti l'essere è» (Reale), «denn Sein ist» (Kranz), «for there is Being» (Tarán). Analogamente intende la Germani (op. cit., p. 191). Questa lettura potrebbe essere avvalorata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι (Cordero, Les deux chemins de Parménide, cit., p. 24). Nel caso si accolga tale soluzione, in 6.1b-6.2a avremmo la piena esplicitazione dei soggetti delle vie di B2.3 e B2.5: rispettivamente εἶναι e μηδὲν. Per certi versi questa traduzione appare naturale, sebbene non risulti del tutto perspicuo l'uso di γὰρ, a meno di privarlo del suo valore esplicativo per riconoscergli una funzione confermativa. Se, invece, si intende εἶναι come infinito retto da ἔστι, allora è naturale attribuire a questo valore di possibilità (che sembrerebbe dare un senso alla particella γάρ). Alcuni sottintendono ἐὸν come soggetto, traducendo: «solo esso infatti è possibile che sia» (Pasquinelli); «For it is for being» (Coxon); «è possibile, infatti, che sia» (Giannantoni); «perché può essere» (Tonelli, Ferrari). Altri, come O'Brien e Cordero, optano per una formula impersonale: «car il est possible d'être»; «for it is possibile to be». 5 Secondo Coxon (p. 182) μηδέν conserverebbe in questo caso il suo significato più stretto, quello di «non una cosa». L’intera frase, dunque, asserirebbe che ciò che non ha essere, non è per niente una cosa. Kranz (in apparato) riteneva che μηδέν equivalesse a μὴ ἐόν (citando in questo senso B8.10: τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 46 nota) considera possibile un rimando al non-essere, intendendo la lezione (corrotta) del codice greco di Simplicio (Phys. 117) come μὴ δ’ ἐόν. 6 Anche in questo caso conserviamo l'ambiguità dell'«essere», intendendolo comunque in senso esistenziale: la necessità di affermare l’esistenza dell’essere sarebbe giustificata incrociando la possibilità dell’essere e l'inesistenza del nulla. Guthrie decide di attribuire al verbo essere nell’intera formula valore di possibilità: «for it is possible for it to be, but impossible for nothing to be». Analogamente Mansfeld: «denn dieses (sc. Das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». O’Brien (p. 27) è convinto che i due indicativi ἔστι e οὐκ ἔστιν abbiano valore potenziale, con l’infinito in funzione completiva, e suppone un secondo infinito per completare l’espressione negativa μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «il n’est pas possible 126 Per prima, infatti, da questa via di ricerca 9 ti 10, e poi da quella11 che appunto12 mortali che nulla sanno13 (οὐκ ἔστιν) que (εἶναι) ce qui n’est rien (μηδὲν)». L’alternativa, seguita da alcuni, è quella di rimanere fermi, in entrambi i casi, al valore esistenziale, affermando (Tarán): «for there is Being, but nothing is not». È possibile, tuttavia, attribuire senso potenziale a ἔστι e senso esistenziale alla negazione οὐκ ἔστιν, come fanno Cordero (2004) e, seguendo Colli, Tonelli, a dispetto delle obiezioni di O’Brien, che ritiene improbabile la soluzione. Per conservare il senso modale di B2.3, Palmer (p. 113) propone di considerare ἐόν unico soggetto sottinteso di B6.b-2a (ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), e rendendo μηδέν con valore predicativo: «(What is) is to be, but nothing it is not». Letteralmente più aderente al greco la traduzione senza articolo: «nulla [ovvero niente] non è». 7 Il pronome τά (accusativo neutro plurale) difficilmente può essere riferito esclusivamente al contenuto dei vv. 1-2a: è invece probabile che esso alluda a quanto seguiva B2 precedendo immediatamente B6, cioè la esclusione della via «che non è e che è necessario non essere» come effettivo percorso di indagine. 8 La formula τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα è mutuata da Omero ed Esiodo: richiama l’attenzione sull’esclusione della via «che non è e che è necessario non essere». 9 Concordiamo con Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 49) nel considerare questo riferimento alla «prima via di ricerca» (πρώτη ὁδός διζήσιος) vincolato alla discussione di cui B6.1-2a costituisce la conclusione, e che doveva vertere sul non-essere. Si tratta della discussione cui allude Simplicio nel contesto della citazione di B8.1-52: ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν Le cose stanno in questo modo dopo l'eliminazione del non essere. Per evitare confusione, alcuni traduttori hanno fatto ricorso a costruzioni meno ambigue: «this is the first way of inquiry from which I hold you back» (Kirk-Raven-Schofield); «Questa è la via di ricerca da cui ti distolgo per prima» (Cerri); «Questa è la prima via di ricerca da cui ti tengo lontano» (Tonelli). Come quella che proponiamo, si tratta di soluzioni interpretative, che indubbiamente forzano la resa più naturale. In ogni caso, per rimanere più aderenti alla costruzione greca, abbiamo considerato πρώτης in funzione predicativa. 10 Manteniamo, pur con prudenza, la congettura Diels. 127 [5], uomini a due teste14: impotenza15 davvero nei loro petti16 guida la mente errante17. Essi sono trascinati18, 11 Il compemento ἀπὸ τῆς riferisce il pronome a ὁδοῦ διζήσιος: questo porta Coxon a concludere che nel contesto Parmenide si riferisca a filosofi, ricercatori. 12 Normalmente si lascia cadere in traduzione δή, che pure, seguendo un pronome relativo, ne enfatizza la posizione nella frase. L'uso nel contesto potrebbe alludere alla discussione che precede B6. 13 L’espressione greca βροτοὶ εἰδότες οὐδέν riprende il tradizionale contrasto tra sapienza divina e ignoranza umana, riferendolo in particolare a una tipologia di errore che nasce dal fraintendimento della κρίσις di B2. La ἀκρισία delle «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) manifesta la loro «impotenza» (ἀμηχανίη). Nell’epica e nella lirica l’espressione βροτοὶ εἰδότες οὐδέν ritorna frequentemente per caratterizzare il fatto che i mortali non conoscono la totalità del passato, né possono prevedere il futuro, ristretti alla limitatezza del loro presente (Ruggiu p. 259). Nello specifico, l’ignoranza dei mortali è implicitamente contrastata dalla conoscenza che Parmenide ha rivendicato per sé in B1.3 (εἰδότα φῶτα). 14 Il greco δίκρανοι si riferisce alla condizione di coloro che manifestano una sorta di schizofrenia e in questo senso hanno una testa (una mente) divisa in due: affermano a un tempo essere e non-essere, fingendo di poter incrociare due vie in realtà (verità) incompatibili. Robbiano (op. cit., pp. 104-5) segnala come nella lirica arcaica il tema della indecisione-confusione propria della condizione umana fosse espresso nel riferimento a un νόος diviso (Teognide) o a una sorta di doppia mente (Saffo). 15 Il sostantivo greco ἀμηχανίη segnala la mancanza di mezzi, di aiuti per risolvere una situazione di difficoltà: insomma, una condizione di impotenza. In Omero gli dei possiedono σοφία, un saper fare (abilità nella costruzione di oggetti) che garantisce loro una vita facile, mentre gli uomini, ignoranti, conducono una esistenza dura. In Esiodo è grazie a Prometeo che gli uomini hanno potuto strappare agli dei alcuni dei loro segreti, facendo fronte alla propria impotenza. 16 L’espressione ἐν αὐτῶν στήθεσιν rinvia a Omero, dove è marcato il nesso tra ἀμηχανίη e θυμός, la cui sede è appunto nel petto. Coxon (p. 184) assume che nel contesto ciò possa alludere a un ruolo di θυμός distinto da νόος, secondo il modello pitagorico ripreso nell’immagine iniziale del carro (e poi reso celebre nel mito del Fedro platonico). 17 L’espressione πλακτὸς νόος sottolinea lo sbandamento, l’erramento in primo luogo della «mente» (così traduciamo in questo caso νόος) e quindi del «pensiero»: la mente, invece di essere guida sicura, conduce fuori strada. 128 a un tempo sordi e ciechi19, sgomenti, schiere scriteriate20, per i quali esso21 è considerato22 essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti23 il percorso torna all'indietro24. 18 La forma verbale φοροῦνται rafforza il senso di sbandamento, deriva, cui conduce la mente dissennata dei «mortali che nulla sanno». 19 L’espressione greca κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί vuol marcare una condizione di disorientamento, a un tempo (ὁμῶς) di isolamento uditivo e visivo. Anche Eraclito utilizzava l’aggettivo kwfój denunciare la stoltezza manifestata dalle opinioni correnti. 20 Il greco ἄκριτα φῦλα sottolinea l’incapacità, da parte di un gruppo numeroso (φῦλόν indica razza, tribù, classe, genia), di giudicare, di discernere. Evidentemente la Dea intende marcare, per contrasto, la prospettiva di ricerca aperta in B2 con l'alternativa delle «vie di ricerca per pensare»: in questo caso, la «mente» erra, e i «mortali» non conoscono alcunché. Alcuni ritengono (tra gli altri anche Cerri, p. 212), che Parmenide si riferisca qui ai seguaci di Eraclito. 21 Traduciamo in questo modo il pronome τό, che, come aveva a suo tempo rilevato Burnet (seguito poi da Coxon e ora da Palmer), potrebbe fungere da articolo per sostantivare πέλειν, ma non οὐκ εἶναι. Nel contesto del frammento τό è da riferire a ἐόν del v. 1. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, pp. 115-6), oltre a ricordare il frequente impiego da parte di Parmenide dell'articolo come dimostrativo (secondo l'uso arcaico), ha segnalato una costruzione analoga in B8.44b-45: τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ è necessario, infatti, che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra, in cui τό rinvia a τὸ ἐόν del v. 37. 22 Il perfetto medio-passivo νενόμισται ha attirato l’attenzione di Jaeger (La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, n. 36), il quale lo riferisce non all’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma alla malignità del νόμος dominante (costume, tradizione), alla opinio communis degli uomini. Leszl in questo senso osserva (p. 230) come il passivo di νομίζω abbia il significato di «è pratica corrente». Il ricorso a νομίζω, con la soggettività implicata, fungerebbe, secondo Coxon (p. 185), da contrasto ai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. 129 23 Il genitivo plurale πάντων può essere qui inteso come neutro, riferito dunque a «tutte le cose», ovvero come maschile, riferito quindi ai «mortali», come il precedente relativo οἷς, «per i quali». Coxon traduce: «and for all of whom»; analogamente O'Brien, Palmer, Gemelli Marciano, che abbiamo seguito. La Gemelli Marciano (II, p. 83) segnala la composizione ad anello, con cui nell'ultimo emistichio Parmenide riprenderebbe il v. 4. 24 Secondo Mourelatos (p. 100), il senso dell’aggettivo παλίντροπός sarebbe da vedere in connessione con οὐ γὰρ ἀνυστόν (B2.7), indicando l’infinita regressione della ricerca lungo la via dei mortali. Potremmo dire che la Dea in questo modo stigmatizzi la inconcludenza della presunta via di ricerca inventata dai mortali, e quindi il destino di erranza che colpisce chi pretenda di seguirla. Secondo coloro che propendono per una interpretazione del frammento in chiave anti-eraclitea, qui avremmo una eco di DK 22 B51: Οὐ ξυνίασι ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῷ ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης non capiscono che ciò che è differente concorda con se stesso, armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira. Contro questa interpretazione, tra gli altri, di recente A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 55-6), il quale sottolinea come il termine παλίντροπός si riferisca qui in realtà ai mutamenti sequenziali delle cose reali l'una nell'altra (come nella cosmologia milesia); in Eraclito, invece, esso sarebbe impiegato in riferimento a un equilibrio statico. 130 DK B7 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ 1 εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος2 εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν, κρῖναι δὲ λόγῳ 3 πολύδηριν4 ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα. [vv. 1-2 Platone, Sofista, 237 a 8-9, 258 d 2-3; Simplicio, In Aristotelis Physicam 135, 143-144; v. 1 Aristotele, Metafisica 1089 a; vv. 2-6 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; v. 2 Simplicio, In Aristotelis Physicam 78, 650; vv. 3-5 Diogene Laerzio IX, 22] 1 Alcuni codici di Aristotele (EJ) e Simplicio (DE) riportano τοῦτο δαμῇ, quelli di Platone τοῦτ’ οὐδαμῇ. Sono attestate anche le forme τούτου οὐδαμὴ (Simplicio F), τοῦτο μηδαμῇ (Simplicio D), τοῦτο δαῇς (Aristotele recc.). 2 I codici di Sesto e Simplicio riportano διζήσιος (nelle varianti dialettali διζήσεος, διζήσεως), quelli di Platone il participio διζήμενος. 3 Nonostante i codici di Sesto e Diogene Laerzio riportino la forma del dativo λόγῳ, Kingsley (P. Kingsley, Reality, The Golden Sufi Center, Inverness (CA) 2003, pp. 139-140), all'interno di una lunga discussione sul valore da attribuire al termine (prima di Platone), propone (seguito da Gemelli Marciano) di leggere, in alternativa, il genitivo λόγου. 4 Il testo di Diogene Laerzio riporta πολύδηριν, quello di Sesto πολύπειρον. 131 Mai, infatti1, questo2 sarà forzato3: che siano cose che non sono4. Ma tu da questa via di ricerca5 allontana il pensiero6; 1 Coxon (p. 190) osserva giustamente che la presenza di γὰρ presuppone un'asserzione da giustificare, per noi mancante: questo solleva dubbi sull'effettivo riferimento del successivo τοῦτο. 2 Cerri (p. 215) osserva l’uso apparentemente irregolare di τοῦτο in funzione prolettica (per la quale sarebbe stato naturale piuttosto τόδε): nel contesto il pronome sembra in realtà riferirsi anche a quanto precede (per noi perduto). 3 Seguiamo Tarán (e Diels) nel preferire questa resa a quelle suggerite da O’ Brien e Conche: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté» («Mai, infatti, questo enunciato sarà domato») ovvero «Car jamais ceci ne sera mis sous le joug» («Poiché mai questo sarà posto sotto il giogo»). Secondo l’indicazione di Diels (Parmenides Lehrgedicht, p. 74), il senso dell’aoristo congiuntivo passivo di δαμάζω \ δάμνημι è da ricavare dalle citazioni platoniche del Teeteto (196b: viene usato ἀναγκάζειν) e del Sofista (241 d5- 7): Τὸν τοῦ πατρὸς Παρμενίδου λόγον ἀναγκαῖον ἡμῖν ἀμυνομένοις ἔσται βασανίζειν, καὶ βιάζεσθαι τό τε μὴ ὂν ὡς ἔστι κατά τι καὶ τὸ ὂν αὖ πάλιν ὡς οὐκ ἔστι πῃ. Ci troviamo di fronte alla necessità, per difenderci, di mettere alla prova il pensiero del padre, Parmenide, e di forzarlo [biázesqai] col dire che il non-essere «è», sotto un certo aspetto; e che, per converso, l’essere, in un certo senso, «non è» (traduzione M. Vitali, Bompiani, Milano 1992). A rafforzare questo valore, c’è anche il βιάσθω del v. 3. Interessante anche il suggerimento specifico di Liddell-Scott-Jones, di rendere il verbo in senso lato come «sarà provato», che Cerri (p. 215) difende, pur apprezzando l’interpretazione del passo offerta da O’Brien. Contro la scelta di Diels e LSJ argomenta tuttavia in modo convincente Coxon (p. 190). A suo tempo Calogero (Studi sull’eleatismo, cit., pp. 24-5, nota) aveva puntualmente contestato l'ipotesi τοῦτο δαμῇ, preferendole τοῦτο δαῇς (l'emistichio risultava così: «Non ti lasciar mai insegnare questo»). Alle osservazioni di Calogero si richiama oggi la Gemelli Marciano (II, p. 84). 4 Il non-essere è in questo caso espresso con il participio plurale μὴ ἐόντα, «cose che non sono». Secondo Tarán (p. 75), ciò si collegherebbe alla successiva polemica contro il dato dei sensi. 132 né abitudine7 alle molte esperienze8 su questa strada ti faccia violenza9, 5 Simplicio (Fisica 78, 2) sembra riferire l’espressione τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος - «questa via di ricerca» - alla seconda via: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] sostiene che la contraddizione non sia vera [cioè: le proposizioni contraddittorie non siano vere] a un tempo in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.]. Secondo Simplicio, insomma, B7.2 alluderebbe alla «via che conduce al nonessere»; inoltre B7.1-2 seguirebbero B6.8-9, precedendo B8.1. Come fa osservare Tarán (p. 76), Simplicio sembra distinguere anche tra l’obiettivo polemico di B6 e quello di B7. 6 Il sostantivo νόημα è qui impiegato probabilmente nel significato – già omerico - di mente, intelligenza, organo del pensiero e della comprensione. I primi due versi del frammento sono citati da Platone e Simplicio: essi costituiscono un primo blocco testuale. Diogene cita isolatamente i vv. 3-5, secondo blocco. Sesto consente di cucire i due blocchi, citando i vv. 3-6 dopo il verso 2. nella sua citazione, tuttavia, non c’è posto per il verso 1. Non sorprenderà, dunque, che nella storia delle interpretazioni il frammento abbia subito vari smembramenti e montaggi. Noi scegliamo di conservare l’ordinamento che si può ricavare da Simplicio, l’ultimo autore che si ha fondato motivo di ritenere disponesse di una copia del poema (ancorché non esente da rielaborazioni linguistiche e contenutistiche). 7 Coxon (p. 191) legge ἔθος in contrapposizione a νόημα (abitudine versus analisi intellettuale): la prima forzerebbe, la seconda condurrebbe in modo persuasivo. 8 Dal momento che ἔθος si connoterebbe autonomamente in contrasto a νόημα, secondo Coxon (p. 191) πολύπειρον sarebbe da riferire a ὁδὸν: contribuirebbe a determinarne il valore rispetto a τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ del verso 133 a dirigere10 l’occhio che non vede, l’orecchio risonante11 [5] e la lingua12. Giudica13 invece con il ragionamento14 la prova15 polemica16 precedente. Cerri (p. 216) giudica tuttavia inaccettabile la proposta (anche) per ragioni metriche. Robbiano (p. 97) segue Coxon, insistendo sull’abitudine generata lungo la via di cui i mortali hanno molta esperienza. Anche Nehamas (op. cit., p. 59 nota 50) preferisce riferire πολύπειρον a ὁδὸν, ma suggerisce la possibilità che Parmenide intendesse riferirlo anche a ἔθος. Per quanto riguarda la traduzione, abbiamo optato per una resa che sottolinei nell’aggettivo il riferimento all’origine dalle molte esperienze; altri scelgono, invece, di marcare l’effetto implicito in esse, rendendo quindi con «molto esperta», «molto abile». 9 Il verbo βιάσθω si potrebbe rendere anche con «induca»: come informa Cerri (p. 217), esso ricorre frequentemente nella poesia tra fine VI secolo e inizi del V (Simonide, Pindaro, Bacchilide, Eschilo) nel senso di violenza esercitata dalla menzogna sulla verità. 10 Cerri (p. 217) osserva che νωμᾶν nel linguaggio epico significa «muovere, dirigere con abilità e destrezza». 11 Cerri (p. 217) rileva la natura ossimorica del verso: ἄσκοπον ὄμμα e ἠχήεσσαν ἀκουήν evocano le metafore eraclitee. Lo studioso giustamente le collega a B6.7, trovandosi però in difficoltà nell’interpretazione. In B6, infatti, esse sarebbero riferite agli eraclitei, qui, invece, recuperate (nella stessa prospettiva eraclitea) contro il sapere tradizionale. 12 Coxon (p. 192) sottolinea come l’epiteto ἠχήεσσαν qualifichi tanto ἀκουήν quanto γλῶσσαν: la lingua replicherebbe la confusione degli occhi e delle orecchie. La sua proposta è contestata, per ragioni semantiche (il significato dell’aggettivo - «risuonante» - mal si accorderebbe nel contesto con γλῶσσα), da Tarán (p. 77), il quale suggerisce invece di considerare ἄσκοπον riferito tanto a ὄμμα quanto a ἀκουήν e γλῶσσαν, con il valore avverbiale di «senza scopo», «a caso». Come riconosce lo stesso Tarán, tuttavia, la lettera del verso 4, con i due aggettivi immediatamente riferiti ai due sostantivi, rende più plausibile la solitudine di γλῶσσαν: il termine, in relazione a ἔθος πολύπειρον, indica il linguaggio ordinario. Heitsch (p. 161) suggerisce che, nel contesto, senza ulteriori predicazioni, γλῶσσα non sia da porre sullo stesso piano degli altri organi di senso: qui, dunque, il termine indicherebbe non l’organo del gusto ma l’organo del linguaggio, come riconosce anche Robbiano (pp. 97-98), insistendo sull’«organo che produce nomi che non sono in grado di riflettere la verità». 13 Kingsley (Reality, cit., p. 140) rende κρῖναι come «judge in favor of», nel senso di «scegli» (opzione adottata anche da Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 50); la Gemelli Marciano (II, p. 19) preferisce «entscheide dich für» («deciditi per»). 134 14 Secondo Cerri (p. 218), del termine λόγος – corradicale di λέγω (dire) e dunque originariamente sinonimo di μῦθος - qui sarebbe valorizzato l’aspetto semantico del ragionamento mentale (emergente anche in Eraclito), mentre nella seconda occorrenza nel poema (B8.50) l’aspetto semantico del discorso che verbalizza il ragionamento (λόγος è in tal caso complementare a νόημα). Tonelli (p. 126), insistendo sul parallelo con il contemporaneo Eraclito, mantiene una stretta connessione tra λόγος e νόος: λόγος non indicherebbe qui «il raziocinio ma la facoltà umana di cogliere il senso». A suo tempo Conche (p. 122) aveva sottolineato come, a differenza del νόος che può errare (B6.6), il λόγος non si allontani dalla verità, evidentemente intendendo con il termine la facoltà razionale. Ma di recente Kingsley (Reality, cit., pp. 129-50) ha lungamente argomentato che tale significazione è solo platonica e post-platonica, mentre in Parmenide λόγος avrebbe ancora il valore di «discorso» o «discussione»: in questo senso, egli preferisce (come segnalato in nota al testo greco) emendare il dativo in genitivo, facendone dunque una specificazione di ἔλεγχος. Contro la tendenza a contrapporre, in Parmenide, il λόγος all'esperienza, si esprime anche Cordero (By Being, It Is, cit., pp. 136-137), convinto che il significato base sia ancora quello di «discorso». A noi pare che la resa con «ragione» sia forzata, e che l'invito espresso dalla Dea sia quello di valutare discorsivamente, argomentativamente: il suggerimento di Cerri, insomma, evitando l'identificazione di una facoltà (la ragione appunto) e limitandosi a evocare un esercizio di controllo della discussione (λόγος, ἔλεγχος), pare prudente e funzionale. 15 Si tratta di una delle prime attestazioni del termine ἔλεγχος. Liddell-ScottJones, con esplicito riferimento al nostro testo, indica come significato «argument of disproof, refutation». Di recente, Chiara Robbiano (pp. 106- 107) – che legge B7 e B8 come costituissero un testo continuo - ha ricordato come ἔλεγχος debba riferirsi non solo alla contestazione già implicita nei versi precedenti, ma anche agli argomenti di B8, che hanno «la forma di un elenchos». In B8.1-49 la dea metterebbe alla prova varie strategie tradizionalmente ritenute in grado di condurre alla conoscenza. Interpretando correttamente il suo (della dea) logos, l’audience non solo sarebbe stata completamente persuasa dal non seguire la seconda via, ma avrebbe anche riconosciuto alcuni dei caratteri dell’Essere che concorrono all’obiettivo della prima via: la comprensione (insight) dell’Essere. 16 L’aggettivo πολύδηρις sarebbe, secondo Coxon (p. 192), di conio parmenideo, e si riferirebbe alla polemica contro la fisica ionica e pitagorica, poi ripresa da Zenone. In πολύδηρις – come osserva Conche (p. 123) - c’è l’idea di lotta, di combattimento (δῆρις): la forza della ragione opposta alla forza dell’abitudine. Liddell-Scott-Jones – con esplicito riferimento al nostro testo - rende con una espressione di senso passivo: «molto contestata». 135 da me enunciata17. Interessante l'analisi di Patricia Curd (The Legacy of Parmenides, cit., p. 104): «The elenchos (testing) is poludēris (rich in strife) because it must repeatedly fight against habit and experience; it is a battle to be won over and over». Efficace la resa di A. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 59), il quale traduce κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον come «giudica con la ragione l'argomento che molto contesta». 17 Mentre Diels e Calogero riferiscono la prova (che così sarebbe genericamente «annunciata») alla sezione sulla Doxa, Verdenius, Tarán e Mourelatos la intendono riferita ai passaggi precedenti (il participio va allora tradotto più opportunamente con «enunciata»), in cui la Dea ha introdotto le due vie e argomentato contro la presunta terza via. Si tratta della posizione prevalente tra gli interpreti, tenuto conto dell’uso del participio aoristo ῥηθέντα, che proietta il termine cui si riferisce (ἔλεγχος) verso un passato appena compiuto. Preferiamo lasciare sospeso il riferimento, tenendo conto anche del suggerimento di R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy, cit., p. 76) di tradurre in questo caso il participio aoristo come «when it has been spoken by me». 136 DK B8 vv. 1-49 μόνος1 δ΄ ἔτι2 μῦθος3 ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε4 καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον5 · 1 È possibile, sulla scorta della citazione di Sesto (Adversus Mathematicos VII, 111), che il verso iniziale di B8 costituisse il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Il testo dei codici di Sesto - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è tuttavia improbabile in epica, dove si attenderebbe μοῦνος, forma (presente nei codici DE di Simplicio) che, in effetti, alcuni editori preferiscono; d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. Di recente Passa (p. 87) si è espresso per la continuità tra B7 e B8, ritenendo di dover accettare μόνος come forma autenticamente parmenidea. 2 In vece di δ΄ ἔτι, i codici DEF di Simplicio e LEV di Sesto riportano δέ τι; il codice C di Sesto δέ τοι. Il contesto, tuttavia, suggerisce l’adozione – largamente prevalente tra gli editori – dell'attuale versione. 3 Sesto in vece di μῦθος riporta θυμὸς. 4 L'emistichio οὖλον μουνογενές τε è lezione attestata in Simplicio (commento alla Fisica 120.23, 145.4, 30.2, 78.13, 87.21 e al De Caelo 557.18), Clemente e Teodoreto (che tuttavia non è considerato fonte indipendente), originariamente accolta anche da Diels e per lo più ripresa dagli editori contemporanei. Nella V edizione dei Vorsokratiker a cura di Kranz, tuttavia, essa fu sostituita dalla trascrizione dei codici di Plutarco (Contro Colote 1114 c) ἔστι γὰρ οὐλομελές («è infatti intero [nelle sue membra]»), accolta tra gli altri anche da O’Brien e Reale. Come segnala Coxon (p. 195), ἔστι γὰρ potrebbe essere formula introduttiva di Plutarco: Passa fa notare, tuttavia, come la stessa formula sia ripetuta in B8.33. Proclo cita (commento al Parmenide 6.1007.25, 6.1084.29-30) in un caso solo οὐλομελές, ma, quando riporta l'intero verso (nello stesso commentario, 6.1152.25), il testo del primo emistichio è οὖλον μουνομελές τε. Si ha quindi l'impressione di una citazione a memoria (in effetti il testo è per il resto identico a quello citato da Simplicio). La forma οὐλομελές, come suggerisce Passa (p. 63), potrebbe essersi insinuata nella tradizione testuale parmenidea a partire dall'atmosfera pitagoreggiante dell'Accademia, tra II sec. a. C. e I sec. d. C.. Analogamente, deformazione del testo a noi tramandato dai codici simpliciani potrebbe essere anche μοῦνον μουνογενές, attestato in PseudoPlutarco, Teodoreto ed Eusebio. 5 La ricostruzione del testo di questo secondo emistichio è molto controversa. La versione più attestata nelle fonti antiche è: καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀγένητον. 137 [5] οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν 6, ἕν, συνεχές7 · τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω8 φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος9 ὦρσεν [10] ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών10 ἐστιν ἢ οὐχί. Tuttavia Simplicio presenta anche (nel commentario alla Fisica 30.2, 78.13, 145.4) la variante ἠδ΄ ἀτέλεστον. La forma ἠδ΄ ἀγένητον non pare sostenibile, in quanto ripetizione di ἀγένητον del verso precedente. Sulla variante esistono comunque dubbi e non mancano le trascrizioni alternative nei codici: ἢ δ’ ἀτέλεστον, ἢ ἀτέλεστον, ἤδ’ ἀτέλεστον, ἢ δι’ ἀτέλεστον. Il testo potrebbe dunque essere corrotto, dal momento che il suo senso appare contraddetto da οὐκ ἀτελεύτητον (v. 32) e τετελεσμένον... πάντοθεν (vv. 42-3). Accettando la variante di Simplicio e volendone evitare le implicazioni contraddittorie, Karsten propose di emendare il testo come ἠδὲ τελεστόν (quindi «e perfetto»), seguito poi da Tarán e Cordero. Owen e altri (Kirk-Raven-Schofield, McKirahan, sostanzialmente Mourelatos e Coxon) hanno proposto ἠδὲ τέλειον («e completo»). Una minoranza (ma significativa: Hölscher, Cassin, Leszl, Gemelli Marciano) ha ripreso la versione di Brandis: οὐδ’ ἀτέλεστον. 6 Del verso esiste una variante attestata (con leggere differenze) in Ammonio, Asclepio, Filopono, Olimpiodoro: οὐ γὰρ ἔην οὐκ ἔσται ὁμοῦ πᾶν ἔστι δὲ μοῦνον. A seconda della punteggiatura potrebbe rendersi come: «poiché non era, non sarà, tutto intero insieme, ma è solamente», ovvero: «poiché non era, non sarà, ma è solamente, tutto intero insieme». 7 I codici di Simplicio riportano ἕν, συνεχές; in Asclepio è attestato invece οὐλοφυές («di natura intera»), lezione difesa e preferita da Untersteiner. 8 Alla forma ἐάσσω, riportata da alcuni codici di Simplicio, è da preferire ἐάσω, presente nei codici omerici e per lo più anche in quelli di Simplicio (che presentano anche la variante ἐασέω). 9 Nell'epica χρέος è forma recente di χρεῖος: essa è attestata in Odissea nel significato originario di «debito» e in quello secondario di «bisogno» (che ha riscontri in lirica e tragedia), come sottolinea Passa (pp. 82-3). 10 I codici attestano qui unanimemente χρεών ἐστιν; al v. 45, dove troviamo formula analoga, le lezioni si dividono: alcuni codici riportano χρεόν ἐστι. Passa (pp. 80 ss.) ha discusso specificamente il rapporto tra le forme χρεών e χρεόν, sottolineando come sia accettabile in Parmenide (analogamente a quanto riscontriamo nel caso di Erodoto) la forma ionica recente χρεόν, 138 οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος11 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, [15] ἀλλ΄ ἔχει· ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν12; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; [20] εἰ γὰρ ἔγεντ΄13, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος14 ὄλεθρος. οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. [25] τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. mentre χρεών sarebbe atticismo: a confermare un meccanismo di atticizzazione parallelo a quello operante sul testo omerico. 11 Il codice di Simplicio riporta ἐκ μὴ ὄντος («da ciò che non è»): l’emendazione proposta da Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος consente di concludere la dimostrazione come si trattasse di dilemma: l’essere non può avere origine dal non-essere (v. 7), né dall’essere, dunque è senza origine (ἀγένητον). La necessità dell’emendazione è analiticamente sostenuta da Tarán (pp. 95-102), ma combattuta con buone osservazioni da Coxon (pp. 200-201). Accogliamo, con qualche riserva sia relativamente alla fonte emendata – i codici di Simplicio rendono sostanzialmente in modo unanime il testo emendato – sia alle implicazioni teoriche, la correzione, in considerazione soprattutto del senso della successiva proposizione γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό. 12 I codici DE di Simplicio riportano πέλοι τὸ ἐόν, generalmente accettato; il codice F rende πέλοιτο ἐόν («potrebbe essere ciò che è», «essendo, potrebbe essere»), che una minoranza di editori (tra gli altri Coxon e Cassin) fanno proprio. Karsten propose di emendare il testo come ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è»), soluzione accolta da Kranz (Vorsokratiker, V edizione), ma oggi abbandonata. 13 La forma [εἰ γὰρ] ἔγεντ΄ è correzione (Preller) non attestata nei manoscritti simpliciani della edizione di Simplicio, che riportano invece ἔγενετ΄ (EF) e ἔγετ΄ (D). 14 Qui, in vece di ἄπυστος (De Caelo A e Fisica F), nei codici DE del commento al De Caelo abbiamo ἄπαυστος («incessante»), nel commento alla Fisica (ed. aldina) ἄπιστος («incredibile»), in Fisica DE il testo corrotto ἄπτυστος. 139 αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε15 μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον16 καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται [30] χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν 17 δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. [35] οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ 18 πεφατισμένον19 ἐστίν, 15 Cordero ha restituito τῆλε sulla base dei codici EW di Simplicio (Phys.); i codici DF riportano τῆδε (τῆ δὲ E a ). 16 Della prima parte del verso abbiamo due redazioni: i codici di Simplicio (Phys.) riproducono (con varianti) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον; quelli di Proclo (in Parmenidem 1134.22, 1177.5/6) ταὐτόν δ’ ἐν ταὐτῷ μίμνει («identico, resta in un identico [luogo]»). 17 La prima parte del verso è trasmessa con varianti nei manoscritti di Simplicio (Phys.): ἐπιδευές· μὴ ἐὸν (30, 10, 40, 6 Ea F) ovvero ἐπιδεές· μὴ ἐὸν (30, 10. 40, 6 DE); ἐπιδευές· μὴ ὂν (146, 6 EF) o ἐπιδεές· μὴ ὂν (146, 6 D). Da un punto di vista metrico, ἐπιδευές· μὴ ἐὸν non regge; d'altra parte ἐπιδεές non è forma epica: Cerri (pp. 234-5), che discute ampiamente i problemi connessi con la scelta del testo greco più plausibile, propende – con riserve – per l’adozione della soluzione ἐπιδεές, accettabile appunto per la misura del verso. Analogamente Coxon (p. 208). Vari editori (Tarán, O'Brien, Palmer, Graham), invece, seguendo la proposta di Bergk, espungono μὴ, conservando la forma epica ἐπιδευές. Passa (pp. 112 ss.) ha con buoni argomenti suffragato la scelta di Cerri, marcando come ἐπιδεές riflettesse in origine, prima ancora dell'atticizzazione del testo, l'adozione da parte di Parmenide, autore tardo-ionico, di forme dello ionico parlato, in cui già era caduta la più antica forma indoeuropea [w]: egli avrebbe preferito all'ἐπιδεῖς parlato la sinizesi ἐπιδεές, «la sola grafia adeguata a un testo scritto». Preferiamo, pertanto, evitare di ricorrere alla espunzione proposta da Bergk, conservando ἐπιδεές· μὴ ὂν. 18 I manoscritti di Simplicio riportano ἐν ᾧ, quelli di Proclo ἐφ’ ᾧ, dal significato sostanzialmente equivalente. O'Brien (p. 55) ipotizza che in origine la formula di Proclo dovesse essere glossa per precisare il senso di ἐν ᾧ. La lezione di Proclo è adottata da Cordero, seguito da Couloubaritsis. 19 I codici di Proclo e Simplicio (Phys. 146, 8; 87, 15 F; 143, 23-24 EF) riportano πεφατισμένον, privilegiato dagli editori; altri manoscritti di 140 εὑρήσεις τὸ νοεῖν· οὐδὲν γὰρ < ἢ > ἔστιν20 ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον21 ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι22· τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται 23, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, [40] γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, Simplicio (Phys. 87, 15 DE; 143, 23-4 D) presentano invece πεφωτισμένον («è illuminato»). 20 Il testo del codice di Simplicio (Phys. 146, 9) riporta οὐδ’ εἰ χρόνος ἐστὶν («nemmeno se il tempo esiste»), che, metricamente accettabile, appare poco sensato nel contesto. Coxon (seguito da Conche) ha accolto la variante οὐδὲ χρόνος («And time is not»), che, a sua volta, non risulta però illuminante. Tra le proposte per aggiustare il senso del verso troviamo quella di Bergk - οὐδ’ ἦν γὰρ («né esisteva infatti») – e soprattutto quella di Preller (la più adottata), che (con qualche perplessità) seguiamo: οὐδὲν γὰρ ἔστιν [+ ἢ ἔσται]. Essa riprende (integrandola con la congiunzione ἢ) una citazione di Simplicio (Phys. 86, 31) – οὐδὲν γὰρ ἔστιν –. Va dato comunque atto a Coxon che il suo argomento a favore della lezione χρόνος di Simplicio in Phys. 146, 9 è buono: essa si trova, in effetti, nel contesto della citazione continua dei primi 52 versi del frammento (B8), quasi a garanzia di uno sforzo di attenta trascrizione dell’originale, mentre l’altra lezione (Phys. 86, 31) ha più l’aria di una libera parafrasi. Le difficoltà di questo passaggio potrebbero dunque suffragare l'ipotesi di interventi di montaggio sulla copia del poema disponibile a Simplicio. 21 I manoscritti EF di Simplicio (Phys. 146, 11; 87, 1) riportano οὖλον (D ὅλον); l'Anonimo (In Theaet.) οἶον («solo»); Platone (Teeteto 180 e1), Eusebio, Teodoreto οἷον («come»). 22 I manoscritti di Simplicio riportano τ΄ ἔμεναι (Phys. 146, 11) ovvero τ΄ ἔμμεναι (Phys. 87, 1 EF; D τ΄ ἔμμενε); quelli di Platone, Eusebio, Teodoreto (e Simplicio Phys. 29, 18; 143, 10) τελέθει; l'Anonimo τε θέλει. 23 Il secondo emistichio è di difficile decifrazione nei manoscritti. Nei codici di Simplicio prevalgono tuttavia due lezioni, prevalentemente adottate dagli editori: (i) πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται (Diels-Kranz, Tarán, Cordero, Coxon, O'Brien, Conche, Cassin, Reale, Cerri); (ii) πάντ΄ ὀνόμασται (Mourelatos, Casertano, Kirk-Raven-Schofield, Gallop). Gli accertamenti più recenti sui manoscritti sembrerebbero suffragare questa seconda lettura, che ha un riscontro anche in B9.1. Accanto a varianti secondarie, abbiamo come lezione alternativa il testo di Platone (Teeteto 180 e1), seguito dal commentatore anonimo del Teeteto, Eusebio, Teodoreto: παντὶ ὄνομ (α) εἶναι. Abbiamo mantenuto la lezione Diels-Kranz perché, nel contesto, ci sembra più naturale il senso che se ne può ricavare, anche in traduzione. 141 καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν. αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον [45] οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν24 ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν 25 ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι26 εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν 27 ἔστιν ὅπως εἴη κεν28 ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ 29 γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει30. [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146, vv. 1-14 id. 78] 24 Si veda l'annotazione a χρεών, v. 11. In questo caso i manoscritti riportano sia la forma χρεών, sia la forma χρεόν (sul piano filologico lectio difficilior), che, come sottolinea Passa (p. 81) difficilmente può intendersi come corruzione di χρεών. Manteniamo dunque la forma χρεόν, consapevoli dell'improbabilità del fatto che Parmenide impiegasse la stessa formula πελέναι... ἐστιν, ricorrendo ora a χρεών ora a χρεόν. 25 La lezione dei codici di Simplicio è οὔτε γὰρ οὔτε ἐόν (ovvero ὄν): l’edizione aldina emendò οὔτε ἐόν in οὐκ ἐὸν, per lo più accettato. Diels (1897) preferì l’alternativa οὔτεον (= οὔ τι), forma rara dell’indefinito. 26 La forma ἱκνεῖσθαι è attestata in Simplicio (Phys. DE), accolta dagli editori. Simplicio F riporta invece κινεῖσθαι. 27 Il testo dei codici di Simplicio è οὔτε ὄν, emendato da Karsten in οὔτ΄ ἐὸν. 28 La forma κεν è emendazione di Karsten: i codici DEF di Simplicio riportano καὶ ἓν; l'edizione aldina κενὸν. 29 La lettura οἷ (dativo del pronome personale) si è affermata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalla proposta di Diels, il quale però intendeva οἷ come un relativo («verso cui»). I manoscritti (DEF) di Simplicio riportano οἱ (articolo determinativo ovvero dimostrativo), emendato nell’edizione aldina come ἦ (espressione omerica per «in effetti», «certo»). 30 Così già leggeva Diels; i manoscritti di Simplicio riportano in effetti κυρεῖ (EF), ovvero κυροῖ (D): κύρει è emendazione degli editori. 142 Unica1 parola2 ancora, della via3 che4 «è», rimane; su questa [via] sono5 segnali6 1 Il complesso della costruzione greca (aggettivo, avverbio, sostantivo e verbo) μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο accentua la connessione logica del frammento con quanto precede: prospettate le due vie, esclusa una delle due come impercorribile, discusse le contaminazioni dei mortali, «rimane una sola via» da esaminare, quella, appunto, ὡς ἔστιν. Sebbene chiaramente l’aggettivo mónoj si riferisca a μῦθος, molti traduttori di fatto lo applicano a ὁδοῖο: «One path only is left for us to speak of» (Burnet), ovvero «So bleibt nur noch Kunde von Einen Wege» (Diels), «One way only is left to be spoken of» (Raven). 2 Ricordiamo che il termine μῦθος ricorreva già in B2.1, qualificato dalla fonte divina: la «parola» (ovvero il «discorso») proferita dalla Dea doveva essere accolta, meditata e custodita dal kouros. Il valore del termine sembrerebbe dunque nel contesto quello di parola, discorso di Verità. Nella relativa nota di B2.1 abbiamo richiamato alcune recenti posizioni interpretative: Morgan (K. Morgan, Myth and Philosophy From the Presocratics to Plato, cit., pp. 17-18) sottolinea nell’uso di mythos il valore di «authoritative speech act»; Couloubaritsis (La pensée de Parménide, cit., p. 541) insiste sullo stesso valore con una traduzione poco familiare: «ma façon de parler autorisée». 3 Il genitivo ὁδοῖο è per lo più reso come genitivo oggettivo, di argomento, in relazione a μῦθος, di cui specificherebbe il contenuto. Cerri (p. 219) difende una sua interpretazione “partitiva” («di via, resta soltanto una parola»), riferendolo alle vie prese in esame. 4 Il valore della congiunzione ὡς sarebbe – secondo Mansfeld (p. 93) – complesso: non significherebbe semplicemente «che», ma anche «come». Per tale valore si veda il parallelo di B1.31. 5 Coxon (p. 194) sottolinea la contrapposizione tra σήματ΄ ἔασι e il successivo (v. 55) σήματ΄ ἔθεντο («posero segni»): alla convenzionalità dell’imposizione umana è opposta l'oggettività delle evidenze dell’Essere. 6 Il greco σήματα può rendersi nel contesto come «indizi», «segnali», anche «evidenze» (monuments, Coxon p.194). Essi possono essere intesi anche come i «riferimenti» che consentono di mantenere la propria direzione lungo una via: essi garantirebbero, in altre parole, al pensiero di non perdersi. Così, secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 168), i σήματα sarebbero indicazioni, «prove» del carattere necessario e unico del fatto di essere: pietre miliari e segnavia che indicano che il pensiero sta seguendo la via giusta. Thanassas (p. 44), a sua volta, ritiene che i σήματα – rigorosamente parlando – non siano da intendere come segni dell’Essere, ma della sua via, con la funzione, quindi, di guidare lungo il percorso di conoscenza dell’Essere: il concetto di ἐόν assicurerebbe alla via la determinazione 143 specifica. A Thanassas (pp. 54-5) si deve soprattutto un rilievo: i «segni» fungerebbero essenzialmente da monito contro possibili deviazioni dalla via dell’Essere, quindi non tanto da attributi positivi, piuttosto da segnali negativi, che escludono ogni sovrapposizione con il Non-Essere. Un aspetto valorizzato anche da Scuto (G. Scuto, Parmenides’ Weg. Vom WahrScheinenden zum Wahr-Seienden. Mit einer Untersuchung zur Beziehung des parmenideischen zum indischen Denken, Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, p. 142): tutti i segni ricavati da Parmenide sarebbero conseguenze necessarie e inconfutabili della applicazione del principio di fondo secondo cui l’essere non può sorgere dal non-essere. La Stemich (pp. 211-2) propone di analizzare i segni in quanto indicatori e a un tempo strumenti di orientamento per il kouros, segnavia ma anche descrittori della sua condizione spirituale nel momento in cui attinga la conoscenza. Da ricordare, in ogni caso, che il termine designa anche i «segni augurali» interpretati dagli indovini (Cerri p. 219); per Mansfeld (p. 104) σῆμα è il mezzo di rivelazione di una potenza superiore. L’eco religiosa potrebbe essere deliberatamente evocata dall’autore anche per predisporre la propria audience (interna ed esterna) alla disamina successiva. Sempre Mansfeld segnala (p. 104) come σῆμα sia sinonimo poetico di σημεῖον, termine che ritroviamo in Melisso (B8) e negli usi giuridici. Mourelatos (p. 94) inserisce l’interpretazione dei σήματα all’interno del motivo della quest: per raggiungere il fine della quest è necessario percorrere la strada «è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i «segnavia». Rimanendo fedele all’immaginario epico, Mourelatos propone di leggere i segnavia come imperativi del tipo: «cerca sempre ciò che è ….». Di recente Chiara Robbiano (pp. 108-9) ha segnalato il nesso tra ἔλεγχος e σήματα: essi, in effetti, come rivela la letteratura arcaica, possono essere usati per provare, mettere alla prova (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona. Robbiano si riferisce all’episodio del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, dove il termine σήματα è messo in relazione alla verifica dell’identità del mendicante: è offrendo segni che Odisseo persuade della propria identità. Sempre alla Robbiano (pp. 125-6) dobbiamo il rilievo circa il nesso tra σήματα e loro interpretazione. La dea guida attraverso σήματα, che l’audience deve interpretare. La consapevolezza della necessità di interpretare segni per giungere alla verità richiamerebbe Eraclito DK 22 B93: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore che ha il suo oracolo in Delfi non dice, non nasconde, ma dà segni. Il modello che la dea in questo caso evocherebbe sarebbe, dunque, quello di un dio che invia segnali ai mortali, per far loro conoscere cose normalmente 144 molto numerosi: che7 senza nascita8 è ciò che è9 e senza morte10, fuori della loro portata. La Robbiano, per altro, concorda con Cerri (p. 214) sul fatto che σήματα non si riferirebbe ai predicati enumerati in B8.2-6, ma ai successivi argomenti. A una funzione essenzialmente argomentativa dei σήματα ha pensato invece Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146): i «segni» costituirebbero gli argomenti della dimostrazione, coincidendo di fatto con gli attributi fondamentali dell’essere. Essi sarebbero in parte dimostrati nel seguito, in parte assunti senza dimostrazione, fungendo da medi aristotelici e contribuendo al carattere razionale della dimostrazione. 7 Della proposizione introdotta da ὡς (ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) esistono varie traduzioni possibili: (a) intendendo ὡς come congiunzione dichiarativa: «Being is ungenerable and imperishable» (Tarán p. 85); «whatis is ungenerable and imperishable» (Mourelatos p. 94); (b) intendendo ὡς come congiunzione causale: «since it exists it is unborn and imperishable» (Guthrie p. 26); «étant inengendré, est aussi impérissable» (O’Brien, p. 171); analogamente Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 146). La costruzione σήματa … ὡς può (e probabilmente intende nel nostro contesto) indicare sia la significazione del come (dell’Essere) in senso descrittivo, sia il che (dell’Essere) in senso dichiarativo. I segni devono rivelare l’ἐόν e dunque la loro funzione può sembrare quella di indicare il che; al contempo, manifestandolo, consentono di prendere consapevolezza della sua natura (per cui il come potrebbe essere giustificato). Da apprezzare (secondo Mourelatos, p. 95), infine, la struttura che viene introdotta a partire da questo punto: Parmenide annuncia programmaticamente tutti i segnavia, quindi procede a una loro giustificazione. 8 Il greco ἀγένητον ricorre in pensatori contemporanei o di poco posteriori a Parmenide, come Eraclito (citazione di Ippolito di B50): Ἡ. μὲν οὖν φησιν εἶναι τὸ πᾶν διαιρετὸν ἀδιαίρετον, γενητὸν ἀγένητον, θνητὸν ἀθάνατον, λόγον αἰῶνα, πατέρα υἱόν, θεὸν δίκαιον· ‘οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι’ ὁ Ἡ. φησι. Eraclito sostiene che il tutto è diviso indiviso, generato ingenerato, mortale immortale, logos eterno, padre figlio, dio giusto, e afferma: énon me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno», ed Empedocle (B7, dal Lessico di Esichio): ἀ γ έ ν η τ α: στοιχεῖα. παρ’ Ἐμπεδοκλεῖ «Ingenerati»: gli elementi secondo Empedocle. 145 L'aggettivo indica dunque ciò che è ingenerato in contrapposizione a ciò che ha nascita (Eraclito), ovvero gli elementi primordiali, che non sono generati da altro ma che tutto generano. Diogene Laerzio sostiene (IX, 19) che Senofane sarebbe stato il primo ad affermare che «tutto ciò che è generato è corruttibile» (πρῶτός τε ἀπεφήνατο, ὅτι πᾶν τὸ γινόμενον φθαρτόν ἐστι). Secondo Coxon (p. 195), il termine potrebbe essere di conio parmenideo. Della stessa idea Mourelatos (p. 97), secondo cui esso ricorrerebbe qui per la prima volta nella letteratura greca, assumendo un significato più forte del semplice «ingenerato»: ἀγένητον in Parmenide escluderebbe ogni forma di processo in cui qualcosa venga all’essere. Possiamo qui notare di passaggio che la caratteristica essenziale dei segni parmenidei è quella di presentarsi come negazioni (alfa privativo + aggettivo) di qualcosa di significante all’interno del linguaggio e della esperienza dei mortali (Ruggiu p. 277). 9 Come già segnalato, traduciamo ἐόν come «ciò che è», segnalando invece τὸ ἐόν come «l’essere»: per noi si tratta di espressioni sinonime, ma la seconda, con l’articolo, è la formula più astratta. Nel contesto ἐόν, come forma participiale, potrebbe essere reso con valore verbale (come fa, per esempio Leszl, p. 171): «essendo ingenerato è anche imperituro». In tal caso, però, le altre determinazioni rischierebbero di essere subordinate alle prime due. Si può segnalare in questo contesto quanto sottolineato da Scuto (op. cit., p. 141), secondo cui in Parmenide assisteremmo al passaggio da un valore ancora temporale del participio a un significato atemporale: si tratterebbe di una netta correzione nella direzione dell'astrazione, con cui dall’esperienza della costante mutevolezza degli enti si concluderebbe nella certezza di un essere sottratto al tempo. 10 L’espressione ἀνώλεθρόν, come la precedente - ἀγένητον - formata con l’alfa privativo, indica letteralmente «ciò che è senza distruzione [morte] (ὄλεθρος)». Si tratta di termine veramente raro nella letteratura arcaica: prima di Parmenide ricorre una volta in Omero (Iliade XIII.761); dopo Parmenide ricompare per la prima volta solo in Platone (Cerri, p. 220). Nella testimonianza di Aristotele (Fisica III, 4 203 b13, DK 12 A15; 12 B3), in riferimento ad Anassimandro, abbiamo: καὶ τοῦτ’ εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον [B 3], ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων E tale sembra essere il divino; è infatti immortale e imperituro, come dicono Anassimandro e la maggior parte dei filosofi della natura. Ciò potrebbe significare che l’aggettivo era stato effettivamente impiegato dai pensatori arcaici: Conche (p. 131) è convinto che il termine sia anassimandreo. In ogni caso, i due aggettivi – ingenerato e imperituro – corrispondono alle tradizionali connotazioni degli dei come sempre esistenti, immortali. 146 tutto intero11, uniforme12, saldo13 e senza fine14; 11 Il termine οὖλον (che rendiamo come «tutto intero» per dar ragione sia della totalità sia della integrità implicite) è di diretta eco senofanea: οὖλος ὁρᾶι, οὖλος δὲ νοεῖ, οὖλος δέ τ’ ἀκούει Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ode (DK 21 B24). 12 Nonostante le difficoltà rilevate (Kranz, poi ripreso da Reale) nell'uso di μουνογενές dopo ἀγένητον (v. 3), Tarán (p. 92) ha buon gioco nel marcare il valore derivato dell’aggettivo, che anche in Eschilo (Agamennone 808) non ha significato letterale di «unigenito», ma quello di «unico». Cerri (p. 221), collegando μουνογενές all’epiteto sacrale di Ecate (secondo Esiodo, Teogonia 426, 488), valorizza la «metafora arditissima» proprio nella «contraddizione sarcastica» ad ἀγένητον. In realtà la radice *γεν esprime sia la nozione di “nascere”, “divenire”, sia quella di “essere”, “esistere”. Il termine μουνογενές potrebbe alludere a γένος piuttosto che a γίγνεσθαι e dunque veicolare l’idea di unicità. Mourelatos (pp. 113-4) suppone che Parmenide usi μουνογενές in diretta opposizione alla formula tradizionale per esprimere distinzioni, familiare da Esiodo: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω Non c’era dunque un solo genere di Eris; sulla τerra ce ne sono due (Opere e giorni 11-12). L’aggettivo μουνογενές si contrapporrebbe a μορφὰς δύο (B8.53): dietro οὖλον μουνογενές ci sarebbe dunque il rifiuto della contrarietà. Alcuni interpreti (Barnes, per esempio) associano μουνογενές a ἀτρεμὲς: "monogeneity" e immobilità sarebbero poi contestualmente riprese ai vv. 26-33. Secondo R.J. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", in Presocratic Philosophy…, cit., p. 73) questa soluzione è grammaticalmente più consona rispetto alla associazione alternativa a οὖλον, sebbene rimanga preferibile considerare l'aggettivo indipendentemente, nel significato di «uniforme». 13 L’aggettivo ἀτρεμές esprime stabilità, solidità, immutabilità: Conche (p. 133) vi coglie la «calma» dell’Essere, in contrasto con l’«inquietudine» degli enti. Coxon (p. 195) associa l’aggettivo alle successive espressioni ἀκίνητον (vv. 26 e 38: «immobile»), ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον (v. 29: «identico e nell’identica condizione perdurando») e ἔμπεδον αὖθι μένει (v. 30: «stabilmente dove è rimane»): esse denoterebbero identità esente da mutamento temporale. Alle stesse connessioni rinvia anche McKirahan (R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford 147 [5] né un tempo15 era16 né [un tempo] sarà, poiché17 è ora18 tutto insieme19, Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 210), il quale però insiste nel suggerire che l’aggettivo sia inteso a esprimere il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la sua natura. Esso sarebbe, quindi, impiegato per indicare qualcosa di più e di diverso dalla mera assenza di cambiamento e movimento fisico. Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 147), tra gli altri, leggendo il verso come ἔστι γὰρ οὐλομελές τε καὶ ἀτρεμὲς, lo avvicina a Platone, Fedro 250 c3: ὁλόκληρα δὲ καὶ ἁπλᾶ καὶ ἀτρεμῆ καὶ εὐδαίμονα φάσματα μυούμενοί integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le visioni cui eravamo iniziati. Si tratterebbe di un riferimento ai misteri eleusini, dove ὁλόκληρα («integralmente perfette») corrisponderebbe a οὐλομελές, indicando la completezza di struttura fisica, mentre ἀτρεμές ritorna identico, evocando «di Verità ben rotonda il cuore fermo» (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ B1.29). La ripresa platonica suggerirebbe allora una direzione interpretativa alternativa: uno sguardo sul mondo della alētheia indimostrato, il cui apprendimento è intuitivo, tanto da essere paragonato alla conoscenza misterica. 14 Leggo ἠδ΄ ἀτέλεστον – con DK, Coxon, O’Brien, Conche, Reale, Heitsch e altri – attestato da Simplicio. Il valore da attribuire a ἀτέλεστον dovrebbe essere, nel contesto, quello di «senza fine», «senza termine». Cerri (pp. 222- 3) interpreta l’aggettivo letteralmente come «incompiuto», riferendolo, senza interpunzione, alla riga successiva: «incompiuto mai fu un tempo, né sarà, poiché è ora tutto omogeneo». Da notare che Simplicio (Phys. 30, 4), volendo accostare Parmenide a Melisso, asserisce che l’essere di Parmenide è ἄπειρον, con ciò intendendo probabilmente ἀτέλεστον (Tarán, p. 93). 15 Intendendo οὐδέ ποτe come formula avverbiale, avremmo «non mai, giammai». Abbiamo preferito conservare πότe come avverbio separato dalla negazione, riferendolo sia a ἦν sia a ἔσται. Ruggiu (p. 283) interpreta πότε come indicatore della generale dimensione temporale, cui Parmenide contrapporrebbe l’ἔστιν rafforzato dal νῦν, a esprimere il presente atemporale. 16 In questo verso, come ha fatto giustamente osservare O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, Tome II Poblèmes d’interprétation, p. 149), gli avverbi (πότε, νῦν) sono fondamentali come le tre forme verbali di εἶναι (ἦν, ἔσται, ἔστιν). 148 17 Non è chiaro se ἐπεί si riferisca immediatamente solo a νῦν ἔστιν o anche a ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές, cioè se anche questi attributi concorrano alla determinazione delle due affermazioni iniziali del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται: appare, in effetti, più semplice escludere la possibilità che «ciò che è» (ἐόν) sia stato (e in qualche modo non sia più) o debba essere in futuro (e in qualche modo non sia ancora) per il fatto che esso è ora tutto insieme, uno e compatto, cioè che è pienamente, senza mancare di alcunché che coinvolga in qualche modo «non è» (McKirahan, p. 207). 18 L’avverbio νῦν, come giustamente sottolinea Coxon (p. 196), non denota un istante o una unità temporale, ma la simultaneità. Secondo Conche (p. 136), «l’essere è, “ora”», irriducibile a un istante senza durata, o a una durata temporale, che implichi successione di prima e poi. Così l’«ora» indicherebbe una «durata senza successione» (come il «durare di Dio» secondo Tommaso). O’Brien (Études, II, pp. 335-362) sottolinea il nesso con ἀγένητον e ἀνώλεθρόν: la Dea intenderebbe escludere generazione e corruzione e dunque, in quanto ingenerabile e indistruttibile, l’Essere sarebbe eterno. Secondo Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171) Parmenide usa il tempo presente ἔστιν per marcare la presenza propria dell’«ora» (νῦν), cioè il permanente presente dell’essere: l’essere non avrebbe nulla a che fare con il tempo strutturato in momenti temporali. A queste letture si contrappongono tradizionalmente quelle che, nel rilievo dell’avverbio temporale νῦν e nella contestuale negazione di passato e futuro, colgono la presenza di una concezione ardita e profonda: l’Essere sarebbe presente eterno, fuori dal tempo. Privilegiano questa dimensione della “atemporalità” dell’Essere parmenideo, tra gli altri, Calogero, Mondolfo, Gigon, Untersteiner, Reale (e Ruggiu nel suo commento). Mourelatos (pp. 103 ss.) ritrova nell’uso parmenideo dell’ἔστι il richiamo a una pratica consolidata in ambito matematico: proposizioni senza implicazioni temporali (tenseless) sono le verità necessarie - definizioni, verità classificatorie e implicazioni logiche – cui la «predicazione speculativa» di Parmenide si sarebbe ispirata. In B8.5 l’enfasi è ancora su νῦν ἔστιν, che suggerirebbe un condizionamento temporale. Il senso del verso, tuttavia, sarebbe, secondo Mourelatos: «né mai era, né sarà, né è ora, dal momento che semplicemente è». In direzione analoga si muove Thanassas (p. 47), per il quale l’intenzione di Parmenide in B8.5 sarebbe quella di marcare l’irrilevanza dello sviluppo del tempo in passato, presente e futuro per il suo progetto ontologico: l’Essere non è nel tempo, non ha storia né futuro, risultando estraneo a ogni mutamento. Tarán (p. 95) insiste, a sua volta, per intendere il verso nel senso di una continua durata temporale. È significativo, comunque, che sia assente una esplicita argomentazione di νῦν ἔστιν, che per McKirahan (p. 206) sarebbe conseguenza di «ciò-che-è è» (B2.7-8, B6.1-2) e riconducibile all’essenziale pienezza dell’essere di ciò-che-è. Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 73) propone una lettura 149 uno20, continuo21. Quale nascita22, infatti, ricercherai di esso? originale: in forza degli attributi che τὸ ἐόν possiede «ora» (completezza, autosufficienza ecc.), non ha senso supporre che possa non esistere in qualche momento del passato o del futuro. 19 Conche (pp. 137-8), che valorizza il nesso con l’avverbio precedente, traduce ὁμοῦ πᾶν come «tout entier à la fois», accostandolo al tota simul con cui Boezio (e poi Tommaso) caratterizzava l’eternità. 20 Tra i «segni» destinati a gravare sul destino del pensiero parmenideo, questo è senz’altro il più importante. Nel contesto, tuttavia, ἕν è solo uno dei segni, inserito in una sequenza - ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές – in cui l’autore sembra insistere sulla compiutezza, integrità e omogeneità dell’essere piuttosto che sulla sua unicità. Come opportunamente marcato da McKirahan (p. 215), infatti, è probabile che μουνογενές e ἕν fossero sostanzialmente intesi come sinonimi, in relazione al gruppo di attributi οὖλον, ὁμοῦ πᾶν, συνεχές, la cui giustificazione argomentativa ritroviamo ai vv. 22-25. Come giustamente rileva Conche (p. 138), l’essere è «uno», non l’Uno della posteriore tradizione platonica-neoplatonica. Alla lezione ἕν, συνεχές di Simplicio, Untersteiner preferisce quella alternativa di Asclepio: οὐλοφυές, «un tutto naturale». Coxon osserva (p. 196) che questo è l’unico luogo in cui sia usato da Parmenide il termine ἕν, il cui posto sarà poi preso da oὐδὲ διαιρετόν (v. 22), con cui – qui e in v. 25 – συνεχές è virtualmente sinonimo. Mourelatos (p. 95, nota) legge come un unico blocco ὁμοῦ πᾶν ἕν, interpretando ἕν come predicato modificato dall’avverbio ὁμοῦ e dal pronome πᾶν: il senso complessivo sarebbe «all of it together one». Secondo Cordero (By Being, It Is, cit. p. 177), Parmenide intenderebbe marcare come il «fatto d’essere» sia denominatore comune a tutte le cose, affermando che esso è unico, non che tutte le cose sono uno ovvero che l’essere è l’Uno. Ruggiu (p. 286), pur non accettando la variante οὐλοφυές, ritiene che l’Essere valga come intero: esso non espungerebbe il molteplice, ricomprendendolo piuttosto in sé. 21 L’aggettivo συνεχές, in relazione con il precedente ἕν, sottolinea il fatto che «ciò che è» è «uno con se stesso» (Conche p. 139). Non è del tutto perspicua la connessione di questa ultima serie di attributi con quella introdotta ai vv. 3-4: si tratta di implicazioni dei precedenti ovvero di nuovi attributi? In ogni caso, qui termina l’elenco dei segni. Da questo momento in avanti si apre la loro discussione argomentativa, che altri (per esempio Heitsch, Leszl, Plamer) fanno iniziare dal v. 5. 22 Il termine γέννα potrebbe tradursi più semplicemente con «origine», ma, seguendo il suggerimento di Coxon (p. 197), insistiamo sul valore biologico della espressione. È possibile che – come nota la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., p. 214) – in questo passaggio il filosofo contrapponga alla comune accezione religiosa (per cui le divinità sono sì 150 Come23 e donde cresciuto24? Da ciò che non è non permetterò25 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare26 che «non è»27. Quale bisogno28, inoltre29, lo avrebbe spinto30, [10] originando31 dal nulla, a nascere32 più tardi o33 prima34? immortali, ma non senza nascita) la sua concezione dell’essere, appunto «senza nascita e senza morte». 23 La formula interrogativa πῇ πόθεν potrebbe rendersi (con O’Brien e Cassin): «verso dove e da dove?», accentuandone le implicazioni spaziali, insistendo cioè su direzione e verso della crescita. Anche Mourelatos (p. 98, nota), attribuisce senso locale a πῇ. 24 Il passaggio dal sostantivo (γέννα) al participio aoristo (αὐξηθέν), con relativo cambio di sintassi, e il successivo (v. 8) implicito riferimento all’infinito aoristo αὐξηθῆναι (essere cresciuto) in relazione agli infiniti φάσθαι e νοεῖν, evocherebbero, secondo Coxon (p. 197) una tipica situazione di dibattito (quindi di oralità). McKirahan (p. 193) ha sottolineato le implicazioni tra le tre domande: assumendo che generazione e crescita siano equivalenti (come ragionevolmente attestato dai successivi vv. 9-10), la seconda e la terza domanda possono essere interpretate come riferentesi alle sue condizioni necessarie: la generazione è un processo («come») che richiede un’origine («donde»). 25 La formula οὔτ΄ … ἐάσω (futuro preceduto dalla negazione) vuol marcare la proibizione logica imposta e fatta rispettare dalla razionalità della Dea. 26 Letteralmente οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν dovrebbe rendersi come «non è infatti dicibile e pensabile», con la proposizione introdotta da ὅπως come soggettiva. I due aggettivi - φατόν e νοητόν – hanno dunque complessivamente il senso di «cosa che si possa dire e pensare». 27 Hankinson ("Parmenides and the Metaphysics of Changelessness", cit., p. 77) suggerisce come soggetto implicito di οὐκ ἔστι «the potential generator»: è la generazione dal non-essere che è impensabile. 28 La formula τί χρέος; è corrispettivo poetico dell’ordinario interrogativo τί χρήμα; «quale circostanza?» (Coxon p. 198). Gemelli Marciano (II, p. 87) rinvia a Pindaro e Eschilo per la sua traduzione («Verpflichtung», dovere, servizio). 29 Come segnalato da O'Brien nel suo commento (p. 50), la funzione di καί in questo caso non è solo avverbiale: esso rinforza l'interrogazione. 30 Rendiamo in questo modo la forma «irreale» dell’interrogativo (che suggerisce una risposta negativa) veicolata da ἄν + l’aoristo. 31 Rendiamo in questo modo il participio aoristo ἀρξάμενον, che in realtà dovrebbe implicare anteriorità rispetto all'azione espressa dall'infinito φῦν: altri preferiscono ricorrere a perifrasi: «se comincia dal nulla» (Pasquinelli), «se fosse nato dal nulla» (Cerri), «se trae inizio dal nulla» (Tonelli). 151 Così35 è necessario36 sia per intero o non sia per nulla37. 32 L'infinito aoristo φῦν può essere reso come «nascere\sorgere» o «crescere»: i traduttori si dividono. 33 La particella ἢ può avere funzione disgiuntiva («o»), ovvero esprimere una comparazione (= quam). 34 Traduco letteralmente ὕστερον ἢ πρόσθεν. Le versioni più diffuse sono: «früher oder später» (Diels), «prima o poi» (Calogero), «later or sooner» (Tarán), «dopo o prima» (Reale), «dopo piuttosto che prima» (Cerri), «later or before» (Coxon), «plus tard, plutôt qu’ […] auparavant» (O’Brien). In effetti ὕστερον è comparativo dell’avverbio, ma πρόσθεν no: quindi, letteralmente «più tardi che [\o] prima», sebbene la costruzione possa sembrare asimmetrica. Nei versi 9-10 avremmo una delle prime applicazioni del cosiddetto «principio di ragion sufficiente»: nulla si verifica senza una ragione sufficiente a spiegare perché si verifichi così e non altrimenti. Secondo Conche (p. 141), si tratterebbe della seconda applicazione, dopo quella di Anassimandro (per dimostrare la centralità immobile della Terra nel cosmo), e dominerebbe nel complesso il «pensiero dell’essere» di Parmenide. Una opinione diversa in proposito è espressa da Leszl (pp. 182-5), che interpreta come se Parmenide intendesse marcare l’assenza di una ragione (causa) perché l’essere si generi in un qualsiasi momento: il non-essere, nella sua completa negatività, non potrebbe offrirne alcuna. In realtà, come viene rilevato acutamente da McKirahan (p. 194), delle due possibili traduzioni di ὕστερον ἢ πρόσθεν, «più tardi o più presto» ovvero «più tardi piuttosto che più presto», la prima evidenzia come manchi una ragione per cui ciò che è debba generarsi, cioè non ce ne sia in alcun momento; la seconda, invece, in modo più sofisticato e coinvolgendo il “principio di indifferenza”, sottolineerebbe come non ci sia ragione perché esso si generi «in un momento qualsiasi piuttosto che in un altro». Sempre McKirahan osserva come l’argomento sia formulato in termini di domanda retorica, che presuppone una risposta del tipo: in nessuna circostanza, da ciò che non è potrebbe generarsi qualcosa. 35 McKirahan (p. 194) ha contestato la tradizionale traduzione di οὕτως come «così, perciò», che introdurrebbe la conclusione di un'argomentazione. Secondo lo studioso, infatti, in tal caso il senso del v. 11 appare – nel contesto - problematico: πάμπαν πελέναι è più naturalmente collegato all'analisi dei successivi vv. 22 ss., piuttosto che a quel che immediatamente precede. La sua proposta è dunque quella di tradurre l’avverbio οὕτως collegandolo alla alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί: il suo valore sarebbe allora «in questo modo» (cioè «essendo ingenerato»). La sua funzione sarebbe prolettica: quanto detto nel contesto sarebbe rilevante per la discussione successiva. A noi pare, comunque, che B8.11 concluda un passaggio (esclusione della generazione) dell'argomento avviato nei versi precedenti. In questo senso confermiamo la traduzione più comune. 152 Né mai 38 concederà forza di convinzione39 36 McKirahan (p. 194) traduce χρεών ἐστιν come «è giusto»: il suo significato - nel contesto dell’alternativa ἢ πάμπαν πελέναι ἢ οὐχί - sarebbe quello di prospettarne i corni come «le uniche possibilità» da considerare relativamente a ciò che è. 37 Come segnala Coxon (p. 199) la formula ἢ οὐχί sta per ἢ οὐ χρεών ἐστι πάμπαν πελέναι «o non deve essere per niente». Parmenide sottolinea la contraddizione e l’esclusione di una terza via (adottando di fatto il principio del terzo escluso): la via dell’essere esclude non solo la via del non-essere, ma anche un'impossibile combinazione tra essere e non-essere (Conche p. 142). Secondo Mourelatos (p. 101), questo verso non costituisce elemento della prova successiva, ma serve solo a ricordare la krisis radicale, la «decisione», operata in connessione con le due vie. 38 Avendo accolto con cautela la correzione di Karsten del testo tràdito, dobbiamo comunque osservare che lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il nostro passo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre il senso della emendazione: καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162, 11). D'altra parte, analoga impostazione dilemmatica è attestata anche da Aristotele in un celebre passo della Fisica (I, 8 191 a28-33), con chiara allusione anche agli Eleati (Palmer – Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 129- 133 - ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati): Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 153 che nasca qualcosa40 accanto41 a esso42. Per questo43 né nascere né morire concesse Giustizia44, sciogliendo le catene45, Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. 39 L’espressione πίστιος ἰσχύς è variamente tradotta: «la forza di una certezza» (Reale), «forza di prova», ovvero «forza di argomentazione» (Cerri). In ogni caso, come osserva Cerri (p. 224), è chiaro dal contesto che πίστις è termine da Parmenide impiegato nel valore di «convinzione razionale». Coxon (p. 199) rileva come l’Eleate scelga di esprimersi come se la certezza (πίστις, appunto) avesse un potere attivo e non solo critico. 40 Nel τι Conche (p. 145) coglie un riferimento all’ente: dall’essere non può essere generato né l’essere né un ente qualunque (esso non potrebbe che essere generato da un altro ente). 41 Attribuiamo a παρά valore locativo. In alternativa gli interpreti propongono «oltre a», ovvero «in addizione a». 42 L'infinitiva γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό sembrerebbe giustificare la scelta della variante di Karsten - ἐκ τοῦ ἐόντος. Difficile, infatti, trovare altrimenti un senso. Per chi assume la lezione dei codici - ἐκ μὴ ἐόντος – è più naturale cogliere in αὐτό un riferimento al non-essere, che appare però problematico: si dovrebbe ammettere che la Dea introduca ipoteticamente l'esistenza del non-essere (contraddicendo i precedenti divieti), per marcare come da esso nulla di diverso possa derivare ovvero nulla accanto, oltre a esso possa sorgere. Mourelatos (pp. 101-2), che segue il testo greco non emendato, riferisce comunque il pronome a ciò che è: nella sua lettura l’espressione «che da ciò-che-non-è qualcosa venga a essere accanto a esso» - interpretata come equivalente a προσγίγνεσθαι (accrual, accretion) - suggerisce l’idea di crescita come addizione (accretion) a qualcosa già esistente. 43 La preposizione εἵνεκεν, con il τοῦ dimostrativo, introduce quel che segue come conseguenza di quel che precede (Conche p. 146). 44 Intendo Δίκη come nome personale: Conche (p. 146), invece, nega consistenza mitica al riferimento, riconoscendolo come «metafora» della «legge dell’essere». Dike svolge in questo contesto quel tradizionale ruolo 154 [15] ma [lo] tiene46. Il giudizio47 in proposito48 dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità49, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile50 (poiché non è una via genuina51), e che l’altra invece esista e sia reale52. equilibratore, di preservazione delle distinzioni e dei limiti, che abbiamo notato nel proemio. In questo caso – come osserva Robbiano (p. 163) – il limite che la dea deve rigidamente sorvegliare è quello che (al v. 42) è definito πεῖρας πύματον, «limite estremo», all’interno del quale riposa sicura l’intera realtà. L’effetto è allora quello di fungere, in quanto rigorosa garante della separazione (tra essere e non-essere), da sorvegliante dell’interezza e integrità dell’essere. 45 I termini impiegati da Parmenide (Δίκη, πέδῃσιν, nella riga successiva κρίσις) insistono sul lessico giudiziario, probabilmente per rendere con efficacia la forza della necessità logica. In effetti, come sottolinea Cordero (By Being, It Is, cit., p. 171), Dike, con Ananke e Moira, assicura a un tempo l'immutabile identità di ciò che è e l’inesorabilità della via. 46 Intendiamo ἐόν come oggetto sottinteso di ἔχει, per analogia a quanto sotto (verso 26) affermato, appunto a proposito di ἐόν. 47 Il termine greco κρίσις – così come il successivo verbo κέκριται – veicola ancora, insieme alla formalità del giudizio, l’autorevolezza della decisione: a marcare la forza razionale del passaggio nella dimostrazione della Dea. È esplicito nel contesto il riferimento all'alternativa di B2: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. In questo senso, Mourelatos ritiene che i vv. 17-18 abbiano la funzione di richiamare (come il v. 11) la «decisione» tra le due vie. 48 Letteralmente: «a proposito di queste cose», ovvero sulla questione della generazione e della corruzione o della nascita e della morte. 49 Letteralmente «come necessità»: rendiamo ἀνάγκη (preceduto da ὥσπερ) con il suo valore generico, non personale. 50 La coppia di aggettivi ἀνόητον ἀνώνυμον (proposti senza congiunzione) sono, a nostro avviso, da intendersi congiuntamente come connotazione dell’impalpabilità della seconda via (ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). 51 L’espressione οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός si riferisce al fatto che la via «che non è (ὡς οὐκ ἔστιν)» non conduce in vero da nessuna parte e, in questo senso, non è una «via genuina (vera)». Conche (p. 147) insiste piuttosto sul fatto che non si tratti della «vera via»: in altre parole, di una via che conduca alla Verità. A conclusione del verso troviamo, invece, l’espressione τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι, che sottolinea come «l’altra [via] invece esista e sia reale», cioè una via che conduce effettivamente a una destinazione. Coxon (p. 168) ricorda come nelle occorrenze del poema, ἀληθείη (B1.29) e ἀληθής (B8.17, 39) si riferiscano non al pensiero o al 155 E come potrebbe esistere53 in futuro l’essere54? E come potrebbe essere nato55? [20] Se nacque, infatti, non è56, e neppure [è] se57 dovrà essere58 in futuro. linguaggio ma alla realtà oggettiva. Cordero (By Being, It Is, cit., p. 179) sostiene che per Parmenide la verità è prerogativa di un logos presentato da una via: solo per illegittima generalizzazione, la via stessa sarebbe da considerare vera. La verità risiede in un logos che, se valido, ha il privilegio di essere accompagnato dalla verità: così B2.4 recitava: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ («di Persuasione è percorso – a Verità, infatti, si accompagna»). Più avanti (B8.51) Parmenide, introducendo la sezione del poema dedicata alla Doxa, utilizzerà la formula [νόημα] ἀμφὶς Ἀληθείης («pensiero intorno alla Verità»). Anche per la Wilkinson (Parmenides and To Eon…, cit., pp. 87 ss.) impropriamente una “via” può definirsi «vera»: seguendo Mourelatos, ella suggerisce che ἀληθείη nel poema si riferisca non alla via ma alla dea: la verità è connessa a Persuasione, Πειθώ, che sarebbe la dea stessa del poema; al centro del poema ci sarebbe il riferimento al discorso della dea; la via «è» potrebbe intendersi come «il mio discorso è». 52 Il valore di ἐτήτυμος (vero, genuino, reale) è sostanzialmente coincidente con quello di ἀληθής: i due termini sono impiegati sostanzialmente come sinonimi. Per le differenze Germani, op. cit., pp. 184-5. 53 Coxon (pp. 202-3) difende il testo del codice F: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοιτo ἐόν, e, rilevando in πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα formula ricorrente (tre volte) in Omero, in cui l’avverbio ἔπειτα si riferisce alle asserzioni che seguono, rende diversamente l’intero verso: «And how could what becomes have being, how come into being?». Il senso sarebbe quello di contestare che ciò che diviene (what becomes) possa essere Essere o diventare Essere. La variante (oggi trascurata) di Karsten - πῶς δ΄ ἂν ἔπειτ’ ἀπόλοιτο ἐόν («potrebbe poi perire ciò che è») - invece, introdurrebbe un argomento contro la corruzione. 54 Qui Parmenide usa eccezionalmente l’espressione τὸ ἐόν. 55 Ovvero «venuto a essere» o «divenuto», «essere stato». 56 Tarán (p. 105) ritiene che il senso dell’affermazione si colga nella contrapposizione tra il passato ipotetico di εἰ γὰρ ἔγεντο – aoristo che può riferirsi sia al processo compiuto di venire ad essere, sia a una condizione remota («fu») - e il presente di οὐκ ἔστι: dunque, se è venuto a essere, è ora diverso da come fu (Tarán p. 105). Analogamente per il secondo emistichio: se sarà, se avrà da essere, ora è diverso da ciò che sarà. Anche Mourelatos (pp. 102-3) richiama l’attenzione sulla scelta dei modi e dei tempi verbali di questo passaggio: γένοιτο, ottativo, non porta riferimento al tempo; ἔγεντo, 156 Così è estinta59 nascita e morte oscura60. aoristo, si riferisce a una azione puntuale nel passato; ἔστι, presente, veicola durata e continuità: se x è in un certo momento, allora non è in senso continuo e assoluto. O’Brien (“L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., Tome II, p. 153) osserva come il presente οὐκ ἔστι non si riferisca al momento fuggevole intercalato tra passato e futuro, ma a un «presente» logico: al «nulla» anteriore a ogni possibilità di nascita («più tardi o prima»). Analogamente Cerri, che parafrasa: «se è nato (rinato), non esiste (nel momento in cui non è ancora nato\rinato) [...]» (p. 227). 57 Qui dovremmo intendere «se [è vero che]». 58 Il verbo μέλλω seguito da infinito futuro (ἔσεσθαι) può rendersi come «essere sul punto di, avere l’intenzione di». Si suppone che l’azione o la condizione indicata dall’infinito debba ancora avvenire. La presenza dell’avverbio (ποτε) rafforza questo aspetto temporale dell’espressione (O’Brien, “L’Être et l’Éternité”, in Études sur Parménide, cit., t. II, p. 139). McKirahan (p. 196) interpreta i vv. 19-20 come rivolti contro la generazione nel futuro, a completamento dell’argomento di B8.5-6, per cui ciò che è non può essere in futuro. Era rimasta aperta la possibilità che qualcosa che non è ora possa venire a essere in futuro: B8.19-20 negherebbero questa possibilità. Mourelatos (pp. 106-7) parafrasa diversamente il verso: «ciò che una cosa arriva a essere non è ciò che la cosa realmente è, nella sua essenza o natura». Egli vi coglie un contrasto non tra «arrivare a essere» e «essere durevolmente», piuttosto tra tempo e atemporalità. 59 O’Brien e Cerri pongono ἀπέσϐεσται («è estinta\spenta») come complemento verbale sia di γένεσις (genesi, nascita) sia di ὄλεθρος (distruzione, morte). Soluzione che abbiamo preferito a quella, adottata da molti, che invece sottintende il verbo essere nel secondo emistichio e fa di una due proposizioni coordinate: «Così generazione è estinta e distruzione ignorata». Secondo Thanassas (p. 46), l’analisi del primo segno intreccia intenzionalmente divenire e tempo, anticipando la correlazione aristotelica di tempo e mutamento. Gli enti individuali certamente sono sottomessi al divenire incessante: Parmenide non negherebbe ciò, dedicando al problema la parte più consistente del suo poema; ma nella Alētheia i segni non si riferiscono a enti particolari, bensì unicamente al loro Essere: solo questo Essere può rivendicare la estraneità a ogni forma di mutamento (pp. 48-9). 60 Cerri (pp. 227-8) osserva come – sulla scorta di assonanze omeriche – l’espressione ἄπυστος ὄλεθρος possa essere resa come «morte oscura (ma anche ignorata, oggetto di oblio)». Molto diversa la resa di McKirahan: «Thus generation has been extinguished and perishing cannot be investigated» (p. 196). Egli insiste (p. 223) sul legame tra ἄπυστος e il verbo πυνθάνεσθαι («imparare, investigare, cercare»), da cui anche παναπευθέα ἀταρπόν (B2.6), la via di ricerca scartata perché impossibile da investigare, da cui era impossibile, dunque, ricavare informazioni. In B8.21 ἄπυστος 157 Né è divisibile61, poiché62 è tutto omogeneo63; né c’è qui qualcosa di più64 che possa impedirgli di essere continuo65, conserverebbe lo stesso valore: la corruzione, la morte non possono essere oggetto di indagine, in quanto, come la generazione, impongono di seguire una via che non può assolutamente essere investigata. Si tratta di una osservazione già proposta da Mourelatos (p. 97), secondo il quale Parmenide non avrebbe ritenuto necessario argomentare contro la corruzione, rubricandola all’interno della via negativa: ciò spiegherebbe appunto l’uso di aggettivi come παναπευθής e ἄπυστος, riferiti alla via negativa e a ὄλεθρος. 61 L'espressione διαιρετόν ἐστιν può rendersi (ed è effettivamente tradotta) sia come «è divisibile», sia come «è diviso»: come osserva Leszl (p. 202), concettualmente la prima possibilità dipende dalla seconda, dal momento che l’operazione intellettuale della divisione non fa che rivelare divisioni già oggettivamente presenti (come attestato anche dagli argomenti di Zenone). Anche Thanassas (p. 50) rileva come, nella discussione del secondo segno, Parmenide punti a escludere la precondizione per ogni discriminazione interna dell’eon: esso non ha parti in cui possa essere articolato. Ne seguirebbe che, considerando ogni ente non come questa o quella cosa ma come Essere, non sarebbe possibile riconoscere differenze: ogni determinatezza svanirebbe all’interno della uniforme prospettiva dell’Essere. 62 Coxon (p. 203) sottolinea come da ἐπεί dipendano tutte le asserzioni successive (vv. 22-25). 63 Traduciamo così l’aggettivo ὁμοῖον, che altri rendono come «uguale»: ci sembra logicamente più efficace rispetto alla indivisibilità (οὐδὲ διαιρετόν). È possibile anche una lettura avverbiale e non predicativa di ὁμοῖον, da rendere (come fanno Owen, Guthrie, Stokes e Gallop): «esiste tutto allo stesso modo». Tarán e Mourelatos hanno tuttavia, con buoni argomenti, contestato tale lettura. McKirahan intende sia πᾶν sia ὁμοῖον con valore avverbiale: ciò-che-è non avrebbe dunque l’attributo di essere tutto uguale (o omogeneo), piuttosto ciò-che-è è in un certo modo, cioè tutto uguale, «interamente e uniformemente» (v. 11: πάμπαν πελέναι). È l’omogeneità che rende impossibile ogni discriminazione e divisione di ciò che è. Mourelatos (p. 114) ritiene che Parmenide sostenga logicamente πᾶν ἐστιν ὁμοῖον con πάμπαν πελέναι. In ogni caso la fondatezza della premessa di omogeneità è stata molto discussa: mancherebbe un argomento a sostegno nei versi precedenti. 64 Traduciamo l’espressione τι μᾶλλον genericamente come «qualcosa di più»: Coxon accentua il valore intensivo del comparativo («any more in degree»). 65 McKirahan (p. 197) sottolinea come συνέχεσθαι suggerisca non tanto continuità quanto «holding together», tenersi insieme, e accosta il significato 158 né [lì] qualcosa di meno66, ma è 67 tutto pieno68 di ciò che è69. [25] È perciò tutto continuo70: ciò che è si stringe71 infatti a ciò che è72. del verbo a quello dell’attributo ὁμοῦ πᾶν (v. 5), che egli traduce come «all together». Robbiano (p. 130) segnala come συνέχεσθαι possa riferirsi a unioni strette: l’unione sessuale di individui o le estremità annodate di una cintura. Il senso è comunque quello di estrema coesione. 66 Rendiamo τι χειρότερον come «qualcosa di meno», per rimanere coerenti con la scelta effettuata traducendo τι μᾶλλον. Coxon (p. 204) sottolinea ancora il valore intensivo dell’aggettivo: Parmenide in questo senso avrebbe usato χειρότερον (inferiore) e non *hsson (meno). 67 Intendiamo ἐόν come soggetto sottinteso; altri intendono πᾶν come soggetto («but all is full of Being», Tarán). 68 L’espressione πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος vuol marcare come ciò che esiste è solo l’essere, quindi esso è continuo, omogeneo, “denso” d’essere (uguale in tutto e per tutto a se stesso). Tarán (p. 108) osserva come la continuità sia dedotta dalla omogeneità. Coxon (p. 204) parafrasa: «Being is adjacent to Being», che implica l’assenza di qualsiasi cosa di diverso dall’Essere. McKirahan (p. 197) insiste invece sulla completa pienezza di ciò che è, che consegue dal bando di «non è». Si tratterebbe, nella sua lettura complessiva di B8, di un “segno” fondamentale, che riformulerebbe πάμπαν πελέναι del v. 11, cui essenzialmente si riferirebbero molti altri attributi. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 50), sottolineando come il contesto non sia quello di un’analisi fisica, ma di una considerazione ontologica (condotta alla luce della distinzione fondamentale tra Essere e Non-Essere), insiste nell’intendere l’espressione πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος come rilievo della «pienezza ontologica» (ontological plenitude) che non ha nulla da condividere con spazialità fisica, vuoto e massa. 69 McKirahan (p. 197) sottolinea il nesso tra πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος e πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (v. 22): egli, infatti, intende in entrambi i casi πᾶν avverbialmente (come nel successivo v. 25 ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), così che ἔμπλεόν ἐόντος risulterebbe equivalente a ὁμοῖον. 70 Ovvero «coeso». Riformulazione dell’inziale indivisibilità: Coxon (p. 204) osserva giustamente che, a parte la solitaria occorrenza di ἕν nel v. 6, ξυνεχὲς è l’unico termine parmenideo per «uno». McKirahan traduce diversamente il greco: dal suo punto di vista (p. 224), la relazione con συνέχεσθαι suggerisce di valorizzare il fatto che ciò che è «si tiene insieme» (holds together); così in vece di «continuo», con la sua ambiguità spazio-temporale, egli preferisce usare per ξυνεχὲς la formula, di difficile resa italiana, «holding together». 71 Il verbo πελάζω suggerisce l’idea di avvicinamento. In questo senso potrebbe essere tematicamente collegato tanto alla via quanto al viaggio che trascorre 159 Inoltre73, immobile74 nei vincoli75 di grandi catene76, lungo la via, seguendo i suoi segni. Robbiano (p. 133) insiste nel cogliere nella immagine ἐὸν ἐόντι πελάζει la suggestione dell’ultimo passo di un viaggio che si avvicina alla sua meta: l’Essere. 72 Abbiamo qui un passaggio in cui è dato intravedere come, facendo leva sui due "assiomi" di B2 - «è e non è possibile non-essere», «non è ed è necessario non-essere» - e dunque escludendo sistematicamente il ricorso al non-essere, Parmenide abbia potuto superare, nella nozione di τὸ ἐόν, la molteplicità dispersa degli enti, uniti e omogenei nell'«essere». In effetti Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 153) osserva come questi versi documentino il «continuo», dimostrando razionalmente il contatto di «ciò che è» con «ciò che è»: l’unità dell’essere sembrerebbe non escludere una sorta di molteplicità. Egli pone giustamente in relazione questo passo con B4. McKirahan (p. 197) sottolinea invece il valore figurato dell’espressione: una interpretazione letterale susciterebbe difficoltà. 73 Improbabile che nel contesto αὐτὰρ abbia valore avversativo: preferiamo attribuirgli valore progressivo (vedi Curd, The Legacy of Parmenides, cit., pp. 83-4). 74 L’aggettivo verbale ἀκίνητον può discendere dalla voce attivo-passiva o da quella media di κινέω: nel primo caso il suo significato sarebbe «non suscettibile di essere mosso dal proprio luogo»; nel secondo «non capace di muoversi dal proprio luogo» (Mourelatos, op. cit., pp. 117-120). Tarán giustamente sottolinea il nesso tra ἀκίνητον e ἀτρεμὲς (v. 4). L’aggettivo ἀκίνητον si riferirebbe sia alla immobilità sia, più in generale, alla immutabilità. Su questo si veda il commento. Una nuova, convincente luce sulla questione è stata – a nostro avviso – proiettata dalla lettura di McKirahan (p. 200), il quale insiste sul contesto immediato: «immobile» ha a che fare con i limiti dei grandi legami piuttosto che con assenza di generazione e corruzione. I vv. 27-28 ricavano dai precedenti vv. 6-21 due ulteriori conseguenze dell’essere ingenerato e incorruttibile, cioè senza inizio o fine, di «ciò-che-è» (ἐόν). Attributi che non hanno in alcun modo a che vedere con l’assenza di moto. Nel contesto l’espressione «immobile» coinvolgerebbe l’idea della natura fissa, limitata e costretta di ciò-che-è. In questa prospettiva rimane aperta la questione circa le convinzioni parmenidee sul movimento o cambiamento di ciò-che-è. Thanassas (p. 51) privilegia nella propria lettura un’immobilità fondata nell’assenza di relazioni con il Non-Essere: Parmenide escluderebbe il «movimento ontologico» che avvicina Essere e Nulla. 75 Ovvero «nei limiti» (πείρασι). Mourelatos (pp. 117-9) mostra efficacemente come alla nozione omerica di κινεῖν fosse associata non la nostra idea di traslazione rispetto a un punto di riferimento stazionario, ma quella di uscita, allontanamento da una posizione originaria e dai suoi limiti: il caso paradigmatico sarebbe, insomma, quello di "e-gresso", concettualmente 160 è senza inizio e senza fine77, poiché nascita e morte sono state respinte78 ben lontano79: convinzione genuina80 [le] fece arretrare. contrastante con la nozione di ὁδός («via»). Mentre il viaggiatore lungo la via raggiunge il luogo di destinazione, colui che si muove, invece, abbandona il suo luogo, supera, appunto, i suoi limiti. Il concetto di «via» è centripeto, quello di κινεῖν è centrifugo. La locomozione, in questo senso, sarebbe qualcosa di simile a un autoestraniamento: muoversi è essere oltre sé stessi, essere dove uno non è: è questa nozione di locomozione a essere oggetto di attacco nel paradosso della freccia di Zenone. Si esprime l’idea – arcaica, ma ancora operante in Aristotele (la teoria dei luoghi naturali) che il luogo di una cosa, con i suoi limiti-confini, sia parte della sua identità. La relazione tra ἀκίνητον e πείρατα escluderebbe dunque la locomozione intesa come moto assoluto, "e-gresso" dal proprio luogo specifico. 76 Giustamente Cerri (p. 229) segnala il cambiamento nel registro espressivo dell’autore, il cui linguaggio «torna alle movenze epiche del proemio». Questo passaggio, in particolare, è evocativo del mito prometeico, così come giuntoci nel dramma eschileo. Della relativa, breve discussione di Cerri, sembra opportuno valorizzare la possibilità che Parmenide e Eschilo (evitando improbabili contatti diretti) si ispirassero, per il tema dell’incatenamento e della conseguente immobilità, a un modello «già presente nella cultura mitico-filosofica della tarda arcaicità». Non è chiaro, tuttavia, il senso preciso dell’aggettivo «mitico-filosofica». Mourelatos (p. 115, nota), a sua volta, evoca un passo omerico (Odissea VIII, 296-98), che costituirebbe buon parallelo per l’immaginario parmenideo: ἀμφὶ δὲ δεσμοὶ τεχνήεντες ἔχυντο πολύφρονος Ἡφαίστοιο, οὐδέ τι κινῆσαι μελέων ἦν οὐδ’ ἀναεῖραι e tutto intorno le catene ingegnose chiuse, dell’astuto Efesto, ed essi non potevano più muoversi né sollevarsi. 77 Gli aggettivi ἄναρχον ἄπαυστον marcano la peculiare immutabilità dell’Essere, diversa dalla immobilità di ciò che si genera e corrompe. Per questo potrebbero implicare – se si accetta la lezione adottata – la formula ἠδ΄ ἀτέλεστον del v. 4. Coxon (p. 206) vi coglie un’eco delle affermazioni di Anassimandro (DK 12 A15): οὐ ταύτης ἀρχή, [...] ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν di esso non c'è principio [...] immortale e indistruttibile. 161 Identico e nell’identica condizione81 perdurando82, in se stesso83 riposa84, 78 All’aoristo ἐπλάχθησαν è possibile associare sia un significato attivo (Coxon: «becoming and perishing have strayed very far away»), sia un significato passivo (indicato in questo caso da Liddel-Scott): come suggerisce O’Brien (p. 53), il secondo emistichio del verso giustifica la resa passiva. 79 Coxon ricorda (p. 207) come l’espressione τῆλε μάλa occorra una sola volta in Omero ed Esiodo, dove si allude alla distanza del Tartaro: Parmenide potrebbe usarla per marcare analoga distanza dall’Essere di generazione e corruzione. 80 Traduco πίστις ἀληθής non con «reale credibilità» - come in B1.30: il diverso contesto – in particolare la sua impronta argomentativa, autorizza una differente accentuazione del valore di πίστις, intesa come convinzione, convincimento che scaturisce dall’esame condotto correttamente. In effetti il termine ha un suo specifico uso giudiziario (Heidel citato da Tarán p. 113), in cui designa l’evidenza o la prova addotta in tribunale. Il legame con la Realtà\Verità, espresso dall'aggettivo ἀληθής (reale, vera, veritiera, genuina), tuttavia, suggerisce di privilegiare il significato di convinzione. 81 L’espressione greca ἐν ταὐτῷ μένει è idiomatica, con valore variabile tra «restare nello stesso luogo» e «restare nello stesso stato» (Cerri p. 231). Heitsch (p. 172) e Coxon (p. 207) insistono piuttosto sulla condizione, Coxon escludendo il significato locale (come confermerebbe l’uso analogo dellespressione in Epicarmo, Sofocle, Euripide, Aristofane). Abbiamo privilegiato la seconda lettura per la sua portata più generale rispetto ai fenomeni del mutamento che Parmenide intende escludere dall’essere. McKirahan (p. 201) interpreta tutto il passo come una nuova sottolineatura del fondamentale rilievo della pienezza di ciò-che-è, riformulato nel linguaggio del limite, dei legami e della costrizione: in questo senso «identico e nell’identico» sarebbero implicazioni di «è pienamente». Anche le scelte verbali - «perdurare», «rimanere», «riposare» - supporterebbero questa lettura: ciò-che-è è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 82 L'intero verso 29 sembra evocare il frammento DK 21 B26 di Senofane: αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι Sempre nello stesso posto permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un posto ora in un altro. 83 McKirahan (p. 201) rileva come καθ΄ ἑαυτό possa significare sia «per sé», «solo», «solitario», ma anche «indipendente» (prossimo al valore che gli darà Platone in riferimento alle Idee). Nella sua prospettiva si tratta di una 162 [30] e, così, stabilmente85 dove è86 persiste87: dal momento che Necessità88 potente89 espressione plausibile per descrivere qualcosa che è pienamente e non può cessare di essere in quel modo. 84 Opportunamente Conche (p. 155) richiama, per contrasto, le posizioni di Eraclito e, soprattutto, nell’accentuazione dello spirito eracliteo, di Epicarmo DK 23 B2.9: ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει ora ciò che muta non rimane mai nel medesimo posto. I versi 29-30 sembrano riecheggiare, in negativo, quella concezione. Mourelatos (p. 119) osserva come la formula καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται manifesti noninterazione: il v. 29, dunque, esprimerebbe a un tempo, nella sua prima parte, autocontenimento e autoconsistenza, nella seconda parte isolamento, risultando complementare all’attributo ἀδιαίρετον. Thanassas (p. 52) valorizza il nesso tra ἐόν e identità: la saldezza dell’eon non si ridurrebbe alla semplice immobilità, al rifiuto di ogni relazione con il Non-Essere, ma scaturirebbe anche dal rilievo della identità (sameness) dell’eon con se stesso. 85 Rendiamo avverbialmente ἔμπεδον, che indica stabilità, fissità: come correttamente osserva McKirahan (p. 200), il termine nei suoi valori copre complessivamente le tre condizioni elencate al v. 29. 86 Traduciamo in questo modo αὖθι per evitare «qui», «là», che appaiono limitativi e troppo immediati (anche se non è da escludere a priori che proprio tale immediatezza fosse ricercata dall’autore). Conche (p. 156), invece, preferisce «qui», che indicherebbe – in parallelo con νῦν che è un «ora» non temporale – un «qui» non spaziale. 87 Come segnalano i commentatori, ἔμπεδον αὖθι μένει è formula epica, che richiama il celebre episodio in cui Odisseo si fa legare all’albero maestro della nave per resistere al canto delle Sirene (Odissea XII, 160-2): ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω ma con funi saldissime dovete legarmi, perché io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le corde. Nel nostro contesto il valore della espressione non è tanto locale quanto temporale: segnala l’esenzione dell’essere da qualsiasi variazione temporale (Coxon p. 208). Ruggiu (p. 299) sottolinea il carattere militare di ἔμπεδον μένει: «stare saldo in battaglia». In gioco sarebbe non la stabilità spaziale o 163 nelle catene del vincolo90 [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra91. temporale, ma l’esclusione di ogni alterità e il radicamento dell’identità. Come già segnalato in relazione a ἀτρεμὲς, McKirahan (p. 210) suggerisce una sostanziale sinonimia tra i due aggettivi: entrambi esprimerebbero il fatto che «ciò-che-è» è pienamente e non può cessare di essere pienamente, effetto dei limiti che costringono la natura di ciò-che-è. 88 Intendiamo Ἀνάγκη come nome proprio. Come Giustizia e Moira, Necessità è figura tradizionale e incarnazione della ineluttabile legge del destino (Tarán p. 117). Mourelatos, che identifica Necessità, Fato, Giustizia e Persuasione, traduce come «Constraint»: l’immagine della Costrizione che tiene ciò-che-è nel suo luogo rafforza la sua tesi secondo cui ἀκίνητον escluderebbe la locomozione intesa come moto assoluto, egresso dal proprio luogo specifico (pp. 118-9). Dalla triangolazione Giustizia, Fato (Moira), Costrizione risulterebbe che in Parmenide il concetto di rettitudine (Giustizia) assimila il concetto di necessità (Mourelatos p. 120). In un classico lavoro dedicato al concetto (W. Gundel, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen 1914), Gundel individuò il significato di Ἀνάγκη nel passo in questione come Naturnotwendigkeit. Schreckenberg (H. Schreckenberg “Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs“, «Zetemata» 36, München 1964, pp. 1-188, cap. I) ne ha invece marcato la connessione tematica con altri termini, come giogo, catene, corde, con l’idea di legame, imprigionamento, schiavitù, rilevando così come sotto ananke non si sia in grado di scegliere che cosa fare. L’immagine platonica di σύνδεσμος τοῦ οὐρανοῦ avrebbe origine proprio in ambiente pitagorico, come Schreckenberg cerca di provare appoggiandosi alla testimonianza di Aëtius – Πυθαγόρας ἀνάγκην ἔφη περιεχεῖσθαι τῷ κόσμῳ - e collegandola alla nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo») e all’abbraccio cosmico di Ananke. In questo senso essa avrebbe la funzione di “destino” o “legge di natura”: qualcosa che si può esprimere in termini di legami che vincolano, l’uomo o l’universo (pp. 75-6). 89 L’espressione κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη richiama l’esiodea (Teogonia 517 ss.) κρατερῆς ὑπ’ ἀνάγχης, nella descrizione di Atlante che «sostiene l’ampio cielo per una potente necessità ai confini della terra», come segnalano vari commentatori. 90 Ovvero «nelle catene del limite» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν). Ancora l’insistenza sui vincoli, ancora da intendere sostanzialmente in senso logico, nonostante la tendenza da parte di alcuni interpreti a insistere sui limiti spaziali. L’associazione di Giustizia (v. 14) e Necessità suggerisce in effetti a McKirahan (p. 200) che in gioco siano soprattutto forza e\o costrizione. Nel riferimento ai vincoli e alle catene Barbara Cassin (“Le chant des Sirènes dans le Poème de Parménide. Quelques remarques sur le fr. 8.34", in 164 Per questo92 non incompiuto93 l’essere [è] lecito che sia94: Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 163-169) ha colto un’eco di Odissea XII, 158-162: Σειρήνων μὲν πρῶτον ἀνώγει θεσπεσιάων φθόγγον ἀλεύασθαι καὶ λειμῶν’ ἀνθεμόεντα. οἶον ἔμ’ ἠνώγει ὄπ’ ἀκουέμεν· ἀλλά με δεσμῷ δήσατ’ ἐν ἀργαλέῳ, ὄφρ’ ἔμπεδον αὐτόθι μίμνω, ὀρθὸν ἐν ἱστοπέδῃ, ἐκ δ’ αὐτοῦ πείρατ’ ἀνήφθω Per prima cosa ci impone delle Sirene di evitare il canto e il loro prato fiorito. Posso ascoltarlo solo io, ma con fune saldissima dovete legarmi, così che io resti immobile, ritto alla base dell’albero – ad esso siano fissate le funi. 91 Il confinamento da parte di Necessità-Costrizione è paradigmatico della concezione tradizionale greca per cui giustizia è mantenere il proprio luogo specifico, rispettare il proprio ruolo (Mourelatos, p. 119). 92 La congiunzione οὕνεκεν ha etimologicamente (οὗ ἕνεκεν) il significato di «ragion per cui», «cosa a causa della quale»; ha anche il significato di «poiché», «a causa del fatto che» (privilegiato da Fränkel), e può essere usata come ὅτι con il valore di «che», «il fatto che». Nel contesto preferiamo la resa etimologica (privilegiata da Diels), ritenendo che la perfezione dell’essere sia giustificata in quel che precede, ancorché con il ricorso a un’immagine (la costrizione delle catene di Necessità) di probabile matrice letteraria. 93 Secondo Coxon (p. 208), Parmenide impiegherebbe ἀτελεύτητον nella sua valenza omerica di «unfinished». Rendiamo con «incompiuto», «imperfetto». Mansfeld (p. 100) sottolinea il nesso tra l’essere vincolato e l’essere compiuto e perfetto, recuperando come implicito nel greco anche il valore di «realizzazione» e, di conseguenza, l’idea di un vincolo che legherebbe la cosa alla propria realizzazione. Si veda per questo R.B. Onians, The Origins of European Thought about the Body, the Mind, the Soul, the World, Time and Fate, C.U.P., Cambridge19882, pp. 426-66. Mourelatos (p. 121) sottolinea come il verbo τελέω sia collegato al motivo del viaggio e abbia un'importante relazione con il verbo ἀνύω (consumare) e forse con l’idea di πεῖρας, come legame circolare. Nell’epica in generale il verbo esprime compimento, realizzazione di promesse, desideri, predizioni e compiti (comprensivi di viaggi). È in relazione a questa idea di compimento che il termine ammetterebbe il valore - più debole - di «fine», nel senso di «estremità» o «termine». 94 Abbiamo cercato di conservare la costruzione del verso greco, forzando la costruzione italiana. 165 non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere95, invece, mancherebbe di tutto. La stessa cosa96 invero è pensare97 e il pensiero98 che99 «è»: 95 Intendiamo l’espressione μὴ ἐὸν come participio sostantivo, in contrapposizione al precedente τὸ ἐὸν: quindi «il non essere» ovvero «ciò che non è» (espressione tuttavia meno felice nel contesto). Ci troveremmo in presenza di una articolazione del discorso imperniata su essere (τὸ ἐὸν) e non-essere (μὴ ἐὸν): non è lecito che l’essere sia incompiuto: in effetti non manca di niente; il non-essere, invece, mancherebbe di tutto». D'altra parte, μὴ ἐὸν può essere reso in senso verbale: letteralmente la Dea ipotizzerebbe: «se [l’essere] non fosse [non-manchevole], mancherebbe di tutto». 96 A questo punto avrebbe inizio secondo Mansfeld (p. 101) un excursus che impegnerebbe Parmenide fino al verso 41. Dello stesso orientamento anche Guthrie e Kirk-Raven, cui si oppone, per esempio, Mourelatos (p. 165). Molto convincente la lettura di McKirahan (p. 202): i vv. 34-41 esplorerebbero le implicazioni del precedente (B2.7-8) «non potresti conoscere ciò che non è […] né indicarlo». Se qualcosa è possibile conoscere o affermare, deve trattarsi non di «ciò-che-non-è», ma (come conseguenza dell’alternativa) di ciò-che-è. Esiste una proposta (originariamente suggerita da Calogero) di restauro del testo greco da parte di Theodor Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", «Phronesis», 34, 1989, pp. 121-138), secondo il quale il blocco di versi 34-41 andrebbe rilocato dopo il verso 52. Come ha di recente sottolineato anche J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 352-4), il testo guadagnerebbe in coerenza sia nel blocco centrale del frammento, sia in quello conclusivo. Dello stesso avviso Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 32 ss.). Ciò significherebbe, tuttavia, mettere in discussione l'affidabilità della redazione del poema utilizzata da Simplicio (che Diels riteneva «im Ganzen vortrefflich»): come ha sostenuto Passa nella prima parte del suo lavoro, il testo simpliciano ha alle spalle, in misura più accentuata rispetto ad altre fonti, un'interpretazione del poema di Parmenide in chiave neoplatonizzante e pitagorizzante, che può averne alterato la ricezione. Passa si limita tuttavia a indicare scelte espressive, mentre l'ipotesi Ebert (e ora Palmer e Ferrari) implica un vero e proprio montaggio del testo, aprendo una serie di possibili altri problemi testuali relativi ad altri passaggi dei codici manoscritti. A Ebert va dato atto, nello specifico, di aver sollevato un problema serio: nessun'altra fonte antica cita il v. 34 dopo il v. 33 o il v. 42 dopo il v. 41. 97 Rendiamo ἐστὶ νοεῖν letteralmente. Sulla traduzione, tuttavia, esiste grande discordanza. Prevalgono due orientamenti, che optano per una resa diversa: (i) «thinking is» (Owen, Sedley); (ii) «is to be thought» (Mourelatos), «is there to be thought» (Kirk-Raven-Schofield), «is for thinking» (Curd). McKirahan (p. 203) traduce «is to be thought of» intendendo l’espressione 166 [35] giacché non senza l’essere, in cui100 [il pensiero] è espresso101, come un richiamo di B2.2: ciò che è disponibile per il pensiero (ovvero “per essere pensato”). 98 Intendiamo il verso nel suo insieme come una ricapitolazione di B3 (a sua volta conclusione di B2): ciò che è è l’unico reale oggetto del pensiero. Solo ciò che è è disponibile come oggetto del pensiero e non esiste altro oltre ciò che è: quindi solo ciò che è può essere pensato (McKirahan, pp. 203-4). Sulla scorta di questa interpretazione, McKirahan suggerisce di interpretare anche l’affermazione di B5: «indifferente è per me donde debba iniziare: là, infatti, ancora una volta farò ritorno». 99 Intendiamo οὕνεκεν, in questo caso, come congiunzione equivalente a ὅτι («che»), come, tra gli altri, Calogero («La stessa cosa è il pensare e il pensiero che è»), Guthrie («What can be thought [apprehended] and the thought that “it is” are the same»), Tarán («It is the same to think and the thought that [the object of thought] exists»), O’Brien («C’est une même chose que penser, et la pensee: “est”»), Conche («C’est le même penser et la pensée qu’il y a»), Cassin («C'est la même chose penser et la pensée que "est"»). L'alternativa è rendere οὕνεκεν come formula pronominale, composta dal pronome neutro (caso genitivo) + preposizione. Questa lettura è difesa – tra gli interpreti recenti - da Reale («Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero»), Coxon («The same thing is for conceiving as is cause of the thought conceived»), Heitsch («Dasselbe aber ist Erkenntnis und das, woraufhin Erkenntnis ist»), Cerri («La stessa cosa è capire e ciò per cui si capisce»), Cordero («Thinking and that because of which there is thinking are the same»), Gemelli Marciano («Dasselbe ist zu denken und das, was den Gedanken verursacht»). Diels, intendendo come τὸ οὗ ἕνεκα con valore finale (ciò in vista di cui), aveva reso: «Denken und des Gedankens Ziel ist eins». Lo ha seguito Beaufret («Or c’est le même, penser et ce à dessein de quoi il y a pensée»). Lunga disamina critica in Tarán, pp. 120-3. Di recente McKirahan (p. 203) ha difeso la lettura causale di οὕνεκεν, ma ha avanzato l’ipotesi suggestiva che l’espressione abbia contemporaneamente anche una sfumatura finale. 100 Per evitare la difficoltà di una traduzione che sottolinea come il pensiero sia espresso «nell’essere», sono state proposte varie alternative. Zeller, Burnet, Cornford, Raven (tra gli altri) preferiscono rendere ἐν ᾧ con una perifrasi: «a soggetto del quale», «in riferimento al quale», «rispetto al quale». A conclusione di una lunga discussione (pp. 123-8), Tarán (seguendo Albertelli e Mondolfo) propone «in what has been expressed». A questa traduzione (cui ricorre anche Sedley) sono state tuttavia opposte obiezioni di ordine grammaticale (si veda Robbiano, p. 170). La Robbiano (pp. 169-170) intende ἐν ᾧ come equivalente a ἐν τούτῳ ἐν ᾧ, proponendo τὸ νοεῖν come soggetto di πεφατισμένον ἐστίν. Il passo in traduzione risulta quindi: «for without Being you will not find understanding in that where understanding 167 troverai il pensare. Né102, infatti, esiste, né esisterà altro oltre103 all’essere104, poiché105 Moira lo ha costretto106 a essere intero e immobile107. Per esso108 tutte le cose saranno nome109, has been given expression». In questo caso ἐν ᾧ non si riferirebbe a τὸ ἐόν, ma a una formula implicita per «le mie parole, i versi del mio poema». La dea spiegherebbe, insomma, che non si può trovare νοεῖν in ciò che esprime νοεῖν, se non si trova l’Essere (τὸ ἐόν): per raggiungere la comprensione non è sufficiente ascoltare le parole della dea, ma si deve trovare l’Essere. Preferiamo, come versione più naturale, la traduzione (per lo più adottata dagli interpreti recenti) che risale a Diels («denn nicht ohne das Seiende, in dem sich jenes ausgesprochen findet, kannst Du das Denken antreffen»). 101 Secondo Ruggiu (p. 303, nota), πεφατισμένον indicherebbe non solo che il pensiero è manifestativo dell’Essere, ma che l’Essere è tale in quanto fondamento di ogni manifestabilità. In questo senso, πεφατισμένον sarebbe equivalente a φατὸν e νοητόν (B8.8) e οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις (B2.7-8). 102 Rendiamo le due congiunzioni < ἢ >... ἢ precedute da οὐδὲν come «né…né». 103 La formula ἄλλο πάρεξ è adattamento di analoga formula epica (ἄλλα παρὲξ). 104 Secondo Mansfeld (p. 101) Parmenide affermerebbe in questo passaggio l’identità di pensiero e essere, implicando che il pensiero non possa essere qualcosa di altro, indipendente, contrapposto all’essere o comunque estraneo a esso. 105 Anche in questo caso è la costrizione della divinità di turno (Moira) a giustificare compiutezza e unicità dell’essere parmenideo. 106 Si ripete, con ἐπέδησεν, la suggestione dell’incatenamento, della costrizione (da intendere, fuor di metafora, in senso logico). La formula μοῖρ΄ ἐπέδησεν è epica. 107 Le due connotazioni - οὖλον ἀκίνητον – marcano l’integrità e immutabilità, reiteratamente richiamate nel frammento. Per ἀκίνητον, tuttavia, vale quanto segnalato sopra: la sua comprensione, come suggerisce McKirahan, è probabilmente da collegare alla metafora dei legami e della costrizione. Così, l’integrità di ciò che è (espressa da οὖλον) è sostenuta dall’immagine della costrizione a essere pienamente ciò che è. 108 Seguiamo Palmer (op. cit., pp. 171-2) nell'intendere τῷ come pronome relativo (riferito a τὸ ἐόν): dal momento che egli accoglie la lettura πάντ΄ ὀνόμασται del secondo emistichio, la sua traduzione risulta: «to it all things have been given as names». Lo studioso si appoggia a una costruzione analoga presente in Empedocle B8.4: φύσις δ’ ἐπὶ τοῖς ὀνομάζεται ἀνθρώποισιν 168 quante i mortali stabilirono110, persuasi che fossero reali111: [40] nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo112 e mutare luminoso colore113. natura è data come nome a questi [processi di mescolanza e separazione] dagli uomini. La resa pronominale di τῷ è comunque assolutamente compatibile anche con la lezione Diels-Kranz da noi adottata: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται Per esso [τὸ ἐόν] tutte le cose saranno nome. Per lo più gli editori hanno reso τῷ con valore assoluto come «perciò». 109 Il greco ὄνομα è singolare, per marcare l’identità nominale dei neutri plurali πάντα e ὅσσα: genericamente cose, eventi, fenomeni, la cui natura mutevole si rivela solo nome. La lezione alternativa dei codici di Simplicio - τῷ πάντ΄ ὀνόμασται - è variamente tradotta: «wherefore it has been named all things» (Gallop), attribuendo a τῷ valore avverbiale, ma anche «With reference to it [the real world], are all names given» (Woodbury), intendendo τῷ come un dimostrativo riferentesi a τὸ ἐὸν, ovvero (Leszl p. 231) «in relazione a questo è assegnato, come nome». Da osservare che una lunga tradizione risalente a Diels, ha tradotto l’emistichio introducendo un implicito aggettivo peggiorativo (blosser, ovvero «mero») al sostantivo «nome», assolutamente assente nel testo greco. Una diversa tendenza si è manifestata nelle versioni degli ultimi decenni. 110 Il verbo κατέθεντο ricorre tre volte nei frammenti del poema (qui, in B8.53 e B19.3): sottolinea la matrice linguistica della ordinaria comprensione del mondo. 111 Il greco è ἀληθῆ. McKirahan (p. 202) ha, secondo noi, correttamente colto il senso complessivo del passo: i vv. 34-38 argomentano che l’unico possibile oggetto di pensiero e linguaggio è ciò-che-è; i vv. 38-41 ricavano la conclusione che, a prescindere da ciò cui i mortali pretendano di riferirsi nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente (veramente) pensano e possono pensare è ciò-che-è. Ciò-che-è è l’oggetto dei loro pensieri, anche di quei pensieri che ricorrono a formule proibite come generazione e corruzione. Leszl (p. 231) osserva come la tesi di Parmenide sarebbe che i «mortali» applicano all'essere – commettendo un errore – tutte le designazioni: il loro errore consisterebbe dunque nell'imporre nomi all'essere stesso, non nell'applicarli alle cose. 112 Tarán (pp. 138-9) ammette che, nella espressione τόπον ἀλλάσσειν, il sostantivo τόπος molto probabilmente significa «spazio vuoto». Parmenide, tuttavia, non sarebbe qui interessato a una polemica nei confronti dei 169 Inoltre, dal momento che [vi è]114 un limite115 estremo116, [ciò che è] è compiuto117 da tutte le parti118, simile119 a massa120 di ben rotonda121 palla122, sostenitori della esistenza del vuoto, ma solo a rilevare la contraddittorietà del fenomeno del moto locale. 113 Il secondo emistichio - διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν – è variamente tradotto. Coxon (pp. 211-2) rende con «change their bright complexion to dark and from dark to bright». Come Reinhardt, egli coglie un'allusione alla successiva teoria (DKB9) della composizione degli enti. Le differenze nelle traduzioni dipendono soprattutto dall’intendere χρόα – accusativo di χρώς, «colore» - come χροιά ovvero χρόα, «superficie». O’Brien (p. 56) sottolinea come al significato di «complessione» (cui si riferisce anche Coxon) sia nel contesto da preferire quello più generico di «colore». 114 La proposizione introdotta da ἐπεί può omettere ἐστι: la traduzione può renderlo in questo caso come predicato verbale (come abbiamo fatto) ovvero come copula: «il limite è estremo». 115 Mourelatos (pp. 128-9) nota come l’immagine dei legami e dei limiti si faccia progressivamente «più plastica e concreta» man mano che B8 procede, per raggiungere il proprio culmine appunto in questo passaggio. 116 L’aggettivo πύματος significa «estremo», «ultimo»: in Omero indica, per esempio, il bordo estremo di uno scudo, ciò che lo limita e oltre il quale non c’è più scudo (Conche p. 176). 117 L’espressione τετελεσμένον πάντοθεν indica la completezza di ciò che è, risultando equivalente di πάμπαν πελέναι. Come ha convincentemente marcato McKirahan (pp. 212-213), le indicazioni spaziali, letteralmente disseminate nei vv. 42-49, possono essere intese anche in senso metaforico. Si tratta di naturali sviluppi della nozione di πέρας, le cui prime occorrenze, anche in ambito filosofico, hanno a che fare con i limiti spaziali, ma che presto è usata anche per altre finalità, non spaziali (come attesta il contemporaneo di Parmenide Eschilo). Thanassas (pp. 53-4), dal canto suo, valorizza una interessante implicazione: il limite che abbraccia e conserva l’interezza del reale (preservandola dal Non-Essere), consente da un lato di riconoscere l’eon «completo da ogni lato», dall’altro di intendere tutte le apparenze (appearances) come equivalenti, come esseri. Ciò richiamerebbe l’affermazione conclusiva della dea nel proemio, che nella versione accolta da Thanassas e da noi condivisa suona: διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, «tutte insieme davvero esistenti». 118 L’avverbio πάντοθεν, sia che lo si intenda riferito a τετελεσμένον ἐστί (come nel nostro caso), sia che lo si riferisca, invece, a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, sembra esprimere comunque un punto di vista, una prospettiva “esterna” (Mourelatos p. 126). Come, d’altra parte, per lo più 170 suggeriscono anche le altre immagini del frammento (lacci, legami, catene che rinserrano tutto intorno). 119 L’aggettivo ἐναλίγκιον introduce indubbiamente una comparazione, che tuttavia non si riferisce, si badi bene, direttamente a σφαῖρη (palla, sfera), ma a ὄγκος (massa, estensione). 120 Il termine ὄγκος può tradursi come «massa», volume fisico (Coxon p. 214): in tal senso è da intendersi dunque la «ben rotonda palla». Parmenide si riferisce probabilmente all'estensione fisica, tridimensionale, e alla forma geometrica compiuta. Conche (p. 177) suggerisce «grosseur» o «corps». Di recente McKirahan (pp. 213-4), riprendendo la questione, ha ritenuto significativo che Parmenide non dica che «ciò-che-è» è una sfera o simile a una sfera, ma «simile al corpo di una sfera», una espressione giudicata «inaspettatamente elusiva». Non si tratterebbe, infatti, né di massa (nel senso di peso) della sfera, né della sua misura, né di altre qualità fisiche, né, pur avendo a che fare con la forma della sfera, di forma o superficie. L’espressione potrebbe approssimativamente tradursi come «estensione fisica»: «fisica» per suggerire che non si tratta di astratta nozione geometrica; «estensione», in vece di «misura», per evitare la tentazione di pensarla come una quantità determinata. Mourelatos (p. 126) aveva a suo tempo segnalato il fatto che ὄγκος è espressione parmenidea per estensione tridimensionale e che il carattere che essa accentua rispetto alla sfera è la forma. 121 Come suggerisce Mourelatos (p. 127), intendendo πάντοθεν riferito a εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, l’aggettivo εὔκυκλος definirebbe un oggetto che, osservato da tutte le parti, ha il contorno di un cerchio perfetto. Come abbiamo in precedenza ricordato, Tonelli (p. 117 e pp. 133-4) ha sottolineato il nesso tra εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ - riferito a τὸ ἐὸν – e ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ (B1.29): la forma sferica è forma archetipica della perfezione e della totalità. 122 Seguo Leszl (p. 211) nel tradurre σφαῖρη come «palla», analogamente all’omerico σφαίρῃ παίζειν (giocare a palla). Ciò rende più efficace l’accostamento: Leszl osserva che «se l’essere fosse detto «simile a una sfera», l’implicazione potrebbe essere che esso non è veramente una sfera, mentre se è detto «simile a una palla», la giustificazione per quest’affermazione può essere precisamente che è una sfera». L’espressione εὐκύκλου σφαίρης ὄγκῳ rivelerebbe invece, secondo Coxon (p. 214), che Parmenide qui non intende genericamente un corpo a palla, ma proprio la sfera (σφαῖρη), la cui perfetta rotondità è sottolineata dall’epiteto εὐκύκλου. In ogni caso è ancora da osservare – con Mourelatos (p. 126) - come la comparazione proposta non sia direttamente tra ciò-che-è e una palla, piuttosto tra la completezza di ciò-che-è e l’espansione-estensione di una palla perfetta, ben-rotonda. L’analogia si riferirebbe alla curvatura esterna della sfera. 171 a partire dal centro123 ovunque di ugual consistenza124: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, Diels e Brehier hanno voluto cogliere dietro l’espressione l’influenza pitagorica: essa alluderebbe, quindi, a una immagine geometrica. Conche (p. 177) ribatte marcando come, in tal caso, non avrebbe senso precisare εὐκύκλου. L’immagine sarebbe invece «fisica». Il sostenitore più coerente della natura geometrico-spaziale dell’Essere parmenideo è De Santillana (Le origini del pensiero scientifico, Sansoni, Firenze 1966): l’Essere sarebbe il risultato di un processo di astrazione in cui Parmenide avrebbe tenuto presenti spazio del matematico e spazio del fisico. L’Essere sarebbe dunque un plenum, un'estensione corporea densa, cristallina: la realtà fisica non sarebbe illusoria, ma avrebbe luogo nello spazio geometrico, occupandolo. Coerentemente con la propria interpretazione dei segni come indici della consapevolezza cognitiva del kouros, la Stemich (op. cit., p. 212) ritiene che l’immagine della sfera, cioè della più perfetta di tutte le forme, attesti che la conoscenza dell’essere è la forma più pura del pensiero: la somma facoltà di pensiero del kouros, nel momento della conoscenza dell’essere, è completamente conchiusa in se stessa, coincidendo a tutto tondo con la verità della Dea. 123 Dal momento che è difficile attribuire parti all’essere, il termine μεσσόθεν è stato spesso volto in senso metaforico. Concordiamo con Conche (p. 180), che il centro cui si riferisce la Dea sia quello del mondo e che ella sottolinei come in ogni parte dell’universo l’essere sia lo stesso. Coxon (p. 217), invece, sottolinea come l’equilibrio cui Parmenide allude con μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ sia di carattere «non-fisico», e funga da complemento alla nozione di perfezione universale (somiglianza con il volume della sfera), marcando la sussistenza in se stessa di questa perfezione, la sua totale ed eguale dipendenza dal suo proprio centro. 124 Intendiamo l’espressione μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ come un rilievo della compattezza dell’Essere: ἰσοπαλές concorda con il neutro ἐόν\τὸ ἐόν, non con il maschile ὄγκος (o il femminile σφαῖρη), dunque con il soggetto sottinteso («ciò che è»), non con «massa di ben rotonda palla». Dal centro alla superficie della sfera si esprime la stessa forza (Diels, Tarán), ovvero lo stesso «peso», lo stesso «equilibrio», la stessa «spinta». Ruggiu (p. 309), riprende (da Calogero, Vlastos, Mourelatos e Guthrie) l’idea che l’immagine della sfera esprima una «uguaglianza dinamica»: forza e potenza dell’Essere si estendono in modo uguale dal centro alla periferia e dalla periferia al centro, senza possibilità di differenza alcuna in intensità o potenza d’essere. O’Brien e Conche preferiscono rendere come «uguale a se stesso», privilegiando l’aspetto della omogeneità a quello dinamico dell’aggettivo: è in particolare rilevante la sottolineatura, da parte di Conche (p. 180), di un fatto che nel contesto può sfuggire: ἰσοπαλές si riferisce all’Essere e non alla sfera. Secondo Mourelatos (p. 127) avremmo qui, invece, la definizione 172 [45] o in qualche misura di meno 125, da una parte o dall’altra126. Non vi è, infatti, non essere127, che possa impedirgli di giungere a omogeneità128, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è 129 - qui più, lì meno130, poiché131 è tutto inviolabile132. di equidistanza: ἰσοπαλές esprimerebbe l’idea di espansione uguale in ogni direzione. 125 Rendiamo in questo modo οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον, per sottolineare l’omogeneità dell’Essere in senso intensivo: non c’è un più o un meno d’essere. Si vedano anche i successivi τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον (v. 48). 126 Ruggiu (pp. 309-10) osserva come perfezione e stabilità dell’Essere non dipendano da vincoli esterni, ma dalla simmetrica distribuzione delle forze interne e dall’assoluta uguaglianza che sussiste tra le parti. 127 Traduciamo letteralmente οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι. Cerri (p. 239) osserva che, in questo caso, οὐκ ἐὸν «significa né più né meno che “vuoto”, “spazio vuoto”, “assenza di essere\materia”». 128 Traduciamo così l’espressione εἰς ὁμόν: il non-essere potrebbe teoricamente interrompere e discriminare l’identità e l’uguaglianza con se stesso di ciò che è. In questa direzione anche le traduzioni di O’Brien («à la similitude ») e Conche («à l’egalité à soi-même»). 129 Utilizziamo la forma dell’inciso (traducendo ἐόντος come «di ciò che è»), per facilitare la lettura in italiano. Avremmo potuto impiegare il pronome «di esso», ma abbiamo scelto di rimanere aderenti alla ripetizione greca. 130 L’espressione τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον ribadisce sostanzialmente omogeneità e uniformità già argomentate, e dunque la pienezza d’essere di ciò che è. Come ha osservato McKirahan (p. 213), Parmenide ha ogni motivo per concludere la trattazione di ciò-che-è sottolineando l’importanza della tesi che «ciò-che-è» è pienamente, esprimendola in modi differenti per catturare l’attenzione del suo pubblico e condurlo a comprendere il suo punto più chiaramente. 131 Recentemente Palmer (op. cit., pp. 157-8) – per evitare di fare del v. 49 (οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) la ragione (γὰρ) dell'affermazione di v. 48b (πᾶν ἐστιν ἄσυλον), a sua volta proposta a giustificazione (ἐπεὶ) dei vv. 47-48a, che contengono una delle ragioni a sostegno di quanto affermato ai vv. 44b-45, rischiando così la circolarità – ha proposto di inserire un punto prima di ἐπεὶ, legando quindi il v. 48b al v. 49b: «Poiché è tutto inviolabile – dal momento che è a se stesso da ogni parte uguale – uniformemente entro i suoi limiti rimane». In questo modo 173 A se stesso, infatti, da ogni parte uguale133, uniformemente134 entro i [suoi] limiti rimane135. ἐπεὶ introdurrebbe la ragione per l'affermazione (riassuntiva) finale: «uniformemente entro i [suoi] limiti rimane». 132 Il termine ἄσυλον evoca uno sfondo religioso: ἀσυλία era concetto del linguaggio giuridico religioso e indicava la condizione di inviolabilità di persone o luoghi sacri, associati al culto, la violenza nei confronti dei quali era perseguita, come sacrilegio, con la condanna capitale. Secondo Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) l’allusione religiosa andrebbe posta in relazione con la rivelazione del proemio. Nel contesto l’inviolabilità può intendersi come altra faccia della costrizione che tiene insieme ciò che è, che gli impedisce di essere diversamente da come è: impossibilità che gli siano sottratti i suoi attributi o gliene siano imposti altri che non ha (McKirahan p. 213). 133 Parmenide afferma l’eguaglianza dell’essere con se stesso (οἷ πάντοθεν ἶσον) - che esclude non-essere e possibili gradi d’essere – in relazione ai suoi limiti. Come osserva Coxon (p. 216), l’Essere è universalmente uguale a se stesso nel senso che è uniformemente confinato da un limite (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει), il quale, essendo estremo, non lo divide da qualcos’altro ma lo determina a essere quello che è e identifica la sua perfezione. Mourelatos (p. 127) suggerisce una lettura diversa: in riferimento alla sfera, si valorizzerebbe il fatto che è un oggetto sempre uguale a se stesso, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. 134 Così rendiamo ὁμῶς, che si dovrebbe più letteralmente tradurre come «ugualmente», «allo stesso modo». Mourelatos (p. 127) sottolinea come dire di qualcosa che «è presente» ugualmente entro i suoi limiti sia un modo di affermare che è simmetrico. 135 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 150) traduce κύρει come «tende»: il verbo introdurrebbe un elemento dinamico, in tensione con la precedente connotazione statica dell’essere, presentando l’essere quasi fosse un organismo vivente, che tende a espandersi come un respiro verso i suoi limiti. In questo modo l’essere sarebbe presentato dall’interno: dall’esterno ne sarebbe dunque accentuata l’immobilità, dall’interno il dinamismo. 174 DK B8 vv. 50-61 [50] ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης1 · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας2 ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν -· [55] ἀντία3 δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν 4, μέγ΄ ἐλαφρόν5, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε. [60] τόν6 σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη 7 παρελάσσῃ 8. 1 Come in B1.29 indendiamo Ἀληθείη come nome divino. 2 I codici DEEa F di Simplicio Phys. 39, 1 riportano γνώμας, forma per lo più accolta dagli editori; i codici DEF di Phys. 30, 23 e DEF2 di Phys. 180, 1 riportano invece γνώμαις. 3 Ι codici DE di Simplicio riportano ἐναντία; alcuni editori leggono τἀντία. 4 Nei codici DE di Simplicio ritroviamo ἤπιον τὸ in vece di ἤπιον ὄν. 5 I codici delle tre citazioni di Simplicio riproducono il verso 57 con evidenti irregolarità metriche, per la presenza di ἀραιόν (rarefatto) prima di ἐλαφρόν. Il testo risulterebbe dunque: «che è mite, molto rarefatto e leggero....». Si è per lo più ritenuto che uno dei due aggettivi fosse glossa dell'altro, con conseguente espunzione. La versione del testo che suggeriamo è quella per lo più adottata. Cerri, che sceglie di conservare il testo dei codici, senza espunzioni, in una lunga nota testuale, con grande acribia ricostruisce la probabile fisionomia del testo di Simplicio in questa forma:ἤπιον ἀραιόν ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν. Da osservare che il termine ἀραιόν («raro», «rarefatto») è probabilmente da considerare un termine tecnico della cosmogonia milesia (Anassimandro DK 12 A22, Anassimene DK 13 B1). Al contrario, il termine ἐλαφρόν non è attestato nel linguaggio fisico presocratico. Coxon (p. 223) considera ἀραιόν certamente parmenideo, in quanto utilizzato come opposto di πυκνόν da Melisso e Anassagora e nella tradizione dossografica sulla fisica di Parmenide. 6 L'aggettivo dimostrativo τόν è concordato con διάκοσμον. Karsten propose di correggere il testo dei codici con τῶν. Il senso sarebbe allora: «relativamente a queste cose, io ti espongo ordinamento del tutto verosimile». 175 [Fonti principali: vv. 1-52 Simplicio, In Aristotelis Physicam 145-146; vv. 50-61 Simplicio, In Aristotelis Physicam 38-39] 7 Nella trascrizione dei codici, alcuni editori (Stein, tra i contemporanei seguito tra gli altri da Coxon, O'Brien) intendono γνώμῃ. Il significato complessivo del verso cambia di poco: «così che nessuno dei mortali possa esserti superiore nell'opinione» ovvero «nel giudizio» (o «practical judgement» Coxon). 8 I codici Ea F di Simplicio riportano παρελάσση, i codici DE παρελάση: gli editori hanno corretto in παρελάσσῃ. 176 [50] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile1 e al pensiero intorno a Verità2; da questo momento3 in poi opinioni4 mortali5 impara6, l’ordine7 delle mie8 parole9 ascoltando10, che può ingannare11. 1 L'aggettivo πιστὸν è immediatamente riferito a λόγον, ma può riferirsi anche a νόημα: in qualche caso le traduzioni scelgono questa strada. Qui abbiamo preferito mantenere distinti i due oggetti - πιστὸν λόγον e νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – che ci sembrano reiterare e rafforzare lo stesso concetto. 2 Si potrebbe rendere νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης – e si deve comunque intendere - anche come «pensiero intorno alla realtà». 3 I due versi 50-51 segnano il passaggio tra una sezione l'altra: la conclusione della Verità è segnalata da ἐν τῷ σοι παύω, l'attacco della Doxa da ἀπὸ τοῦδε [...] μάνθανε. 4 Ovvero «convinzioni» o «considerazioni». 5 L'espressione δόξας βροτείας – in considerazione del soggetto divino della comunicazione - potrebbe forse rendersi semplicemente con «opinioni umane». 6 L'imperativo μάνθανε riprende, nell'introdurre la sezione sulla Doxa, il programmatico futuro μαθήσεαι di B1.31. Cerri (p. 242) sottolinea il valore "scientifico" che il verbo venne ad assumere all'epoca, non indicando il mero ascoltare e memorizzare, ma «l'essere fatto partecipe di una elaborazione scientifica, di una dimostrazione rigorosa ed esaustiva». Interessante soprattutto ritrovare un verbo come μανθάνω, senza dubbio positivamente connotato in termini gnoseologici, nell'imminenza dell’esposizione della Doxa: B10 presenterà ancora εἴσῃ («conoscerai»), πεύσῃ («apprenderai»), εἰδήσεις («conoscerai»). Lo stesso B11 doveva esordire con un'esortazione simile. Tutti indizi di consistenza, evidentemente riconosciuta dalla divinità al sapere che andava a esporre. 7 Si potrebbe forse rendere κόσμον ἐπέων come «costrutto verbale», «sintassi verbale». In ogni modo è da preferire una resa letterale del sostantivo κόσμος (come suggerisce O' Brien, p. 57: «arrangement») nel senso di τάξις (Anassimandro). Mourelatos (p. 226) indica come possibilità anche «forma». Nella cultura arcaica l'espressione ricorre tra l'altro in Solone (κόσμον ἐπέων ὠιδὴν fr. 2.2 Diels); nel V-IV secolo in Democrito (DK 68 B21): in entrambi i casi si sottolinea la composizione, l'artificio poetico. Coxon (p. 218), che rende il greco come «composition», sostiene che il termine sarebbe stato scelto per la sua congruità con il successivo διάκοσμος, «sistema», che la «composizione» deve esporre. Una interpretazione radicalmente diversa è quella di J. Frère ("Parménide et l'ordre du monde: fr VIII, 50-61", in Études 177 sur Parménide cit., vol. II, pp. 199-200), che legge il genitivo ἐμῶν ἐπέων come complemento indiretto («dalle mie parole») di ἀκούων, e κόσμον come «ordine del mondo». Robbiano (op. cit., p. 182) avanza l'ipotesi che κόσμος mantenesse in Parmenide il suo valore omerico (disposizione ordinata che è conveniente, che funziona e che è anche bella da vedere: il prodotto di un essere intelligente), precedente al riferimento (che per altro conservava aspetti della accezione originaria) all'universo (per la prima volta forse in Eraclito B30). Nello specifico, secondo la studiosa, kosmos si riferirebbe a prodotto della mente e della parola umana: a ciò che vediamo da una certa prospettiva (umana) e non a ciò che (e come) le cose sono nell'ottica divina. Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", cit., p. 60) ha invece ipotizzato che κόσμος significhi nel contesto il mondo di cui la dea parla: «da questo punto in avanti, impara le opinioni mortali, venendo a conoscere (attraverso l'ascolto) il mondo ingannevole cui le mie parole si riferiscono». È possibile che le affermazioni di cui consta la Doxa, la teoria che essa contiene, non siano di per sé erronee, che descrivano correttamente un mondo di per sé ingannevole, in quanto mascherato da realtà quando è solo apparenza. 8 L'uso dell'aggettivo possessivo sottolinea l'autorità della comunicazione e l'assunzione di responsabilità nell'introduzione della sezione sulla Doxa: analogamente ai pronomi personali ἐγὼν (B2.1), μοί (B5.1), ἐγὼ (B6.2), ἐγὼ (v. 60). 9 Coxon (p. 218) segnala l'opposizione di κόσμον ἐπέων a λόγος: «discorso poetico» sarebbe contrapposto a «discorso razionale». D'altra parte la cultura del V secolo riconosceva un nesso tra ἔπη e δόξα (come risulta da Euripide, Eracle 111). Cerri (p. 243) non è, tuttavia, disposto a esagerarne, nel contesto, le implicazioni: in particolare, l'irrazionalità e l'ingannevolezza delle parole che seguono sarebbero solo relative. Tarán (p. 221) sottolinea come la Dea, pur impiegando parole secondo le regole della grammatica e della poesia, non potrà evitare che il suo discorso risulti decettivo. 10 Nuovamente (dopo B2.1) il κοῦρος viene invitato ad ascoltare, a manifestare con la disponibilità all'ascolto la propria aspirazione alla conoscenza. 11 Dobbiamo a J. Frère (op. cit., p. 201) il rilievo circa il significato antico di ἀπατηλός: che non sarebbe, come per il corrispettivo moderno, «ingannevole», piuttosto «suscettibile di ingannare». La sua resa francese è la seguente: «[un ordre du monde], où l'on peut se trompeur». Lo studioso propone in effetti di collegare κόσμον e ἀπατηλὸν, senza fare di ἐμῶν ἐπέων un genitivo dipendente da κόσμον, ma vedendovi un complemento di ἀκούων (p. 199). Reale sceglie di rendere l'aggettivo con «seducente»: Ruggiu nel suo commento (pp. 313) sottolinea come il senso dell'aggettivo vada colto nella relazione di apertura alla verità e all'errore (come sarebbe proprio di ogni seduzione), alla luce del suo oggetto, l'apparire. Mourelatos (p. 227) ha valorizzato le potenziali ambiguità della formula κόσμον ἐπέων 178 Presero12 la decisione13, infatti14, di dar nome15 a due16 forme17, ἀπατηλὸν: è la stessa combinazione di parole a celare la tensione di idee contrarie. L'espressione κατὰ κόσμον indica, in effetti, parlare veritativamente, appropriatamente: la polarità κόσμος-ἀπάτη segnalerebbe sia che le δόξαι sono decettive, sia che l'ordinamento delle parole della dea o il loro contesto può suggerire molteplici e\o confliggenti significati. In questo senso Mourelatos invita a tenere a mente la formula esiodea ἐτύμοισιν ὁμοῖα («simili a cose vere», Teogonia 27) e l'espressione ἀμφιλλογία (da tradursi come come «double talk», Teogonia 229), che Esiodo intenderebbe deliberata e maliziosa. Affascinante l'accostamento omerico all'episodio di Odisseo e Polifemo. Lo studioso ne ricava (p. 228) nel contesto una lezione di ironia da parte di Parmenide: i mortali praticano "anfilogia" innocentemente (senza saperlo), cadendo quindi in errore; la dea usa l'anfilogia in modo pienamente consapevole, svelando quindi la verità sulle opinioni umane! 12 Anche chi, come Coxon (p. 219), ritiene che il modello dualistico proposto nella Doxa possa risalire al pitagorismo antico, è convinto che κατέθεντο abbia comunque come soggetto genericamente «gli esseri umani», cogliendo una connessione tra lo stabilire nomi di questo verso e quanto sostenuto nei vv. 34-41. Tuttavia il problema del soggetto del verbo si pone: Frére (p. 203), per esempio, osserva come sia difficile pensare che tutti i «mortali» possano essere assunti come «dualisti», e decide di indicare come soggetto «alcuni» (certains). Seguendo la proposta di Ebert ("Wo beginnt der Weg der Doxa? Eine Textumstellung im Fragment 8 des Parmenides", cit.) di leggere la sequenza dei vv. 34-41 dopo il v. 52, il soggetto di κατέθεντο (e dei successivi ἐκρίναντο e ἔθεντο) diventerebbe βροτοί. Ma quali? Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., p. 261) ritiene, per esempio, che, diversamente dai mortali (senza discernimento, che nulla sanno) di B6, i βροτοί di cui la Dea parla negli ultimi versi di B8 si siano smarriti solo su un punto preciso (B8.54). 13 Secondo Cerri (p. 245), la sequenza di aoristi (κατέθεντο, ἐκρίναντο, ἔθεντο) rivelerebbe un riferimento del discorso della Dea a un lontano passato. Secondo Diels (Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 92) γνώμη κατατίσθεσθαι sarebbe da considerare formula abituale: Liddell-Scott traducono nel nostro caso κατέθεντο γνώμας ὀνομάζειν come «recorded their decision, decided to name». Si potrebbe rendere come «si decisero a nominare». In alternativa si potrebbe costruire il verso facendo dipendere da κατέθεντο («stabilirono») μορφὰς δύο («due forme») e attribuendo all'infinito ὀνομάζειν valore finale (per dar nome), con γνώμας come oggetto diretto: «stabilirono due forme per dar nome ai loro punti di vista» (soluzione vicina a quella adottata da Cerri). O ancora, considerare (come Deichgräber) sia γνώμας sia μορφὰς come oggetti retti da κατέθεντο («posero due forme 179 [come] principi per nominare»). Cordero fa, invece, di δύο γνώμας l'oggetto diretto di κατέθεντο e traduce quindi: «They estabilished two viewpoints to name external forms». Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 278-9) propone una soluzione analoga, intendendo γνώμας come «marque signifiante»; ne risulta: «En effect, ils proposèrent deux formes pour nommer les marques signifiantes». Pur essendo la struttura della frase molto diversa, nella sostanza il significato non muterebbe, come sottolinea anche Conche (p. 190). Frére (p. 203), invece, sottolinea come κατέθεντο non possa in questo caso essere costruito con il complemento diretto. Tenendo conto del fatto che· (i) i vari significati del termine γνώμη sono riconducibili essenzialmente a giudicare, pensare e (conseguentemente) decidere; (ii) nel contesto γνώμας si dovrebbe rendere con «opinioni», «giudizi», «punti di vista»; (iii) esiste nei codici DEF la variante γνώμαις: se accolta, la traduzione dovrebbe risultare: «[Uomini] stabilirono, infatti, due forme per nominare sulla base delle [loro] opinioni»; (iv) in alternativa γνώμας potrebbe essere inteso come accusativo di relazione (Frére: «en leurs jugements») – tutto ciò considerato, optiamo per la soluzione più lineare: quella di intendere κατέθεντο γνώμας come «risolvettero i [loro] punti di vista» e dunque tradurre «presero la decisione», «si decisero a». Va menzionata l'analisi di Mourelatos (pp. 228-9), che riscontra nel verso una costruzione a conferma della sua lettura "anfilogica" della sezione: l'effetto sarebbe quello di far avvertire all'uditore/lettore la tensione tra γνώμην κατέθεντο («essi decisero») e κατέθεντο δύο γνώμας (l'opposto: «essi erano di due opinioni, vacillavano»; situazione che può richiamare quanto espresso da δίκρανοι, B6.5). 14 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 354) ha di recente sottolineato come γὰρ qui abbia poco senso nel contesto, in quanto quel che segue non sembra giustificare le affermazioni della dea nei vv. 51-2: assumerebbe altro valore accettando la proposta di Ebert di "restaurare" i vv. 34-41 dopo il v. 52. In realtà la Dea, in quel che segue, illustra proprio come e dove possa annidarsi la distorsione nel punto di vista umano che va a presentare. 15 La decisione di nominare implica un’arbitrarietà che Parmenide ha già stigmatizzato in B8.38b-39: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Perciò tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali. Sullo stesso motivo ancora in B19: 180 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. Così appunto, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, a partire da ora, sviluppatesi, moriranno. A queste cose un nome gli uomini imposero, particolare per ciascuna. Se teniamo conto della proposta di restauro del testo (vv. 34-41 dopo v. 52) da parte di Ebert, potremmo effettivamente concludere che l'arbitrio della convenzione linguistica è indissociabile dalla concezione parmenidea della Doxa. Leszl (p. 230) ha colto in questo un’anticipazione della distinzioneopposizione tra nomos e physis. 16 Interessante la proposta di Leszl (p. 230): egli suppone infatti che δύο abbia una doppia associazione, traducendo: «i mortali con doppia mente hanno dato nome a due forme». La descrizione dei mortali corrisponderebbe così a quella di B6.4-5. 17 Il valore di μορφαί sarebbe nel contesto, secondo Cerri (p. 246) quello di strutture categoriali, create dall'uomo in funzione delle sue (due) sensazioni più urgenti, sulla base delle quali si costruirebbe successivamente la trama complessa delle parole. Un parallelo in Platone, che sembra evocare direttamente il verso parmenideo: θῶμεν οὖν βούλει, ἔφη, δύο εἴδη τῶν ὄντων, τὸ μὲν ὁρατόν, τὸ δὲ ἀιδές vuoi che stabiliamo, disse, due categorie di tutto ciò che è, l'una del visibile, l'altra dell'invisibile? (Fedone 79 a 6-7). Nella stessa direzione Robbiano (op. cit., p. 181), che vede nelle due forme opposte la possibilità di ridurre il molteplice dell'esperienza «to a minimal number of categories». Per rimanere vicino all'uso arcaico del termine, Cordero (By Being, It Is, cit., p. 156) insiste per rendere μορφαί come «external forms». Analogamente Frére (p. 204) – che opta per «figures», anche alla luce del successivo riferimento a δέμας, che designa corpo e aspetto fisico - e Mourelatos, che rende con «perceptible forms». Granger (“The Cosmology of Mortals”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 112) osserva come la scelta di μορφαί (che significa appunto anche «forme esteriori», «apparenze per un osservatore») potrebbe segnalare il fatto che la dea si è volta dalla realtà alle apparenze. 181 delle quali l’unità18 non è [per loro]19 necessario [nominare]20: in ciò sono andati fuori strada21. 18 L'interpretazione del valore di τῶν μίαν è stata oggetto di interminabile dibattito (che origina nell'antichità!). La traduzione più fortunata è quella (proposta tra gli altri da Zeller e alla fine accolta anche da Diels, inizialmente critico) che intende rilevare come, delle due forme imposte dai mortali, una non avrebbe dovuto essere introdotta, una è «di troppo» (ci si riferisce spesso alle due forme come repliche di Essere e Non-Essere: la seconda non avrebbe dovuto essere nominata); ciò costituirebbe l'errore dei mortali secondo la Dea. Si tratta di fatto dell’interpretazione di Aristotele; essa è stata oggetto di critica, in quanto: (i) da un punto di vista linguistico intende μίαν come se fosse ἑτέρην (non si potrebbe leggere in μίαν il significato di «una delle due»); (ii) da un punto di vista interpretativo accosta arbitrariamente essere e luce e non-essere e tenebra. Una seconda linea di lettura (proposta tra i contemporanei in particolare da Kirk-Raven) sottolinea come i mortali abbiano stabilito di nominare due forme, di cui non si deve nominare una sola (cioè una senza l'altra), come specificato da Raven: «two forms, of which it is not right to name one only (i.e. without the other)». Coxon segue la stessa linea. Una terza esegesi (anticipata da Reinhardt e Kranz e poi seguita Verdenius, Deichgräber, Untersteiner, Pasquinelli, Schofield) fu proposta da Cornford, intendendo τῶν μίαν οὐ = οὐδετέραν: i mortali hanno errato nell'introdurre (oltre all'essere) due forme: nessuna delle due avrebbe dovuto essere nominata: «mortals have decided to name two Forms, of which it is not right to name (so much as) one». La Curd l'ha riproposta all'interno della sua analisi delle due forme come «enantiomorfe». Tarán (p. 219) ha sottolineato come tale resa sottintenda qualcosa (οὐδὲ μίαν) che il testo greco non propone. Una quarta possibile interpretazione è quella che abbiamo seguito: si può ritrovare già nell'edizione del poema di Diels (1897), ma è stata soprattutto ripresa e approfondita da H. Schwabl ("Sein und Doxa bei Parmenides", «Wiener Studien», 1953, p. 53 ss.) e poi adottata da Tarán («for they decided to name two forms, a unity of which is not necessary»), Couloubaritsis e da Reale. Gli uomini pongono due principi che non si possono ridurre a unità, in ciò cadendo in errore. Il genitivo del pronome (τῶν) non può essere partitivo (in tal caso avremmo ἑτέρην) ma collettivo, e riferirsi a entrambe le μορφαί. Conclusione: μία (da intendere in senso numerico) deve essere «una unità» delle δύο μορφαί. Insomma l'errore consisterebbe nel porre due forme e nel non cogliere che sono riconducibili a un'unica realtà (l'essere). Fondamentale dunque l'accurata traduzione di Schwabl dei vv. 53-4, che alcuni ritengono l'unica grammaticalmente accettabile (Mansfeld, p. 126): denn sie legten ihre Meinung dahin fest, zwei Formen zu benennen, 182 von denen die Eine (d.h. eine einheitliche, die beiden zusammenfassende Gestalt) nicht notwendig ist; in diesem Punkte sind sie in die Irre gegangen. Si tratta di una lettura sollecitata dallo stesso commento di Simplicio (Fisica 31, 8-9): τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας [si sono ingannati] coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione. Su queste esegesi si diffonde Reale nel suo aggiornamento a Zeller-Mondolfo, Eleati, cit., pp. 244 ss.. Di recente Palmer (op. cit., pp. 169-170) ha contestato la soluzione di Schwabl, ribadendo che il significato di τῶν μίαν è «one of these», portando a esempio un testo di Erodoto (IX, 122), dove, però τῶν μίαν è riferito a una pluralità di luoghi (πολλαὶ ἀστυγείτονες) e non all'alternativa tra due elementi (che richiederebbe appunto ἑτέρην). 19 Importante per il senso complessivo stabilire se la mancata postulazione è tesi della Dea ovvero parte della sua analisi dell'errore dei mortali. Abbiamo scelto di seguire questa seconda opzione, che ci sembra suggerita anche dalla relativa seguente. Dello stesso avviso J.H.M.M. Loenen, Parmenides Melissus, Gorgias. A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorchum, Assen 1959, pp. 117-120. 20 L'espressione con valore modale χρεών ἐστιν richiede l'infinito: sottintendiamo ὀνομάζειν. Nei precedenti (B2.5; B8.11, B8.45) Parmenide utilizza εἶναι o πέλεναι, ma l'accusativo μίαν suggerisce nel contesto ὀνομάζειν. 21 Il perfetto medio-passivo πεπλανημένοι εἰσίν equivale a «si sono sbagliati»: conserviamo il valore implicito in πλανάομαι. Coxon (p. 220) osserva come l'uso del perfetto distingua l'allusione storica ai pensatori ionici dall'analisi dello status delle due forme espresso dall'aoristo κατέθεντο. In particolare, πεπλανημένοι εἰσίν richiamerebbe B6.4-6, per l'uso di πλάζονται (la variante che Coxon accoglie in vece di πλάσσονται) e dell'espressione πλακτὸν νόον. In questo modo si chiarisce anche che le allusioni di quel frammento erano ai pensatori ionici. La natura dell'errore cui si allude dipende dalla lettura dell'emistichio precedente: aver posto due principi, distruggendo il monismo ontologico, ovvero aver posto due principi senza coglierne l'unità; aver posto un solo principio. Secondo Patricia Curd (The Legacy of Parmenides…, cit., pp. 104 ss.) l'errore dei mortali sarebbe da ravvisare nel fatto che essi hanno fondato la Doxa su due opposti di genere speciale: enantiomorphs, «oggetti che sono immagini speculari l'uno 183 [55] Scelsero22 invece23 [elementi]24 opposti25 nel corpo26 e segni27 imposero dell'altro [...] definiti in termini di ciò che l'altro non è» (p. 107), dunque in una sorta di intreccio di essere e non-essere. Thanassas rimarca la connessione tra κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν e ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: la formula «in questo essi si sono ingannati» concorrerebbe a restringere la validità del termine «ingannevole» alle «opinioni mortali» criticate in 8.54- 9, così da aprire la possibilità di una nuova comprensione della relativa incidentale (τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν). Essa esprimerebbe esattamente l’errore denunciato in quel che segue, poi corretto dalla «appropriata» Doxa divina (p. 65). 22 Seguiamo Coxon (p. 221) nel rendere – secondo il consueto uso epico di κρίνεσθαι - ἐκρίναντο come «scelsero». Anche in questo caso si pone il problema del soggetto: si tratta dello stesso soggetto di κατέθεντο? Ovvero, come crede Frére (p. 204), di altro soggetto, per cui «alcuni presero la decisione di dar nome a due forme» e «alcuni invece scelsero... e segni imposero»? Optiamo per la continuità di un soggetto indefinito. 23 Traduciamo δέ attribuendogli valore avversativo (per lo più non è tradotto o gli viene aatribuito valore copulativo), nella convinzione che la Dea, faccia seguito al proprio rilievo critico del verso precedente. 24 Forzando l'interpretazione, sottintendiamo «elementi» (e non genericamente «cose») nel neutro plurale ἀντία. Simplicio in effetti parla di ἀρχαί e στοιχεία. Mansfeld (p. 140), sulla scorta di Deichgräber, sostiene che i «segni» con cui sono connotate le due forme concorrano a definire la nozione di «elemento», con cui, nella sua trattazione, sostituisce il termine «forma». 25 Alcuni interpreti (per esempio O' Brien e Frère) intendono ἀντία come avverbio («in modo contrario», «oppositivamente») riferendolo alle due forme nominate, «relativamente al corpo» (δέμας, accusativo di relazione). Altri, invece, pongono δέμας come oggetto diretto di ἐκρίναντο e pongono l'avverbio in relazione a esso. Coxon, dal canto suo, fa di πῦρ e νύκτα gli oggetti diretti e di ἀντία un predicativo. Intendiamo ἀντία come neutro plurale. 26 Il termine δέμας è sempre riferito a corpi viventi: secondo Coxon (p. 221) ciò rivelerebbe che Parmenide considera le due forme come divinità. Conche (pp. 194-5) ritiene che il significato omerico di forma corporea non possa funzionare nel contesto: risalendo al valore di δέμω (che indicherebbe un certo modo di costruire, per sovrapposizione di linee uguali), egli individua «struttura» come resa più sensata. 27 Il termine σήματα avrebbe, secondo Cerri (p. 248), qui il valore di «segni di lingua», «parole». Nella scelta di ἐκρίναντο e di σήματα, Mansfeld (p. 131) 184 separatamente28 gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco29, che è mite30, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico31, coglie una ripresa della «disgiunzione» (κρίσις) di B2 e delle proprietà dell’essere (B8). 28 Rendiamo χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων come espressione avverbiale, per ribadire l'opposizione (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο). 29 Coxon (p. 221) ritiene che Parmenide, pur concordando nella sostanza con Eraclito sul fatto che il fuoco è costituente ultimo del mondo fisico, nella scelta della coppia luce-notte rivelerebbe come sua fonte immediata la tavola degli opposti pitagorica. Charles Kahn, invece - nel suo fondamentale Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994 (originariamente Columbia U.P., New York 1960), p. 148 -, ha mostrato come l'espressione φλογὸς αἰθέριον πῦρ risenta della omerica connotazione di αἰθέρ (da αἴθω, «accendere, infiammare») come «celestial light», originariamente indicante una condizione del cielo e solo derivatamente l'elemento luminoso e raggiante connesso alla regione superiore dell'atmosfera, a contatto con la copertura celeste (οὐρανός): nel tempo, insieme al correlato ἀήρ, avrebbe modificato il proprio significato, finendo nel V secolo a.C. per indicare una regione di puro fuoco (come ancora attesta Anassagora in DK 59 B1, B2, B15). I sostantivi πῦρ e νύκτα (accusativi) sottintendono un verbo reggente: nella nostra traduzione si tratta di ἐκρίναντο. 30 L'aggettivo ἤπιος è per lo più tradotto con «mite», che nel contesto, dopo il richiamo a φλογὸς αἰθέριον πῦρ, potrebbe apparire insensato: in alternativa Cerri (p. 249) propone «utile» o «propizio». Ma anche questa soluzione, soprattutto nel confronto oppositivo con i «segni» di «notte oscura», appare poco convincente. Manteniamo «mite», nel senso fisico, suggerito da Frére (pp. 207-8), di «non intenso». 31 La due forme - «fuoco etereo» e «notte oscura» - sono poste a un tempo con la caratteristica identità uniforme dell'essere e con la non-identità rispetto alla forma opposta. Si tratta di caratteri fondamentali per l'interpretazione della cosmologia parmenidea: il sistema di spiegazione adottato riflette proprietà emerse dall'analisi della Verità. Su questo punto in particolare Graham (pp. 170-1). Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., pp. 281 ss.) vede in questo rilievo una sorta di indulgenza della Dea nei confronti dei «mortali» in questione, i quali si attengono parzialmente alla legge dell'essere: ciò consentirebbe di riconoscere i Pitagorici dietro alle espressioni parmenidee. Come abbiamo sopra ricordato, Mansfeld (p. 140) individua nei «segni» con cui Parmenide connota le due forme la nascita della nozione di «elemento»: 185 rispetto all’altro, invece, non identico32; dall’altra parte, anche quello in se stesso33, le caratteristiche opposte34: notte oscura35, corpo denso e pesante36. proprio «auto-identità» e «non-identità» rispetto alla forma contraria ne sarebbero i costitutivi concettuali decisivi. 32 Forse è proprio questo rilievo a segnalare il limite della posizione criticata: come suggerisce Couloubaritsis (Mythe et philosophie cit., p. 288) non aver saputo cogliere fino in fondo la legge della identità e non aver posto, per la conoscenza, l'orizzonte dell'unità. È possibile che il gioco di τωὐτόν - μὴ τωὐτόν richiami le «schiere scriteriate» (ἄκριτα φῦλα) di cui in B6.8-9a si dice: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν [...] per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa. A questo ha di recente prestato attenzione Granger ("The Cosmology of Mortals", in Presocratic Philosophy, cit., p. 111). Mansfeld (pp. 133-4) ha osservato come l’identità dell’essere sia differente da quella delle due forme: l’auto-identità dell’essere è identità nella quiete. L’auto-identità delle forme, inoltre, è auto-identità di aspetto che non esclude ma anzi concede allo stesso tempo una contraria auto-identità di aspetto. Nehamas (“Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., p. 55) ha invece sottolineato come i due principi della Doxa - separati l'uno dall'altro, ognuno completamente identico a sé e differente dall'opposto - non si mescolino in alcun modo l'uno con l'altro: la loro «separazione radicale» sarebbe dunque, «linguisticamente e filosoficamente», contraria alla «pervasiva confusione di essere e non-essere» denunciata in B6. 33 Diels (DK vol. I, p. 240) legge κατ΄ αὐτό τἀντία come se αὐτό avesse valore avverbiale («gerade») e κατὰ reggesse τἀντία («all'opposto»). 34 L'espressione τἀντία è qui intesa come τά + ἀντία («gli opposti», «le cose opposte»), come oggetto indeterminato del verbo reggente (ἐκρίναντο), utilizzato per introdurre il vero oggetto (νύκτα) e le sue connotazioni. 35 L'aggettivo ἀδαής indica l'impossibilità di discernere, percepire, conoscere (costruzione con alfa privativo del verbo δάω, «imparare», «conoscere», «percepire»): «absence de sens», secondo O'Brien (p. 60), ma anche «absence de lumière» (δαίω). Liddell-Scott indica come secondo valore «oscuro», proprio in questa occorrenza nel poema di Parmenide. Coxon (p. 186 [60] Questo ordinamento37, del tutto38 appropriato 39, per te40 io41 espongo42, 223) preferisce rendere l'aggettivo in senso attivo come «unintelligent». O'Brien in francese rende con «l'obscure nuit», in inglese offre una versione più sfumata: «dull mindless night». È da notare come questa connotazione di Notte possa essere intesa in senso epistemico negativo (impenetrabilità conoscitiva): ciò potrebbe aver spinto all'accostamento aristotelico tra Notte e non-essere. Su questo si veda Granger (op. cit. p. 113). Da osservare inoltre che alcune delle caratteristiche qui associate a νύξ (in particolare oscurità e densità) richiamano quelle arcaiche di ἀήρ, connotata come nebbia densa, oscura, fredda (per esempio Esiodo, Opere e giorni 547-556). Sulla origine e sui caratteri degli elementi nella cultura greca arcaica è ancora essenziale il contributo di Kahn, op. cit., pp. 119-165. A proposito di ἀήρ le evidenze testuali mostrano come in origine il termine non designasse una regione o un elemento specifico, ma una condizione: la condizione che rende invisibili le cose, assimilabile dunque sia a νέφος (nuvola) sia all'oscurità, intesa come positiva realtà (p. 143). 36 Mansfeld (pp. 132-3) vede nella corrispondente sequenza di segni delle due forme tre distinti aspetti: (i) denominativo (αἰθέριον πῦρ/νύξ), (ii) teoreticoconoscitivo (ἤπιον/ἀδαῆ), (iii) fisico (μεγ’ ἀραιὸν/πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε). Una quarta corrispondenza è ritrovata nel rilievo della comune autoidentità e etero-differenza delle due forme. 37 Mourelatos (p. 230) coglie nell'uso di διάκοσμος un aspetto decettivo. Esso può indicare «ordine del mondo», ma suggerire anche attività: un ordinamento in divenire nel tempo, una cosmogonia. Inoltre, in relazione a τἀντία e τ΄ ἐναντίον (B12.5), l'implicazione di ordine (κόσμος) di διάκοσμος sarebbe rovesciata nel senso di «segregazione, divisione»: il κόσμος dei mortali sarebbe dunque, in realtà, un campo di battaglia. Il termine è tuttavia impiegato anche in Aristotele per indicare l'ordinamento cosmico pitagorico e in genere anche nella forma verbale διακοσμεῖν conserva una valore positivo. Robbiano (op. cit., p. 183), riprendendo la propria interpretazione del termine κόσμος, osserva come διάκοσμος sia qui utilizzato per ribadire all'audience che il kosmos non è un aspetto della realtà, non esiste oggettivamente; che vedere un kosmos è vedere ed esprimere la realtà usando parole. Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., pp. 64-5) osserva, invece, come il termine diakosmos implichi un intreccio delle due forme, che prelude alla introduzione della nozione di mescolanza, impiegata per la Doxa “appropriata”. In questo senso, le espressioni «ordine ingannevole delle mie parole» e «ordinamento del mondo del tutto appropriato» denoterebbero due diversi livelli e obiettivi della Doxa: è importante che essi non siano confusi (pp. 67-8). 187 38 Mourelatos e Couloubaritsis intendono πάντα come aggettivo, concordato con τόν διάκοσμον: «this whole ordering [system, framework]»; «l'ordonnance totale». 39 Il significato del participio ἐοικώς usato con valore assoluto è secondo Liddell-Scott «seeming like, like» ovvero «fitting, seemly». La verosimiglianza è qui da intendere in relazione ai caratteri attribuiti alle due forme, in analogia con quelli dell'essere. Ruggiu osserva come, per connotare la doxa, Parmenide ricorra ad aggettivi, con caratterizzazione positiva, che hanno radice nell'apparire: ἐοικώς e δοκίμως (B1.32). RealeRuggiu scelgono comunque di rendere ἐοικώς come «veritiero», seguendo Schwabl e il suo suggerimento di leggere l'aggettivo «sulla base del linguaggio spontaneo di Omero» (p. 323), piuttosto che con quello della (posteriore) sofistica. In Omero effettivamente il significato prevalente di εἰκώς è «appropriato, adeguato». Untersteiner (pp. CLXXVII ss.), in questo senso, insiste sul nesso con Senofane B35 (ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισιν), marcando l'accordo e la coerenza con i fatti. Anche Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, cit., pp. 264-5) sottolinea la positività del termine, optando per il valore di «conveniente», adeguato, analogo a quello (appunto) dell'avverbio δοκίμως. La dea segnalerebbe al giovane la propria intenzione di esporre l'ordinamento delle cose «che conviene», cioè tenendo conto della critica rivolta ai mortali (B8.54). Di diverso avviso Mourelatos (p. 231), per il quale anche ἐοικότα manifesterebbe lo stesso gioco di positività e negatività che in genere impronta la Doxa parmenidea: per i mortali non iniziati ἐοικότα significherebbe «adeguato, appropriato, probabile», per la dea e il kouros «apparente». Per Robbiano (op. cit., p. 183), la dea ricorrerebbe qui a ἐοικότα per correggere l'impressione negativa che l'audience poteva associare al precedente κόσμον ἀπατηλὸν. Leszl osserva (p. 223) come in questo verso di solito si renda διάκοσμον ἐοικότα come «ordine (disposizione di cose) conveniente», ritenendo che ἐοικώς non possa qui valere come «simile (a qualcosa)», in quanto sarebbe assente il termine di paragone. Ammettendo tuttavia che in questo verso vi sia un richiamo al v. 52 (κόσμος-διάκοσμος) e che la descrizione tradizionale (omerico-esiodea) della falsità sia quella di dire cose simili a quelle vere (ἐτύμοισιν ὁμοῖα), in effetti il termine di paragone risulterebbe introdotto indirettamente: l'essere, concepito come la realtà genuina. 40 Si susseguono i due pronomi personali σοι ἐγὼ: abbiamo di nuovo ben marcato nell'interlocutore diretto il destinatario dell'esposizione ancora rivendicata dalla dea. Qui il dativo è di interesse (Coxon p. 223). 41 Coxon (p. 223) rileva come, nonostante la dea attribuisca la «decisione di nominare due forme» e la scelta di luce e notte agli esseri umani, considerandole integrali alla natura dell'esperienza umana, ella invece sottolinea con ἐγώ che il sistema del mondo (caratterizzato come ἐοικώς) è 188 così che mai alcuna opinione43 dei mortali possa superarti44. suo. Un aspetto rilevato anche da Thanassas (op. cit., p. 71): il pronome personale ἐγώ, in greco non necessario, sarebbe impiegato per enfatizzare il carattere rivelativo di quel che segue, così segnando il passaggio dalla Doxa ingannevole a quella appropriata. 42 Coxon (p. 224) intende φατίζω come «io dichiaro», modificando la struttura della frase: «This order of things I declare to you to be likely in its entirety». Couloubaritsis (Mythe et philosophie, cit., pp. 262-3) sottolinea come, nel linguaggio corrente, φατίζω fosse utilizzato per indicare una promessa, un impegno. Come se la scelta verbale di Parmenide impegnasse la Dea nella esposizione che segue. Interessanti le implicazioni lessicali: il sostantivo φάτις in effetti significa «parola», in particolare la parola di un dio o di un oracolo; ma anche «ciò che si dice di qualcuno», una «voce» e, di conseguenza, «la rinomanza». Si tratta, dunque, di espressione ambigua, il cui valore oscilla tra «verità» e discorso inverificabile. Utilizzato dalla Dea, φατίζω viene da un lato a significare parola vera (B8.35), che dovrà permettere al giovane di acquisire rinomanza, così da risultare credibile come «uomo divino» (θεῖος ἀνήρ). Questo spiegherebbe, secondo Couloubaritsis, il passaggio alla proposizione conclusiva: nessun sapere umano potrà superare quello così acquisito dal giovane. In ogni caso, anche per una valutazione complessiva della sezione sulla Doxa, è opportuno marcare (seguendo Frère, op. cit., p. 209) come φατίζω rinvii, all'interno di questo frammento, alla parola che manifesta l'Essere (vv. 35-36a: οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν). 43 Il termine γνώμη ha uno spettro semantico piuttosto ampio, che spazia da «pensiero», «giudizio», «opinione», a «decisione», «massima pratica», «proposito». Reale-Ruggiu (pp. 316-7) interpretano l'espressione βροτῶν γνώμη come se non indicasse semplicemente altre opinioni, altri giudizi «dei mortali», ma una forma di "saggezza" (come quella veicolata attraverso gli enunciati "gnomici" appunto, massime di saggezza pratica) tutta umana, che si riduce a mere parole. Tarán traduce in effetti come «wisdom» e Couloubaritsis come «savoir». 44 Il verbo παρελαύνω ha il significato di «passare», «superare». Mourelatos (p. 226 nota) osserva che il verbo appartiene al vocabolario delle corse di carri. Il senso sarebbe dunque da rintracciare nel superamento/sorpasso («outstrip»), ma anche nel rivelarsi superiore in ingegno («outwit»). Untersteiner ha sottolineato anche il valore di «portare fuori strada», «sviare», seguito da Reale-Ruggiu e anche da Cerri. Manteniamo la traduzione più comune. Su questa conclusione ha fatto per molto tempo leva l'interpretazione "dialettica" della Doxa parmenidea: uno strumento, il migliore possibile, per concorrere con successo con cosmologie rivali. Ma pur sempre "ingannevole"! Una recente ripresa, ben argomentata, è quella di 189 Granger (op. cit., pp. 102-3): l'impegno della Dea sarebbe stato quello di fornire il miglior strumento per individuare l'inganno che si annida nelle cosmologie. Nella misura in cui il giovane allievo fosse stato in grado di riconoscere i difetti del pensiero dei mortali nella cosmologia che la Dea aveva approntato, nessuna opinione mortale avrebbe più potuto sorprenderlo: la cosmologia più ingannevole, in effetti, è quella più vicina alla realtà. Tarán (p. 207) aveva marcato come i due versi finali del frammento non affermino che la ragione per esporre il διάκοσμος sia che esso è il migliore, ma solo che l’intero ordinamento è offerto perché nessuna sapienza umana possa superare Parmenide. 190 DK B9 αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται1 καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν. [Simplicio, In Aristotelis Physicam 180] 1 La forma verbale ὀνόμασται è in realtà nei codici DEF2 ὠνόμασται, corretta dagli editori per ragioni metriche. 191 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate1, e queste2, secondo le rispettive3 proprietà4, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle5, tutto6 è pieno ugualmente7 di luce e notte invisibile8, 1 Coxon (p. 232) difende l'inversione tra soggetto e predicato: dal momento che in B8.53-59 si parla di nominare due forme, «luce e notte» dovrebbero essere soggetto della proposizione, mentre «tutte le cose» diventerebbe predicativo. I due nomi sarebbero, insomma, la sostanza della molteplicità di enti fisici. 2 Il pronome dimostrativo neutro plurale τά secondo Tarán (p. 161), seguito da Conche (p. 198), si riferisce a φάος καὶ νὺξ; Diels, invece, seguito da altri (per esempio Pasquinelli, Coxon), lo intende riferito a ὀνόματα. Gigon, Fränkel, Raven rendono il verso come espressione semplice: le cose in accordo con le qualità di luce e notte sono state attribuite a queste cose e a quelle. 3 L’aggettivo possessivo σφετέρας può essere tradotto con valore riflessivo («proprie») o meno: il valore dipende dalla decisione circa il significato da attribuire a τά. 4 Il termine δυνάμεις avrebbe qui, secondo Tarán (p. 162) e Coxon (p. 233) un valore analogo a quello di σήματα. Conche (p. 199), a nostro avviso giustamente, interpreta come le «qualità opposte» associate a luce e notte. Untersteiner (p. CLXXXIV, nota 66) vi coglie invece sinonimia con φύσις. In effetti il termine dovrebbe nel contesto significare proprietà, qualità essenziale. È vero però che la dimensione entro cui Parmenide inserisce la Doxa è certamente anche linguistica, donde la scelta di Tarán di tradurre con «meanings». Coxon sottolinea nella implicazione tra δύναμις e μορφή un carattere della posteriore associazione tra δύναμις e ἰδέα o εἶδος. 5 L'espressione ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς si riferisce agli enti fisici, con i loro opposti caratteri. 6 Il pronome πᾶν può essere riferito al Tutto ovvero a «tutte le cose», alla totalità delle cose: nel secondo caso, è l'insieme delle cose a essere pieno di luce e tenebra, non ogni singola cosa. B12.1 sembra avvalorare la seconda lettura, così come Teofrasto in DK 28 A46. Tra gli altri, Tarán (p. 162), Coxon (p. 233), e Gallop (p. 77) la sostengono. Conche (p. 200) esplicitamente contesta questa lettura: come è possibile che la totalità delle cose sia ripiena a un tempo di luce e notte se non non lo sono anche le singole cose? Guthrie (vol. II, p. 57) e Cerri (p. 255) insistono sulla equipollenza quantitativa. Ruggiu (p. 328) esplicitamente sottolinea come «ogni cosa sia costituita insieme e ugualmente di Luce e Notte». 192 di entrambe alla pari9, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla 10. 7 L'avverbio ὁμοῦ può rendersi come «insieme», «allo stesso tempo», «egualmente». Se il valore sia da intendere nel senso di una rigorosa misura quantitativa, dipende da come si interpreta πᾶν. 8 L'aggettivo ἀφάντου è usato per marcare come, benché invisibile, la notte, opposta alla luce, è pur qualcosa (Coxon p. 233). 9 All'espressione ἴσων ἀμφοτέρων si può riconoscere valore quantitativo - come fanno Diels e Reinhardt e di recente, per esempio, Cerri (p. 255), per il quale Parmenide preciserebbe come i due principi debbano essere quantitativamente equipollenti – ovvero, come preferisce Tarán (p. 163), interpretare nel senso di una equivalenza funzionale, ovvero di status o potere, come vuole Coxon (p. 233). Empedocle (DK 31, B17.27): ταῦτα γὰρ ἶσά τε πάντα καὶ ἥλικα γένναν ἔασι questi sono infatti tutti uguali e coevi, sembra alludere a una equivalenza (non quantitativa) di funzioni delle quattro radici. Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo (Conche, p. 201). L'idea di un equilibrio di forze, tuttavia, sembra comportare una interpretazione quantitativa. 10 L'espressione ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν è stata variamente tradotta, ciò comportando una diversa accentuazione del suo senso complessivo: (i) Diels, Burnet, Reinhardt, Cornford, Riezler, Untersteiner: «poichè nessuna delle due ha potere sull'altra»; (ii) H. Gomperz, Coxon: «con nessuna delle due c'è il vuoto»; (iii) Schwabl, Kirk-Raven, Beaufret, Hölscher, Mourelatos, Kirk-Raven-Schofield, Austin, Reale, Palmer: «poiché insieme a nessuna delle due è il nulla» (ovvero, Mourelatos: «since nothingness partakes in neither»); (iv) Zafiropulo, Casertano: «perché non esiste alcunché che non dipenda dall'una e dall'altra»; (v) Fränkel, Calogero, Verdenius, Tarán, O' Brien:·«perché non c'è nulla che non appartenga all'uno o all'altro dei principi»; (vi) Guthrie, Conche, Pasquinelli, O'Brien, Tonelli: «poiché niente partecipa di nessuna delle due». Abbiamo preferito la terza soluzione, in quanto sembra marcare con decisione la svolta rispetto all'errore imputato alle «opinioni mortali» criticate in B8.53- 59: come sottolinea Ruggiu (p. 329), il rilievo della Dea ribadisce come tutte le cose siano, come in esse si manifesti l'Essere. La lettura di Simplicio sembra corroborante: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται 193 e poco dopo ancora [citazione B9]; e se «insieme a nessuna delle due è il nulla», egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Da segnalare come Gomperz e Coxon (suo allievo) ritornino sulla questione dell'equazione nulla-vuoto: in un contesto fisico – secondo lo studioso anglosassone (p. 234) – μηδέν significherebbe spazio vuoto, la cui esistenza Parmenide avrebbe rigettato implicitamente (in B8, insistendo sul pieno), Melisso esplicitamente. 194 DK B10 εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν1 ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα2 σελήνης [5] καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν3 ἔφυ τε4 καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. [Clemente Alessandrino, Stromata V, 14 (419)] 1 Si tratta di correzione degli editori; il codice di Clemente riporta ὁπόθεν. 2 Gli editori moderni hanno corretto la forma περὶ φοιτά del codice di Clemente in περίφοιτα. 3 Il codice di Clemente riporta, dopo ἔνθεν, μὲν γὰρ, poi espunto dagli editori. 4 La forma ἔφυ τε è correzione moderna: il codice di Clemente riporta ἔφυγε. 195 Conoscerai1 la natura2 eterea3 e nell’etere tutti i segni4 e della pura5 fiamma dello splendente6 Sole le opere invisibili7 e donde ebbero origine8, 1 La forma del futuro εἴσῃ, come la successiva εἰδήσεις, è epica. Da sottolineare il valore positivo del verbo: insieme a πεύσῃ e εἰδήσεις sottolinea la natura programmatica del frammento e la sua funzione di cerniera nell'opera. 2 Il termine φύσις è stato in questo contesto tradotto (Coxon, Conche) come «nascita»: Parmenide non si proporrebbe di esporre la «costituzione» o l'«essenza» (Diels traduceva con «Wesen») dell'etere o della luna, analizzarne la composizione, ma di spiegare il loro venire a essere, la generazione dei costituenti del mondo e la genesi dei fenomeni (Conche, pp. 204-5). Non pare tuttavia naturale rendere l'espressione αἰθερίαν φύσιν come «la nascita dell'etere», né necessario intendere «natura» come «essenza»: il riferimento alla costituzione dei fenomeni implica, nel caso della cosmogonia della Doxa, illustrarne l'origine. 3 Dalla testimonianza di Aezio (DK 28 A37) possiamo intravedere come Parmenide intendesse αἰθήρ come l'atmosfera più pura, rarefatta, nella quale si muovono gli astri, e ἀήρ, invece, si riferisse all'atmosfera sublunare, dislocata a ridosso della superficie terrestre, più densa, meno pura. 4 In questo caso σήματα assume il suo valore comune nella lingua greca arcaica (Omero): gli astri intesi in generale come «segni» per l'orientamento. 5 Il termine καθαρή, «pura», ha un valore prossimo a una delle accezioni di εὐᾰγής (con alfa breve), utilizzato in questo verso nel senso di «splendente» (εὐᾱγής con alfa lunga): si tratta di purezza anche in senso religioso. 6 Abbiamo già detto di εὐᾱγής (con alfa lunga) con valore di «splendente», da preferire all'altra forma, εὐᾰγής (con alfa breve), per ragioni metriche (Cerri, p. 260). 7 L'espressione ἔργ΄ ἀίδηλα è attestata in Omero, dove significa «azioni odiose» (Iliade V, 897): in questo contesto si potrebbe rendere – come fanno molti traduttori - come «operazioni distruttive». Ma l'aggettivo ἀΐδηλος – costruito con alfa privativo e la radice ἰδ- di «vedere» - può indicare tanto la capacità di far sparire, rendere invisibile (dunque «distruttivo»), quanto la indisponibilità alla vista (quindi «oscuro», «ignoto»). Nell'insieme il significato di «invisibile» appare più convincente. Ricordiamo, inoltre, come fa notare Cerri (p. 260), che in B8.57 la Dea aveva connotato il fuoco come ἤπιον (mite, utile). Conche (pp. 205-7) sostiene la sua traduzione «les oeuvres destructrices du pur flambeau du brillant soleil» rinviando alle funzioni cosmogoniche di Fuoco e Notte: la loro unione implica generazione del mondo, la loro dissociazione distruzione del mondo. Nella misura in cui il fuoco solare si purifica al punto di liberarsi dalla componente notturna, 196 e le opere apprenderai periodiche9 della Luna dall’occhio rotondo10, [5] e la [sua] natura11; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge12, donde ebbe origine13 e come Necessità14 guidando lo vincolò15 a tenere16 i confini degli astri. esso diviene funesto e dunque dissociatore della mescolanza e distruttore della realtà. 8 Il verbo (aoristo medio) ἐξεγένοντο, alla terza persona, è riferito a tutti i termini elencati in precedenza, e non semplicemente al neutro plurale ἔργ΄ ἀίδηλα: si troverebbe altrimenti alla terza persona singolare. 9 Seguiamo Conche (pp. 207-8) nel tradurre ἔργα περίφοιτα come «opere periodiche», evitando «vaganti», troppo generico e fuorviante rispetto al senso implicito nell'aggettivo (che LSJ traducono nel contesto come «revolving»): quello di una ripetizione costante: già nell'ambito del pitagorismo, infatti, la lunazione sarebbe stata fissata in 4 periodi di 7 giorni. Il senso del rilievo parmenideo sarebbe allora quello di sottolineare la periodicità dell'azione lunare. Tonelli (p. 137) preferisce riferire a senso περίφοιτα a σελήνης («della luna errante»). 10 Qui κύκλωψ ha il valore di «occhio rotondo» (LSJ «round-eyed») e non si riferisce ovviamente al gigante dall'occhio solo, il Polifemo omerico. 11 In questo caso, come scelgono di fare alcuni traduttori (per esempio Coxon, Conche), φύσις potrebbe rendersi con il suo valore etimologico di «origine», «nascimento». 12 L'espressione οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (letteralmente «cielo che tiene intorno») si riferisce alla funzione del cielo nel sistema astronomico di Parmenide: quella di racchiudere in sé l'universo, l'insieme di etere (contenente gli astri) e di aria (che fascia la Terra). 13 L'espressione interrogativa ἔνθεν ἔφυ rivelerebbe l'insistenza sulla spiegazione a partire dall'origine (Conche, p. 209). 14 Ritroviamo Ἀνάγκη, a governare (ἄγουσα) il cielo e soprattutto a costringere entro i limiti (ἐπέδησεν πείρατ΄ ἔχειν). In B8 Ἀνάγκη costringeva l'Essere alla identità e immutabilità; qui garantisce l'ordine dell'universo e la sua costanza. Coxon (pp. 229-230) sottolinea la relazione di somiglianza, analoga a quella che intercorre (in conclusione di B8) tra le due forme e l'Essere. 15 Letteralmente «legò» (ἐπέδησεν): torna anche in questo luogo l'eco prometeica che il verbo porta con sé (Cerri, p. 262). 16 Significativo il fatto che il Cielo abbia una doppia funzione: avvolgente (ἀμφὶς ἔχοντα) e limitante rispetto alla marcia astrale (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). 197 DK B11 πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν 1 μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι2. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 559] 1 I codici DE di Simplicio riportano θερμῶν. 2 I codici AF riportano γίνεσθαι. 198 [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune1 e la Via Lattea2 e l'Olimpo estremo3 e degli astri l'ardente forza4 ebbero impulso5 a generarsi6. 1 L'espressione αἰθήρ ξυνὸς si riferisce probabilmente al fatto che tutti gli astri sono immersi nello spazio etereo. 2 La formula greca - γάλα οὐράνιον – significa letteralmente «latte celeste». L'uso dell'aggettivo potrebbe autorizzare a pensare (Conche, p. 211) che per Parmenide la Via Lattea fosse composta di stelle. 3 Nel contesto l'espressione ὄλυμπος ἔσχατος - «Olimpo ultimo» o «Olimpo estremo» - si riferisce chiaramente a quanto sopra abbiamo trovato indicato come οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, «il cielo che tutto attorno cinge». Esso costituisce l'estremo limite dell'universo, così forzando in circolo il corso degli astri. 4 In Empedocle (DK 31 B115.9) abbiamo un'espressione analoga: αἰθέριον μένος. Il valore di μένος sarebbe quello di forza vitale. L'impiego dell'aggettivo θερμός si spiega con la natura ignea degli astri. 5 Significativo nel contesto il ricorso al verbo ὁρμᾶν, che sottolinea la spinta, l'impulso interiore: è tale impulso a guidare il processo di costituzione delle cose. In B12.4 Parmenide lo attribuirà alla potenza immanente di una δαίμων. 6 Come sottolinea la scelta espressiva (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), il contenuto del frammento è comunque in continuità con il tema cosmogonico-cosmologico del precedente. 199 DK B12 αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο1 πυρὸς ἀκρήτοιο2, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 3 γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει [5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄4 ἐναντίον αὖτις5 ἄρσεν θηλυτέρῳ. [vv. 1-3 Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; vv. 2-6 Simplicio, In Aristotelis Physicam 31] 1 I codici di Simplicio riportano παηντο (Ea ), πάηντο (D1 ), πύηντο (D2E), ποίηντο (edizione aldina). Bergk ipotizzò prima (1842) πλῆντο (adottato da Diels), quindi (1864) πλῆνται, per ragioni metriche. Gli editori contemporanei sono divisi: alcuni (Tarán, Kirk-Rave-Schofield, O'Brien) preferiscono πλῆνται, che risulta tuttavia più improbabile dal punto di vista paleografico; altri la forma da noi adottata, πλῆντο, che presenta difficoltà metriche. 2 La forma ἀκρήτοιο è correzione di Bergk: i codici riportano ἀκρήτοις (DEa ), ἀκρίτοις (EF), ἀκρίτοιο (edizione aldina). 3 Il testo greco dei manoscritti DEF è πάντα γὰρ στυγεροῖο, problematico a livello metrico. Karsten e Diels propongono l'introduzione del pronome ἣ dopo γὰρ. Così ancora Cordero e Reale. Mullach preferì correggere πάντα in πάντηι, seguito da alcuni editori (Tarán, Coxon, O' Brien). Altri, appoggiandosi al manoscritto W, ignoto a Diels, leggono πάντων: così molti editori contemporanei: Mansfeld, Kirk-Raven-Schofield, Conche, Gallop. Si tratterebbe comunque, secondo Franco Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili…, cit., p. 86 nota), di congettura bizantina. 4 La forma μιγῆν τό τ΄ è correzione di Bergk: i codici riportano μιγέν τότε (DE), μιγέν τότ΄ (F). 5 La forma αὖτις si trova nel codice F: DE riportano αὖθις. 200 Quelle1 più strette2, infatti, si riempirono3 di fuoco non mescolato; le successive4 [si riempirono] di notte, ma insieme si immette5 una porzione6 di fuoco; 1 L'articolo αἱ, qui usato con valore pronominale, e l'aggettivo στεινότεραι si riferiscono probabilmente a στεφάναι, come insegna Cicerone (DK 28 A37), il quale traduce il termine come corona e orbis. Coxon (p. 235) osserva giustamente come i versi che precedevano le citazioni di Simplicio dovessero vertere sugli elementi e sulla struttura delle sfere, evocate senza dettagli o nomi qualificanti in apertura. 2 Simplicio, nel contesto della citazione, si limita a dire che i versi seguivano un passo sui due elementi, e non chiarisce quindi a quale sostantivo l'aggettivo si riferisse: si intende comunemente στεφάναι. In questo senso στεινότεραι qualificherebbe quelle «più strette», ovvero quelle «interne», dunque le corone più vicine al centro del sistema. Nell'interpretazione complessiva che Diels proponeva già nell'edizione del poema (1897), il riferimento sarebbe alle corone interne di una doppia coppia, che costituirebbe centro e periferia del sistema cosmico: (i) la coppia di corone non mescolate (quindi una esterna di pura Notte, una interna di puro Fuoco) posta al centro costituirebbe la struttura terrestre con la sua crosta solida e il suo interno infuocato (fuoco vulcanico); (ii) quella alla periferia corrisponderebbe alla solida (di pura Notte) parete esterna contenente (indicata anche come ὄλυμπος ἔσχατος in B11, ovvero come «cielo che tiene tutto intorno», οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, in B10), e alla corona di puro Fuoco, evocata in B11 come αἰθήρ τε ξυνὸς. 3 L'aoristo (πλῆντο) di πίμπλημι significa decisamente «divennero\furono riempite»: Parmenide sta dunque alludendo alla formazione delle corone (Coxon, p. 237). 4 L'espressione αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς significa letteralmente «quelle sopra [ovvero dopo] queste»: per mantenere l'ambiguità di riferimento, abbiamo deciso di rendere con «le successive» (così Tonelli). I due pronomi dimostrativi (αἱ e ταῖς) si intendono riferiti sempre a στεφάναι: il problema è capire esattamente a quali «corone» si alluda. Nell'ipotesi di Diels, di recente rilanciata da Ferrari, si tratterebbe delle corone comprese tra la coppia centrale e quella periferica (composte di "elemento puro", di Fuoco all'interno, di Notte all'esterno); corone "miste" di Notte e Fuoco. 5 Si passa dal passato (πλῆντο) al presente (ἵεται), forse per marcare la perduranza degli effetti cosmogonici: il valore dei versi è dunque sia cosmogonico sia cosmologico. 201 in mezzo a queste7 la Dea8 che tutte le cose governa9. 6 Letteralmente αἶσα – termine omerico - si dovrebbe tradurre con «parte». Parmenide preferisce l'espressione poetica, rara negli autori presocratici, a μέρος. 7 L'espressione ἐν δὲ μέσῳ τούτων è ambigua, come fa notare tra gli altri Tarán (p. 248): essa può riferirsi al centro dell'universo o al centro delle «corone miste». Nel contesto la seconda sembrerebbe la soluzione più naturale. 8 Aëtius esplicitamente identifica la δαίμων con una delle «corone miste»: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone frammiste [di fuoco e oscurità], quella centrale è principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (DK 28A37), facendola coincidere con Δίκη e Ἀνάγκη. In tal modo egli salda nella teogonia e cosmogonia della Doxa i riferimenti sparsi in B1, B8 e B10 a Δίκη e Ἀνάγκη. Ma Simplicio, evidentemente interpretando diversamente da Aëtius il riferimento di ἐν δὲ μέσῳ τούτων, intende la dea come collocata al centro dell'universo: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione (contesto di B12). Qualcuno ha suggerito che ciò avvenisse in quanto il commentatore accostava la δαίμων parmenidea alla Hestia pitagorica: si veda, per esempio Filolao B7: τὸ πρᾶτον ἁρμοσθέν, τὸ ἕν, ἐν τῶι μέσωι τᾶς σφαίρας ἑστία καλεῖται la prima cosa ben composta, l'uno, nel mezzo della sfera si chiama Hestia (DK 44 B7). 9 L'espressione δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ sarebbe, secondo Tarán (pp. 248-9), probabilmente connessa con l'idea, più o meno corrente all'epoca di Parmenide, di una divinità suprema che governa l'universo. Coxon (p. 242) 202 Di tutte le cose ella sovrintende 10 all'odioso 11 parto e all’unione12, [5] spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile13, e, al contrario, il maschile al femminile. vi ha voluto cogliere un'analogia con Eraclito, per cui il potere razionale del fuoco governa ogni cosa (DK 22B41). 10 Il senso più appropriato di ἄρχει, in un contesto in cui si parla dell'azione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ), sembra essere quello di «presiede», «sovrintende». Si potrebbe rendere anche come «è principio di» ovvero «è all'origine di». 11 L'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore») rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, eco della Stimmung della sua epoca, come riscontrato soprattutto nella poesia, epica e lirica. Da notare (Conche, pp. 225 ss.) che in questo caso il riferimento non è esclusivamente alla nascita umana, ma alla genesi di tutte le cose: la condanna del filosofo sarebbe rivolta al divenire come tale (p. 227). Altri, tuttavia, attenuano il senso negativo dell'aggettivo proprio in relazione al sostantivo τόκος, traducendo «doloroso [ovvero duro] parto» (Reale), riferendolo quindi esclusivamente alla pena del travaglio, non ai suoi effetti. 12 Il greco μῖξις è reso, alla luce del verso successivo, come unione «sessuale», «coito» (Cerri), «amplesso» (Tonelli). In realtà non si deve dimenticare che qui il poeta si riferisce non solo all'unione sessuale di maschio e femmina, ma in genere all'unione dei due principi. 13 Le forme aggettivali sostantivate τό ἄρσεν (il maschile) e τό θῆλυ (il femminile) alludono forse - come nella tradizione pitagorica (secondo quanto attesta Aristotele) - alla riduzione del primo elemento alla luce e del secondo alla notte. 203 DK B13 πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… [v. 1 Platone, Simposio, 178b; Plutarco, Amatorius 13; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos IX, 9; Stobeo, Anthologium I, 9, 6; Simplicio, In Aristotelis Physicam 39; v. 1b Aristotele, Metafisica, 1, 4 984 b 23] 204 Primo tra gli dei tutti ella1 concepì2 Amore. 1 La δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ di B12. 2 Traduciamo in questo modo (ambiguamente) μητίσατο: il senso – nel contesto garantito dalle testimonianze di Platone e Aristotele (che pur lasciano incerto il riferimento al soggetto), Plutarco (che riferisce il verbo a Afrodite) e Simplicio (che invece esplicitamente identifica il soggetto nella δαίμων di B12) - dovrebbe essere quello di generare, ma il significato del verbo μητιάω è «meditare, deliberare, pianificare». Il verbo qualifica dunque la dea come una potenza razionale (Coxon, p. 243). 205 DK B14 νυκτιφαὲς 1 περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς… [Plutarco, Adversus Colotem 1116 A] 1 La forma νυκτιφαὲς è correzione dello Scaligero: il codice di Plutarco riporta νυκτὶ φάος. 206 di notte splendente1, vagando intorno alla Terra2, luce d'altri3 1 Il composto greco νυκτιφαὲς significa letteralmente «di notte visibile\splendente». Come fa notare Cerri (p. 274), in tutti i composti del tipo νυκτι- il primo elemento ha valore di determinazione temporale («di notte»). Questo è il senso che anche Conche (pp. 234-5) attribuisce al composto νυκτιφαὲς: «brillant la nuit», contestando la poco convincente resa di Coxon («shining like night»?!). L'aggettivo ricorre solo un'altra volta in Orphica, Hymnii 54, 10: ὄργια νυκτιφαῆ, in relazione ai riti dionisiaci, che si tenevano (evidentemente) alla luce delle torce. Aristotele documenta analoga interessante costruzione in riferimento al Sole: νυκτικρυφές, «di notte nascosto». Rivendicato da Jaeger come citazione parmenidea, l'aggettivo è stato accolto come frammento nella edizione Untersteiner. Lo facciamo seguire come B14a. 2 L'espressione περὶ γαῖαν ἀλώμενον riferisce alla Luna il moto di rivoluzione intorno alla Terra: in B10.4 Parmenide aveva usato la formula ἔργα τε κύκλωπος περίφοιτα σελήνης («le opere periodiche della luna dall'occhio rotondo»), alludendo già con περίφοιτα al regolare movimento (e quindi all'azione periodica) dell'astro. L'espressione sembrerebbe poi implicare la sfericità della Terra, come attestato anche da Teofrasto (Diogene Laerzio): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] (DK 28 A44). 3 L'espressione ἀλλότριον φῶς, da intendere letteralmente come «luce altrui», si riferisce alla luce riflessa della luna (luce «presa in prestito», come traduce Conche). Parmenide consapevolmente gioca sull'assonanza con l'omerico ἀλλότριον φώς («straniero»). Come osserva Cerri (p. 275), tale formula era evidentemente opposta a ἴδιον φῶς, «luce propria». Espressione analoga in Empedocle (DK 31 B45): κυκλοτερὲς περὶ γαῖαν ἑλίσσεται ἀλλότριον φῶς in forma di cerchio introno alla Terra si aggira luce non propria (ovvero straniera). 207 B14a [...ἥλιος,... τὸ περὶ γῆν ἰὸν ἢ] νυκτικρυφές [Aristotele, Metafisica, VII, 15 1040 a31] 208 [... il Sole,... colui che va intorno alla Terra o] il di notte nascosto1 1 Secondo l'editore della Metafisica - W.D. Ross – in questo caso Aristotele non avrebbe citato Parmenide, ma forgiato il termine νυκτικρυφές in analogia con Parmenide (νυκτιφαὲς). 209 DK B15 αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. [Plutarco, Quaestiones Romanae 282 B; Plutarco, De facie in orbe lunae 929 B] 210 sempre volta e attenta1 ai raggi2 del sole. 1 Il participio παπταίνουσα dovrebbe letteralmente tradursi come «guardando attentamente». Come segnala Cerri (p. 276), è qui molto probabile che Parmenide giochi sulle implicazioni della relazione tra i due termini, maschile (ἥλιος) e femminile (σελήνη): la Luna innamorata volge il suo sguardo intenso verso il Sole. Immagine analoga in Empedocle (DK 31 B47): ἀθρεῖ μὲν γὰρ ἄνακτος ἐναντίον ἁγέα κύκλον contempla di fronte a sé il fulgido disco del suo signore. 2 Come osserva Cerri (p. 276), αὐγὰς vale non solo «raggi» ma anche «sguardi». 211 DK B15a [Π. ἐν τῆι στιχοποιίαι] ὑδατόριζον [εἶπειν τὴν γῆν] [Scolio a Basilio di Cesarea] 212 [Parmenide nei suoi versi dice che la Terra] ha radici nell'acqua1 1 Secondo Conche (p. 242), che si sofferma a lungo a chiarire l'affermazione di Basilio, la Terra cui si allude è quella ricoperta di flora e fauna, la Terra vivente, di cui l'acqua è effettivamente fonte di nutrimento. Non vi sarebbe dunque alcuna implicazione genetica: alla luce delle testimonianze, non è l'acqua all'origine della Terra, semmai il contrario. Coxon (pp. 246-7) ritiene, invece, che il riferimento sia alla massa di terre emerse (forse per spiegare fenomeni come i terremoti). Di diverso avviso, in passato Paula Philippson (Origini e forme del mito greco, Torino 1949, pp. 269 ss.), che riscontra in questo riferimento all'acqua una allusione al mito di Okeanos, che avrebbe circondato la Terra. 213 DK B16 ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ 1 ἔχῃ 2 κρᾶσιν3 μελέων πολυπλάγκτων4, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν5 · τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ 6 νόημα. [vv. 1-4 Aristotele, Metafisica IV, 5 1009 b21; Teofrasto, De sensu, 3; vv. 1-2a Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5; Asclepio, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi) 277; vv. 3-4 Alessandro di Afrodisia, In Aristotelis Metaphysicam (parafrasi del testo) IV, 5] 1 Αlcuni codici aristotelici riportano ἕκαστος («ciascuno»), preferito da DielsKranz; altri ἕκαστοι o ἑκάστῳ. Il codice di Asclepio ἕκαστον. Gli editori contemporanei (Tarán, Coxon, Conche, O'Brien, Cerri) hanno optato per la versione di Teofrasto e di autorevoli codici aristotelici (i più antichi) della Metafisica: ἑκάστοτε (lectio difficilior). 2 Seguiamo Coxon e Cerri nel preferire ἔχῃ - attestata da un solo codice (E) aristotelico – a ἔχει (per lo più accolta dagli editori) o ἔχειν: come spiega Cerri (p. 280), il congiuntivo ἔχῃ è non solo lectio difficilior, ma anche scelta più sensata nel contesto. Passa (p. 48) sottolinea l'opportunità della scelta di Cerri e Coxon, trovando riscontri nell'uso omerico delle comparative. 3 La forma κρᾶσιν è attestata in Aristotele e Teofrasto (in unione a ἔχει o ἔχειν). Estienne modificò in κρᾶσις, ancora accolto da alcuni editori (Tarán, KirkRaven-Schofield, O'Brien, Conche). A κρᾶσιν alcuni (Coxon, Palmer) preferiscono la forma ionica κρῆσιν. Passa (p. 120) avanza perplessità in proposito. 4 Il testo aristotelico, Alessandro e Asclepio riportano πολυκάμπτων («dai molteplici movimenti»). Il testo di Teofrasto πολυπλάγκτων, preferito dagli editori. 5 I codici aristotelici (insieme a quelli di Alessandro e Asclepio) riportano il presente παρίσταται, accolto da Diels-Kranz (e di recente ancora difeso da Passa, pp. 48-51), di cui tuttavia è stata segnalata l'impossibilità metrica. La tradizione teofrastea propone invece il perfetto παρέστηκε (che ha esattamente lo stesso valore), metricamente accettabile. La forma παρέστηκεν è degli editori. 6 I codici di Aristotele e Teofrasto riportano ἐστὶ; quello di Alessandro λέγεται. 214 Come, infatti, di volta in volta si ha1 temperamento2 di membra3 molto vaganti4, così il pensiero5 si presenta agli uomini6: poiché è precisamente la stessa cosa 1 Attribuiamo al verbo valore impersonale. Per l'alternativa costruzione personale sono state proposte diverse possibili candidature al ruolo di soggetto del verbo: νόος del v. 2 (Diels 1897: l'unico soggetto rafforzerebbe la correlazione ὡς... τὼς), ovvero, adottando il testo greco di Diels-Kranz, ἕκαστος, o ancora un soggetto implicito (Cerri: «qualcuno», «ciascuno», «l'uomo») o sottinteso (Ferrari: τις βροτῶν Β8.61). Altri, emendando κρᾶσιν in κρᾶσις, hanno fatto della «mescolanza» il soggetto. 2 Il termine κρᾶσις ha un valore più forte di μῖξις: quello di perfetta fusione, mescolanza in cui non sia più possibile discernere le componenti (come invece accade in una μῖξις, semplice mescolanza). La κρᾶσις trasforma gli elementi in una nuova entità unitaria e armonica: per questo il termine viene reso con «fusione» (Ferrari) ovvero «impasto» (Cerri), «unione» (Tonelli). Va tuttavia osservato che, sulla scorta della testimonianza di Teofrasto (DK 28 A46), anche tale amalgama presuppone una composizione variabile dei due elementi base. Traduciamo quindi come «temperamento», anche in considerazione della lezione che giunge dalla tradizione della medicina ippocratica, dove l'idea di κρᾶσις era associata a quella di riconduzione del molteplice a unità (Stemich, op. cit., pp. 157 ss.). 3 Ricordiamo che nei poemi omerici il termine σῶμα non indica mai ciò che noi comunemente intendiamo con «corpo», bensì il suo contrario, il «cadavere». Omero non rappresenta il corpo dell’uomo come unità di una molteplicità: impiega infatti termini per lo più al plurale, come μέλεα (o γῦια) appunto, che noi traduciamo con «membra». Ciò cui qui Parmenide intenderebbe riferirsi con il termine μέλεα non sono dunque gli «organi di senso» (Diels) o gli «elementi» (Schwabl), ma il corpo, come ha ben rilevato Tarán (p. 170). È tuttavia interessante la proposta di Cassin-Narcy (B. Cassin – M. Narcy, “Parménide Sophiste”, in Études sur Parménide, cit., II, p. 289) di mantenere al termine la doppia significazione, riferendolo sia immediatamente al corpo, sia mediatamente alle componenti universali. 4 Traduciamo l'espressione κρᾶσις μελέων πολυπλάγκτων come «temperamento di membra molto vaganti [erranti]», intendendola riferita all'unità del corpo umano, che è articolata appunto in appendici mobili, che si agitano in molte direzioni. 5 Rendiamo il termine νόος con «pensiero» ritenendo che in questo caso Parmenide non si riferisca genericamente alla facoltà (mente), ma alla sua 215 ciò che pensa7 negli uomini, la costituzione8 del [loro] corpo9, condizione in relazione alla situazione del corpo. La costruzione dei primi due versi e il loro contenuto propongono un'eco omerica: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). 6 È significativo che in questo contesto la Dea non ricorra a un'espressione come βροτοί ma a ἄνθρωποι: il termine assume un valore descrittivo, marcando l'identica natura degli esseri umani «tutti» (καὶ πᾶσιν καὶ παντί). 7 Ricostruzione letterale dei vv. 2b-4a: «perché è la stessa cosa ciò che pensa (τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει) la natura del corpo (μελέων φύσις) negli uomini, in tutti e in ciascuno (ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί)». Nella letteratura recente si è distinta la proposta (Thanassas, Meijer e ora anche Marcinkowska-Rosół) di tradurre linearmente il testo greco, supponendo νόος come soggetto (sottinteso) di ἔστιν: ὅπερ sarebbe complemento oggetto e φύσις soggetto del verbo (φρονέει): perché [esso (il pensiero)] è precisamente la stessa cosa che la costituzione del corpo pensa negli uomini, in tutti e in ciascuno. Un'alternativa classica (Verdenius, ripreso da Vlastos e, tra gli altri, da Hölscher, Barnes, Bormann, Mansfeld) è quella di fare di φύσις a un tempo il soggetto di ἔστιν e φρονέει: «la natura delle membra è negli uomini la stessa cosa che [essa] pensa». Tarán, Heitsch, Mourelatos, Gallop, O'Brien, Gadamer (tra gli altri) hanno avanzato a loro volta una traduzione letterale, che fa di φύσις μελέων il soggetto di φρονέει, di ὅπερ un accusativo, e di τὸ αὐτό il soggetto di ἔστιν: «la stessa cosa, infatti, è ciò che la natura delle membra pensa negli uomini». In questo modo si lega τὸ αὐτό a ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί, marcando quindi l'identità dell'oggetto del pensiero. 8 Intendiamo in questo contesto φύσις come «natura, costituzione» (μελέων φύσις: «costituzione del corpo»). Giorgio Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 189) intende φύσις come «essenza»: il νόος, come elemento della struttura dell'uomo, operebbe una fusione nella molteplicità delle «membra». Tonelli riprende nella sua traduzione queste indicazioni. 9 Rendiamo il plurale μέλεα come «corpo», secondo l'uso omerico segnalato sopra. 216 in tutti e in ciascuno: ciò che prevale10, infatti, è il pensiero11. 10 In questo caso intendiamo πλέον come comparativo di πολύ («molto»): τὸ πλέον non vale dunque «il pieno» (πλέος aggettivo: «pieno»), ma «il più», «quanto prevale», riferito, a quanto si ricava dal contesto della citazione teofrastea, agli elementi (Fuoco-Notte, ovvero caldo e freddo). Teofrasto interpreta infatti: «la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale» (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις). Tra coloro che interpretano τὸ πλέον come «il pieno», interessante la posizione di Tarán (pp. 256-60), che argomenta a lungo a partire dallo stesso contesto teofrasteo. Teofrasto, infatti, citerebbe il frammento per marcare come determinante per il pensiero non tanto l'elemento che prevale, ma una certa proporzione tra i componenti (συμμετρία). Così, quando una certa proporzione delle componenti di Luce e Notte è presente nel corpo, ne risulterebbe lo stesso pensiero, dal momento che il pensiero è il risultato dell'intera mescolanza. Coxon (p. 87) interpreta «the plenum» come «the subject whose nature has been expounded in the Way of Truth»: esso sarebbe il solo contenuto del pensiero. Recentemente M. Marcinkowska-Rosół, in Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 187, ha proposto di leggere τὸ come pronome dimostrativo (= τοῦτο) in funzione prolettica, πλέον come avverbio, e ipotizzando una relativa in funzione di completamento: «[denn dies ist mehr das Denken], was in der Mischung jeweils überwiegt». 11 Qui νόημα è decisamente il risultato dell'atto di pensare. 217 DK B17 δεξιτεροῖσιν1 μὲν κούρους, λαιοῖσι δὲ 2 κούρας… [Galeno, In Hippocr. Epid. VI, 48 (XVII, 1002)] 1 La forma δεξιτεροῖσιν è intervento degli editori: il codice di Galeno riporta δεξιτεροῖσι. 2 Il testo di Galeno riporta δ’ αὖ: per ragioni metriche è stato emendato in δὲ (Scaligero, poi Karsten). Cerri (pp. 283-4) ha contestato tale emendazione come inutile banalizzazione. 218 a destra1 i maschi, a sinistra le femmine. 1 Le due forme dative δεξιτεροῖσιν e λαιοῖσι sono riferite nel contesto del discorso di Galeno (che cita) alle parti dell'utero: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi hanno sostenuto che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide infatti afferma.... Gli aggettivi andrebbero dunque riferiti alle parti dell'utero. 219 DK B18 Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Nam1 si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. [Celio Aureliano, Tardarum sive chronicarum passionum libri IV, 9] 1 Nella tradizione si trova At come alternativa a Nam. 220 Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi1 di Venere, la potenza2 formatrice nelle vene3, che [deriva] da sangue4 opposto5, conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono [5] e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme6. 1 Dalla parafrasi di Celio Aureliano troviamo conferma della tradizione dossografica secondo cui Parmenide credeva che esistessero semi maschili e femminili, e che giocassero entrambi un ruolo nella riproduzione. Tale convinzione risale probabilmente ad Alcmeone di Crotone, ma fu contestata nell'antichità da Anassagora e Diogene di Apollonia. 2 Il latino virtus traduce il greco δύναμις («potenza, forza, qualità, proprietà»). 3 L'ablativo venis deve riferirsi o alle vene dei genitori o a quelle dell'embrione: la costruzione, con l'uso di «diverso ex sanguine» suggerisce che la seconda alternativa sia più probabile (Coxon, p. 254). 4 Evidentemente per Parmenide i semi deriverebbero dal sangue, rispettivamente maschile e femminile. Coxon (pp. 254-5) segnala come ciò differenzi la posizione di Parmenide da quella di Alcmeone (che faceva derivare il seme dal cervello), mentre al sangue pare rinviasse Pitagora. 5 Come suggerito da Conche (p. 262), «diversus» non ha qui valore generico, ma, in relazione al sangue maschile e femminile, il significato di «opposto, contrario». 6 Si allude alla situazione in cui l'individuo generato risulti possessore sia del seme maschile sia di quello femminile, caratteristici normalmente di uomini e donne separatemente (Coxon, p. 255). 221 DK B19 οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε1 καί νυν2 ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε τελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ. [Simplicio, In Aristotelis De Caelo 558] 1 I codici DE di Simplicio, in vece di ἔφυ τάδε, riportano ἐφύτα δὲ. 2 I codici di Simplicio riportano καὶ νῦν· καί νυν è correzione degli editori. 222 Ecco, in questo modo1, secondo opinione2, queste cose3 ebbero origine4 e ora5 sono6, 1 La formula οὕτω τοι è impiegata per riassumere quanto detto: introduce quindi una ricapitolazione ovvero la "lezione" che si ricava dal discorso precedente (Conche, p. 265). 2 In conclusione della seconda sezione del poema, nella quale la Dea affrontava – come recita B8.51 - δόξας βροτείας, appare legittimo tradurre κατὰ δόξαν come «secondo opinione». In realtà, molti scelgono di insistere sulla radice in δοκέω, traducendo l'espressione come «secondo parvenza», «secondo apparenza» (Tonelli), «selon ce qui semble» (Conche), «according to belief» (Coxon). Il senso della formula a noi pare comunque salvaguardato: la Dea conclude la propria trattazione della realtà dal punto di vista dell'esperienza umana, cioè di quel punto di vista che matura a partire da τὰ δοκοῦντα («le cose che appaiono e sono assunte sulla base della esperienza»: Simplicio, a proposito di tale punto di vista parla di διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν), ribadendo il carattere che contraddistingue i fenomeni che registriamo (τάδε): nascita (ἔφυ), sviluppo (τραφέντα), morte (tελευτήσουσι). Nella sua interpretazione introduttiva, Simplicio impiega una formulazione platonico-aristotelica: egli parla di ὑπόστασις τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ ma anche di δοκοῦν ὄν. Come ha fatto osservare Coxon (p. 256), i due versi B19.1-2 mettono in contrasto la natura delle cose che appaiono nell'esperienza umana con la natura attribuita all'Essere in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. 3 Il pronome dimostrativo τάδε è qui impiegato per designare l'insieme dei fenomeni cosmici oggetto della trattazione (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν nel linguaggio di Simplicio) precedente. Secondo Conche (p. 265) si riferisce alle cose che i mortali hanno sotto gli occhi: «queste cose qui», di cui il discorso cosmogonico ha spiegato l'origine, la natura e il destino. 4 Il testo greco riporta una irregolarità nell'uso del verbo: il plurale neutro τάδε regge sia la terza persona singolare ἔφυ, sia la terza plurale ἔασι e τελευτήσουσι: il passaggio da singolare a plurale nell'ambito di una stessa frase esistono comunque precedenti in Omero e Senofane (DK 21 B29). 5 La formula καί νυν, come segnalano Diels e Coxon, è comune in Pindaro (e Omero). 6 Come abbiamo già segnalato, è chiaro come in questo passo «queste cose» siano connotate da un punto di vista temporale in senso opposto rispetto a τὸ ἐόν: i tempi verbali (passato, presente futuro), gli avverbi (νυν, μετέπειτα), le scelte verbali (φύω, τρέφω, τελευτάω) contrastano la determinazione dell'essere come οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν di B8.5. 223 e poi, in seguito7 sviluppatesi, avranno fine8. A queste cose, invece9, un nome gli uomini10 imposero11, distintivo12 per ciascuna. 7 La formula avverbiale μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε (letteralmente «dopo, a partire da ora») contrasta la labile puntualità di νυν ἔασι. Leggiamo ἀπὸ τοῦδε collegato al participio τραφέντα. 8 La costruzione greca - τελευτήσουσι τραφέντα – consente diverse soluzioni nella traduzione (Cerri, p. 289): (i) la combinazione di futuro medio e participio aoristo può intendersi nel senso del compimento dell'azione indicata dal participio, quindi: «porteranno a termine la propria crescita»; ovvero (ii) nel senso di una cessazione di quell'azione, quindi: «cesseranno di crescere» (si interromperà il oro sviluppo); o ancora (iii) subordinando l'azione indicata dal futuro a quella indicata dal participio: «una volta cresciuti/sviluppati, avranno fine». 9 Sottolineiamo il valore avversativo di δέ, seguendo Untesteiner e Ruggiu: ciò contribusce a conferire senso critico al rilievo successivo. 10 Anche in questo caso, come in B16, il poeta opta per ἄνθρωποι: la Dea ricorre insomma a una designazione diversa rispetto alla diminutiva βροτοί. Sintomo, forse, del fatto che in questo contesto la polemica è stata abbandonata per lasciare il posto a una ricostruzione oggettiva. 11 L'espressione ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντο richiama puntualmente B8.38b-39a: πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο e B8.53: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν secondo quella che Cerri (p. 289) definisce «la più tipica movenza della "composizione ad anello"». 12 L'aggettivo ἐπίσημος si riferisce alla funzione (in questo caso attribuita a ὄνομα) di distinguere, contraddistinguere (ἐπί-σημαίνω). All'instabilità del nascere, crescere, morire è sovrapposta la relativa stabilità del nome. 224 COMMENTO 225 IL VIAGGIO [B1] Introduzione Sesto Empirico, unica nostra fonte per i primi trenta versi del poema Περὶ φύσεως (Sulla natura), ne contestualizza il proemio in questi termini: ὁ δὲ γνώριμος αὐτοῦ Παρμενίδης τοῦ μὲν δοξαστοῦ λόγου κατέγνω, φημὶ δὲ τοῦ ἀσθενεῖς ἔχοντος ὑπολήψεις, τὸν δ’ ἐπιστημονικόν, τουτέστι τὸν ἀδιάπτωτον, ὑπέθετο κριτήριον, ἀποστὰς καὶ < αὐτὸς > τῆς τῶν αἰσθήσεων πίστεως. ἐναρχόμενος γοῦν τοῦ Περὶ φύσεως γράφει τοῦτον τὸν τρόπον Il discepolo di lui (= Senofane), Parmenide, svalutò il discorso opinativo – intendo quello che ha concezioni deboli -, e assunse come criterio quello scientifico, cioè quello infallibile, avendo preso le distanze anche lui dalla fiducia nelle sensazioni. Iniziando appunto il Peri physeōs scrive in questo modo … (Adv. Math. VII, 111). Il successivo commento (§§112-114), nel quale Sesto identifica il viaggio del poeta con lo studio filosofico (τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν), ha nei secoli condizionato la ricezione del proemio, sia nel senso di proporlo come mera approssimazione metaforica all’istruzione filosofica del poema, sia, conseguentemente, nel senso di misconoscerne il rilievo teoretico, riducendolo a orpello poetico (in fondo trascurabile): ἐν τούτοις γὰρ ὁ Παρμενίδης ἵππους μέν φησιν αὐτὸν φέρειν τὰς ἀλόγους τῆς ψυχῆς ὁρμάς τε καὶ ὀρέξεις [1], κατὰ δὲ τὴν πολύφημον ὁδὸν τοῦ δαίμονος πορεύεσθαι τὴν κατὰ τὸν φιλόσοφον λόγον θεωρίαν, ὃς λόγος προπομποῦ δαίμονος τρόπον ἐπὶ τὴν ἁπάντων ὁδηγεῖ γνῶσιν [2. 3], κούρας δ’ αὐτοῦ προάγειν τὰς αἰσθήσεις [5], ὧν τὰς μὲν ἀκοὰς αἰνίττεται ἐν τῶι 226 λέγειν ‘δοιοῖς... κύκλοις’ [7. 8], τουτέστι τοῖς τῶν ὤτων, τὴν φωνὴν δι’ ὧν καταδέχονται, τὰς δὲ ὁράσεις Ἡλιάδας κούρας κέκληκε [9], δώματα μὲν Νυκτὸς ἀπολιπούσας [9] ‘ἐς φάος < δὲ > ὠσαμένας’ διὰ τὸ μὴ χωρὶς φωτὸς γίνεσθαι τὴν χρῆσιν αὐτῶν. ἐπὶ δὲ τὴν ‘πολύποινον’ ἐλθεῖν Δίκην καὶ ἔχουσαν ‘κληῖδας ἀμοιβούς’ [14], τὴν διάνοιαν ἀσφαλεῖς ἔχουσαν τὰς τῶν πραγμάτων καταλήψεις. ἥτις αὐτὸν ὑποδεξαμένη [22] ἐπαγγέλλεται δύο ταῦτα διδάξειν ‘ἠμὲν ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεμὲς ἦτορ’ [29], ὅπερ ἐστὶ τὸ τῆς ἐπιστήμης ἀμετακίνητον βῆμα, ἕτερον δὲ ‘βροτῶν δόξας... ἀληθής’ [30], τουτέστι τὸ ἐν δόξηι κείμενον πᾶν, ὅτι ἦν ἀβέβαιον. In questi versi Parmenide dice che le cavalle lo portano, [intendendo] gli impulsi e i desideri irrazionali dell'anima (1), e che esse avanzano lungo la via ricca di canti della divinità, [intendendo] nella ricerca secondo la ragione filosofica; la quale ragione guida a guisa di divinità, per la conoscenza di tutte le cose (2, 3); le fanciulle che lo precedono sono le sensazioni (5): di esse accenna all'udito laddove dice «due rotanti cerchi» (7, 8), cioè i cerchi delle orecchie, attraverso cui esse ricevono il suono. Chiama gli occhi fanciulle Eliadi (9), che avendo abbandonato la dimora della Notte (9) vanno «verso la luce> (10), poiché senza luce non può esservi uso di essi. Dice che procedono verso la Giustizia «che molto punisce» e che tiene «le chiavi dall'uso alterno» (14), [intendendo] la ragione che possiede una conoscenza certa delle cose. Essa lo accoglie (22) e promette di insegnare queste due cose: «il cuore saldo di verità ben persuasiva» (29), che è il fondamento immutabile della scienza, e l'altra «le opinioni dei mortali in cui non è reale credibilità» (30), cioè tutto quanto ricade nell'opinione, che non è saldo. In realtà, sin dalla fine del XIX secolo – dall'edizione (1897) del poema a opera di Hermann Diels - si è reagito al rischio di una banale allegoresi della poesia parmenidea, recuperando, proprio nel proemio, uno sfondo frastagliato di prospettive e possibili 227 suggestioni culturali, che hanno in comune l’effetto di renderne la relazione con i successivi frammenti molto più complessa. Dobbiamo alla competenza del filologo tedesco l’inquadramento dell’opera di Parmenide all’interno di un’articolata cornice di plausibili precedenti (e motivi) poetici, che appaiono rilevanti per apprezzarne l’originalità. Nella consapevolezza che la conoscenza della tradizione poetica intermedia (secoli VII-VI a.C.) tra le fonti omeriche ed esiodee e il poema parmenideo è, per noi, in gran parte compromessa, Diels valorizzava in particolare1: (i) il modello della speculazione cosmogonica e cosmologica di Esiodo, che avrebbe improntato soprattutto la seconda sezione del Περὶ φύσεως, ma da cui dipenderebbe la sua stessa struttura bipartita - corrispondente all'iniziale sottolineatura delle Muse in Teogonia, vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, insieme al motivo della “doppia via” (verità ed errore), che evocherebbe l’analoga alternativa tra miseria morale (κακότης) e valore morale (ἀρετή) in Opere e giorni (vv. 287 ss.); (ii) il modello della poesia orfica, di cui nel poema riecheggerebbero termini e immagini: nel riconoscerne l’importanza, le connessioni con altre correnti religiose contemporanee (misteri) e il radicamento nella tradizione più antica, lo studioso ne marcava l’ampia incidenza nella cultura greca in genere, rilevando tracce del «pessimismo» (Pessimismus) di questo movimento di «riforma» (Reformation) anche nel «razionalismo» (Rationalimus) della filosofia ionica. 1 H. Diels, Parmenides Lehrgedicht mit einem Anhang über griechische Türen und Schlösser, mit einem neuen Vorwort von W. Burkert und einer revidierten Bibliographie von D. De Cecco, Academia Verlag, Sankt Augustin 20032 (edizione originale 1897), pp. 12 ss. 228 In tale prospettiva, Diels richiamava l’attenzione sulla tradizione dei leggendari «profeti» del misticismo greco arcaico (Epimenide, Onomacrito, Museo) che avrebbe ancora trovato espressione nei Καθαρμοί di Empedocle: nel caso della forma poetica («rivestimento poetico», poetische Einkleidung) privilegiata da Epimenide per la propria «rivelazione» (Offenbarung), ritroveremmo, per esempio, il prototipo della «narrazione in prima persona» (Icherzählung) di un’esperienza di Incubation, quale riferita da Alessandro di Tiro: ἦλθεν Ἀθήναζε καὶ ἄλλος Κρὴς ἀνὴρ ὄνομα Ἐ.· οὐδὲ οὗτος ἔσχεν εἰπεῖν αὑτῶι διδάσκαλον ἀλλ’ ἦν μὲν δεινὸς τὰ θεῖα, ὥστε τὴν Ἀθηναίων πόλιν κακουμένην λοιμῶι καὶ στάσει διεσώσατο ἐκθυσάμενος· δεινὸς δὲ ἦν ταῦτα οὐ μαθών, ἀλλ’ ὕπνον αὑτῶι διηγεῖτο μακρὸν καὶ ὄνειρον διδάσκαλον. ἀφίκετό ποτε Ἀθήναζε ἀνὴρ Κρὴς ὄνομα Ἐ. κομίζων λόγον οὑτωσὶ ῥηθέντα πιστεύεσθαι χαλεπόν· < μέσης γὰρ > ἡμέρας ἐν Δικταίου Διὸς τῶι ἄντρωι κείμενος ὕπνωι βαθεῖ ἔτη συχνὰ ὄναρ ἔφη ἐντυχεῖν αὐτὸς θεοῖς καὶ θεῶν λόγοις καὶ Ἀληθείαι καὶ Δίκηι. Venne ad Atene anche un altro Cretese, di nome Epimenide: nemmeno costui seppe dire chi gli sia stato maestro, ma era straordinariamente competente nelle questioni divine, tanto che, facendo offrire sacrifici, riuscì a salvare la città degli Ateniesi, afflitta dalla peste e dalla discordia civile. Ed era così esperto in questa materia non perché l'avesse imparata, ma si diceva che suo maestro fosse stato un lungo sonno con un sogno. – Arrivò un tempo ad Atene un Cretese, di nome Epimenide, portando un racconto difficile da credere, formulato nei seguenti termini: disse che, sdraiatosi a mezzogiorno nella grotta di zeus Ditteo, rimase immerso in un sonno profondo per molti anni, e si intrattenne in sogno con dèi e discorsi di dèi, con la Verità e con la Giustizia (contesto DK 3 B1. Traduzione di I. Ramelli e G. Reale). 229 Proprio Epimenide (nei suoi Καθαρμοί, in particolare) sarebbe figura esemplare di uno sciamanismo, presente nelle credenze religiose elleniche (in associazione con fenomeni rilevanti, anche a livello letterario, come le epifanie, i sogni, i sacrifici), in cui, rispetto al più generale tema della purificazione e della relativa iniziazione, decisivo diventa il motivo del “viaggio” ultraterreno, del contatto con una realtà trascendente: in questa direzione la poesia genericamente orfica avrebbe incrociato l’elemento “estatico”, di cui appunto il «viaggio celeste» (Himmelreise) costituirebbe frammento. All’interno di tale orizzonte culturale, il Περὶ φύσεως si propone in una luce diversa, tale da suggerire maggiore cautela ermeneutica nella riduzione dei suoi contenuti ai moduli del dibattito contemporaneo (come accade negli approcci analitici ai frammenti). Nel caso del suo proemio, in particolare, si rischia il fraintendimento proponendolo come mera introduzione d’occasione o tributo formale, in cui il sapiente (un filosofo!), per opportunità letteraria e compiacenza verso il proprio pubblico, avrebbe optato per un mascheramento allegorico della propria concettualità (assumendo l’implausibile veste del poeta!): è necessario invece conservare al testo la sua polisemia e al complesso dell’impresa teorica di Parmenide uno spessore originale2. 2 Ogni edizione del poema e ogni saggio su Parmenide si intrattengono su questo nodo interpretativo: la sintesi più recente del lungo dibattito si può leggere in L. Couloubaritsis, La pensée de Parménide [si tratta delle terza edizione di Mythe et philosophie chez Parménide], Ousia, Bruxelles 2008, cap. II "Le «Proème» comme producteur de chemins". Molto utile anche l’introduzione (“Parmenides and His Predecessors”) di M.J. Henn al suo Parmenides of Elea: A Verse Translation with Interpretative Essays and Commentary to the Text, Praeger Publishers, Westport 2003, che si apre la propria introduzione sul tema “The Poet as Shaman and Singer of Mysteries in the Homeric Style”, dedicando molto spazio all’analisi della struttura dell’esametro parmenideo. Una riconsiderazione complessiva della poesia del Περὶ φύσεως è proposta da L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon. Reconsidering Muthos and Logos, Continuum International Publishing, London – New York 2009: le pagine 69-79 sono dedicate al problema del proemio. Un’ampia e sostenuta lettura del proemio come chiave per l’interpretazione del poema è oggi proposta in R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, Orizons, Paris 2011. 230 Come di recente ha ricordato Maria Laura Gemelli Marciano3, il proemio parmenideo non è inutile orpello o artificio letterario: esso è invece fondamentale per comprendere carattere, metodo e finalità del poema. Nel contesto storico-geografico, sociale e religioso in cui si muoveva Parmenide, cantare un’esperienza eccezionale, rappresentare, nel ritmo e nella musicalità proprie delle forme esametriche, un viaggio nell'aldilà, evocando un linguaggio iniziatico e performativo, era cosa ben diversa dall’erudita esercitazione che l’allegoresi di Sesto presuppone: il poeta Parmenide si rivolgeva a un’audience, un pubblico convenuto per ascoltare le parole di una dea e partecipare all’esperienza evocata in versi. È significativo, per la comprensione storica del poema, che del proemio non resti traccia nelle citazioni antiche, che esso sia stato ignorato da coloro (Platone e Aristotele) che hanno contribuito a fissare i contorni della figura di Parmenide per la tradizione successiva. Perché la poesia? Il problema della natura e portata del proemio è strettamente connesso a quello, più generale, della scelta di fondo – da parte di Parmenide - del medium poetico, di cui la narrazione riflette alcuni motivi tradizionali, culturalmente di grande significato teoretico anche nella prospettiva specifica del poema. Ci si riferisce in particolare all’intimo nesso tra poesia, rivelazione e mito, certamente una chiave per decifrare l’impianto creativo del Περὶ φύσεως, in cui si intrecciano racconto, comunicazione divina della «parola» (μῦθος) e «verità» (Ἀληθείη). Rimane ancora molto utile il vecchio aggiornamento, a cura di G. Reale, di E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, La Nuova Italia, Firenze 1967. 3 "Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 (Présocratiques), pp. 7-37. l'osservazione è alle pp. 11-12. 231 Poesia, mito, verità In un frammento (fr. 12 Bowra) del perduto Inno a Zeus di Pindaro, contemporaneo di Parmenide, noi troviamo una sorta di autointerpretazione mitica del ruolo del poeta e della poesia nella società greca tra VI e V secolo a.C.. Pindaro racconta come, dopo aver ordinato il mondo e il regno degli dei, Zeus avesse loro domandato se, per caso, mancasse ancora qualcosa alla sua fatica: essi, allora, lo avevano pregato di creare alcune divinità per «celebrare con parole e musica quelle grandi opere e l’intero suo ordinamento»4. A tale scopo, per onorare la bellezza dell’edificio cosmico, e manifestarlo nella sua totalità, Zeus introduce nuove divinità, le Muse: così la sua opera si compie con la nascita della parola, del canto (originariamente identici), espressioni divine che ne rivelano l’essere. Per il grande filologo tedesco Walter Friedrich Otto, il supremo evento del mito è che l’essere delle cose si riveli nella parola con la sua divinità5: ogni mito genuino si rivolge alla totalità del reale, come uno sguardo complessivo sulla sua manifestazione originaria. In questa prospettiva, l’esperienza del mito è intesa come esperienza, a un tempo, della bellezza e della verità: da cui l’impressione arcaica che il poeta possa avvicinare, più degli altri uomini, l’essere delle cose; che la sua parola possa afferrare la realtà in profondità in forza della sua “ispirazione”. L’invocazione alle Muse dell’antica poesia greca palesa la recettività del poeta: l’ – osserva Otto - non si apre con la superbia (tipicamente moderna) di una coscienza creatrice, ma con la modestia di chi ascolta. È la divinità a cantare, il poeta è solo suo mediatore: in questo senso la poesia è un’ombra dell’essenza del mito. Eppure il poeta (tipicamente per noi il poeta omerico), sebbene non sia riconosciuto autore di ciò che canta, rimane in ogni caso il recettore dello spirito delle Muse: egli si distingue dalla massa degli altri uomini ed è più vicino agli dèi in quanto sua è la voce 4 Citato in W.F. Otto, Il mito e la parola (1952-3), in Id., Il mito, a cura di G. Moretti, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 43-44. 5 W.F. Otto, Il mito (1955), ivi, p. 60. 232 attraverso cui le Muse si esprimono. Egli è un «maestro di verità» (Detienne), le cui parole proclamano piuttosto che suggerire: per questo poeti come Senofane e Parmenide (che compongono entro la tradizione omerica) rivendicano una condizione privilegiata rispetto a quella dei “mortali”. Donde il carattere spesso esoterico della filosofia antica 6. Parmenide e la poesia Nella scelta poetica di Parmenide questi elementi, come si avrà opportunità di rilevare, si ricompongono in modo originale, soprattutto nel plasmare l’atteggiamento del destinatario della comunicazione divina: è un fatto, tuttavia, che essi siano presenti nel Περὶ φύσεως, che il mito assuma la forma del manifestarsi di ciò che è originario, di quanto viene altrimenti designato come il divino (τό θεῖον). Significativamente, la θεά introdurrà (B2) l’assiomatica della sua istruzione intorno alla Verità ricorrendo proprio alla formula «e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata» (κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας): il «giovane» (κοῦρος) è esplicitamente sollecitato a «prendersi cura» (κόμισαι) del μῦθος divino, che dischiude la comprensione della realtà. Dei termini greci arcaici per «parola» ritroviamo dunque nel poema: (i) μῦθος (B2.1; B8.1), la forma primitiva per esprimere ciò che è realmente, effettivamente accaduto: la parola che dà notizia del reale, che stabilisce qualcosa, e, in questo senso, è autorevole; (ii) λόγος (B7.5), che ha il valore di di ciò che è stato ponderato, che serve a convincere (donde il valore di «ragione») 7, della parola ragionevole. In questo senso, in B7.5, la Dea innominata inviterà il κοῦρος a valutare razionalmente (κρῖναι λόγωι, «giudica con il ragionamento») l’argomento proposto. 6 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 29. 7 W.F. Otto, Il mito e la parola, in Id., Il mito, cit., pp. 30-32. 233 Già nel registro verbale è possibile intravedere l’intervento creativo di Parmenide sulla tradizione. Nel rilevare la contrapposizione apparente del poema di Parmenide con la razionalità ionica sul terreno dei contenuti e dello stile, Ruggiu8 ha colto nella ripresa della forma e del metro epico una modalità espressiva appropriata alla parola come μῦθος: il contenuto dell’epica è costituito, insieme, da «le cose che sono, quelle che sono state e quelle che saranno» (τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, Calcante in Iliade I, 70) e τά ἀληθέα (le Muse in Teogonia 28), da intendere come sinonimi. Dal momento che, anche per Parmenide, valore primario è la Verità (Realtà), attribuire a una divinità la rivelazione del contenuto dell’opera sarebbe dunque escamotage espressivo coerente con la tradizione sapienziale arcaica: il disvelarsi del reale si palesa come manifestazione del divino stesso9. È questo, allora, il motivo che induce all'adozione della forma e del metro epico? Parmenide è ancora persuaso che il discorso cantato come pratica comunicativa garantisca la possibilità di una “comunicazione vera”, di un «autentico contatto» (Vernant) con il divino10? Proprio il proemio, in effetti, sembra giustificare le scelte di Parmenide alla luce dei suoi possibili modelli di riferimento: (i) l’inno alla divinità in funzione di proemio rapsodico (nel campo della poesia epica), ovvero l’invocazione alle Muse in funzione di protasi; (ii) i proemi delle opere di Esiodo, Epimenide e Aristea (nel campo della poesia cosmogonica), che celebrano l’investitura poetica e la rivelazione da parte della divinità11. Non vi è dubbio che, optato per il medium della rivelazione, l’adozione della forma poetica fosse scontata e il metro dell’epica tradizionalmente 8 Parmenide, Poema sulla Natura. I frammenti e le testimonianze indirette, presentazione, traduzione e note a cura di G. Reale, saggio introduttivo e commentario filosofico a cura di L. Ruggiu, Rusconi, Milano 1991, pp. 155- 156. 9 Ivi, p. 160. 10 Wilkinson, op. cit., p. 67. 11 Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, introduzione, testo, traduzione e note di commento di G. Cerri, BUR, Milano 1999, pp. 109-110. 234 funzionale all’istruzione 12; ma è anche vero che la scelta dell’epica avrebbe a suo modo naturalmente comportato quel medium (almeno nella forma dell'ispirazione) tradizionale. Si tratta di due prospettive distinte e complementari, che potremmo così schematicamente caratterizzare: la prima opzione sottolinea l’orizzonte della verità in cui si iscrivono i contenuti del poema, che la divinità garantisce con la propria autorità e autorevolezza; la seconda richiama soprattutto la sua efficacia comunicativa, un aspetto spesso trascurato, ma che di recente ha assunto grande rilievo nella letteratura critica13. Poesia, educazione e vita Proprio considerando i plausibili modelli che si celano dietro le scelte e i moduli espressivi di Parmenide, non pare azzardato sostenere che il proemio annunci un processo di trasformazione della persona (il κοῦρος istruito dalla Dea), in cui il momento cognitivo tradizionalmente privilegiato dagli interpreti è in realtà funzionale a una modificazione radicale dell’esistenza di colui che è destinato a ricevere la comunicazione divina. Non a caso esso è stato spesso accostato in passato ai miti escatologici di Platone: in particolare il mito conclusivo della Repubblica (mito di Er) e quello centrale del Fedro (mito dell’auriga). Almeno alcuni elementi fanno in questo senso indiscutibilmente riflettere: (i) la ripresa di un motivo, quello del viaggio, centrale non solo nella letteratura omerica ma anche in quella religiosa; (ii) la meta del viaggio: l’incontro con la divinità; (iii) la scenografia cosmica dell’incontro; (iv) le modalità della rivelazione divina. Gli interpreti sostanzialmente concordano nel riconoscere nella scelta parmenidea del metro (esametro) dell’epica 12 Parmenides. A Text with Translation, Commentary and Critical Essays, by L. Tarán, Princeton University Press, Princeton 1965, p. 31. 13 Mi riferisco, in particolare, ai contributi di Chiara Robbiano (2006) e Martina Stemich (2008). 235 un’intenzione didascalica, l’interesse al recupero di uno strumento culturale ed educativo essenziale della tradizione. Possiamo allora considerare tale opzione come un facilitatore per la comunicazione del sapiente: come i poemi epici di Omero ed Esiodo, il poema di Parmenide tratta della verità e offre educazione. Chiara Robbiano ha giustamente rilevato come scrivere in versi fosse la soluzione espressiva più naturale per chi intendesse affrontare una materia del massimo rilievo: evocando alcune categorie epiche familiari al pubblico, era poi possibile rimodellarle in una nuova prospettiva filosofica14. Nel caso di Parmenide si trattava di suscitare aspettative, soprattutto se - ammettendo la circolazione di idee nel complesso del mondo greco, orientale e occidentale - interpretiamo la scelta poetica come alternativa ai modelli in prosa provenienti dalla Ionia. Da un poema in esametri il pubblico poteva aspettarsi: (i) una comunicazione di verità; (ii) la proposta di un modello di comportamento15. A conferma, è significativo il fatto che, nella cultura tra VI e IV secolo a.C., a più riprese, Senofane, Eraclito e Platone abbiano attaccato Omero ed Esiodo, così denunciando l’incidenza (e l’efficacia) dell’epica arcaica su mentalità e costumi. Non va trascurata la possibilità che Parmenide abbia valutato l’impatto “didattico” della performance poetica, la forza comunicativa della recitazione pubblica, caratteristica di un contesto culturale ancora decisamente segnato dalla tradizione orale. Anche in questo senso Parmenide avrebbe potuto sfruttare i vantaggi che garantiva il richiamo alla sapienza del canto poetico omerico ed esiodeo (facilitare diffusione e memorizzazione della propria scrittura, attingere a un repertorio di immagini e analogie di sicuro effetto), con la possibilità, poi, di dar forma – in piena autonomia – a nuovi concetti e formule astratte16. 14 C. Robbiano, Becoming Being. On Parmenides’ Transformative Philosophy, International Pre-Platonic Studies, Academia Verlag, Sankt Augustin 2006, p. 42. 15 Ibidem. 16 M. Stemich, Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, Ontos Verlag, Frankfurt 2008, pp. 30-31. 236 Della poesia greca arcaica17, il Περὶ φύσεως, nel suo proemio, conserva senz’altro il riferimento paradigmatico al mito come memoria per recuperare creativamente temi e motivi della tradizione in funzione didascalica, insieme al rilievo dell’ispirazione divina (donde l’istituto stesso del proemio, cioè l’abitudine di far cominciare il canto - epico o lirico - con l’invocazione alle Muse o ad altre divinità) e alla (probabile) destinazione performativa pubblica, collegata alla scelta della forma metrica (esametro), secondo le indicazioni interne alla stessa tradizione omerica (l’aedo Demodoco nell’ottavo libro dell’Odissea). Gentili segnala18 come alla fine del VI sec. (504-501) il rapsodo Cineto di Chio fosse il primo a «recitare» Omero a Siracusa (in un’area geografica non remota dalla Magna Grecia di Elea: pare che Parmenide soggiornasse presso la corte di Ierone, che aveva richiamato artisti e intellettuali da tutta la Grecia19), inserendo nell’ordito dei poemi omerici originali versi epici. Non va dimenticato come, in un sistema culturale – quale quello greco arcaico - fondato quasi esclusivamente sull’oralità della comunicazione del messaggio poetico, il cantore epico fosse destinato a trasmettere, attraverso la narrazione, l’enciclopedia del sapere (tecnico, giuridico, scientifico) in cui, per secoli (nel caso dell’epos omerico), si era riconosciuta (e intorno a cui si era venuta organizzando) la società ellenica20. Per la comprensione del testo di Parmenide, che noi oggi leggiamo, è quindi essenziale la contestualizzazione, non solo per le trame teoriche, ma anche per quelle formali: ciò consente - rispetto a quelle arcaiche forme enciclopediche, in cui tutta la saggezza era incorporata nella concretezza della narrazione - di apprezzarne la specifica natura, l'originalità dell’impianto e l’audacia dei suoi assunti (astratti e sistematici). 17 Ricavo questi elementi dal primo capitolo (Oralità e cultura arcaica) di B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Feltrinelli, Milano 2006. 18 Ivi, p. 22. 19 Su questo A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato», XLIII, 1988, pp. 42-60; riferimento alle pp. 52-53. 20 Gentili, op. cit., p. 69. 237 Non va comunque trascurato il fatto che la scelta espressiva – probabilmente condizionata da esigenze di diffusione e trasmissione (non ultima la stessa memorizzazione) – implicava, in quello sfondo culturale, la dimensione “spettacolare” (recitazione e canto) della sua ricezione21, che Parmenide non poteva ignorare. Questa considerazione, da un mero punto di vista formale, aiuta a comprendere la solennità dell’esordio poetico del Περὶ φύσεως e l’insieme drammatico del proemio (viaggio, difficoltà, incontro con la divinità), così come la sua intenzione di coinvolgere il pubblico destinatario, non solo a livello intellettuale, ma anche emozionale, incoraggiandolo a seguire l’esperienza «trasformativa» del poeta, convertito dal contatto con la verità22. In questo senso, rispetto alla tradizione, è opportuno osservare come il poema suggerisca: (i) una diversa modalità di approccio alla Verità: nella poesia omerica, la presenza del divino era evocata e invocata attraverso la Musa e i versi originavano dalla «memoria divina» 23; nel poema in generale, e nel proemio soprattutto, l'invocazione è sostituita da un incontro divinamente garantito e da una diretta comunicazione divina, che fanno del poeta qualcosa di più di un semplice tramite ispirato; (ii) una probabile integrazione della dimensione performativa: l'invito alla valutazione razionale (κρῖναι δὲ λόγῳ) fa pensare a una relazione educativa del tipo delineato dal Sofista platonico (237a): come ha di recente sottolineato Passa24, la rievocazione, per bocca dello Straniero di Elea, di una lezione tenuta da Parmenide ai discepoli potrebbe essere indicativa – oltre che dello stesso modello pedagogico dell'Accademia – di un'originale impronta dell'Eleate: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ 21 Ivi, p. 49. 22 Robbiano, op. cit., p. 49. 23 Wilkinson, op. cit., p. 32. 24 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 25. 238 μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων Οὐ γὰρ μή ποτε τοῦτο δαμῇ, φησίν, εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ’ ἀφ’ ὁδοῦ διζήμενος εἶργε νόημα [B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che ciò che non è sia; il falso, infatti, non potrebbe prodursi in altro modo. Il grande Parmenide, tuttavia, figlio mio, a noi che eravamo ancora bambini, cominciando e fino alla fine testimoniava contro questo discorso, ribadendo ogni volta con le sue parole e i suoi versi che: «Questo infatti mai sarà forzato: che siano cose che non sono; Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero». Si tratta di un «fotogramma di interno scolastico»25: la memorizzazione dei contenuti fondamentali (cui la scelta dei versi sarebbe stata funzionale) era affiancata dal commento e dall'argomentazione dettagliata del maestro, che approfondiva e chiariva i temi (comunicando probabilmente informazioni supplementari, non divulgabili all'esterno). Il poema potrebbe essere, almeno in parte, un reperto di tale situazione didattica: donde le sue asperità e l'impressione che fosse probabilmente rivolto a una cerchia ristretta26. Parmenide poeta È significativo che, in quella che potrebbe essere la più antica allusione a Parmenide, egli sia annoverato tra i «poeti»: 25 Cerri, op. cit., p. 94. 26 Questo rilievo in M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’estce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 89-90, che accosta in questo senso Parmenide a Eraclito. 239 ἆρα ἔχει ἀλήθειάν τινα ὄψις τε καὶ ἀκοὴ τοῖς ἀνθρώποις, ἢ τά γε τοιαῦτα καὶ οἱ ποιηταὶ ἡμῖν ἀεὶ θρυλοῦσιν, ὅτι οὔτ’ ἀκούομεν ἀκριβὲς οὐδὲν οὔτε ὁρῶμεν; Mi chiedo se vista e udito abbiano una qualche verità per gli uomini, oppure se queste cose stiano proprio come sempre ci ripetono i poeti: che non udiamo né vediamo alcunché di preciso. (Fedone 65b), a dispetto di una tradizione che avrebbe poi, a più riprese, manifestato un certo disappunto di fronte ai versi dell’Eleate: τὰ δ’ Ἐμπεδοκλέους ἔπη καὶ Παρμενίδου καὶ θηριακὰ Νικάνδρου καὶ γνωμολογίαι Θεόγνιδος λόγοι εἰσὶ κιχράμενοι παρὰ ποιητικῆς ὥσπερ ὄχημα τὸ μέτρον καὶ τὸν ὄγκον, ἵνα τὸ πεζὸν διαφύγωσιν. I poemi di Empedocle e Parmenide, le Teriache di Nicandro e le Sentenze di Teognide sono discorsi che, servendosi della poesia come di un veicolo, ne prendono il metro e la dignità, per evitare la prosa [il prosaico]. (Plutarco; DK 28 A15) μέμψαιτο δ’ ἄν τις Ἀρχιλόχου μὲν τὴν ὑπόθεσιν, Παρμενίδου δὲ τὴν στιχοποιίαν [...] Ad Archiloco si potrebbe rimproverare il soggetto, a Parmenide il modo di fare versi […] (Plutarco; DK 28 A16) ὁ δέ γε Π. καίτοι διὰ ποίησιν ἀσαφὴς ὢν ὅμως καὶ αὐτὸς ταῦτα ἐνδεικνύμενός φησιν Parmenide, pur risultando oscuro a causa della poesia, espone e afferma a sua volta le stesse cose. (Proclo; DK 28 A17). La forza del pensiero sarebbe stata, insomma, artificiosamente costretta in una forma espositiva inadeguata, producendo un duplice effetto negativo: l’oscurità dell’espressione e la scadente qualità dei versi. Scontato, per la tradizione platonica, che Parmenide avesse elaborato il proprio contributo indipendentemente dal 240 medium espressivo, cui si sarebbe applicato in un secondo momento, valutandone l’impatto comunicativo: donde i compromessi e le incongruenze cui accenna Proclo: αὐτὸς ὁ Π. ἐν τῆι ποιήσει· καίτοι δι’ αὐτὸ δήπου τὸ ποιητικὸν εἶδος χρῆσθαι μεταφοραῖς ὀνομάτων καὶ σχήμασι καὶ τροπαῖς ὀφείλων ὅμως τὸ ἀκαλλώπιστον καὶ ἰσχνὸν καὶ καθαρὸν εἶδος τῆς ἀπαγγελίας ἠσπάσατο. δηλοῖ δὲ τοῦτο ἐν τοῖς τοιούτοις [B 8, 25. 5. 44. 45] καὶ πᾶν ὅ τι ἄλλο τοιοῦτον· ὥστε μᾶλλον πεζὸν εἶναι δοκεῖν ἢ ποιητικὸν < τὸν > λόγον. Lo stesso Parmenide, nel poema, pur essendo costretto, certamente a causa della forma poetica, a far ricorso a metafore, figure e tropi, privilegiò tuttavia una forma d’esposizione disadorna, controllata e semplice. Mostra ciò in questi versi [B8.25, 5, 44, 45] e in tutti gli altri di questo tenore, così che il suo discorso sembra piuttosto prosa che poesia. (Proclo; DK 28 A18). Sembra rivendicare invece l’originaria e originale intenzione poetica dell’opera parmenidea Genetlio: φυσικοὶ [sc. ὕμνοι] δὲ ὁποίους οἱ περὶ Παρμενίδην καὶ Ἐμπεδοκλέα ἐποίησαν [vgl. 31 A 23]. […] εἰσὶν δὲ τοιοῦτοι, ὅταν Ἀπόλλωνος ὕμνον λέγοντες ἥλιον αὐτὸν εἶναι φάσκωμεν καὶ περὶ τοῦ ἡλίου τῆς φύσεως διαλεγώμεθα καὶ περὶ Ἥρας ὅτι ἀήρ, καὶ Ζεὺς τὸ θερμόν· οἱ γὰρ τοιοῦτοι ὕμνοι φυσιολογικοί. καὶ χρῶνται δὲ τῶι τοιούτωι τρόπωι Π. τε καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἀκριβῶς... Π. μὲν γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς ἐξηγοῦνται, Πλάτων δὲ ἐν βραχυτάτοις ἀναμιμνήισκει. Inni fisici, come quelli composti da Parmenide, Empedocle e dai loro seguaci […] Essi sono tali quando, levando un inno ad Apollo, diciamo che è il sole e discutiamo della natura del sole, e di Era diciamo che è l’aria, di Zeus che è il calore: inni di questo tipo infatti riguardano l’indagine sulla natura. Si servono di questa forma d’espressione Parmenide ed Empedocle in modo rigoroso […] Parmenide ed Empedocle infatti fanno da 241 guida e Platone lo ricorda brevemente. (Genetlio; DK 28 A20). Parmenide ed Empedocle sarebbero stati campioni in un genere, quello dei «poemi fisici» (φυσικοὶ ὕμνοι), vere e proprie «indagini sulla natura» (φυσιολογικοί), riconosciuto nell’antichità (Platone). Simplicio suggerisce, dal canto suo, un ulteriore interessante accostamento: εἰ δ’ ‘ε ὐ κ ύ κ λ ο υ σ φ αί ρ η ς ἐ ν α λ ί γ κ ι ο ν ὄ γ κ ω ι ’ τὸ ἓν ὄν φησι [Β 8, 43], μὴ θαυμάσηις· διὰ γὰρ τὴν ποίησιν καὶ μυθικοῦ τινος παράπτεται πλάσματος. τί οὖν διέφερε τοῦτο εἰπεῖν ἢ ὡς Ὀρφεὺς [fr. 70, 2 Kern] εἶπεν ‘ὠεὸν ἀργύφεον’; Se [Parmenide] afferma che l’essere uno è «simile a massa di ben rotonda palla» [B8.43], non ci si deve meravigliare: a causa della poesia, infatti, egli ricorre anche a qualche finzione mitica. Che differenza c’è dunque tra questo modo di esprimersi e quello di Orfeo: «uovo d’argento»? (Simplicio; DK 28 A20). La ricerca contemporanea ha documentato la matrice omerica praticamente dell’intero lessico del poema (Coxon27), e rilevato la raffinatezza della sua composizione ritmica e musicale (Henn), a dispetto della complessità della sua materia (rispetto ai precedenti di riferimento, Omero ed Esiodo), rivendicando quindi la dimensione poetica dell’opera di Parmenide e soprattutto la sua formazione di rapsodo (Schwabl28), riconoscendo, in altre parole, che «Parmenide era un bardo omerico, erede dei tesori di secoli di recitazione orale» (Henn29), impegnato a comporre all’interno della tradizione epica e non contro di essa. Parmenide, insomma, era (come Empedocle, probabilmente) in primo luogo un poeta, interessato a sperimentare le potenzialità 27 A.H. Coxon, The Fragments of Parmenides, Van Gorcum, Assen/Maastricht 1986, pp. 9-13. 28 H. Schwabl, “Hesiod und Parmenides, Zur Formung des parmenideischen Prooimions (28 B1)”, «Reinisches Museum», 106 (1963), pp. 134-142. 29 M.J. Henn, Parmenides of Elea…, cit., p.5. 242 del verso nel campo d’indagine della natura: i modelli epici potrebbero tuttavia non ridursi ai poemi omerici ed esiodei, e comprendere anche (soprattutto per la seconda parte del poema) la produzione orfica, soprattutto teogonica e cosmogonica30, attribuita a Museo, Epimenide e Onomacrito31. La rivelazione di Parmenide La scelta di una portavoce divina esprimerebbe per alcuni il desiderio di Parmenide di marcare l'oggettività del suo metodo32: se l’esito della ricerca fosse stato avanzato semplicemente come la sua verità, avrebbe finito per riproporsi come un punto di vista, l’opinione di un mortale in concorrenza con le opinioni degli altri (mortali)33. Secondo il modulo epico, invece, il poeta-pensatore non è che portavoce della Dea e della Verità: come il contemporaneo Eraclito rimarcava che: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me, ma il logos ascoltando, è saggio convenire che tutto è uno (DK 22 B50), così Parmenide non intende riferire la verità immediatamente a un soggetto, ma alla divinità, per garantirne l’assolutezza34. 30 Sull’orfismo in generale si vedano ora i numerosi e preziosi saggi contenuti in A. Bernabé y F. Casadesús (coords.), Orfeo y la tradicíon órfica. Un reencuentro, 2 voll., Akal, Madrid 2008. In particolare, nel primo volume A. Bernabé, Caraterísticas de los textos órficos, pp. 241-246; M. Herrero, Tradición órfica y tradición homérica, cit., pp. 247-278. 31 Per questi aspetti R.B. Martínez Nieto, Otros poetas griegos próximos a Orfeo, ivi, pp. 549-576. 32 Tarán, op. cit., p. 31. 33 Parménide, Le Poéme: Fragments, texte grec, traduction, présentation et commentaire par M. Conche, PUF, Paris 1999 (edizione originale 1996), p. 66. 34 Ivi, p. 65. 243 Questa plausibile spiegazione della cornice religiosa non può tuttavia non tenere conto proprio della natura argomentativa della prima sezione del poema - indicata dalla Dea come «discorso affidabile e pensiero intorno alla Verità» (πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης B8.50-1) - che la stessa Dea evoca come ἔλεγχος (disamina, prova), invitando il κοῦρος a giudicare razionalmente (κρῖναι δὲ λόγῳ): consapevolezza che sembrerebbe contraddire l’urgenza di un pegno divino per il logos proferito. Rivelazione e verità In realtà Parmenide, come Senofane, sembra per lo più aderire alla concezione pessimistica della condizione umana espressa tradizionalmente nella poesia arcaica. Leszl, in proposito, cita il contemporaneo Teognide (vv. 139-41): οὐδέ τωι ἀνθρώπων παραγίνεται, ὅσσα θέληισιν· ἴσχει γὰρ χαλεπῆς πείρατ’ ἀμηχανίης. ἄνθρωποι δὲ μάταια νομίζομεν εἰδότες οὐδέν· θεοὶ δὲ κατὰ σφέτερον πάντα τελοῦσι νόον Nessuno degli uomini ottiene quanto è nei suoi desideri; si scontra infatti con i limiti postigli dalla dura inettitudine. Uomini come siamo, coltiviamo illusioni, senza sapere nulla, mentre gli dei pervengono alla realizzazione di tutto quanto hanno in mente35. È significativo che proprio dalla poesia Parmenide ricavi i tratti con cui, in B6 e B7, caratterizzerà l’impotenza dei «mortali» (βροτοί): essi sono apostrofati come εἰδότες οὐδέν («che nulla sanno», come in Omero, Teognide, Mimnermo, Semonide); la loro incapacità di realizzare ciò che è nei loro intenti è stigmatizzata 35 W. Leszl, Parmenide e l’Eleatismo, Dispensa per il corso di Storia della filosofia antica, Università degli Studi di Pisa, Pisa 1994, p. 162. 244 come ἀμηχανίη («impotenza», «inettitudine», come in Teognide e nell’Inno Omerico ad Apollo, vv. 189-193); la loro attitudine cognitiva liquidata come πλακτὸν νόον («mente errante», con paralleli in Archiloco fr. 58)36. A dispetto di questo quadro, del fatto che l’uomo, con le sole sue forze, non possa pervenire alla conoscenza piena della realtà, il proemio narra come l’intervento e la benevolenza delle divinità consentano – almeno al poeta – di ricevere e partecipare di quel sapere che è appannaggio divino37. Non sorprende che tale rivelazione investa in primo luogo le premesse (B2) della successiva disamina razionale (B6-8), che il kouros è invece sollecitato a valutare, come se ormai, grazie alla comunicazione dei principi, potesse concludere autonomamente; né che, alla luce delle tradizioni evocate nello stesso proemio, essa si sostanzi essenzialmente in termini contemplativi (B3-4), facendo quasi coincidere la percezione intelligente (νοεῖν) con il proprio oggetto (εἶναι) 38. La specifica cornice letteraria e l’implicito motivo della comunicazione divina sarebbero allora sfruttati, consapevolmente e strumentalmente, allo scopo di certificare verità e disponibilità dei principi dell’argomentazione: Parmenide, insomma, avrebbe attribuito i fondamenti della propria enciclopedia a un’anonima docenza divina, per assicurarne incontestabilità e universalità. Ovvero, come intende Conche, il sapiente-poeta avrebbe conservato, nella finzione della Dea, l’idea tradizionale dell’onniscienza divina, idea di un sapere che tocca la realtà nel suo insieme: avremmo in questo senso, come già nel caso di Senofane, non più una divinità religiosa ma filosofica39. 36 Ivi, pp. 163-4. 37 Ivi, p. 166. 38 Su questo ancora Leszl, op. cit., p. 168. 39 Conche, op. cit., p. 66. 245 Il problema della verità Nella pratica poetica sembrava dunque risolversi un cruciale problema cognitivo40: dal momento che gli esseri umani, nella loro impotenza, sono soggetti a illusoni, come può il sapiente riconoscere la verità, sottrarsi a quella condizione di diffusa deficienza (cognitiva) e pretendere di sapere? Nella cultura greca arcaica, solo un dio poteva essere fonte di verità, e il linguaggio della comunicazione divina era quello dei versi: Omero ed Esiodo validavano la loro poesia marcando il fatto che essa annunciava la verità, la cui conoscenza (sovrumana) era garantita dalla Musa epica41. In questo senso, il motivo poetico della comunicazione divina è in Parmenide pervasivo, abbracciando entrambe le sezioni del poema42: l’intero campo del sapere è esplicitamente ricondotto alla lezione della Dea, tanto le tesi intorno all’essere, quanto l’enciclopedia del «sistema cosmico» (διάκοσμος), senza alcuno spazio per una piena rivendicazione autoriale da parte del poeta. Se consideriamo la struttura dell'opera delineata in conclusione del proemio, e i passi superstiti della prima sezione, risulta evidente, nella narrazione, come il rilievo della lezione divina sia funzionale alla focalizzazione del problema dell'accesso alla veri- 40 Su questo punto è fondamentale il contributo di G.W. Most, "The poetics of early Greek philosophy", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, edited by A.A. Long, C.U.P., Cambridge 1999, pp. 332-362. Nello specifico rinvio a p. 353. 41 Ivi, p. 343. 42 Sulla scorta delle indicazioni del testo (DK 28 B8.50-52): ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε […] A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara […] le due sezioni sono tradizionalmente designate come Verità e Opinione. 246 tà43. Veridicità ed essenzialità44, in effetti, erano fondamentali obiettivi poetici che le opere di Omero ed Esiodo si proponevano e rivendicavano (implicitamente o esplicitamente): gli inni teogonici, per esempio, articolavano il pantheon riconducendolo all’origine del cosmo, così assicurando, in forza della rivelazione della Musa, una conoscenza superumana di cose distanti nel tempo e nello spazio45. Quando le Muse di Esiodo dichiarano: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare – (Teogonia 27-28), l’intenzione non è di mettere in guardia dal contenuto della buona poesia, piuttosto dalla comprensione della maggioranza degli uomini, così scadente da non poter discernere il vero dal falso46. Senofane, probabilmente nello stesso ambiente culturale di Parmenide47, aveva già chiaramente manifestato segni di scetticismo nei confronti del mito e di quella tradizione poetica: πάντα θεοῖσ’ ἀνέθηκαν Ὅμηρός θ’ Ἡσίοδός τε, ὅσσα παρ’ ἀνθρώποισιν ὀνείδεα καὶ ψόγος ἐστίν, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν ogni cosa agli dei attribuirono Omero ed Esiodo, 43 Su questo punto G. Germani, "ΑΛΗΘΕΙΗ in Parmenide", in «La Parola del Passato», vol. XLIII, 1988, pp. 177-206. 44 Most, op. cit., p. 343. 45 K. Algra, "The beginnings of cosmology", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 45-65. Il passo cui ci riferiamo è a p. 49. 46 Most, op. cit., p. 343. 47 La tradizione dossografica antica costantemente associa Parmenide a Senofane: tale relazione è stata conservata nella tradizione fino al XX secolo, nel corso del quale essa è risultata profondamente scossa. Con buoni argomenti ha di recente rilanciato la dipendenza di Parmenide dal pensatore di Colofone John Palmer (Plato's Reception of Parmenides, Clarendon Press, Oxford 1999, pp. 186 ss.; Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 324 ss.). 247 quanto presso gli uomini è cosa riprovevole e censurabile: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B11) Ὅμηρος δὲ καὶ Ἡσίοδος κατὰ τὸν Κολοφώνιον Ξενοφάνη ὡς πλεῖστ(α) ἐφθέγξαντο θεῶν ἀθεμίστια ἔργα, κλέπτειν μοιχεύειν τε καὶ ἀλλήλους ἀπατεύειν Omero ed Esiodo, secondo Senofane di Colofone: Numerosissime azioni illegittime hanno narrato degli dei: rubare, commettere adulterio e vicendevolmente imbrogliarsi (DK 21 B12). Egli (come Eraclito) prende apertamente posizione contro la falsità dei contenuti di quella poesia, contro la distorsione della corretta concezione del divino: è significativo, in questo senso, che proprio a cavallo tra VI e V secolo a.C. si sviluppi la più importante «misura di recupero»48 a protezione dei poeti: l'interpretazione allegorica. A Teagene di Reggio dovremmo, in effetti, il tentativo di sanare la frattura tra le fonti tradizionali dell'autorità poetica e i più recenti criteri di argomentazione concettuale49. Certamente la critica di Senofane rischiava di accentuare il divario tra piano umano e piano divino, come emerge da alcuni dei frammenti conservati, rendendo conseguentemente problematico l'accesso alla verità: οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον non è vero che dal principio tutte le cose gli dei ai mortali svelarono, ma nel tempo, ricercando, essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18) 48 L'espressione è di Most, op. cit., p. 339. 49 Ibidem. Sulla relazione tra Senofane, Paremnide e Teagene si veda A. Capizzi, "Quattro ipotesi eleatiche", in «La Parola del Passato, cit.. 248 καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34). Benché testo e significato dell'ultimo frammento rimangano ancora controversi50, esso sembra anticipare la conclusione scettica per cui non esiste criterio per stabilire una verità evidente e del tutto affidabile. Analogamente si esprimeva, tra i contemporanei di Parmenide, Alcmeone: Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi51 (DK 24 B1). La scelta di Parmenide - di far ruotare intorno a una figura divina la comunicazione del poema - potrebbe allora simboleggiare 50 J.H. Lesher, "Early interest in knowledge", in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, cit., pp. 225-249. Il riferimento a p. 229. 51 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début. Quelques observations sur les incipit des présocratiques", «Philosophie Antique», 7, 2007 [Présocratiques], p. 19). 249 «la ripresa e la soluzione parmenidea del problema della verità»52. Non va quindi trascurata la possibilità di cogliere, negli echi della poesia religiosa e della stessa poesia esiodea (con la ripresa di elementi cosmologici della Teogonia), la specificità dell'esperienza narrata nel proemio come prefigurazione del complesso dei contenuti dell’opera. Motivi poetici e suggestioni In uno studio molto innovativo per l’attenzione alla forma poetica del Περὶ φύσεως, Mourelatos 53 individuò alcuni motivi 54 dell’epica chiaramente presenti nel poema. Tra questi appaiono di particolare interesse (i) quello del viaggio, certamente il più importante, anche per le possibili implicazioni (in precedenza segnalate) con la poesia religiosa; (ii) quello dell’istruzione, marcata dall’uso della seconda persona nella comunicazione divina, e dal ricorso a formule programmatiche (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; μαθήσεαι; κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας; πεύσῃ; εἰδήσεις), memori di Esiodo (Le opere e i giorni) e Omero. Viaggio ed erramento Dei cinque aspetti rilevati55 nella struttura di questo «motivo» (motif) omerico - (i) progresso nel viaggio di ritorno, (ii) regresso ed erramento; (iii) navigazione esperta; (iv) azione folle; (v) ricerca di informazioni sul ritorno da parte dei parenti a casa – i 52 Germani, op. cit., p. 187. 53 A.P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides. A Study of Word, Image and Argument in the Fragments, Yale University Press, New Haven – London 1970, pp. 12-14. 54 Non mi addentro nella distinzione, proposta dallo studioso, tra «tema» o «concetto», per cui le pure forme poetiche fungono da veicolo (oggetto della «iconografia»), e «motivo» o «significato complessivo», «valore simbolico» (oggetto della «iconologia»). Ibidem, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 18. 250 primi quattro appaiono marcatamente sfruttati nel poema. La compiuta circolarità del viaggio nell'Odissea pone in primo piano il ritorno a casa (νόστος), per cui esiste una specifica impresa di ricerca (νόστον διζήμενος): nel proemio si alluderebbe esplicitamente o implicitamente – a seconda delle interpretazioni – alla stessa situazione (viaggio alla dea e ritorno tra gli uomini). In ogni caso centrali risulterebbero, nell’economia del poema, la conduzione (πομπή) delle guide (divine) di scorta al viaggiatore e – per contrasto – l’erramento (πλάνη) dei «mortali»: analogamente, l’eroe omerico - accorto e istruito dalle divinità - sa di dover osservare un certo comportamento, mentre i suoi compagni, privi di lungimiranza, si rendono colpevoli di azioni irresponsabili, d’ostacolo al viaggio di ritorno56. Così, al kouros la Dea non manca di riferire le coordinate (i «segni», σήματα) della via corretta (B8.1-2: μῦθος ὁδοῖο ὡς ἔστιν), mettendolo in guardia dalle insidie della «abitudine nata dalle molte esperienze» (B7.3: ἔθος πολύπειρον); alla cui deriva, invece, come i compagni di Odisseo, si abbandonano i «mortali che nulla sanno» (B6.4: βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), connotati come «uomini a due teste» (δίκρανοι). Ma il motivo del viaggio non riconduce solo al paradigma omerico: è probabile ne esistesse una variante letteraria nella poesia apocalittica 57, diffusa nei circoli pitagorici, a partire dai Καθαρμοί del leggendario Epimenide sopra ricordato. Non è solo Diels a crederlo; tra gli specialisti del XX secolo, Guthrie58, per esempio, coglie, almeno a livello verbale, echi orfici, che tuttavia non dimostrerebbero altro che il radicamento nella tradizione della poesia più antica e in quella contemporanea (Pindaro, Bacchilide, Simonide), mentre ritiene più consistente la possibilità di una influenza dello sciamanesimo, proprio sulla scorta dei precedenti di Epimenide e altri (Aristea, Abari, Ermotimo). 56 Ivi, pp. 18-21. 57 Uso l’aggettivo – come Diels – nel suo significato etimologico da ἀποκαλύπτω (scoprire, rivelare appunto). 58 W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy. II. The Presocratic Tradition from Parmenides to Democritus, C.U.P., Cambridge 1965, pp. 10 ss.. 251 Esperienze dell'altro mondo Come segnalato in nota ai versi del proemio, alcune scelte espressive di Parmenide – per esempio il vocativo κοῦρε (con cui la δαίμων apostrofa il viaggiatore giunto al suo cospetto) e soprattutto la formula εἰδὼς φώς (con cui è indirettamente designato il poeta) – hanno fatto pensare a un esplicito richiamo a modelli misterici, destinati a fortunate riprese in particolare da parte di Platone59. Rivestono in questo senso un notevole interesse le laminette funerarie classificate come "orfiche" (le più antiche risalenti al VIV secolo a.C.) e altri frammenti riconducibili a quell'ambiente religioso, sia per il motivo del viaggio (per giungere all'Ade: non agile, non lineare; dunque bisognoso di guida) e della connessa esperienza che propongono (il giudizio della anime a opera di Dike), sia per specifici elementi che presuppongono (l'iniziazione) e impongono (la necessità di operare una scelta di fronte a un bivio). Di recente Ferrari è tornato a segnalare come l'itinerario del poeta nel proemio, con la sua destinazione infera, abbia «molto in comune con quegli itinerari iniziatici che i defunti percorrevano nell'oltretomba», seguendo più o meno puntuali istruzioni60. Non si tratterebbe solo di dettagli di contorno (come segnaliamo in nota) che Parmenide avrebbe recuperato per garantire solennità alla propria composizione, ma di suggestioni che l'avrebbero informata, fornendo il nesso profondo tra il racconto del proemio e il resto del poema, saldando «il tema dell'iniziazione alla fondazione logica del sistema»61. Così sarebbe possibile ricostruire la topografia del viaggio parmenideo: percorso privilegiato (sotto la conduzione delle EliaEliadi: κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον, v. 5) di un "iniziato" (εἰδὼς φώς) lungo la via che conduce alla porta dell'oltretomba (ὁδός 59 Per questi aspetti è ancora molto utile M.M. Sassi, "Parmenide al bivio. Per un'interpretazione del proemio", «La Parola del Passato», cit., pp. 383-396. 60 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Pomba, Torino 2007, p. 115. 61 Sassi, op. cit., p. 386. 252 πολύφημος δαίμονος, vv. 2-3)62 sorvegliata da Dike, la quale non solo consentirà al poeta l'accesso al mondo dei morti (per testimoniarne), ma soprattutto l'incontro con la δαίμων e, conseguentemente, la sua istruzione. Un tragitto che, a suo tempo, in uno studio pionieristico, Morrison aveva connotato come quello del «poeta-sciamano in cerca di conoscenza»63, accostandolo all'esperienza del platonico Er. In modo sorprendentemente simile, le istruzioni (incise su laminetta aurea) per l'anima del defunto nel sepolcro di Ipponio (circa 400 a.C.) prevedono: ἐπεὶ ἂμ μέλληισι θανεῖσθαι εἰς Ἀΐδαο δόμους εὐήρεας Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costrutte di Ade64, dove, presso la palude di Mnemosine (Μναμοσύνη λίμνη), l'anima sarebbe stata affrontata e interpellata dai «custodi» (φύλακες): [ h ] οι δέ σε εἰρήσονται ἐν φραςὶ πευκαλίμαισι ὄττι δὴ ἐξερέεις Ἄιδος σκότους ὀλοέεντος che ti chiederanno nel loro denso cuore Cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso65. Ma le laminette propongono soprattutto un'altra suggestione, che potrebbe emergere in Parmenide (per giungere poi ai miti dell'aldilà platonico) come riflesso di un fondo escatologico comune 66: la possibilità che una tappa nell'itinerario tracciato da 62 La Sassi (pp. 387-8) ricorda come nel mito oltremondano del Fedone (107d ss.) le anime dei defunti, per coprire il cammino verso l'Ade, abbiano bisogno di δαίμονες che le conducano come ἡγεμόνες. 63 J.D. Morrison, "Parmenides and Er", «Journal of Hellenic Studies», 75, 1955, pp. 59-68. La citazione è a p. 59. 64 G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-3. 65 Colli, op. cit., pp. 172-3. 66 Sassi, op. cit., pp. 390-1. 253 Parmenide sia costituita dal bivio dell'oltretomba ben attestato nelle laminette (e nei testi platonici): ἔστ’ ἐπὶ δ < ε > ξιὰ κρήνα, πὰρ δ’αὐτὰν ἐστακῦα λευκὰ κυπάρισσος [...] ταύτας τᾶς κρᾶνας μηδὲ σχεδὸν ἐνγύθεν ἔλθηις· πρόσθεν δὲ [ h ] ευρήσεις τᾶς Μναμοσύνας ἀπὸ λίμνας ψυχρὸν ὔδωρ προρέον c'è alla destra una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto [...] A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Ipponio) εὑρήσσεις δ’ Ἀίδαο δόμων ἐπ’ ἀριστερὰ κρήνην πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδὸν ἐμπελάσειας. εὑρήσεις δ’ ἑτέραν, τῆς Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ψυχρὸν ὕδωρ προρέον E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un'altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine (laminetta di Petelia, circa 350 a.C.) εὑρήσεις Ἀίδαο δόμοις ἐνδέξια κρήνην, πὰρ δ’ αὐτῆι λευκὴν ἑστηκυῖαν κυπάρισσον ταύτης τῆς κρήνης μηδὲ σχεδόθεν πελάσηιςθα. πρόσσω εὑρήσεις τὸ Μνημοσύνης ἀπὸ λίμνης ὕδωρ προ < ρέον > Troverai alla destra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a quella fonte non accostarti neppure, da presso. E più avanti troverai la fredda acqua che scorre 254 dalla palude di Mnemosine (laminetta di Farsalo, circa 330 a.C.)67. Così come l'iniziato è preventivamente istruito di fronte all'alternativa delle fonti cui attingere per placare la propria sete, la Dea di Parmenide, conclusa la propria allocuzione introduttiva e richiamata l'attenzione del κοῦρος: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata (B2.1), evoca (B2.2) l'immagine delle «vie di ricerca», evidentemente biforcate: (i) ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3); (ii) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5); per trattenerlo dal tentativo di percorrere la seconda, come invece accade (analogamente alle anime che si gettano verso l'acqua della prima fonte) ai «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, B6.4)68. Sono stati compiuti, negli ultimi anni, tentativi per individuare un modello unitario per tutto il materiale funerario di questo tipo (che si riferisce a reperti risalenti ai secoli V-II a.C.), giungendo addirittura a fissare la serie di stazioni che farebbero da sfondo alle istruzioni per le anime dei defunti69. Più prudentemente, riferendosi alle laminette di Ipponio, Petelia, Farsalo e Entella (fine V- fine IV secolo a.C.), Ferrari ha sottolineato come ci si trovi di fronte «a una traccia poetica sostanzialmente unica e unitaria, ma altresì che le rimodulazioni dei vari testimoni risultano a tratti 67 Colli, op. cit., pp. 172-7. 68 Sassi, op. cit., pp. 392-3. 69 Il tentativo più sistematico è quello di A. Bernabé, Poetae epici Graeci. Testimonia et fragmenta, II: Orphicorum et Orphicis similium testimonia et fragmenta, II, K.G. Saur, Münche-Leipzig 2005, p. 13. di ciò dà conto Ferrari in La fonte del cipresso bianco, cit., pp. 115-6. 255 importanti e complesse»70. In ogni caso, un elemento risulta nel nostro contesto significativo: il fatto che nelle laminette (pur recuperate in località diverse e in qualche caso distanti: si va dalla Magna Grecia per le prime due laminette, alla Tessaglia per la terza, alla Sicilia per l'ultima) si faccia «ripetuta menzione di Mnemosine come divinità che dispensa il dono di ricordare»71, e che rivelerebbe l'appartenenza dei defunti a circoli pitagorici, a quella cultura, in altre parole, «che appunto alla memoria assegnava un ruolo cruciale nel processo di ascesi e di perfezionamento della persona»72. Non è un caso che Pugliese Carratelli, editore delle laminette, proponga, in relazione all'ambiente e allo specifico richiamo del proemio di Parmenide a quella temperie, Mnemosine come la δαίμων innominata di Parmenide. Esperienze sciamaniche Abbiamo citato Morrison a proposito del suo accostamento del viaggio di Parmenide al tragitto di un «poeta-sciamano»: la figura dello sciamano - il cui rilievo nell’ambito della cultura arcaica era stato notato, qualche anno prima del contributo di Morrison, da Dodds, in una delle opere più originali sulla civiltà greca73 - è quella di un mediatore tra uomini e dei, che ha la capacità di lasciare in trance il proprio corpo e di viaggiare in cielo o nell’oltretomba, per accompagnare altre anime o ricevere istruzioni mediche o cultuali da una divinità. Egli è spesso poeta o cantore e tipicamente narra in prima persona dei suoi viaggi celesti e delle sue esperienze: il suo viaggio (il mezzo di trasporto è talvolta un carro volante) è difficoltoso e può presentare momenti di erramento prima del desiderato confronto con la divinità. 70 Ivi, p. 119. 71 Ivi, p. 124. 72 Ibidem. 73 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze 1959 (edizione originale 1951), capitolo V (Gli sciamani e le origini del puritanesimo). 256 Anche Mourelatos 74 riconosce le somiglianze tra l’itinerario del kouros e il complesso di elementi focalizzati da Dodds e ripresi, in relazione a Parmenide, da Guthrie. Se concediamo la presenza di certi tratti sciamanici nella Grecia arcaica, il riferimento, nel proemio, al viaggio del protagonista e alla sua scorta divina (Guthrie parla di «odissea spirituale dello sciamano») avrebbe allora potuto immediatamente evocare, nell’immaginazione di un ascoltatore "iniziato" a tali pratiche, i segni dell’esperienza sciamanica. In questo senso appare ancor più significativo l’accostamento a Odisseo. In particolare, Mourelatos è convinto che, dietro o sotto la poesia di Parmenide, si possa rintracciare, oltre a Omero (e a Esiodo), un consistente corpo di poesia cultuale e profetica del VII-VI secolo a.C.. Il problema in proposito è la mancanza di esemplari per valutarne la reale incidenza, forse più importante di quella omerico-esiodea. È probabile, tuttavia, che l’importanza di questo retroterra dipenda in larga misura da motivi e temi condivisi dall’epica precedente, sebbene impiegati in una nuova prospettiva e con una nuova contestualizzazione. Parmenide avrebbe così usato il complesso del viaggio sciamanico come modello per il suo viaggio speculativo. Nonostante l’assenza di evidenze testuali che autorizzino a parlare di un “motivo” letterario, allusioni al paradigma dell'esperienza sciamanica sarebbero rintracciabili, secondo Kingsley 75, proprio nel proemio, quasi a inquadrare la successiva dottrina in una cornice sapienziale indiscutibile. Anche per l'autore inglese, infatti, il modo di presentarsi del poeta (come «uomo che sa», εἰδὼς φώς) costituirebbe uno standard nel mondo greco arcaico per indicare l’«iniziato»76, colui che, in virtù delle proprie conoscenze, poteva giungere dove ad altri era proibito. Analogamente l’espressione κοῦρος con cui la Dea si rivolge al poeta denoterebbe una figura al limite (e tramite) tra mondo umano e divino77: l’esperienza descritta, infatti, sarebbe quella di un’eccezionale 74 Op. cit., pp. 44-5. 75 P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, Duckworth, London 1999. 76 Ivi, p. 62. 77 Ivi, p. 72. 257 κατάβασις, autorizzata da Dike (divinità associata al mondo infero78). Qui è plausibile che Parmenide si rifacesse a modelli letterari, che coniugavano il tema della discesa nell’Ade in quanto luogo della rivelazione (Odissea XI), a un determinato contesto cosmologico (Teogonia 736-774) e a particolari figure di predestinati, come l’eroe Eracle79 o il leggendario poeta Orfeo (in questo senso da leggere, analogamente a Dodds80, come sciamano). A conferma della propria lettura (che in realtà si regge su tradizioni posteriori), Kingsley porta testimonianze ricavate dall’arte vascolare dell’epoca e della regione di Elea, che ritraggono l’incontro di Eracle con Persefone secondo lo schema ripreso da Parmenide, ovvero quello di Orfeo con la stessa dea infera, e la presenza sullo sfondo di Dike81. In questo modo sarebbe attestato, se non un motivo poetico-letterario, almeno un retroterra culturale, tradizionale e locale, in cui il poeta poteva inserire i propri riferimenti, permettendosi l'anonimità della dea82. In effetti, che il ruolo di divina interlocutrice sia ricoperto da Persefone, è suggerito dalla stessa accoglienza del kouros da parte della θεά: non una sorte infausta (la morte?) lo ha allontanato dal mondo degli uomini, ma un destino di conoscenza sotto l’egida della giustizia divina. Come se, appunto, ella fosse preoccupata di rassicurare il poeta circa la sua presenza nel mondo dei morti. D’altra parte, è assai probabile che il poeta si attenesse a norme compositive, ricorrendo a scelte espressive non improvvisate e per lo più funzionali a un determinato obiettivo. Kingsley richiama esemplarmente il ricorso alla ripetizione costante del verbo φέρω nei primi versi, la cui frequenza sarebbe difficilmente tollerabile, da un punto di vista poetico, se non per l’effetto “performativo” (immaginando la recitazione), di incantamento e trasporto. L’attenzione per alcuni dettagli fa inoltre pensare che Parmenide evocasse precisi riferimenti cultuali (se non poetici), così inquadrando la propria rivelazione in uno sfondo comprensibile ai 78 Ivi, pp. 62-3. 79 Ivi, p. 61. 80 Op. cit., pp. 186-7. 81 Op. cit., p. 94. 82 Ivi, p. 97. 258 propri ascoltatori (iniziati): potrebbe dunque non essere casuale il particolare rilievo iniziale del suono («sibilo acuto», σῦριγξ) emesso dall’«asse del carro nei mozzi […] incandescente», dal momento che esso ritorna nella posteriore tradizione dei papiri magici greci, associato proprio al silenzio della «incubazione» e al viaggio cosmico83. Maria Laura Gemelli Marciano84 ha inoltre richiamato l'attenzione sullo spazio (21 versi) dedicato nel proemio (che consideriamo conservato integralmente) alla descrizione del viaggio e sull’acribia con cui ne viene resa l'esperienza sensoriale (acustica e ottica), nonché la topografia: ricchezza di dettagli che sembra escludere il mero impiego simbolico, tanto più considerando85 la stretta relazione tra suoni («sibilo», σῦριγξ), movimenti rotatori (i «cerchi rotanti» δινωτοῖσιν κύκλοις dei vv. 7-8) – segnali di alterazione dello stato di coscienza - e il manifestarsi delle figure divine86. Indizi che possono autorizzare la lettura del poema come resoconto di un viaggio estatico. Alcuni elementi esteriori concorrono in effetti a collegare Parmenide a questo retroterra apocalittico. Nel 1962 fu ritrovata a Velia (l’antica Elea) un'iscrizione su blocco marmoreo che recita87: Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός. Parmenide, figlio di Pireto, è riconosciuto come Ouliades, seguace di Apollo Oulios (venerato nell’area anatolica, da cui provenivano i profughi focesi che fondarono nel VI secolo a.C. Elea), e physikos, a un tempo ricercatore della natura e medico: dal momento che ad Apollo Oulios era riconducibile la tecnica dei guaritori, è possibile che la figura del filosofo fosse ufficialmente associata alla iatromantica (di cui l’archeologia conferma la pratica in Velia), nel solco dello sciamanesimo (Epimenide) attestato dalla tradizione testuale. Nella stessa direzione punta un’altra evidenza dossografica: 83 Ivi, pp. 129-130. 84 Die Vorsokratiker, II, p. 54. 85 Sulla scia dello stesso Kingsley. 86 Gemelli Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, p. 55. 87 Kingsley, op. cit., pp. 139 ss.. 259 ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη. Parmenide, come affermò Sozione, ebbe familiarità anche con Aminia, figlio di Diochete, pitagorico, uomo povero, ma nobile e retto, ciò che tanto più ne favorì l’influenza. Quando questi morì, Parmenide, che era di famiglia illustre e ricca, eresse per lui un monumento funebre. Fu proprio Aminia, non Senofane, a volgerlo alla tranquillità di una vita di studio (Diogene Laerzio; DK 28 A1). Il termine ἡσυχία - qui tradotto come «tranquillità di una vita di studio» - avrebbe in realtà un valore molto diverso, soprattutto riferito allo stile di vita esemplare del pitagorico Aminia: qualcuno parla di vita contemplativa, ovvero di vita filosofica, ma letteralmente il significato è quello di «quiete, riposo», «silenzio, immobilità». L’ascetico Aminia sarebbe stato maestro di «incubazione», avrebbe cioè avviato Parmenide alle tecniche di concentrazione già in uso presso i gruppi pitagorici88. Come ha rilevato la Gemelli Marciano89, l'«incubazione» può fornire la chiave per collegare la iatromantica, riferita all'Eleate dalle evidenze archeologiche, all'attività di legislatore attribuitagli sempre da Diogene Laerzio (sulla scorta di Speusippo): almeno secondo lo schema che Platone ricorda nelle Leggi (624b) in relazione al mitico Minosse, ma che abbiamo ritrovato in Epimenide e che potrebbe emergere anche nel caso di Zaleukos, legislatore di Locri, di cui si sosteneva avesse ricevuto le leggi direttamente dagli dei. Sebbene non sia dato cogliere in quale modo questo insieme di elementi potesse costituire un “motivo” letterario, è possibile ipotizzare una sua codifica in una qualche forma recitativa (come nel 88 Kingsley, op. cit., pp. 179-181. 89 Op. cit., II, p. 45-6. 260 caso delle Purificazioni di Epimenide), cui Parmenide potrebbe essersi ispirato (viaggio, incontro con Giustizia e Verità ecc.), evocando situazioni e particolari significativi in una società ancora legata a quelle pratiche (importate, come crede Kingsley, dalla patria di origine, Focea, sulle coste dell’Asia Minore). La cornice cosmologica: Esiodo Il motivo del viaggio e della sua destinazione divina – con le diverse, possibili suggestioni - risulta comunque proiettato, nel proemio, all’interno di uno sfondo cosmico (parzialmente delineato nelle allusioni del testo) modulato su un terzo grande modello poetico, probabilmente decisivo nell’elaborazione letteraria di Parmenide: la Teogonia di Esiodo. Sulla sua incidenza pochi hanno dubbi, anche quando, come Mourelatos 90, privilegino il confronto con Omero. Sommariamente, infatti, possiamo rilevare: (i) le analogie tra il proemio del poema e l’inno alle Muse91 della Teogonia; (ii) in particolare la possibile criticità del già citato rilievo delle Muse in Teogonia 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare -, rispetto al programma didattico proposto in conclusione di B1, con l'opposizione tra verità e incerto opinare umano; (iii) la presenza strutturale di dettagli dello scenario cosmologico dell'opera esiodea nel proemio, oltre alla chiara intenzione cosmogonica (e teogonica) della seconda sezione del poema. 90 Op. cit., p. 33. 91 Su questo, tra gli altri, concordano Leszl, Couloubaritsis, e soprattutto M. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A New View on Their Cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974. 261 Quasi Parmenide volesse sovrapporre o contrapporre la propria verità a quella del poeta di Ascra. A livello formale, lo sforzo da parte di Parmenide di utilizzare creativamente il precedente esiodeo appare evidente. Egli si muove in effetti all’interno delle novità da questi introdotte nella tradizione aedica: il riferimento dell’autore a se stesso nell’esordio dell’opera e la funzionalità del proemio rispetto al poema. In relazione all'originalità esiodea del primo aspetto, Arrighetti ha colto, nel modo di proporsi del poeta rispetto alla memoria letteraria, il doppio risvolto della «contrapposizione polemica» e, soprattutto, del «distacco critico», garantito dalla rivelazione delle Muse 92: l’investitura poetica e il dono divino della verità, come proposti in apertura della Teogonia, giustificano la pretesa di una poesia diversa dalla tradizionale, in cui l’autore fondatamente rivendica una visione unitaria del cosmo. D’altra parte, anche la risorsa proemiale è da Esiodo sfruttata in modo peculiare, nella misura in cui essa non si riduce ad artificio estrinseco rispetto al canto poetico vero e proprio, a inno propiziatorio da recuperare nel repertorio di evocazioni dedicate, sul tipo degli inni tramandati come omerici: il nesso tra proemio e poema è, nel caso della Teogonia, molto stretto, sia per il coinvolgimento diretto del poeta e della sua esperienza personale, sia, in particolare, perché tale esperienza illumina la sostanza complessiva dell’opera: «il proemio, con il racconto della epifania delle Muse, costituisce la garanzia del carattere di veridicità del contenuto del poema»93. A richiamare l’attenzione dell'interprete sul precedente esiodeo sono tuttavia soprattutto alcuni elementi di contenuto, in primo luogo lo scenario complessivo del proemio parmenideo, con un viaggio che conduce, lungo la direttrice del sentiero di Notte e Giorno (il percorso lungo cui essi si alternano), a un imponente portale (a protezione della dimora divina), il quale, aprendosi, rivela un «vuoto enorme» (χάσμ΄ ἀχανὲς), eco delle «porte» (πύλαι) che chiudono (e dischiudono) l’oscuro Tartaro esiodeo: 92 Esiodo, Teogonia, a cura di G. Arrighetti, BUR, Milano 1984, pp. 7-8. 93 Ivi, pp. 129-130. 262 ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι. τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι. τῶν πρόσθ’ Ἰαπετοῖο πάις ἔχει οὐρανὸν εὐρὺν ἑστηὼς κεφαλῇ τε καὶ ἀκαμάτῃσι χέρεσσιν ἀστεμφέως, ὅθι Νύξ τε καὶ Ἡμέρη ἆσσον ἰοῦσαι ἀλλήλας προσέειπον ἀμειβόμεναι μέγαν οὐδὸν χάλκεον· ἡ μὲν ἔσω καταβήσεται, ἡ δὲ θύραζε ἔρχεται, οὐδέ ποτ’ ἀμφοτέρας δόμος ἐντὸς ἐέργει, ἀλλ’ αἰεὶ ἑτέρη γε δόμων ἔκτοσθεν ἐοῦσα γαῖαν ἐπιστρέφεται, ἡ δ’ αὖ δόμου ἐντὸς ἐοῦσα μίμνει τὴν αὐτῆς ὥρην ὁδοῦ, ἔστ’ ἂν ἵκηται· ἡ μὲν ἐπιχθονίοισι φάος πολυδερκὲς ἔχουσα, ἡ δ’ Ὕπνον μετὰ χερσί, κασίγνητον Θανάτοιο, Νὺξ ὀλοή, νεφέλῃ κεκαλυμμένη ἠεροειδεῖ. ἔνθα δὲ Νυκτὸς παῖδες ἐρεμνῆς οἰκί’ ἔχουσιν, Ὕπνος καὶ Θάνατος, δεινοὶ θεοί· οὐδέ ποτ’ αὐτοὺς Ἠέλιος φαέθων ἐπιδέρκεται ἀκτίνεσσιν οὐρανὸν εἰσανιὼν οὐδ’ οὐρανόθεν καταβαίνων. τῶν ἕτερος μὲν γῆν τε καὶ εὐρέα νῶτα θαλάσσης ἥσυχος ἀνστρέφεται καὶ μείλιχος ἀνθρώποισι, τοῦ δὲ σιδηρέη μὲν κραδίη, χάλκεον δέ οἱ ἦτορ νηλεὲς ἐν στήθεσσιν· ἔχει δ’ ὃν πρῶτα λάβῃσιν ἀνθρώπων· ἐχθρὸς δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσιν Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dèi hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, 263 ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per dèi immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s'inalza, da nuvole livide avvolta. Di fronte a essa il figlio di Iapeto tiene il cielo ampio reggendolo con la testa e con infaticabili braccia, saldo, là dove Notte e Giorno venendo vicini si salutano passando alterni il gran limitare di bronzo, l'uno per scendere dentro, l'altro attraverso la porta esce, né mai entrambi ad un tempo la casa dentro trattiene, ma sempre l'uno fuori della casa la terra percorre e l'altro dentro la casa aspetta l'ora del suo viaggio fin che essa venga; l'uno tenendo per i terrestri la luce che molto vede, l'altra ha Sonno fra le sue mani, fratello di Morte, la Notte funesta, coperta di nube caliginosa. Là hanno dimora i figli di Notte oscura, Sonno e Morte, terribili dèi; né mai loro Sole splendente guarda coi raggi, sia che il cielo ascenda o il cielo discenda. Di essi l'uno la terra e l'ampio dorso del mare Tranquillo percorre e dolce per gli uomini, dell'altra ferreo è il cuore e di bronzo l'animo, spietata nel petto; e tiene per sempre colui che lei prende degli uomini, nemica anche agli dèi immortali.94 (vv. 736-766). Come ci ricorda Privitera95, abbiamo nella cultura greca arcaica due prospettive sull'alternanza di luce e oscurità: una fisica, rintracciabile nell'Odissea, l'altra mitica, presente invece in Esiodo, ma con riscontri anche nell'Iliade. La prima sarebbe "orizzontale", dal momento che i fenomeni coinvolti (il movimento del Sole, nel suo trascorrere celeste da oriente a occidente, e il suo 94 Esiodo, Teogonia, cit., pp. 111-3. 95 G.A. Privitera "La porta della Luce in Parmenide e il viaggio del Sole in Mimnermo", «Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei», s. 9, v. 20, 2009, pp. 447-464. 264 tragitto di ritorno a oriente navigando su Oceano intorno alla Terra) hanno luogo sulla Terra e nel cielo sovrastante. La seconda, al contrario, "verticale", in quanto i fenomeni terrestri e celesti sono radicati nel mondo "infero"96. Non si tratta di prospettive incompatibili, come puntigliosamente dimostra lo studioso: nel caso di Parmenide (come nel precedente di Stesicoro97) registreremmo un originale tentativo di inquadrare il rapporto tra Luce-Sole-Notte entro una cornice cosmica in cui si completano le due prospettive tradizionali98. Nella lettura di Privitera, ciò avrebbe comportato concentrare strutturalmente il baricentro del proemio sul percorso solare, trasferendo la Porta del Giorno e della Notte dall'Ade sulla Terra: sarebbe in questo senso esclusa qualsiasi forma di katabasis verso il regno dei morti. Eppure i versi esiodei, a dispetto delle divergenze che pur ne caratterizzano le interpretazioni cosmologiche 99, si prestano a suggestioni diverse, proiettando decisamente verso il mondo infero la ripresa proemiale di Parmenide. Dopo la narrazione della Titanomachia (665 ss.), della sconfitta dei Titani (713 ss.) e della loro segregazione in un remoto luogo infero (720 ss.), Esiodo ci informa che sopra quella prigione, nelle profondità sotterranee, si sviluppano le radici del mare e della terra (729): come intendesse garantire sulla sicurezza della detenzione, il poeta fornisce particolari sulle modalità di reclusione dei Titani (immobilizzati da «lacci tremendi» 718), e sulla località di carcerazione («un'oscura regione, all'estremo della terra prodigiosa», cintata tutta intorno e assicurata da portali di bronzo, e guardiani infernali, 731-5). La descrizione del mondo sotterraneo è dunque organicamente inserita nel contesto teogonico, sottolineando la rassicurante distanza infera delle ostili forze titaniche: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος 96 Ivi, p. 449. 97 Ivi, p. 453. 98 Ibidem. 99 Si vedano, per esempio la discussione specifica in Pellikaan-Engel (op. cit., capp. II-III), ma anche le annotazioni di Arrighetti (op. cit., pp. 151-2). 265 ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ. ἔνθα δὲ μαρμάρεαί τε πύλαι καὶ χάλκεος οὐδός, ἀστεμφὲς ῥίζῃσι διηνεκέεσσιν ἀρηρώς, αὐτοφυής· πρόσθεν δὲ θεῶν ἔκτοσθεν ἁπάντων Τιτῆνες ναίουσι, πέρην χάεος ζοφεροῖο. Là della terra oscura e del Tartaro tenebroso, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti, sono le scaturigini e i confini, luoghi squallidi e oscuri, che anche gli dèi hanno in odio. Là sono le porte splendenti e la bronzea soglia, inconcussa, su radici infinite commessa, nata spontaneamente; davanti, lontano da tutti gli dèi, i Titani hanno la loro dimora, di là dal caos tenebroso100 (vv. 807-814). In questa sua intenzione, è possibile che Esiodo effettivamente giustapponesse (come vogliono Privitera e Arrighetti) prospettiva orizzontale e verticale, oscillando tra una dislocazione occidentale e una sotterranea dell'«al di là», ma, come ha puntualmente indicato nella sua analisi la Pellikaan-Engel101, va presa seriamente in considerazione l'ipotesi che il poeta alludesse a un quadro cosmologico diverso da quello (sostanzialmente emisferico) della tradizione omerica. La Terra vi comparirebbe come un disco piatto (ancorché ondulato sulle due superfici), immobile, circondato dalla solida, rotante sfera celeste, il cui emisfero sovrastante sarebbe stato designato propriamente come «cielo»; quello sottostante avrebbe invece costituito quella regione infera in cui proiettare la minaccia titanica e localizzare il sistema di tutele contro la sua risorgenza. In questo senso, allora, è possibile che, alla luce del ruolo e del corso cosmico e mitico del Sole, Esiodo incrociasse, rispetto all'esperienza terrestre, il tradizionale orientamento orizzontale (estovest, secondo la direzione quotidiana dell'astro), con la prospet- 100 Teogonia, cit., p. 115. 101 Op. cit.. Si veda in particolare il capitolo II. 266 tiva verticale rappresentata dalle opposte estremità, a ridosso della sfera celeste avvolgente, dell'Olimpo e del Tartaro. Una certa confusione (stridente in qualche dettaglio) si avrebbe semmai, secondo quanto rileva la Pellikaan-Engel102, tra fenomeni (diurni e notturni) e loro personificazione (Giorno e Notte). Così, nel quadro che possiamo ricostruire dai versi citati, all'estremo limite occidentale della Terra, dove Atlante («il figlio di Iapeto») sorregge la sfera celeste (per impedirle di gravare direttamente sulla superficie terrestre e impedire il passaggio del Sole), si incontrano e danno il cambio Giorno e Notte, i quali, alternativamente, discendono verso il mondo infero per soggiornare nella «casa della Notte», e ascendere poi, quando giunge il loro turno, verso il mondo terrestre (che quindi passa regolarmente dal regime diurno a quello notturno). A tale ciclo e struttura cosmici si riferirebbero i versi del proemio: «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» avrebbero la funzione di discriminare i due mondi, attraverso cui si succedono i passaggi delle due divinità, consentendo l'accesso al mondo infero, in cui sarebbe locata «la dimora della Notte» (δώματα Nυκτός). Ad accentuare tale prospettiva "verticale" la possibile associazione tra tale sito e l'accesso all'Ade, proprio come nella poesia esiodea: ἔνθα θεοῦ χθονίου πρόσθεν δόμοι ἠχήεντες ἰφθίμου τ’ Ἀίδεω καὶ ἐπαινῆς Περσεφονείης ἑστᾶσιν Lì davanti del dio degli inferi la casa sonora, del possente Ade e della terribile Persefoneia, s'inalza [...]103 (vv. 767-769a) Sebbene possano essere sollevati dubbi circa l'esatta struttura cosmologica che fa da sfondo al racconto parmenideo, le analogie con il modello esiodeo potrebbero dunque autorizzare l'ipotesi che il superamento della soglia sorvegliata da Dike apra al poeta non genericamente uno spazio oltremondano, ma propriamente la 102 Ivi, p. 38. 103 Teogonia, cit., p. 113. 267 direzione dell’oltretomba, in altre parole del luogo tradizionalmente privilegiato per le rivelazioni. Parmenide e la poesia: conclusioni provvisorie È probabilmente questa la cornice entro cui Parmenide decide di concentrare gli altri elementi della propria creazione, elaborando, consapevolmente e in modo originale, materiali tradizionali, significativi nella comprensione dei contemporanei. Questo non implica che egli abbia semplicemente puntato all’effetto comunicativo, curandosi essenzialmente dell’impatto persuasivo dell’immaginario così plasmato. Accogliendo le suggestioni di Kingsley (e ancora della Gemelli Marciano) circa il radicamento del pensatore all’interno di un sistema di credenze e pratiche ereditate dai costumi e culti del suo popolo, potremmo ipotizzare che l’intenzione di Parmenide fosse quella di veicolare, nelle forme ispirate della tradizionale poesia epica, arricchite dell’eco suggestiva (suoni, movimenti ecc.) di una straordinaria esperienza sciamanica, un nuovo punto di vista, maturato nella ricerca personale e nel confronto con la cultura ionica e pitagorica, e la conseguente condotta di vita. Una prospettiva interpretativa che, a partire dalla centralità dell’elaborazione poetica, impone il problema di determinare il nesso tra gli elementi di immediatezza ed emotività di quello sfondo culturale e l'indiscutibile impianto logico del Περὶ φύσεως. Anticipando le conclusioni delle successive analisi, è da rilevare come la difficoltà dell’interprete, nel caso di Parmenide, risieda proprio nella determinazione della continuità tra esperienze religiose, il cui retroterra emerge nell’espressione poetica, e razionalità scientifica, che prende corpo nelle due sezioni del poema. Le strade per lo più battute nella storia delle interpretazioni sono, in realtà, quelle (maggioritarie) che scorporano i frammenti successivi dal proemio, quasi si trattasse di corpo estraneo all’originale comunicazione parmenidea, ovvero quelle (minorita- 268 rie) che unilateralmente insistono sull’evento rivelativo (e sui suoi contorni), trascurando poi il fatto che il tutto cosmico era l’oggetto di analisi (anche dettagliata) nell’opera, come attestato dalla titolazione tradizionale e, soprattutto, dalla sua consistente seconda sezione. È plausibile, al contrario, che il complesso del proemio prefiguri le tesi del filosofo e che queste non siano estranee a un intento trasformativo (Robbiano), indistricabilmente connesso alle esperienze evocate. In questo senso, si può condividere il suggerimento (Robbiano e Stemich) di cogliere nella sapienza comunicata nel poema essenzialmente uno “stile di vita”, prefigurante l’accezione di filosofia poi affermatasi (secondo la lezione di Hadot104) nel socratismo e soprattutto nella cultura ellenistica. In dissenso da Mourelatos, per il quale, invece, gli imperativi della dea sono tutti rivolti a un’attività di tipo cognitivo, non al bios o al prattein105. D'altra parte, contestualizzando la lettura del proemio, è prudente rigettare un approccio meramente allegorico, rintracciandovi piuttosto l’espressione di un’esperienza vissuta. Appare fondata l’osservazione di Leszl106, secondo cui un'interpretazione allegorica - come quella fornita da Sesto Empirico - si scontra con il fatto che la pratica dell’allegoresi era, al tempo (fine VI secolo a.C.), solo agli inizi, con Teagene di Reggio (forse, come Parmenide, legato all’ambiente pitagorica107. Possiamo supporre108, allora, che, nella narrazione del viaggio del poeta Parmenide, siano confluiti elementi eterogenei - il resoconto di una genuina esperienza visionaria, allusioni cosmologiche, intenzioni didascaliche: il poeta avrebbe plasmato, nel modulo espressivo più vicino alla sua formazione rapsodica, immagini e contenuti a un tempo adeguati a manifestare le sue conquiste spirituali, ed efficaci per co- 104 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 20022. 105 Op. cit., p. 45. 106 Op. cit., p. 144. 107 Allegoristi dell’età classica, Opere e frammenti, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2007, p. XII. 108 Come fanno lo stesso Leszl, op. cit., p. 145, e Coxon, op. cit., p. 156. 269 involgere (emotivamente e intellettualmente) il pubblico destinatario (plausibilmente un gruppo ristretto di discepoli109). Ciò comportava, naturalmente, anche consapevoli opzioni simboliche, per le quali egli poteva attingere all’immaginario dell’epica e, probabilmente, della stessa poesia apocalittica: il poema appare in effetti concentrato sull’effetto (il mutamento della prospettiva cognitiva e la correlata trasformazione dell’attitudine personale) dell’impatto con la verità, della scoperta del reale assetto del tutto cosmico. Il viaggio e la sua esperienza L’esplicita indicazione di Sesto Empirico ci attesta – come abbiamo riscontrato introduttivamente - la tradizione integrale dell’incipit del poema in quello che è classificato, nella edizione Diels-Kranz, come frammento B1: il privilegio di disporre dell’esordio nella sua originale interezza offre l’opportunità di valutarne costruzione, impronta e ufficio all’interno dell’impresa complessiva di Parmenide. Comunque se ne interpreti il messaggio, è chiaro come il poeta intenda marcare l’eccezionalità dell'esperienza cantata, che – abbiamo sottolineato - non appare mera, scontata formula di indirizzo, sebbene, prendendo in considerazione i contenuti dell’opera conservati nei frammenti successivi, l’aura del mito possa superficialmente risultare stridente con gli incoraggiamenti alla ponderazione razionale (B7 e B8) e con le fatiche argomentative di B8. Come abbiamo già rilevato, è plausibile, infatti, che il preambolo proponesse quella veste proprio in funzione di quei contenuti e degli obiettivi educativi che il filosofo-poeta si prefiggeva. 109 Questa è l'impressione della Gemelli Marciano (M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. Il riferimento alle pp. 89-90. 270 Nel segno dell’eccezione Nonostante i particolari sfumati della rappresentazione d’insieme - dettagliata in alcuni passaggi (descrizione del carro e della apertura della porta) e molto indeterminata in altri (tragitto oltre la porta)110 - abbiano dato adito a vari tentativi di contestualizzazione del viaggio, il suo carattere straordinario è segnalato da due momenti ben evidenziati nei versi parmenidei: (i) l’intervento delle Eliadi (Ἡλιάδες κοῦραι) presso Dike, austera (πολύποινος, «che molto punisce») guardiana del portale, per persuaderla a consentire il passaggio del carro che conduce il poeta: le fanciulle devono placarla «con parole compiacenti» (μαλακοῖσι λόγοισιν) e «sapientemente» (ἐπιφράδεως) convincerla a concedere una possibilità evidentemente non garantita ad altri mortali; (ii) la formula di accoglienza della Dea, la quale rileva che: (a) non è stata «Moira infausta» (Μοῖρα κακὴ, destino infausto) a spingere il giovane (κοῦρος) al suo cospetto; (b) la via (ὁδός) per cui è stato guidato è «lontana dal percorso degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου). Incrociando i rilievi, si evince che l’esperienza di cui è protagonista il poeta eccede i limiti dell’umano e che ciò accade secondo un disegno cui concorrono le aspirazioni (θυμός) del filosofo (v. 1): ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere, e il decisivo ausilio divino (vv. 8b-9a): ὅτε σπερχοίατο πέμπειν Ἡλιάδες κοῦραι mentre si affrettavano a scortar[mi] le fanciulle Eliadi. 110 Leszl, op. cit., p. 141. 271 L’eccezione coinvolge in particolare due aspetti. Il poeta ha chiaramente l’opportunità: (i) di spingersi oltre i confini stabiliti per le ambizioni mortali, e, in tal modo, (ii) di accedere non semplicemente alla rivelazione della verità, ma più esattamente a una lezione articolata, che lo informerà circa (a) la natura della realtà (vv. 28b-29): χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, (b) la natura del comune fraintendimento (v. 30): ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità, (c) fornendo soprattutto (pensando alla struttura del poema), alla luce di quegli errori, gli strumenti corretti di comprensione del mondo della nostra esperienza (vv. 31-2): ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero realmente, tutte insieme davvero esistenti. A sancire tale eccezione registriamo, insomma, un triplice avallo divino: (i) la scorta delle Eliadi, che si muovono a sostenere e realizzare lo sforzo del poeta\filosofo; (ii) la condiscendenza di Dike, che veglia sulle infrazioni ed è garante dei limiti; 272 (iii) la comunicazione della θεά senza nome - che può offrire la chiave per giungere alla Verità - meta del viaggio cui viene finalizzata l’aspirazione del poeta\filosofo. Il quadro è, nell’insieme, una modulazione di quello arcaico tradizionale: sotto protezione divina al poeta è permesso accostarsi a una condizione sovrumana111, che descriveremmo in termini di ispirazione, illuminazione e rivelazione. In altre parole, il privilegio della conoscenza superiore costituisce una sorta di trascendimento dello status mortale: nel rispetto, tuttavia, dell’indiscutibile primato del divino. Come anticipato nelle pagine precedenti e nelle annotazioni al testo del frammento, le indicazioni del proemio sembrano dislocare tale trascendimento nel mondo infero. In tal senso si può interpretare il riferimento della dea a «Moira infausta» (ovvero «destino infausto») e, soprattutto, alludendo a δώματα Nυκτός, all’abisso del Tartaro descritto meticolosamente da Esiodo (Teogonia 736- 745)112, con la prossimità della «dimora della Notte» (scortata nel suo corso da Sonno e Morte) alla «porta del possente Ade e della terribile Persefoneia» (vv. 758-778). In analoga direzione concorrono vari elementi esteriori (rilievi archeologici113, dati storici114), cui abbiamo sopra accennato, che confermano, nel caso di Parmenide e di Elea, la probabile relazione con il culto di Persefone, che potrebbe dunque essere la θεά, innominata in quanto scontato referente. D’altra parte il viaggio nel regno dei morti, anche senza voler fare eccessivo affidamento sulle credenze sciamaniche, già in Omero (Odissea XI) risultava cruciale per la conoscenza della verità. La stessa figura di Δίκη πολύποινος - l’aggettivo πολύποινος ricorre solo in un altro testo, un poema attribuito a Orfeo (fr. 158 Kern), in cui Dike affianca 111 Leszl, op. cit., p. 167. 112 Cerri, op. cit., p. 173. 113 Kingsley conferma che figurazioni vascolari rappresentano Persefone che accoglie nell’Ade Eracle e Orfeo, stringendo loro la mano destra, proprio come la dea innominata fa con il kouros del proemio. Op. cit., pp. 93-100. 114 Elea era centro di un culto dedicato a Demetra e Persefone (Cerri, op. cit., p. 108). 273 Zeus nell’atto di relegare i Titani nel Tartaro115 - troverebbe in tale scenario la propria naturale collocazione: nell’Ade i morti subiscono il giudizio divino e ricevono, conseguentemente, la punizione delle colpe commesse in vita. La plausibile destinazione individuata per il viaggio del poeta avrebbe, tuttavia, anche un secondo e non meno rilevante risvolto nella prospettiva del poema. Il percorso indicato, infatti, richiama la visione mitica del cosmo espressa in Esiodo e Omero, in cui i confini del mondo coincidono con quelli della terra (la cui superficie è piatta), sui cui limiti estremi poggia il cielo-cupola116: in questo senso, nel caso dell’Odissea, la katabasis non è intesa tanto come discesa sotto la superficie della terra, piuttosto come raggiungimento di un luogo oltre i limiti della superficie terrestre117. La nozione del limite (e del suo superamento) è poi significativamente evocata dal vettore e dalla scorta, che richiamano l’immagine del carro del Sole e il mito di Fetonte118. In effetti, la conduzione delle Eliadi (figlie di Helios, il Sole appunto) e il tragitto verso «i battenti dei sentieri di Notte e Giorno» (πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός κελεύθων, v. 11), che complessivamente tracciano i contorni celesti, se da un lato sembrano insistere sul punto di vista privilegiato garantito al poeta, dall’altro, indirettamente, attraverso l’implicita rievocazione di Fetonte (fratello delle Eliadi, la cui imperizia nel condurre il carro, sottratto di nascosto al padre Sole, richiese l’intervento riparatore di Zeus), suggeriscono anche l’idea della regolarità e della misura cosmica, rafforzata dalla presenza severa di Dike. Come in Esiodo e in altri pensatori arcaici (Anassimandro e il contemporaneo Eraclito), la processualità della natura – l’alternanza di notte e giorno ai confini del cosmo - si svolge in conformità con le prescrizioni della giustizia119. Al poeta è dunque attribuito – garante Dike – il favore 115 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 116 Leszl, op. cit., p. 149. 117 Ivi, p. 144. 118 Benché in genere l’accostamento non sia sfuggito ai commentatori, mi pare particolarmente felice la lettura che ne propone Leszl (p. 147). 119 Ibidem. 274 di seguire il corso del Sole, abbracciando così nel tragitto mitico l’intera realtà cosmica e accedendo ai misteri dell’oltremondo. Al di là dell'esperienza quotidiana L’eccezionalità dell'esperienza del poeta, sottolineata nel suo indirizzo dalla θεά, non sarebbe allora riducibile semplicemente a una discesa (κατάβασις) agli inferi, ovvero a una ascesa (ἀνάβασις) celeste: quanto risulta marcato nei versi del proemio è la distanza della via seguita nel corso del viaggio «dal percorso degli uomini» (ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν, v. 27). La porta del Sole, identificata con la Porta dell’Ade (Iliade VIII, 13- 16; Odissea XXIV, 11-14; Esiodo, Teogonia 740 ss; 744-757; 811-814), è, in effetti, miticamente situata nell’occidente estremo, lontanissima quindi dalle regioni abitate: poggia sulla superficie terrestre, al di sotto della quale si radica nel profondo, mentre i suoi pilastri si elevano tanto da toccare il cielo. Oltre essa l’abisso, il mondo dei morti, il regno di Ade e Persefone120. Come ricorda Cerri, si tratta di una «porta cosmica», sia in quanto discrimina il percorso del sole e quindi giorno e notte, sia in quanto separa il mondo dei vivi e quello dei morti121. Ciò che, in realtà, viene sottolineato nel resoconto parmenideo non è l’allontanamento dalla terra per pervenire alla porta del cielo, superare i confini del mondo e incontrare, nell’etere celeste, la dea rivelatrice (Mansfeld), né propriamente il viaggio nell’oltretomba (Burkert) ovvero verso il centro del cosmo (Pellikaan-Engel). Il poeta, scortato dalle Eliadi sul carro solare, perviene presso e oltrepassa la «porta cosmica», raggiungendo, dunque, il punto privilegiato che è accesso, a un tempo, all’Ade e al cielo (con la duplice valenza, quindi, di rivelazione e illuminazione). In ogni caso, la tradizionale oscurità dell’Ade appare, per la meta del viaggio, più giustificata nel contesto rispetto alla luce 120 Cerri, op. cit., p. 98. 121 Ivi, p. 99. 275 celeste122: sono le Eliadi a doversi portare «verso la luce», muovendo dalla «dimora della Notte» (dove hanno soggiornato durante la pausa notturna: il loro viaggio comincia, dunque, presumibilmente all’alba), a cui ritornano, con la compagnia del poeta, percorrendo, plausibilmente, il consueto tragitto solare (cioè al tramonto, quando Notte ha nuovamente abbandonato la propria dimora per dar cambio a Giorno). In questo senso, pur ribadendo la convinzione che a Parmenide prema soprattutto evidenziare l’oltrepassammento dell'esperienza quotidiana e la distanza dell’accesso alla Verità rispetto all’ordinario spazio delle relazioni umane, la katabasis certamente offre al poeta un paradigma influente. Al nodo della “direzione” del viaggio è poi legato quello dei suoi tempi. Il poema si apre con il presente: ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι Le cavalle che mi portano fin dove il [mio] desiderio potrebbe giungere (v. 1), quasi a marcare un’abitudine123 ovvero, all’interno della narrazione, un elemento di sfondo, indipendente dallo sviluppo del racconto, come i successivi rilievi (sempre riferiti al presente) sulla «strada […] della divinità»: ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα che porta †... † l’uomo sapiente (v. 3), sulla struttura della “porta cosmica” e sul ruolo di Dike: ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων, καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός· αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις· τῶν δὲ Díkh πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς. Là sono i battenti dei sentieri di Notte e Giorno: architrave e soglia di pietra li incornicia; 122 Ciò a dispetto delle osservazioni di G.A. Privitera, op. cit.. 123 Guthrie, op. cit., p. 7. 276 essi, alti nell’aria, sono agganciati a grande telaio. Dike, che molto castiga, ne detiene le chiavi dall’uso alterno (vv. 11-14). Nel primo caso sarebbe accentuato il tratto sciamanico della figura del poeta, avvezzo a straordinarie escursioni; nel secondo valorizzata, invece, la sua disposizione al sapere, la sua aspirazione (θυμός, desiderio) alla verità124, condizione dell'esperienza di conoscenza annunciata nel poema quanto la successiva rivelazione della Dea. In ogni caso, l’uso del presente comporta che le «cavalle», soggetto della relativa, abbiano una relazione non episodica con il poeta-narratore e dunque siano irriducibili a mero vettore in una esperienza eccezionale, che continuino, cioè, a operare nella contemporaneità, siano parte di un’esperienza di verità che possa ripetersi (a cui altri, al limite, possano essere avviati125). Nel senso allegorico proposto da Coxon126, il poeta è ancora sul carro, con un viaggio ancora davanti a sé, con le cavalle che continuano a essere le sue forze motrici: il viaggio diverrebbe allora figura del conseguimento metodico della filosofia, secondo la lezione ricevuta; le cavalle figura della forza (θυμός) che lo spinge a filosofare. Nel passaggio al secondo verso, al contrario, appare chiara l’intenzione di Parmenide di raccontare, nelle sue sequenze, la vicenda che lo ha visto privilegiato discepolo della Dea: πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι δαίμονος, ἣ κατὰ †... † φέρει εἰδότα φῶτα· 124 Martina Stemich, nella sua ricerca su Eraclito (Heraklit. Der Werdegang des Weisen, Grüner, Amsterdam 1996, pp. 41 ss.), rintraccia una precondizione filosofica analoga nel frammento DK 22 B18: «Se uno non spera, non potrà trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio». 125 In questo senso ingressivo la Stemich (Parmenides’ Einübung in die Seinserkenntnis, cit., pp. 39-40) interpreta l’intera esperienza del proemio: sebbene il percorso verso la Dea sia già stato compiuto, esso – in quanto motivo connesso a una trasformazione comprensibile solo come sviluppo sistematico – diventerebbe emblematico della graduale approssimazione alla conoscenza ricercata dal filosofo. 126 Coxon, op. cit., p. 14. 277 τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον [Le cavalle] mi guidavano, dopo che, conducendomi, mi ebbero avviato sulla via ricca di canti della divinità che porta †... † l’uomo sapiente. Su questa via ero portato, perché su questa via mi portavano molto avvedute cavalle, trainando il carro: fanciulle mostravano la via (vv. 2- 5). L’uso dei tempi verbali impone sia la prospettiva dello sviluppo e della continuità dell’azione nel passato (imperfetto, che, comunque, qualcuno127 interpreta come “imperfetto storico” traducendolo con il presente), sia quella delle sue successive e puntuali sequenze compiute (aoristo), rafforzata, nel verso 2, anche dal ricorso alla congiunzione ἐπεί («dopo che»). L’intero proemio è costruito intorno a questo ordito temporale che, se valorizziamo l’opposizione presente-passato, potrebbe alludere – come intendono Mansfeld128 e Ferrari129 - al presente della condizione sapienziale del poeta, conseguita grazie alla rivelazione della Dea e dunque giustificata dalla narrazione, dal passato. Nel presente della performance recitativa il poeta evoca l’avventura della conoscenza che lo ha visto fortunato protagonista al cospetto della divinità, del cui dono si propone di far partecipi gli altri mortali: il sapiente, l’uomo che sa (εἰδὼς φώς), è tale per essere stato guidato, condotto lungo la «via della divinità» (il genitivo δαίμονος ha valore soggettivo e oggettivo a un tempo: «della divinità» perché a essa appartiene ovvero a essa conduce); il canto poetico documenta quel privilegio. Questa prospettiva temporale, che collegherebbe al presente dei versi 1 e 3 una condizione di conoscenza giustificata dall'e- 127 Conche, op. cit., p. 44.. 128 J. Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Van Gorchum, Assen 1964, pp. 228-229. 129 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco…, cit., cap. VIII "Il ritorno del «kouros»"; id., Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Aracne, Roma 2010, capitolo V "Il ritorno". 278 sperienza (εἰδώς implica etimologicamente l’esperienza visiva) narrata in quelli successivi 130, può essere messa in discussione partendo dall’uso che, dell'espressione εἰδὼς φώς, si sarebbe fatto, nella ritualità misterica, per indicare l’«iniziato» (analogamente, come sappiamo, potrebbe intendersi anche il ricorso a κοῦρος al v. 24), e che potrebbe dunque designare una minoranza predisposta, per intelligenza e tirocinio, alla scoperta della verità131. Il termine εἰδώς si potrebbe allora riferire alla conoscenza pregressa di Parmenide: in relazione all’obiettivo da raggiungere, ciò garantirebbe un senso anche a θυμός (v. 1), allo slancio dell’animo del poeta verso il contatto con la verità. Nulla vieta, tuttavia, di mantenere distinte le qualità necessarie per accedere alla verità – che il poeta\sapiente avrebbe evocato con il paradigma iniziatico dell’εἰδὼς φώς – dalla piena cognizione di essa, disponibile – all’interno del tradizionale modello oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina – in virtù dell’eccezionale prerogativa di una rivelazione divina. In tal caso la condizione che consente al poeta di annunciare la verità (presente) è conseguita grazie alla comunicazione divina (passato), in cui si realizza comunque la sua originaria aspirazione. Accentuando (arbitrariamente) la significazione e composizione simbolica nel racconto, si potrebbero identificare due movimenti – quello del poeta sul carro tirato dalle cavalle e quello delle Eliadi che intervengono a scortarlo presso le divinità – come rievocazione della tensione religiosa del κοῦρος verso l’esperienza della rivelazione ovvero figurazione della ricerca di un accesso alla piena conoscenza della realtà. Ancora sul nodo delle divinità Abbiamo già avuto modo di portare l’attenzione – nell’economia complessiva del frammento B1 e nello specifico 130 Si tratta appunto della proposta di Mansfeld, op. cit., pp. 226-7. 131 Cerri, op. cit., pp. 169-170. 279 rilievo dell'eccezionalità dell'esperienza celebratavi – sul ruolo delle figure divine proposte nel proemio: (i) l’incarico di direzione, guida e tutela delle Eliadi; (ii) la funzione di garanzia e sanzione di Dike; (iii) l’ufficio rivelativo della θεά anonima, rispetto a cui, globalmente, nella vicenda cantata, gli altri due risultano subordinati. In un contesto già popolato da molte altre potenziali132 entità divine (Notte, Giorno, Temi, Moira, Verità), il loro rilievo non può essere meramente narrativo, ma, nell'insieme dell'esperienza che il poeta intendeva comunicare, doveva probabilmente celare anche una valenza simbolica. Riprendiamo brevemente la questione. Dike deve essere persuasa dalle Eliadi ad accondiscendere all’eccezione, proprio per consentire la rivelazione: la dea è evocata in una mansione che il pensiero arcaico le riconosce, come «ipostasi mitica della legge della physis» 133, che vincola elementi e fenomeni nell’equilibrio del tutto. È significativo che anche in Eraclito essa si esplichi in relazione al movimento solare e in genere alla regolare alternanza di giorno e notte (che tanto rilievo cosmologico hanno nel proemio): Ἥλιος γὰρ οὐχ ὑπερβήσεται μέτρα· εἰ δὲ μή, Ἐρινύες μιν Δίκης ἐπίκουροι ἐξευρήσουσιν le Erinni che troveranno Helios, qualora egli oltrepassi le sue misure, sono ministre di Dike (DK 22 B94). Incrociando nell’universo mitico la sua figura con quella delle Eliadi (divinità solari dell'illuminazione)134, Parmenide si rifaceva al mito di Fetonte, che esse, in una variante della storia (ripresa in una perduta tragedia eschilea – le Eliadi appunto -, alla cui rappresentazione a Siracusa Parmenide potrebbe aver presenziato135) aiutarono nell’impresa di guidare il carro del Sole. Alla luce di 132 Se se ne accetta la personificazione, giustificata dall’insieme dell’indirizzo e del tono religioso del poema. 133 Cerri, op. cit., pp. 104-5. 134 Come ricorda Cerri, op. cit., p. 173. 135 Capizzi, op. cit, p. 52. 280 questa circostanza, che i versi dell’esordio poetico possono richiamare, Parmenide si proporrebbe come una sorta di nuovo Fetonte, sebbene, nel suo caso, come ricorda la Dea, il viaggio proceda (vv. 26-8) sotto buoni auspici136: di questo le Eliadi devono convincere Dike, perché autorizzi il passaggio lungo la traiettoria solare. Se accettiamo questo accostamento, la divinità allusa nei vv. 2-3 potrebbe essere proprio il Sole: il carro su cui viaggia il poeta potrebbe essere allora il suo, così come la via quella che il Sole percorre, e che conduce ai confini del mondo. Ma l’associazione tra Eliadi e Dike è evocatrice anche in un’altra direzione: abbiamo ricordato come, nella cosmologia mitica esiodea ricostruita puntualmente dalla Pellikaan-Engel, la «dimora della Notte» sia collocata nelle profondità del Tartaro (il mondo infero), in prossimità dell'accesso all'Ade (il mondo dei morti), in una regione in cui hanno le loro radici la terra, il mare, il cielo, abisso senza fine (caos), luogo terrificante anche per gli dei137. In tale dimora soggiornano alternativamente Notte e Giorno: da essa muovono e a essa conducono le Eliadi. Esse, uscite dalla porta cosmica del Giorno e della Notte (su questo punto in Esiodo c'è un'incongruenza: dovrebbero essere due, collocate alle estremità orientali e occidentali), prelevano Parmenide (all’alba: si tolgono i veli notturni) e lo guidano alla stessa porta, alta tra la terra e il cielo, seguendo verso occidente il percorso del Sole. Al di là c’è il mondo infero: il suo vestibolo è a livello della superficie terrestre (descrizione omerica), ma immediatamente dopo si spalanca il baratro immenso. Parmenide ha il privilegio (come iniziato, εἰδὼς φώς) di varcarne, ancora vivo, la soglia, per attingere la conoscenza: Dike è al suo posto, nella misura in cui deve giudicare i requisiti; le Eliadi tutelano il poeta viaggiatore in qualità di patrocinatrici (impiegano parole suasive per ammansire la inflessibile sorvegliante dei confini)138. Gli elementi che abbiamo riassunto suggeriscono che l’eccezionalità dell’impresa cantata coincida con il massimo pri- 136 Leszl, op. cit., p. 146. 137 Ivi, p. 147. 138 Cerri, op. cit., pp. 106-7. 281 vilegio previsto per un mortale nell’universo mitico: come Odisseo e Orfeo, al poeta è concesso di accedere (anche se non forse propriamente “discendere”) all’Ade, per incontrare la divinità che vi è regina, Persefone. In questo senso, probabilmente, Parmenide insiste inizialmente sull’uso del presente contrastato da quello del passato: per marcare lo straordinario esito della sua esperienza, la cui specifica difficoltà consiste proprio nel ritorno alla luce, tra i vivi, al presente della condizione umana. Prima di concludere su questo punto, è ancora necessario chiarire un aspetto. Abbiamo continuato a interpretare il proemio in un senso prossimo alla sua lettera, come si trattasse del resoconto di un viaggio dal poeta effettivamente compiuto, rigettando, quindi, le letture allegoriche secondo il prototipo proposto dallo stesso Sesto Empirico. Questo non comporta trascurare il valore simbolico delle scelte espressive di Parmenide, evitare di attendere alle implicazioni che certe immagini o situazioni concrete dovevano già avere assunto nella attività poetica all’epoca di Parmenide: la pratica allegorica stava compiendo solo i primi passi, ma è possibile che il simbolismo avesse un peso nella cultura pitagorica cui si dovrebbe, secondo alcuni139, ricondurre la formazione di Parmenide. Il contemporaneo Pindaro, per esempio, nella Olimpica VI, faceva ricorso al motivo del viaggio con intento manifestamente metaforico, sebbene l’accostamento a Parmenide risulti difficile (il viaggio di costui appare ben più complesso). In ogni caso, è forse la natura stessa dell’eccezione evocata a rendere plausibile un’intenzione simbolica del proemio: l'esperienza liminare (un viaggio oltre i confini del mondo) compiuta dall'anima del poeta (spiritualmente), prefigurava, nell'insegnamento della Dea, una vicenda conoscitiva di cui altri avrebbero potuto fruire. Così, sfruttando al massimo l’incidenza dei dettagli concreti della scena cosmica, Parmenide avrebbe, con la propria "odissea", delineato un modello per le avventure dell’anima nel grande mito del Fedro platonico140. 139 Coxon, op. cit., p. 14. 140 Su questo punto ampia è la convergenza degli interpreti. 282 La sequenza del racconto e il progressivo (non casuale) coinvolgimento di quelle divinità fanno comunque apparire poco convincenti le letture che marcano nel proemio la mera figurazione allegorica di opzioni gnoseologiche o la semplice legittimazione, in chiave di illuminazione superiore, di una proposta filosofica. L’autore, invece, proprio attraverso la narrazione in prima persona del viaggio, ha la possibilità di coinvolgere il suo pubblico in un'esperienza di trasformazione radicale della persona, che richiede l’identificazione con il protagonista (donde l’adozione della prospettiva del viaggiatore)141. È la futura condotta di vita il vero obiettivo delle istruzioni della dea: il viaggio, in tal senso, sarebbe rappresentazione di una forma di κάθαρσις142. Lo sciamanesimo di Parmenide potrebbe leggersi in questa prospettiva: non traduzione poetica di una trance onirica (incubazione), ma assunzione della pervasività emotivo-esistenziale (forse direttamente esperita) di quella prova al servizio di uno sforzo di profondo riorientamento – teorico e pratico – nella realtà quotidiana. Alla concretezza di un fenomeno culturale (la pratica sciamanica), forse radicato nell’ambiente eleatico143, Parmenide associa un percorso di conoscenza, proposto esemplarmente ai propri uditori, in cui la dimensione di estraneazione dalle distorsioni della quotidianità è funzionale a un processo di trasformazione spirituale e a una prassi di vita. Il corso delle Eliadi ai limiti del mondo, la sanzione di Dike e la verità di Persefone scandiscono evidentemente una ricerca destinata a modificare l’intera personalità: in un contesto in cui il sapere salvifico era appannaggio di iniziazioni e incubazioni, il filosofo avrebbe così fatto ricorso, in termini simbolici, all'efficacia coinvolgente (da cui l’attenzione per alcuni 141 La Robbiano (pp. 65 ss.) dedica ampio spazio a questo punto, individuando due elementi che, da un lato, favoriscono l’identificazione tra pubblico e viaggiatore, dall’altro contribuiscono alla costruzione di una nuova attitudine mentale: (i) la focalizzazione e l’invenzione della autobiografia: le strategie dell’Io; (ii) il ritratto e le strategie del tu. 142 Coxon (op. cit., pp. 15-6) parla di katharsis pitagorica. 143 Come confermerebbero i rilievi di Kingsley e le osservazioni della Gemelli Marciano. 283 dettagli riconducibili, secondo Kingsley, all'esperienza dello sciamano) di una forma di ascesi estatico-religiosa. La rivelazione e il suo programma Con il concorso delle Eliadi e la condiscendenza di Dike (guadagnata proprio grazie all’intervento persuasivo delle figlie del Sole), il poeta – superata la porta cosmica in cui si incontrano i sentieri di Giorno e Notte – giunge infine presso la Dea: che ella rappresenti la meta degli sforzi sottolineati nei primi 23 versi, è chiaro nelle parole con cui la stessa θεά accoglie e rincuora («rallegrati!») l’attonito visitatore. Esse rivelano come viaggio e accompagnamento non siano né casuali, né naturali, ma risultato di un disegno: ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι τήνδ΄ ὁδόν - ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν -, ἀλλὰ Qémij τε Díkh τε Non Moira infausta, infatti, ti spingeva a percorrere questa via (la quale è in effetti lontana dalla pista degli uomini), ma Temi e Dike (vv. 26-28). Non è stata la morte, un disgraziato destino, a condurre il poeta al cospetto della dea infera, per una via ben lungi dai sentieri comunemente battuti: la rassicurazione divina sottintende che quella distanza dai mortali sia da considerare un privilegio e non un accidente, e che lo straordinario incontro non sia da ascrivere tanto all'iniziativa del protagonista (che è stato piuttosto spinto da Moira) quanto all’eccezionalità della scorta. La «via» (ὁδός) che gli consente di raggiungere la residenza divina (ἡμέτερον δῶ «la nostra casa») – probabilmente la stessa ὁδὸς πολύφημος δαίμονος («via ricca di canti della divinità» vv. 2- 3), lungo la quale le cavalle conducevano il poeta all’esordio: in 284 ogni caso una strada principale, come chiarisce l'indicazione κατ΄ ἀμαξιτὸν («lungo la via maestra») – è percorsa sotto l’egida della giustizia, in compagnia di «immortali guide » (ἀθανάτοισι ἡνιόχοισιν). Le scelte espressive di Parmenide – il vocativo κοῦρε («giovane») e il nominativo in funzione vocativa συνάορος («compagno») – apparentemente descrittive della condizione giovanile del poeta e della sua scorta, potrebbero alludere, in realtà, alla sua dedizione religiosa, sottolinearne l’iniziazione, e dunque legittimarne il privilegio. Imparare tutto L’eccezionalità della situazione si riflette anche nella completa disponibilità della Dea, nella sua accoglienza e nell’informazione successiva: rilevando didascalicamente - secondo il tradizionale paradigma144 oppositivo tra conoscenza umana e conoscenza divina - l’opportunità per il «giovane» di «tutto apprendere» (πάντα πυθέσθαι), ella propone un programma articolato in due momenti, chiaramente scanditi in greco (vv. 29-30) dalle congiunzioni ἠμέν …. ἠδὲ («sia … sia»), in conclusione ulteriormente precisati (v. 31) – ricorrendo alla formula ἀλλ΄ ἔμπης (congiunzione avversativa + avverbio), da rendere come «nondimeno», «eppure» «anche così». L’interpretazione di questo passaggio è molto controversa, ma anche decisiva, dal momento che all'articolazione programmatica presumibilmente corrisponde poi la struttura del poema (cioè la successiva esplicitazione dei contenuti della rivelazione), e dunque dall'interpretazione di quella dipende la comprensione di questo. Il kouros «apprenderà», «imparerà», sarà informato su tutto: ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ 144 Secondo Cerri (p. 182) la fraseologia dell’incontro tra il poeta e la dea riprende tipicamente quella delle scene di incontro tra dei e mortali in Omero. 285 ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità (vv. 29-30). Si tratta dell’opposizione fondamentale, che genera tutti i contenuti del poema: il nucleo essenziale (ἦτορ, «cuore») di Verità (Ἀληθείη), di ogni verità (εὐκυκλέος, «ben rotonda»), la sua necessità immanente (ἀτρεμὲς ἦτορ, letteralmente «cuore che non trema»); le incerte «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξαι), che non sono veramente credibili: esse risultano, letteralmente, inaffidabili, in esse non risiede πίστις ἀληθής («reale fiducia»). La qualificazione umana delle doxai giustifica la loro debolezza, assumendo per scontato che la proposta della Verità sia divina. Il modello è ancora quello di Teogonia vv. 27-28: ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare, sebbene in Parmenide l'opposizione tra proferire menzogne (ψεύδεα λέγειν), cioè contraffazioni del genuino stato delle cose, ed esprimere le cose reali (ἀληθέα γηρύσασθαι) sia rimodulata nella tensione tra la salda stabilità nella relazione con la realtà («di Verità il cuore fermo») illustrata dalla Dea, da un lato, e l'incredibilità dei punti di vista mortali, dall'altro. Nel poema non vi è propriamente traccia dell'esplicita e secca contrapposizione verofalso: così l’oscillazione esiodea tra «cose false» (ψεύδεα) e «cose vere» (ἀληθέα) diventa nel contesto parmenideo opposizione determinata oggettivamente da una norma (esplicitata in B2). La divinità di Parmenide è meno volubile delle Muse esiodee: la sua rivelazione è vincolata alla manifestazione della realtà (Verità) e, conseguentemente, alla denuncia dell'origine degli sviamenti umani nelle molteplici opinioni. In questo senso, allora, possiamo leggere la conclusione del programma: 286 ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Eppure anche queste cose imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti (vv. 31-32). Nell’impegno a tutto insegnare, la Dea non si limita – attraverso l'illustrazione della norma di verità – a denunciare l’inattendibilità delle convinzioni umane (come vedremo, rintracciandone la distorsione genetica), ma intende proporre una ricostruzione affidabile (δοκίμως) della totalità degli enti che quelle opinioni travisavano. Il ricorso a δοκίμως suggerisce, nel contesto, l'intenzione della Dea di riconsiderare comunque il materiale delle inverosimili δόξαι βροτῶν, così da fornirne un quadro attendibile (credibile alla luce della verità). Possiamo dunque articolare il programma della Dea in tre momenti145: (i) l’esplicitazione della norma immanente (le «vie di ricerca per pensare»), dell'intima necessità della verità (B2, B6), con la conseguente manifestazione della struttura essenziale della realtà (B8); (ii) la denuncia dell’errore di base delle opinioni dei mortali (B6, B7); (iii) la riformulazione dei contenuti di quelle opinioni (quindi del mondo della esperienza umana) conformemente a quella norma (B9 ss.). Tale scansione ha dunque risconto nella struttura del poema: (a) una prima sezione (primo logos), indicata convenzionalmente come “Verità” (Ἀλήθεια) dalla formula: πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς ἀληθείης («discorso affidabile e pensiero intorno alla verità» B8.50-51), in cui, in successione e strettamente connessi, sono affrontati i momenti (i) e (ii): i principi del corretto ricercare e le origini dell'errore dei «mortali»; 145 Ruggiu, op. cit., p. 196. 287 (b) una seconda sezione (secondo logos, considerevolmente più consistente), convenzionalmente nota come “Opinione” (Δόξα) e nel poema denotata per i suoi contenuti: δόξας βροτείας («opinioni mortali»): in essa si concentrava il punto (iii) del programma, naturalmente più composito (riferendosi al complesso dell'esperienza). Variante di questa prospettiva di lettura è quella di Coxon146, secondo cui, invece, Parmenide, in conclusione di B1, rievocherebbe le posizione espresse da Senofane e Alcmeone nei passi sopra citati: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔτις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται davvero l'evidente verità nessun uomo conobbe, né mai ci sarà sapiente intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe: opinione è data su tutte le cose (DK 21 B 34). Ἀλκμαίων Κροτωνιήτης τάδε ἔλεξε Πειρίθου υἱὸς Βροτίνωι καὶ Λέοντι καὶ Βαθύλλωι· περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφήνειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι καὶ τὰ ἑξῆς Alcmeone di Crotone, figlio di Piritoo, ha detto queste cose a Brotino, Leonte e Batillo: sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo trovare degli indizi147 (DK 24 B1). 146 Op. cit., p. 169. 147 Dal passo iniziale del frammento vero e proprio (περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν) la Gemelli Marciano propone di espungere la virgola, offrendo quindi la seguente traduzione: «sulle cose invisibili che riguardano i mortali» ("Lire du début…", cit., p. 19). 288 Sarebbe dunque ribadita la contrapposizione omerica tra incerte convinzioni umane (elaborate inferenzialmente nel caso di Alcmeone) e conoscenza divina: Parmenide si limiterebbe semplicemente a riformularla nel senso di un contrasto tra forme cognitive: una affidabile perché in grado di manifestare il reale, l’altra opinabile e convenzionale, espressione di meri punti di vista. Solo riconoscendo l’insufficienza dell'esperienza ordinaria, gli uomini hanno la possibilità della certezza: ciò che Parmenide avrebbe tentato nella seconda parte del poema è appunto una ridefinizione del campo delle doxai in termini non contraddittori. Questa interpretazione si scontra, tuttavia, con una lunga tradizione che attribuisce valore diverso alle parole della Dea, per lo più assimilando i punti (ii) e (iii): alla saldezza (razionale) della verità (i), Parmenide contrapporrebbe l’incertezza (empirica) dell’opinare umano (ii), di cui offrirebbe comunque, a scopo esemplificativo e\o critico, esposizione (o ricostruzione) coerente (iii). Leszl 148 ritiene, in effetti, che la distinzione verità-opinioni, che chiude la comunicazione della dea nel proemio, corrisponda alla distinzione, enunciata dalle Muse esiodee, tra verità e falsità: in entrambi i casi le divinità si rivelano in dominio completo dell’ambito del vero e di quello dell’ingannevole (da Esiodo considerato tale perché simile al vero), sebbene, a differenza delle Muse che si limitano a esporre il vero, la dea di Parmenide espone anche ciò che non è vero, nell’intento di coprire «tutto», di offrire un sapere globale che non ritroviamo in Esiodo. Lo stesso parallelismo con l’inno alle Muse della Teogonia è sfruttato da Mansfeld149, il quale riscontra, nel doppio resoconto prospettato dalla Dea, l’analoga pretesa delle Muse di dire verità e menzogne: in questo modo, evidentemente, tutto quanto si riferisce all’ambito della doxa è stigmatizzato come ingannevole, con il risultato paradossale di ridurre proprio la sezione cosmogonica e teogonica, più vicina al modello divinamente ispirato del poema 148 Op. cit., pp. 153-4. 149 Op. cit., p. 33. 289 esiodeo, a occasione per repertare gli errori dei mortali (sottolineando come τὰ δοκοῦντα dovrebbero essere ma non sono150). Non è da escludere, invece, che proprio il secondo logos rappresentasse il nucleo centrale e originario del progetto di Parmenide, quello in continuità con la riflessione arcaica περὶ φύσεως (donde la titolazione tradizionale), di cui la sezione sulla Doxa riprodurrebbe anche la logica di riduzione di τὰ δοκοῦντα, delle «cose accettate nelle opinioni», a principi, «forme» (μορφαί) nel lessico parmenideo (B8.53); ma che l’elemento di originalità (da cui l’attenzione tra gli antichi e la conservazione nelle testimonianze) fosse costituito dalle premesse ontologiche contenute nel primo logos, che forniscono la cornice e le condizioni di una coerente enciclopedia del mondo naturale, denunciando a un tempo le debolezze delle ricostruzioni alternative151. 150 Ivi, p. 210. 151 Il dibattito sulla natura della doxa parmenidea è sterminato: a parte il vecchio aggiornamento di G. Reale a E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I, Volume III: Eleati, cit., la questione è stata sistematicamente ripresa nello specifico da P.A. Meijer, Parmenides Beyond the Gates. The Divine Revelation on Being, Thinking and the Doxa, Brill Academic Publishers, Amsterdam 1997. Molto utili J. Frere, "Parménide et l'ordre du monde: fr. VIII, 50-61", in Études sur Parménide, sous la direction de P. Aubenque, t. II Problèmes d'interprétation, Vrin, Paris 1987, pp. 192-212; R. Brague, "La vraisemblance du faux (Parménide, fr. 1, 31-32)", ivi, pp. 44-68; A. Nehamas, «Parmenidean Being/Heraclitean Fire» in Presocratic Philosophy, edited by V. Caston & D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 45-64; H. Granger, "The Cosmology of Mortals", ivi, pp. 101-116; P. Curd, The Legacy of Parmenides. Eleatic Monism and Later Presocratic Thought, Princeton University Press, Princeton 1998, cap. III: "Doxa and Deception"; le pagine di D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton U.P., Princeton 2006 dedicate all'argomento (pp. 169-184). 290 Opinioni: credibili e non Secondo uno dei più accreditati studiosi ed editori contemporanei di Parmenide - Cordero152 - la Dea prospetterebbe, introduttivamente, il contenuto del suo «corso di filosofia» nell’ambizioso riferimento alla totalità delle cose, precisato in due oggetti complementari: (i) il «cuore della verità» e (ii) le «opinioni dei mortali». A completamento del suo programma, ella avrebbe poi illustrato anche un possibile modello per le «opinioni»: la verità è assente dalle opinioni, ma «riconoscere che le opinioni non sono vere è vero»153. Ciò che rende, a nostro avviso, implausibile questa proposta di lettura è soprattutto l’estensione e l’articolazione che supponiamo il secondo logos dovesse avere, configurandosi come poema didascalico, manuale o trattato scientifico, a carattere enciclopedico154. È necessario dunque intendersi preliminarmente sul valore delle opinioni155. Una prima indicazione ci giunge dalle testimonianze dei lettori antichi: Aristotele, per esempio, osserva: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν 152 N.-L. Cordero, By Being, It Is. The Thesis of Parmenides, Parmenides Publishing, Las Vegas 2004, p. 30. 153 Ivi, p. 32. 154 G. Cerri, «Testimonianze e frammenti di scienza parmenidea», in Parmenide scienziato?, a cura di L. Rossetti e F. Marcacci, Academia Verlag, Sankt Augustin 2008, p. 80. 155 Torneremo sull'argomento commentando l'ultima parte di B8 e i frammenti del "secondo logos". 291 Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: ritenendo, infatti, che non esista affatto, oltre all’essere, il non-essere, egli crede che, di necessità, l’essere sia uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a tener conto dei fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1; DK 28 A24). A sua volta, Teofrasto (secondo quanto attestato da Alessandro di Afrodisia) rileva: Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Il problema dei due logoi era già delineato come incrocio tra due forme diverse di esplorazione della realtà, che potremmo sbrigativamente indicare come razionale ed empirica: la seconda parte del poema avrebbe così riproposto un approccio alla physis, dai fenomeni ai loro principi, analogo a quello ionico; la prima 292 parte, originale, avrebbe invece introduttivamente messo a fuoco le implicazioni ontologiche a priori dell’indagine156. Certamente il programma della Dea prevede un momento critico, che investe indiscutibilmente le «opinioni dei mortali», in cui non risiede «reale credibilità»: individuare la norma di verità comporta necessariamente denunciare l’origine di erronee convinzioni circa il mondo dell’esperienza, senza escludere tuttavia la possibilità che la stessa materia sia passibile di una trattazione diversa, rigorosa e plausibile. Questo il senso della precisazione introdotta dal restrittivo ἀλλ΄ ἔμπης: tra la saldezza della Verità (illustrazione della realtà) annunciata dalla Dea e la (contraddittoria, come vedremo) inconsistenza delle diffuse, illusorie convinzioni umane, si annuncia la possibilità di una credibile (in quanto coerente con i presupposti che fondano la ricerca) ricostruzione dei fenomeni. Benché l’intervento divino sia teso a legittimare la norma di verità (che non può giustificarsi empiricamente), l’impianto educativo del poema, la scelta del kouros e la sollecitazione critica nei suoi confronti sembrerebbero autorizzare un'interpretazione positiva dei versi conclusivi del proemio. Ciò che colpisce, nell’articolazione della lezione divina, è, in ogni caso, soprattutto il punto (iii) del programma, che risulta nel contesto meno scontato: comunque si intenda, infatti, la direzione del viaggio cantato nei versi parmenidei, indiscutibilmente la sua meta è rappresentata dalla rivelazione divina, che presuppone, con l’esito veritativo, l’opposizione tra il sapere che la Dea può manifestare e quello che gli esseri umani possono attingere. Così la compiuta (εὐκυκλέος, «ben rotonda» 157 ), salda consistenza (ἀτρεμὲς ἦτορ, «cuore fermo») di Verità è (naturalmente e tradizionalmente) contrapposta alla debole (οὐκ ἀληθής, «non reale 156 Si tratta di una relazione che potrebbe ancora trovare riscontro nell’organizzazione del poema Sulla natura di Empedocle, nei cui frammenti (DK 31 B8, 9, 11) troviamo l’eco della ontologia di Parmenide chiaramente saldata alla prospettiva di una positiva indagine della physis. 157 Per la lettura che proponiamo, sarebbe più naturale accogliere la variante εὐπειθέος («ben convincente») della versione di Plutarco, Clemente, Sesto Empirico e Diogene Laerzio, prevalentemente accolta dagli editori moderni, di cui diamo notizia in nota al testo greco. 293 [genuina]») «credibilità» (πίστις) riconosciuta alle βροτῶν δόξαι: «nondimeno», a proposito di queste opinioni, il poeta apprenderà, dall’istruzione della Dea, anche come «le cose accolte nelle opinioni» (τὰ δοκοῦντα: il contenuto empirico di tali opinioni) siano da intendere «effettivamente» (δοκίμως: realmente, genuinamente), considerandole «tutte insieme davvero esistenti» (διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα), in altre parole riconducendole rigorosamente alla «via di ricerca» lungo la quale è effettivamente possibile procedere (B2.3). Senza questa precisazione il percorso formativo destinato al kouros sarebbe incompleto: la formula (χρεὼ) che lo introduce sottolinea come esso sia opportuno, adeguato a conseguire una nuova consapevolezza della realtà158. A tale scopo non è sufficiente (almeno non per la formazione del kouros) conoscerne l’essenza e dunque prendere coscienza della genesi delle opinioni erronee: per il poeta, destinato a tornare tra gli uomini e a rivaleggiare con altri presunti sapienti, è necessario saper affrontare i contenuti dell’esperienza umana. Non pare – come invece molti sostengono159 - che la vera novità parmenidea sia rappresentata dal fatto che la Dea offra agli uomini la possibilità di imparare e la verità e le opinioni, se per doxai si intendono quelle illusorie dei mortali: esse saranno sbrigativamente liquidate (B6-7) in conseguenza della enunciazione (B2) dei criteri di verità. Ciò che, invece, risulta originale nella rivelazione della Dea del poema, a dispetto della tradizionale frattura tra sapere umano e sapere divino, è l’ardita combinazione di rigorosa affermazione (B2, B8) di una realtà non immediatamente manifesta all’esperienza umana, e articolata esposizione di un accettabile «ordinamento» (διάκοσμος, B8.60) dei fenomeni naturali. La comunicazione dell’anonima divinità avrebbe insomma abbracciato sia quanto tradizionalmente considerato appannaggio esclusivo del dio (la verità), sia l’oggetto della contemporanea ricerca (περὶ φύσεως ἱστορίη): in questo modo, il poema avrebbe ridefinito, nel suo insieme, il quadro cosmologico (e cosmogonico) della Teogonia esiodea. 158 Robbiano, op. cit., p. 77. 159 Tra gli altri Robbiano, op. cit., pp. 51-2. 294 Verità e opinione Sul programma introdotto dalla dea innominata in conclusione del proemio (vv. 28-32), possiamo ancora osservare come, a livello espressivo, l’articolazione su cui abbiamo insistito emerga chiaramente nelle scelte verbali: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. Intanto risultano essenziali due verbi - πυθέσθαι e μαθήσεαι – il cui valore è quello di «apprendere per esperienza», «imparare per indagine», ma anche «discernere»: essi possono veicolare, dunque, sia l’idea di ricettività, sia quella di ricerca, perfettamente in contesto laddove la docenza (divina: θεά) guida il processo di apprendimento, marcando a un tempo i temi su cui verterà la lezione impartita (Ἀληθείης ἦτορ; βροτῶν δόξαι; τὰ δοκοῦντα) e l’urgenza di comprensione da parte dell’allievo (κοῦρος). La prima formula didattica sottolinea l’opportunità che «tutto tu apprenda»: come in precedenza rilevato, è netta la costruzione oppositiva dei vv. 29-30, in cui la saldezza della Verità è contrastata esplicitamente dalla incertezza delle «opinioni», e la garanzia di verità del nesso θεά-κοῦρος implicitamente alla inaffidabilità dei «mortali»: la rivelazione del «cuore fermo di Verità ben rotonda» comporterà la contestazione della consistenza delle loro convinzioni. La seconda formula introduce gli ultimi due versi, testualmente molto tormentati: il fatto di ribadire «imparerai» sembra implicare che questa sezione della lezione divina sia ulteriore e autonoma rispetto alla prima opposizione (verità e credenza non vera), sebbene il complemento oggetto - «anche queste cose» - plausibilmente rinvii al contenuto delle «opinioni dei morta- 295 li»160 e soprattutto sia evidente il vincolo lessicale rappresentato dalla comune radice (δοκ) di δόξας, δοκοῦντα e δοκίμως. Come Mourelatos 161 ha chiarito nella sua ricerca, il verbo δοκέω può significare sia (a) «aspettarsi», «pensare», «supporre», sia (b) «sembrare», nel senso (i) di «pensare», ma anche (ii) di «apparire»: presenta dunque a subject-oriented sense e an objectoriented sense. Mentre δόξα e δοκίμως sarebbero riconducibili al primo valore e alla sua «funzione criteriologica», il ricorso al termine δοκοῦντα rivela piuttosto le implicazioni oggettive di (b), nonostante la derivazione da δοκέω lo renda irriducibile a una «funzione fenomenologica» (quella dei derivati di φαίνομαι). In δόξα (opinione-convinzione) e δοκίμως (rendendo l’avverbio come «plausibilmente») troveremmo allora coinvolta l’idea di valutazione e accettazione, di approvazione; di conseguenza in τὰ δοκοῦντα (o τὸ δοκοῦν ὄν, come in Simplicio) «le cose ritenute accettabili» ovvero «le cose come sono accettate». Ma l’avverbio δοκίμως è impiegato dal contemporaneo Eschilo con il valore di «realmente» (Liddell-Scott) e quindi potrebbe a sua volta rinviare all’accezione oggettiva, a una situazione di fatto, a come stanno effettivamente le cose (così lo abbiamo inteso nella nostra traduzione). In ogni caso, le βροτῶν δόξαι - che vengono denunciate come non fededegne - non rappresentano mere impressioni ma punti di vista assunti, condivisi e diffusi, con cui ha evidentemente senso ingaggiare polemica: è alla soggettività di tali punti di vista che viene contrapposta la verità comunicata dalla dea. Gli ultimi due versi del proemio ritornano sulla materia di quelle confuse assunzioni, per riproporla in modo adeguato: in questo caso Parmenide impiega non il termine δόξαι ma τὰ δοκοῦντα: non i punti di vista ma le cose che in essi sono accolte. A τὰ δοκοῦντα collega la complessa (e testualmente controversa) espressione participiale διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα, che abbiamo reso come «tutte insieme davvero esistenti». La scelta appare non 160 In funzione prolettica, Parmenide avrebbe – di norma - dovuto impiegare τάδε, non ταῦτα, che sembra invece riferito a quanto precede. 161 Op. cit., pp. 195 ss.. 296 quella di ricostruire la genesi dell’errore dei mortali, ovvero quella di proporne una versione più coerente, piuttosto quella di mostrare come «le cose accolte nelle opinioni» avrebbero dovuto («era necessario\opportuno», con possibile valore di irrealtà) essere intese nella loro totalità come ὄντα (esistenti), in altre parole considerate alla luce della Verità, ovvero come genuina realtà. La precisazione di Parmenide, con le sue scelte lessicali (δοκοῦντα, ὄντα), e la struttura del poema, con un secondo logos di natura enciclopedica, suggeriscono di considerare positivamente il terzo punto del programma della dea, ben distinto dal secondo (che riceve indiscutibilmente una connotazione negativa), di cui tuttavia sembra condividere due elementi essenziali: (i) il contenuto materiale, costituito dalla pluralità delle cose che accogliamo sulla base della esperienza; (ii) la prospettiva (espressa dall’insistenza sulle forme in δοκ), il punto di vista mortale, che è appunto quello che passa attraverso l’esperienza, ma che, non per questo, deve essere giudicato inaffidabile. La Dea procederà quindi: (i) in primo luogo, a introdurre quella verità di cui è esplicitamente (e tradizionalmente) garante (B2): si tratta delle premesse (B2.3, B2.5) da cui è possibile procedere per manifestare la struttura della realtà (B8); (ii) poi, a stigmatizzare (sbrigativamente), sulla scorta della forma (logica) di quelle premesse (necessità dell’essere e impossibilità del non-essere), l'infondatezza dei comuni assunti circa le cose e il loro divenire; (iii) infine, a illustrare, attraverso una ricostruzione coerente con i parametri veritativi della Dea, l'«ordine del mondo» (διάκοσμος), vero obiettivo dell'opera. In questo modo, il poema contiene, complessivamente, la rivelazione di tutta la Verità: della sua natura intrinseca («cuore fermo»), fraintesa nel comune, superficiale pregiudizio, e della sua adeguata applicazione al campo dell’esperienza umana. Parmenide si riferisce a due ambiti distinti, divino e umano, che nella rivelazione si sovrappongono: la meditazione della «parola» (μῦθος) della Dea, che segnala la traccia che conduce ad Ἀληθείη, 297 assicurerà al κοῦρος la consapevolezza degli errori comuni tra gli uomini e dunque un'avveduta prospettiva sul mondo della sua esperienza. In questo senso, le due sezioni (Verità e Opinione) hanno lo stesso oggetto (non potrebbe essere diversamente per la logica del poema): la realtà, manifestata nella sua unitotalità essenziale dall'intelligenza, e nella pluralità dei processi naturali dall’esperienza. La scansione di tale programma nei moduli della tradizionale istruzione poetica è significativa: lo scarto tra sapere umano e sapere divino, proposto nella cornice dell'eccezionale tragitto ai limiti del cosmo, dove cielo e terra, notte e giorno, mondo dei vivi e mondo dei morti si incontrano, è ribadito non solo nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος, ma anche nella complementarità dei loro due diversi sguardi sulla realtà. Quello della Dea si rivolge impassibile (logicamente coerente e inattaccabile) all’essere, alla totalità razionalmente afferrata nella sua omogeneità e identità ontologica; quello dei mortali è invece condizionato (e per lo più sviato) dal filtro dell’esperienza. Compito del poema condannare le distorsioni e produrre – con la lezione divina – una consapevole mediazione. Per via Prima di concludere l’esame del proemio e dopo averne considerato gli ultimi versi e il programma contenutovi, è opportuno ritornare riassumere i nostri risultati. Parmenide compone nei moduli della tradizione epica, evocandone il rilievo veritativo e educativo e sviluppandone in particolare il tema del viaggio, centrale non solo per l’epica omerica ma anche, in generale, per l’esperienza culturale e religiosa arcaica (sciamanesimo). Modulando tali paradigmi, il poeta insiste sull’eccezionalità della propria esperienza, sia per gli auspici che ne assicurano lo svolgimento, sia per la meta oltremondana, sia, infine, per l’incontro con la dea rivelatrice: ciò comporta, da parte sua, valorizzare, con la lezione divina, anche il percorso del viag- 298 gio, la «via» (ὁδός πολύφημος δαίμονος) che la dea innominata ci informa essere «lontana dalla pista degli uomini. A sancire tale percorso e la legittimità della percorrenza, Parmenide colloca Dike e Temi, giustizia e norma divina: l’accesso alla verità, dunque, non è casuale, accidentale, ma risultato di uno slancio educato (il poeta in apertura evoca la spinta del proprio desiderio, θυμός), forse di una iniziazione (come rivelerebbe, in particolare, l’uso della espressione εἰδὼς φώς). La lezione della Dea non si limita a manifestare la Verità (di cui rileva la saldezza, il nucleo inattaccabile), mediandola a un mortale, ancorché favorito, ma è attenta anche a dar conto del mondo dell’esperienza, delle «convinzioni» umane, sia per denunciarne gli stravolgimenti, sia per offrirne un’illustrazione adeguata, coerente, nei suoi principi esplicativi, con la realtà annunciata (l'essere). I modelli e i temi interessati suggeriscono che la comunicazione di verità, certamente centrale nei frammenti disponibili, non fosse fine a se stessa, ma costituisse l’elemento intorno a cui realizzare un profondo ri-orientamento della esperienza umana e una radicale ri-determinazione del rapporto tra soggetto umano e realtà (come cercheremo di dimostrare in B3 e B8)162. La formazione alla verità porterà il kouros a vedere il mondo in una prospettiva lontana dalla quotidianità, ma soprattutto a scegliere diversamente dalla società163. 162 Analizzando il valore di ἀλήθεια nella cultura arcaica, la Stemich (op. cit., pp. 84-6), convinta che in Parmenide non si possa delimitarne nettamente la prospettiva oggettiva (che insiste sul referente, sull’entità data al di fuori dell’individuo) da quella soggettiva (come nelle espressioni dire vero, fare vero, in cui è sottolineata la relazione dell’uomo alla verità), osserva comunque che Parmenide (come già Eraclito) insista piuttosto sulla seconda, ovvero sulla condizione che consente all’uomo di superare il senso comune quotidiano. 163 È significativo che, di recente, oltre a Martina Stemich anche Chiara Robbiano (op. cit., p. 56) abbia richiamato l’attenzione su questo punto: la ἀλήθεια rivelata, prioritaria nel programma educativo della Dea, sarebbe il risultato di un punto di vista (che il kouros deve maturare), e dunque soggettiva, ma, dal momento che esso svela l’essenza della realtà, allo stesso tempo oggettiva. In questo senso il poema riguarderebbe una trasformazione 299 Che si tratti di percorso astrale – quello solare – che conduce alla porta cosmica, chiave di volta non solo dell’alternanza giorno-notte ma anche dell’accessibilità al mondo infero, ovvero di itinerario celeste, verso una trascendenza extra-cosmica (come vuole Mansfeld), o ancora di discesa verso il mondo infero, il viaggio verso la divinità è comunque destinato a un impatto che sarebbe riduttivo considerare esclusivamente sotto il profilo conoscitivo, come per lo più si è fatto nella tradizione. L’evento è decisivo non solo per quello che consentirà di conoscere ma per come consentirà di condursi nell’esistenza: questa è forse la ragione della scelta comunicativa di Parmenide, con le sue potenzialità performative (la recitazione) e le allusioni a esperienze (rivelazioni, illuminazioni ecc.) note soprattutto per la loro incidenza esistenziale. Non a caso, dunque, il poema si apre con riferimenti allo θυμός, all’εἰδὼς φώς, alla accortezza delle cavalle di scorta, e all’egida divina di Temi e Dike, per procedere all’incontro con una dea (che potrebbe essere Persefone) la quale introdurrà la propria rivelazione (B2) con l’evocazione dell’immagine di un bivio, di fronte al quale il kouros è chiamato a scegliere. del punto di vista tale da investire non solo l’oggetto della comprensione, ma anche - alla fine del viaggio - il soggetto (p. 37). 300 LE VIE E LA VERITÀ [B2] Nonostante i vari problemi di traduzione e interpretazione suscitati dai versi di B2, con certezza possiamo asserirne, come nel caso del precedente B1, la collocazione: all’inizio della prima sezione del poema1, a ridosso del proemio (se non addirittura in continuità e contiguità con esso). Possiamo inoltre ragionevolmente ritenere che B2 costituisca, con i successivi B3, B6, B72, un blocco argomentativo continuo: l’introduzione dei presupposti per manifestare (B8) i segni (σήματα), le proprietà della Realtà concepita come un tutto, ovvero di quanto anticipato (B1.29) come Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ («di Verità ben rotonda il cuore fermo»). All’interno di uno schema espositivo che esplicitamente richiama l’attenzione sul rilievo fondativo dei versi B2.2-8 (la Dea, infatti, marca la significatività del proprio μῦθος, sollecitando l’interlocutore a prenderne nota e averne cura), alcuni hanno voluto valorizzare la condizionante presenza dei principi della logica occidentale3, altri invece vi hanno colto le premesse dell'ontologia4. Dire, ascoltare La continuità con B1 è segnata proprio dalla modalità direttiva della comunicazione, in cui esortazione e insegnamento marcano lo scarto tra il ruolo della Dea (ἐγὼν ἐρέω, «io dirò») e la ricezione (l’ascolto attento) del poeta (κόμισαι δὲ σύ μῦθον, «e tu abbi cura 1 Ricordiamo che, nella cesura di B8.50-1, la Dea si riferisce a quel che precede come πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης; B2.4 sembra riferirsi alla stessa materia con l'espressione Πειθοῦς κέλευθος. 2 Coxon, op. cit., p. 173: la sequenza proposta è, nella numerazione DK (diversa da quella ricostruita dall’autore), B2, B3, B6, B4, B7. 3 Per esempio Heitsch in Parmenides, Die Fragmente, griechisch-deutsch, herausgegeben, übersetzt und erlaütert von Ernst Heitsch, Sammlung Tusculum, Artemis & Winkler, Zürich 19953. 4 Per esempio Leszl, op. cit., p. 85. 301 della parola»), destinata, a sua volta, a trasformarsi, attraverso il canto, nella mediazione della verità a un discepolo: il σύ («tu») impiegato dalla divinità è rivolto tanto da questa al poeta, quanto da questi al proprio ascoltatore. La Dea sottolinea: ti dirò e tu ascolta e riferisci. Al poeta, giunto alla meta del viaggio (infero), non sono riservate privilegiate visioni o rivelazioni immediate; lo attendono, invece, parole, di cui si raccomanda l'ascolto5. La sua ricerca della Verità dovrà dunque muovere da esse: parole con cui la Dea non nomina se stessa, non descrive se stessa o la casa in cui risiede, non designa neppure puntualmente un soggetto6. Un solo impegno è stato assunto e quindi fa da sfondo alla sua parola: «è necessario che tutto tu apprenda» (χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι). Come sarà sottolineato in altro luogo (B7.5), l’espressione κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας («e tu abbi cura della parola una volta ascoltata») certamente sollecita attenzione per la verità del messaggio (μῦθος), ma implica anche – nella ricezione\cura - la sua valutazione e trasmissione. Sintomatica nel contesto la scelta del termine μῦθος, la «parola» divinamente ispirata del poeta, la parola che veicola, attraverso il poeta, il canto delle Muse, e dunque sancisce, a un tempo, il vincolo di dipendenza del mortale dall’immortale, ma anche l’eccezionale rilievo del poeta, la sua peculiare posizione sociale, la sua σοφίη 7. 5 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon… cit., pp. 89-90. 6 Ivi, p. 79. 7 Su questo punto in particolare la Wilkinson (pp. 40 ss.), che richiama Senofane, DK 21 B2.11-14: ῥώμης γὰρ ἀμείνων ἀνδρῶν ἠδ’ ἵππων ἡμετέρη σοφίη. ἀλλ’ εἰκῆι μάλα τοῦτο νομίζεται, οὐδὲ δίκαιον προκρίνειν ῥώμην τῆς ἀγαθῆς σοφίης Migliore è infatti della forza di uomini e cavalli la nostra sapienza. Ma si valuta questo in modo veramente dissennato: e invece non è giusto preferire la forza alla buona sapienza. Lo stesso Senofane aveva così introdotto la propria sapienza: 302 Io, tu La polarità comunicativa ἐγώ-σύ introduce anche la dialettica del testo parmenideo: essa, in effetti, sottolinea l’urgenza di illustrare la forza persuasiva del messaggio al destinatario (B2.4: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ: «di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna») e dunque la dimensione argomentativa (che si impone soprattutto in B8). A dispetto del tono e della situazione solenni, è progressivamente sul piano della (co)stringente discussione (ἔλεγχος) che si sviluppa la rivelazione della Dea, quasi assumendo il «tu» come muto interlocutore, di cui B8 sembrerebbe confutare il punto di vista ordinario. In questa prospettiva, la dialettica comunicativa esprime l’intenzione educativa anche nella forma di una lezione sull’uso degli strumenti razionali. B2 proporrebbe allora, in modo originale, le premesse di base della successiva trattazione: Mansfeld, in particolare, ha sostenuto che il ruolo condizionante della divinità e della sua rivelazione si manifesterebbe nei due passaggi introdotti dalle forme verbali in prima persona8, negli asserti imposti dall’autorità di ἐγώ («io»): εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω […] Orsù, io dirò (B2.1a) χρὴ δὲ πρῶτον μὲν θεὸν ὑμνεῖν εὔφρονας ἄνδρας εὐφήμοις μύθοις καὶ καθαροῖσι λόγοις bisogna che in primo luogo celebrino il dio uomini assennati, con racconti adeguati e puri discorsi (B1.13-14); e: ἀνδρῶν δ’ αἰνεῖν τοῦτον ὃς ἐσθλὰ πιὼν ἀναφαίνει, ὥς οἱ μνημοσύνη καὶ τόνος ἀμφ’ ἀρετῆς da lodare, poi, tra gli uomini, colui che, bevendo, pronuncia belle parole, conformemente a memoria e aspirazione alla virtù (B1.20-1). 8 Op. cit., pp. 61-2. 303 τὴν δή τοι φράζω Proprio questa ti dichiaro (B2.6a). Il primo momento coinciderebbe con l’enunciazione (B2.2) delle «uniche vie di ricerca per pensare» (solo A e B sono «per pensare», A e B sono immediatamente incompatibili), in questi termini (letterali): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Il secondo con l’asserzione dell'impercorribilità della seconda via: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni (B2.6). Che (i) «è» e «non è» rappresentino alternative incompatibili e che (ii) τό μὴ ἐὸν non sia effettivamente disponibile per un'autentica ricerca, costituirebbero le matrici (garantite dall'iniziativa divina) della successiva discussione, come evidenziato dall'invito all’ascolto9: il poeta paleserebbe in questo modo sia il proprio proposito argomentativo sia la consapevolezza del suo articolarsi. Anche non condividendo la tesi di Mansfeld, appare comunque indiscutibile l’intenzione di Parmenide di sfruttare la presenza della Dea per muovere da una verità fondamentale. Altri, invece, riconoscendo l’uso didascalico del mito, vi hanno colto la rivendicazione di una verità indiscutibile (che non è mera opinione umana) 10, ovvero l’espressione della matura consapevolezza dell’oggetto e dei mezzi propri della filosofia11: non sarebbe stato 9 Ivi, p. 86. 10 Conche, op. cit., pp. 79-80. 11 La tesi secondo cui Parmenide sarebbe il primo filosofo ad argomentare, a dare ragioni a supporto della propria posizione, a elaborare consapevolmente 304 più sufficiente enunciare la verità; era necessario assicurarla con la costrizione del logos. Forse, più semplicemente, per il sapiente-poeta, che componeva all'interno di una cultura in cui, in un modo o nell'altro, ogni sapere era radicato nella sfera della comunicazione divina12, era scontato rispettare la convenzione e fondare le premesse dei propri argomenti sulla parola della Dea. Uniche vie di ricerca per pensare All'esortazione di apertura che l’«io» della Dea rivolge al «tu» del poeta (v. 1), invitandolo ad «aver cura di» (κόμισαι) – ovvero «prender nota, meditare e trasmettere» – quanto ella sta per rivelare, fa immediatamente seguito (v. 2), sintatticamente retto dall’impegnativa espressione omerica ἐρέω («dirò, proclamerò»), la prima indicazione concreta sul contenuto della rivelazione: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι che abbiamo reso come: quali sono le uniche vie di ricerca per pensare. Il verso presenta alcune difficoltà, non indifferenti per l'interpretazione relativa e complessiva. Quale valore riconoscere a ὁδοὶ διζήσιός? Quale a μοῦναι? Come rendere εἰσι? Come νοῆσαι? La Dea, riferendosi a ὁδοὶ διζήσιός, ritorna (dopo averlo già fatto in B1.2, B1.5 e soprattutto B1.26-7) sul tema della via, impiegando un'espressione di nuovo conio, che rientra tuttavia a pieno titolo nel motivo omerico del viaggio13. Il termine parmeni- il proprio ragionamento con metodo, è di Cordero (By Being, It Is, cit., p. 38). 12 Su questo aspetto della cultura greca, è interessante la messa a fuoco di L. Brisson, "Mito e sapere", in Il sapere greco. Dizionario critico, a cura di J. Brunschwig e G.E.R. Lloyd, vol. I, Einaudi, Torino 2005, pp. 49-62. 13 Mourelatos, op. cit., p. 67. 305 deo δίζησις è infatti di derivazione epica, essendo δίζημαι utilizzato in Omero per «ricercare persone o animali perduti» ovvero nel senso lato di «concepire»: esso implica desiderio del e interesse nell’oggetto ricercato (la cui esistenza quindi non sarebbe in discussione). La formula ὁδοὶ διζήσιός alluderebbe allora a un investigare impegnato a raccogliere informazioni che conducano all’oggetto desiderato. È significativo che il contemporaneo Eraclito usi δίζημαι nel senso di ricercare in profondità: χρυσὸν γὰρ οἱ διζήμενοι γῆν πολλὴν ὀρύσσουσι καὶ εὑρίσκουσιν ὀλίγον Quelli che cercano oro rivoltano molta terra, ma trovano poco [oro] (DK 22 B22), marcando la propria direzione d’indagine verso quanto nascosto e inaccessibile ai più: la ricerca della φύσις, in contrapposizione alla πολυμαθία di poeti e sapienti tradizionali. Eraclito, tuttavia, sottopone il verbo a un’ulteriore, originale, torsione: ἐδιζησάμην ἐμεωυτό ho indagato me stesso (DK 22 B101), che Mourelatos14 legge in relazione a: ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο, πᾶσαν ἐπιπορευόμενος ὁδόν· οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει i limiti dell’anima non potrai mai trovarli, sebbene tu ti spinga per tutte le strade: tanto profondo è il suo logos (DK 22 B45). L’uso arcaico di δίζημαι sottolinea, insomma, il fatto che si ricerca intorno a qualcosa che non è manifesto o accessibile fin dall’inizio. In questo senso il nesso stabilito nei versi 3-4 tra la prima ὁδός e Ἀληθείη: 14 Mourelatos, op. cit., p. 68. 306 Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ di Persuasione è il percorso - a Verità infatti si accompagna. È necessario un percorso di ricerca per appalesare quanto è immediatamente nascosto: la via conduce alla scoperta della realtà, e in questo senso alla «verità». La verità richiede dunque una specifica ricerca: solo seguendo una «pista» (termini come πάτος, κέλευθος, ἀταρπός sono ricorrenti nei primi due frammenti) non casuale è possibile cogliere ciò che è genuinamente reale. Parmenide sceglie di ricorrere all'espressione «vie di ricerca» proprio per dare risalto al fatto che esse hanno come obiettivo essenziale la realtà (verità)15. La Dea proclama dunque solennemente: αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι (letteralmente: quali vie uniche di ricerca sono per pensare). La costruzione greca ha autorizzato sia (i) la lettura che insiste sulla concepibilità delle vie (εἰσι νοῆσαι in senso potenziale, da rendere come: «sono possibili da pensare», «possono essere pensate», «sono pensabili/concepibili»), sia (ii) quella che, come pare corretto nel contesto, facendo leva (a) sul valore finaleconsecutivo dell’infinito, (b) sul suo nesso con μοῦναι, e (c) sulla successiva determinazione delle ὁδοί con formule introdotte da ὅπως e ὡς, esprime il lato attivo del pensare (dunque: «quali sono le uniche vie per pensare»), introducendo due modi di pensare («pensare che...»). Qualcuno16 ha ipotizzato che Parmenide intendesse evocare entrambi i valori, intenzionalmente giocando sull’ambiguità (in analogia con le modalità di comunicazione del contemporaneo Eraclito): una chiave interpretativa che potrebbe applicarsi ad altri passaggi del testo. 15 Leszl, op. cit., p. 124. 16 Robbiano, op. cit., pp. 81-2. 307 Ma il testo pone anche il problema della resa di νοῆσαι: generico «pensare», o, secondo l’uso arcaico, «apprendere, conoscere»17? La traduzione in questo caso impone un'opzione interpretativa: «pensare» rischia di risultare troppo indefinito rispetto all'unicità conclamata delle vie, consentendo, per esempio, di ammettere, oltre alle razionalmente legittime, anche «le vie dell’irrazionale» (illuminazioni, rivelazioni, ispirazioni ecc.), illegittime agli occhi della ragione18, come in effetti alcuni frammenti del poema (soprattutto B6 e B7) sembrano suggerire. D’altra parte, si potrebbe obiettare che, rendendo in senso forte νοεῖν con «apprendere\conoscere», come pur giustificato dalla conclusione del proemio19, risulterebbe poi problematica la comprensione della via introdotta in B2.5 (letteralmente): ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι che non è e che è necessario non essere. Di essa, in effetti, la Dea si affretta subito a osservare: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa di dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8); sottolineatura ripresa e accentuata ancora in B8.17-8: ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός 17 Mourelatos, op. cit., p. 70. Tra gli editori contemporanei, anche Heitsch opta per erkennen. Per una discussione aggiornata si veda ora Palmer, op. cit., pp. 69 ss.. 18 Come nel caso di Conche, op. cit., p. 77. 19 Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, in Id., Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009, pp. 146-147. 308 impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina). Eppure è proprio questa difficoltà a risultare illuminante rispetto alla natura e alla funzione delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοί μοῦναι διζήσιός νοῆσαι): solo la nozione di νοεῖν come pensare del tutto intellettuale, capace di prescindere dalle sembianze sensibili e afferrare ciò che è realmente dato, appare in grado di giustificare l'alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) prospettata nei versi B2.3 e B2.5. Intendendo νοεῖν come un «pensare» generico, si può ridurre il paradosso di una «via di ricerca per pensare» connotata come «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν) e, addirittura, come «impensabile e inesprimibile (ἀνόητον ἀνώνυμον), ricorrendo alla distinzione tra la sua prospettazione a priori e l'effettiva (a posteriori) sua praticabilità. Crediamo, tuttavia, che sia solo la comprensione di νοεῖν secondo la prospettiva omerica (improntata all'analogia con il vedere) di una relazione percettiva immediata con l'oggetto20, a dare senso alla disgiunzione «è»-«non è»: essa allora esprimerà, per quella funzione ricettiva, l'alternativa radicale tra necessità di rivolgersi a una realtà che è, e impossibilità di afferrare ciò che non è. La Dea annuncia nel contesto quali siano le «uniche vie di ricerca per pensare»: tre sono gli elementi da considerare: (i) la ricerca (δίζησις), (ii) i percorsi lungo per cui essa si sviluppa, (iii) la finalità che essa intende realizzare, designata dall'infinito aoristo νοῆσαι: «pensare», svelare la realtà (verità), ovvero, come suggerisce Palmer21, «comprendere», «giungere a comprensione». Il contesto di B2 suggerisce palesemente anche l'obiettivo conclusivo delle ricerca, che traduce in risultato la finalità dell'unico effettivo percorso di ricerca: come abbiamo già osservato, della prima via di ricerca (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) la Dea sottolinea che (a) è «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), 20 Germani, op. cit., p. 189. 21 Op. cit., pp. 72-3. 309 in quanto (b) «attende alla Verità» (Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ). L'apertura di B6 preciserà (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι è necessario il dire e il pensare che ciò che è è, fissando quindi in quanto espresso da ἐόν l'oggetto specifico di comprensione. D'altra parte, le «vie» annunciate sono «uniche» (μοῦναι) in forza di ciò che esse si propongono di pensare: in B8.16 sinteticamente proposto come ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν («è o non è»), esso è in B2 rinforzato da due formule modali: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) […] ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). Lungo la prima via (per pensare), la ricerca si sviluppa riflettendo a partire dall'immediata evidenza: «è» (ἔστιν), rimanendo saldamente sul terreno dell'«essere» (escludendo cioè la possibilità del «non-essere»). La seconda modalità, invece, prospetta una ricerca che si svolga a partire dalla negazione di quella evidenza: «non è» (οὐκ ἔστιν), pretendendo di svilupparsi conseguentemente sul terreno del «non essere». Delineata come alternativa alla precedente, essa si rivela di fatto impercorribile, dal momento che il pensiero non avrebbe alcunché da afferrarvi e manifestarvi: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. 310 Per pensare Prima di procedere alla determinazione delle «vie», è opportuno, tuttavia, in relazione al verso 2, soffermarsi ancora sulle implicazioni dell’annuncio della Dea: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω [...] αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι. Comunque si valutino queste parole, è evidente come in esse Parmenide anticipi il senso di un messaggio (divino) che investe indiscutibilmente la dimensione cognitiva del νοεῖν: si tratterà di riassumere, nella schematica astrazione di due forme («vie»), le modalità di fondo del «ricercare», del portare a conoscenza22, discriminandole rispetto all'ampia fenomenologia di tentativi e sviamenti «mortali» (le δόξαι βροτῶν). Se si può riconoscere alla narrazione del proemio anche un'intenzione simbolica, ricordiamo come la θεά, accogliendo il κοῦρος, rilevasse (B1.27): τήνδ΄ ὁδόν [...] γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν. Il filo che lega l’esordio della comunicazione della θεά (B1.24 ss.) alla rivelazione di B2 è costituito dal tema della ὁδός: la Dea dapprima (B1.27) – con riferimento alla via che, grazie all’intervento di eccezionali coadiutrici, ha condotto al suo cospetto - segnala come essa sia «lontana dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου); in B2 ella ne rievoca il tema nelle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός, precisando in modo rigoroso i criteri per valutare la fondatezza di ogni punto di vista. In gioco è esplicitamente (B1.29) la Verità: (i) nella sua “essenza” (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ); (ii) nella sua manifestazione 22 Come ricordato in nota al testo, Kahn (Ch.H. Kahn, “The Thesis of Parmenides”, cit., p. 147) ha sostenuto che δίζησις costituirebbe «equivalente poetico» del termine ionico ἱστορίη («ricerca scientifica»). 311 all’esperienza umana (τὰ δοκοῦντα); (iii) nella sua diffusa distorsione (βροτῶν δόξαι). La realtà da scoprire (Verità) rimane, in effetti, al centro anche di B2, come abbiamo in precedenza sottolineato a proposito della espressione δίζησις e della sua derivazione dall’omerico δίζημαι, alimentando un possibile ulteriore paradosso. Secondo una corrente interpretazione dei primi versi del proemio, la Dea è stata raggiunta a conclusione di un viaggio lungo la «strada ricca di canti» (ἐς ὁδὸν πολύφημον) che conduce «l’uomo che sa»: ella rivela di non essere la fonte diretta da cui attingere la Verità; suo compito è solo quello di indicare il (nuovo) percorso per conseguirla23. È questo decentramento della verità dalla Dea che giustifica, per esempio, la lezione di Untersteiner, il quale fa coincidere la verità con la via stessa. In ogni caso, nell’economia complessiva del testo, il riferimento al νοεῖν – del poeta e del lettore\ascoltatore – è essenziale per coglierne l’intenzione pedagogica. Il discorso si snoderà a partire dalla comprensione delle implicazioni di due enunciati divini, insistendo sulla centralità della relazione tra νοεῖν e εἶναι: tale comprensione risulterà ugualmente vincolante per la Dea e per i «mortali» (manifestando un decisivo, comune denominatore razionale): (i) legittimando, da un lato, il taglio argomentativo di alcuni dei frammenti della prima sezione (segnatamente B8, parzialmente B6) e l’ἔλεγχος adottato dalla divina interlocutrice per istruire il κοῦρος; (ii) contribuendo dall’altro a determinare l’oggetto intorno a cui verte il discorso, indicato dallo stesso Parmenide (nella formula più astratta) come τὸ ἐόν. Le «vie» e i loro problemi: natura e articolazione della ricerca Le «uniche vie di ricerca per pensare», come abbiamo visto, sono proposte letteralmente come: 23 Ruggiu, op. cit., p. 211. 312 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5) ovvero, volendo risolvere le infinitive in una soggettive esplicite (come appare più naturale): l’una che è e che non è possibile che non sia l’altra che non è e che è necessario che non sia. La nostra preferenza per la resa infinitiva è legata alla possibilità di rimanere più aderenti alla costruzione greca e soprattutto di sfruttarne gioco espressivo e ambiguità. In apparenza, l’alternativa (ἡ μὲν... ἡ δὲ...) reitera – pur senza sovrapposizione, come vedremo - lo schema oppositivo già impiegato dalla Dea nella propria allocuzione di saluto, quando aveva sottolineato al κοῦρος l’esigenza di «tutto» apprendere: ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è vera credibilità (B1.29-30). L'una - l’altra Ammettendo la sostanziale continuità tra B1 e B2, le due opposizioni, cariche di significato in forza delle reciproche introduzioni (nel primo caso - B1.28 – l’urgenza di χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι; nel secondo l’interrogativo implicito in αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι), appaiono evidentemente collegate, 313 anche se non (come vorrebbe qualcuno24) nel senso di una puntuale correlazione. Nel caso di B2, l’opposizione emerge non solo, sul piano espressivo, nella scelta della costruzione (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), ma soprattutto, sul piano logico, nella peculiare costruzione degli enunciati, che possiamo rispettivamente articolare nei due emistichi dei versi 3 e 5, quindi: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν […] (B2.3a) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν […] (B2.5a) καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b) καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). Letteralmente dovremmo tradurre, attribuendo (come prevalentemente si fa) a ὅπως e ὡς il valore di congiunzioni (subordinanti) dichiarative (sottintendendo, dunque «che dice» ovvero «che pensa»): l’una [che pensa] che «è»25 […] (B2.3a) l’altra [che pensa] che «non è» […] (B2.5a), e che «non è [possibile] non essere» (B2.3b) e che «è necessario non essere» (B2.5b). L'alternativa più credibile a questa costruzione dichiarativa non pare tanto quella avverbiale discussa da Mourelatos26: l’una come è e come non sia non essere l’altra come non è e come sia necessario non essere, 24 In modo coerente per esempio Cordero. 25 Il virgolettato vuol sottolineare il contenuto dichiarato. 26 Op. cit., pp. 49.51. Untersteiner rende in modo apparentemente analogo, ma in realtà con valore interrogativo: «come una esista e che non è possibile che non esista» (p. LXXXVI). 314 quanto quella proposta da Ferrari27, almeno per quel che concerne la resa di ὅπως e ὡς con «secondo cui», che ben suggerisce l'idea delle diverse prospettive di ricerca. Il rilievo oppositivo delle «vie» può essere rafforzato se – come è possibile e per certi versi naturale nel contesto – B2.3b (καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) è reso con espressione modale; avremmo così: e che: «non è possibile non essere» [ovvero: che non sia] (B2.3b) e che: «è necessario non essere» [ovvero: che non sia] (B2.5b). In questo caso, sarebbe evidente come Parmenide abbia deliberatamente costruito le «vie di ricerca» facendo leva sulle opposizioni «è» – «non è» e «non è [possibile] non essere» - «è necessario non essere»: la Dea – per acclarare αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι - ricorre a due formule coordinate 28: (i) «[pensare] che A e che B» per la prima via; (ii) «[pensare] che non-A e che non-B» per la seconda. In greco abbiamo: A = ἔστιν; non-A = οὐκ ἔστιν; B = οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; non-B = χρεών ἐστι μὴ εἶναι. Nello schema che così si delinea, da un punto di vista logico «non-B» dovrebbe corrispondere alla negazione di «non è possibile non essere» e dunque a «è possibile non essere», non a «è necessario non essere». In questo senso, è stato giustamente osservato (Kahn, Mourelatos, Lloyd, Leszl) che, alla luce della posteriore logica aristotelica, gli enunciati 2.3a e 2.5a sarebbero effettivamente contraddittori29, mentre gli enunciati 2.3b e 2.5b (costruiti sulla opposizione «non è possibile...»-«è necessario...») solo contrari30, e che dunque la formulazione alternativa non sarebbe esaustiva. Eppure nell'insieme appare chiara (Aubenque, 27 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 135 ss.. 28 Proposta da Cordero, By Being, It Is…, cit., p. 43. 29 Ammettendo, ovviamente, l'identità di soggetto: uno necessariamente vero, l’altro necessariamente falso. 30 Non potrebbero essere, quindi, veri entrambi, ma potrebbero essere entrambi falsi. 315 Heitsch) l’intenzione di Parmenide di esprimersi attraverso alternative esclusive (quindi in termini di espressioni incompatibili)31. In questo senso la nostra scelta di rendere il testo greco con subordinate implicite: l’una: è e non è possibile non essere l’altra: non è ed è necessario non essere, quasi la Dea puntasse ad associare all’immediato rilievo dello stato d’essere (ἔστιν) la forma infinitiva32 («essere»), in altre parole ad anticipare, nel gioco verbale, i due oggetti al centro della disamina (B3, B4, B6, B7, B8): ἐόν, τό ἐὸν, τό μὴ ἐὸν. Una volta delineata la formulazione oppositiva delle vie d’indagine, due questioni delicate (da un punto di vista interpretativo complessivo) si impongono: a chi o che cosa si riferiscono affermazione e negazione (quale il loro soggetto)? Quale valore (esistenziale, copulativo, veritativo) attribuire al verbo «essere»? È - non è Il primo interrogativo è ovviamente suscitato dall'assenza, in greco, di un soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν: dal momento che le principali lingue moderne richiedono che esso sia in qualche modo esplicitato, la traduzione del testo ha sopportato svariati tentativi di completamento: dalla scelta dell'assoluta indeterminatezza33, a quella della forma impersonale34, dal ricorso a pronomi35 31 Si veda la discussione in Cordero, op. cit., p. 71. 32 Heitsch rende ancora più esplicitamente questa situazione: Der eine, (der da laPomba) «es ist, und Sein ist notwendig» Der andere, (der da laPomba) «es ist nicht, und Nicht-Sein ist notwendig». 33 Tipicamente Calogero. 34 Fränkel. 35 Si tratta della soluzione più frequente. 316 (it, es, on), sostantivi (l’essere36, la via37, la Verità38, il mondo reale39, il corpo40), all'uso di intere formule sottintese - «whatever can be thought and talked about»41 (come viene da alcuni tradotto il primo emistichio di B6.1), «whatever we inquire into»42. Da un punto di vista filologico l’ipotesi di una lacuna relativa al soggetto - azzardata per esempio da Cornford43 e Loenen44, i quali propongono rispettivamente ἐόν (l'essere) e τι (qualcosa) – appare forzata: i codici conservati di Proclo e Simplicio, infatti, presentano lo stesso identico testo45 e l’operazione sul verso risponde quindi a un'esigenza essenzialmente interpretativa. Parmenide, evidentemente, ha scelto di esprimere i suoi enunciati in questo passaggio del poema senza un soggetto esplicito. Può essere in questo senso provocatorio il suggerimento della Wilkinson, la quale, in considerazione della naturale destinazione recitativa del poema, considera l’assenza di un soggetto definito per ἔστιν come una modalità intenzionale per esaltarne, nella ripetizione, la formula: la sua rarità nella poesia arcaica fa supporre che per l’audience di Parmenide il termine (soprattutto senza soggetto o come soggetto esso stesso) fosse una novità46. D’altra parte, l’esame del frammento consente di individuare un soggetto implicito: la stessa logica di costruzione delle «vie» comporta, infatti, che, nel momento stesso in cui la Dea sottolinea: 36 Tipicamente Cornford. 37 Untesteiner. 38 Verdenius. 39 Casertano. 40 Burnet. 41 Russell, Owen. 42 Barnes. 43 F.M. Cornford, Plato and Parmenides, Routledge & Kegan Paul, London 1939. 44 J.H.M.M. Loenen, Parmenides, Melissus, Gorgias: A Reinterpretation of Eleatic Philosophy, Van Gorcum, Assen 1959. 45 Come osserva Cordero (By Being, It is…, cit., p. 37), è curioso che le citazioni di questi versi (in Proclo e Simplicio) siano posteriori al poema di un millennio. 46 Wilkinson, op. cit., pp. 93 ss.. 317 οὔτε … ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.7-8), conoscibilità ed esprimibilità – negate a τό μὴ ἐὸν - debbano essere riferite a un ancora implicito [τὸ] ἐόν 47, come chiarito in B6.1-2a (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν è necessario il dire e il pensare che ciò che è è; è infatti [possibile] essere, [il] nulla, invece, non è. Se è vero, come segnala Coxon48, che l’omissione del pronome indefinito (denotante «la cosa in questione») come soggetto è ampiamente diffusa nell’epica e nel greco posteriore, nel contesto dell’attuale B2, in altre parole all’esordio della comunicazione divina, è tuttavia assai probabile che Parmenide rinunciasse intenzionalmente al soggetto (per altro non immediatamente desumibile e quindi difficile da sottintendere per l’ascoltatore), insistendo piuttosto sull’impatto espressivo dell’intreccio oppositivo ἔστινοὐκ ἔστιν (con relative formule modali), per (i) catturare progressivamente l’attenzione dell’ascoltatore e (ii) coinvolgerne l’impegno intellettuale, lungo le due vie delineate, nell’enucleazione della verità. Saremmo, in questo senso, in presenza di un’ambiguità ricercata a scopo pedagogico. Se, come per lo più si conviene, l’ordinamento DK dei frammenti della prima parte del poema è relativamente plausibile, allora, da B2 a B8, assisteremmo a una graduale manifestazione del 47 Questo rilievo in R. Mondolfo, “Discussioni su un testo parmenideo (fr. 8.5- 6)”, «Rivista critica di storia della filosofia», 19 (1964), p. 311. Si veda anche Coxon, op. cit., p. 177. 48 Op. cit., p. 175. 318 soggetto sottinteso49 in B2.3: dalla pura affermazione «ἔστιν» si passerebbe, in B6.1, a un soggetto (ἐόν) sotto forma di participio ricavato dallo stesso verbo εἶναι, determinato poi, in B.8, come vera e propria nozione (τὸ ἐόν), con relative proprietà50. La scelta espressiva di Parmenide (rinunciare a un esplicito soggetto per ἔστιν-οὐκ ἔστιν) – che imbarazza il traduttore moderno, spesso costretto a ricorrere al pronome neutro come mero soggetto grammaticale51 - ha l’effetto di porre in risalto nei versi (per il lettore), ovvero nella recitazione (per l’ascoltatore) l’assolutezza di ἔστιν (οὐκ ἔστιν) 52, una ricorrenza insistente nel poema53. L'«impertinenza linguistica» di Parmenide54 si sarebbe concentrata deliberatamente su una forma verbale esposta all’ambiguità, per la rottura dello schema sintattico soggettopredicato verbale, e l’uso (di conseguenza incondizionato) della terza persona singolare indicativa (ἔστιν). Con l’effetto di richiamare l’attenzione sull’esperienza del reale55 implicita nel linguaggio ordinario: l'evidenza del puro fatto d’essere56. Come verbo assoluto, senza vincoli grammaticali e logici (soggetto, predicato), ἔστιν esprimerebbe immediatamente lo «stato puro»57 della realtà, 49 Su questa proposta convengono alcuni recenti interpreti: Couloubaritsis, Cassin, Aubenque, Ruggiu. 50 O’Brien, op. cit., p. 164. 51 Che preannuncia il vero (reale) soggetto: Conche, op. cit., p. 79. 52 Grazie al supporto delle formule modali οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e χρεών ἐστι μὴ εἶναι. 53 Su questo aspetto, in particolare, Wilkinson, op. cit., p. 94. 54 P. Thanassas, Parmenides, Cosmos, and Being. A Philosophical Interpretation, Marquette University Press, Milwaukee (Wisconsin USA) 2007, p. 35: l’enfasi sull’«è» sorgerebbe da una certa awareness of language, e sarebbe in realtà funzionale al rilievo delle implicazioni dell’uso pre-filosofico del verbo «essere». 55 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 89. 56 Convincente per questo aspetto la lettura di Cordero, By Being, It Is, cit., pp. 61 ss.. Va per altro osservato come Parmenide coniughi il rilievo «ἔστιν» con la formula «οὐκ ἔστι μὴ εἶναι», che certamente lo rafforza: è a partire dalla sua assolutezza che si potrà procedere all'estrazione (B6-B8) di un soggetto (con l’introduzione di τὸ ἐόν o εἶναι). 57 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 93. 319 presupposto in ogni affermazione58. Per questo l’aggiunta di un pronome indefinito (qualcosa, τι in greco) tradirebbe (attenuandola) la radicalità dell’indicazione della Dea, che potrebbe piuttosto essere intesa come veicolo dell’originario stupore per, della primitiva attenzione al «fatto d’essere». Nella lettura che proponiamo, infatti, all’immediata rilevanza dell’ἔστιν la Dea farebbe seguire, con una sequenza verbale ad effetto59, οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, cioè l’estrazione e l’affermazione (attraverso la doppia negazione) di εἶναι. Per quanto si valorizzino le implicazioni linguistiche (come segnalato da Calogero, e da altri poi in vario modo ribadito60), il contesto della dichiarazione della Dea rimane comunque quello della determinazione di «vie di ricerca per pensare», nel senso di percorsi prospettati per giungere a comprensione della realtà: Parmenide intende dunque riferirsi in ultima analisi alla realtà sottesa a quelle espressioni, delineata nella sua assolutezza («non è possibile non essere»). Così, quando afferma (letteralmente): χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· è necessario il dire e il pensare che ciò che è è (B6.1a), ἐόν emerge come espressione concettuale, consapevole sviluppo astratto, dell’immediato contenuto di ἔστιν, denotando, a un tempo, la totalità degli enti (di ognuno dei quali si dice che è «ciò 58 In questa prospettiva, è forse ancora utile l'indicazione di Calogero, rilanciata da Giannantoni (G. Giannantoni, "Le due 'vie' di Parmenide", «La Parola del Passato», cit., pp. 207-221), circa la scelta dell'«è» «in quanto puro elemento logico e verbale dell'affermazione» (G. Calogero, Studi sull’eleatismo, La Nuova Italia, Firenze 19772, pp. 20-2). 59 L’effetto musicale in greco della sequenza verbale in ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι non è facilmente riproducibile in traduzione, mantenendo il valore potenziale di οὐκ ἔστι. 60 Riflessione intorno all’uso della copula (Thanassas, op. cit., p.32; Cerri, op. cit., p. 60), alla sua funzione «speculativa» nel rivelare il predicato essenziale di un soggetto (la copula funzionerebbe da conveyer verso la realtà della cosa: Mourelatos, op. cit., p. 59); riflessione sul fatto che, in greco, il linguaggio quotidiano indica le cose come ὄντα (Cordero, op. cit., p. 60.). 320 che è», ἐόν/ὄν), ma richiama anche la attenzione sull’essere (ἐόν, εἶναι) di quegli enti61. [Pensare] «che è», [pensare] «che non è» La seconda questione suscitata dalla formulazione delle «vie di ricerca […] per pensare» è relativa al valore da attribuire al verbo «essere» negli enunciati: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una che è e che non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra che non è e che è necessario non essere (B2.5). L'insistenza sull’incrocio oppositivo di ἔστι e εἶναι risalta sia in lettura sia all’ascolto: «è»\«non-è», «non è [possibile] nonessere»-«è necessario non-essere». A partire da questo dato testuale è aperta la discussione tra gli interpreti su come intendere le espressioni verbali. Nella conclusione dell’esame precedente abbiamo posto in relazione l’affermazione di B2.3 con il primo emistichio di B6.1: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι. All'interno del verso, «essere» (qui nella forma epica ἔμμεναι) è riferito a un esplicito soggetto, il participio ἐόν, con un valore che appare, naturalmente, esistenziale (predicato verbale: «esiste»). Ora, volgendoci 62, senza forzature, a B8, possiamo ulteriormente rilevare due passi chiaramente significativi: 61 Thanassas, op. cit., p. 45. Interessante il rilievo secondo cui l’ἐόν di Parmenide sarebbe in questo senso direttamente comparabile alla espressione aristotelica τὸ ὂν ᾗ ὂν. 62 Seguendo l’esempio di O’Brien, op. cit., pp. 170 ss.. 321 […] ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (B8.3), οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι per questo non incompiuto l’essere è lecito che sia (B8.32). In questi casi si individua ancora esplicitamente il soggetto nel participio ἐόν (B8.3) e nel participio sostantivato63 τὸ ἐόν (B8.32), mentre ἐστιν e εἶναι sono impiegati con valore copulativo64. Più complessa la situazione di B8.5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές· né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo (B8.5-6), dove soggetto sottinteso è ἐόν di cui sopra (B8.3), e ἔστιν ha un duplice ruolo: a un tempo valore esistenziale (con l’avverbio: «è ora») e funzione copulativa65. Se poi guardiamo alla ricostruzione delle premesse dell’argomento della Dea (B8-15-18), dove Parmenide rievoca la κρίσις (decisione) intorno a «è o non è», il senso dell’ἔστιν in B2 si approfondisce: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. […] Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, 63 Che certamente comporta valore esistenziale. 64 In realtà per B8.3 la situazione è più complicata, in quanto il testo greco potrebbe rendersi diversamente: «essendo, è ingenerato e indistruttibile»; «essendo ingenerato, l’essere è anche indistruttibile». 65 O’Brien, op. cit., p. 177. 322 di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale (B8.15-18). La via (ὁδός) che pensa che «non-è [e che è necessario non essere]» è abbandonata, in quanto «impensabile [e] inesprimibile», perché «non genuina» (οὐ ἀληθής). In B2.6-7 si parla di «sentiero del tutto privo di informazioni»: «conoscere ciò che non è» ovvero «indicarlo» «non è in effetti cosa fattibile». L’altra si è invece «deciso» (κέκριται) «sia\esista» (πέλειν) e «sia reale\genuina\vera» (ἐτήτυμον εἶναι). Se in B2, nell’economia della lezione divina, è essenziale soprattutto focalizzare l’attenzione sul valore decisivo della espressione verbale ἔστιν, preparando il terreno alla comprensione delle implicazioni nella formulazione delle «vie», in B8, al contrario, riscontriamo gli effetti della sistematica applicazione alla prima «via», con altrettanto sistematica esclusione della seconda. La prima via per pensare (comprendere) afferma ἔστιν; la seconda lo nega (οὐκ ἔστιν). La prima via completa e assolutizza l’affermazione con la negazione del non-essere (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), ovvero della possibilità del non-essere. La seconda via assolutizza la negazione affermando la necessità del non-essere (ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι). Con la prima via, attraverso l’esplicito (e incondizionato) rilievo di ἔστιν e dell’impossibilità di μὴ εἶναι, viene implicitamente imposto l’oggetto pienamente positivo della ricerca (ἐόν, εἶναι); con la seconda, che nega quanto la prima afferma, viene, di conseguenza, delineato l’oggetto alternativo, radicalmente negativo, indicato come τό μὴ ἐὸν, dichiarato al v. 7 come oggetto indisponibile alla conoscenza o alla manifestazione. In B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τὸ νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν 323 è necessario il dire e il pensare che ciò che è è: poiché è possibile essere, il nulla, invece, non è. con la piena esplicitazione del contenuto delle due vie, avrà poi inizio la disamina critica. Se questa prospettiva è corretta, allora in B2 le formule della pura affermazione (ἔστιν) e della pura negazione (οὐκ ἔστιν) - sostenute dalle relative formule modali, possono generare, in quanto «vie di ricerca» (le sole «per pensare»), due soggetti diversi e due espressioni tautologiche, su cui appunto Parmenide fa leva in B6. La necessità di «dire e pensare» che «ciò che è» (il participio ἐόν) «è, esiste» fonda la propria legittimità sulla duplice premessa: (i) che «essere» (εἶναι) «è possibile» (ἔστι); (ii) che il «nulla» (μηδέν) «non è» (οὐκ ἔστιν). Il comune errore dell’opinare umano si accompagna proprio al fraintendimento della portata di queste tautologie, nella contraddizione generata dall’affermazione incrociata (ancorché solo implicita) di essere e non-essere. Alla luce di questa considerazione – ribadendo quanto sopra a proposito della deliberata opzione parmenidea per forme verbali (ἔστιν - οὐκ ἔστιν), nel contesto immediatamente impersonali (senza soggetto e predicato) e dal valore (esistenziale, copultativo, veritativo) ambiguo – appare insostenibile il tentativo di attribuire τὸ ἐόν come soggetto comune sottinteso (in B2.3 e B2.5). Dalle due formule saranno ricavati due soggetti distinti: uno reale (τὸ ἐόν, appunto, «l’essere»), l’altro fittizio, pura espressione verbale e funzione logica (τό μὴ ἐὸν, «il non-essere», μηδέν il «nulla»), segnavia di una pista che la ragione riconosce subito impraticabile. In questo senso possiamo parlare di due «vie»: (i) una manifesta la «realtà» (Ἀληθείη) di «ciò che è (necessariamente); (ii) l'altra spinge a riconoscere (come evidenzia l'intervento della Dea) l'indisponibilità effettiva di «ciò che non è (necessariamente)», che pertanto andrà sistematicamente escluso dall'orizzonte dell'umano indagare. 324 Non pare che alla seconda delle vie di ricerca si debba attribuire la contraddizione che, invece, viene denunciata nelle «opinioni dei mortali»: condivisibile su questo punto quanto sottolineato da Mansfeld66. L’identificazione della seconda via con quella del mondo dell’esperienza è errata: ricordiamo come la seconda via è ancora connotata in B8.17-18: τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. [Si è deciso] di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è via genuina). Della via «non è» non si può concepire un contenuto reale: essa è allora ἀνόητον, ma anche ἀνώνυμον (letteralmente «senza nome»: non si può indicare ciò che non è in senso assoluto). Ma sono proprio i «nomi» a caratterizzare il mondo fenomenico, come sottolinea la stessa divinità (B8.38b.41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. A rimanere «senza nome» è definitivamente ciò che (necessariamente) è nulla, quanto appunto espresso nella formulazione della seconda via, e designato come τό μὴ ἐὸν. Le due enunciazioni divine (affermativa e negativa) – in quanto «vie di ricerca, le uniche per pensare» - devono essere reciprocamente alternative ma in sé incontraddittorie, e tracciare i percorsi (κέλευθος, ἀταρπός) per i quali: (i) generare le nozioni di «essere» e «non-essere»; (ii) valutare, in relazione al coerente ri- 66 Op. cit., p. 55. 325 spetto dell’alternativa concettuale prodottasi, la consistenza dei punti di vista umani. D’altra parte, il motivo dell’intransitabilità della seconda via è non il suo carattere contraddittorio - come accade appunto nel caso della “presunta” via (B6.5-9) che i «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν, «uomini a due teste» - δίκρανοι), si fingono -, ma il fatto che (B2.6-8) «non potresti conoscere ciò che non è, né potresti indicarlo», in quanto «cosa non fattibile». Prospettata (con la negazione οὐκ ἔστιν) come alternativa a ἔστιν, la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» è «percorso» (ἀταρπός) assolutamente privo di contenuti, e quindi indicato come τό μὴ ἐὸν. L’unica via, per la piena consistenza dei suoi contenuti, effettivamente accessibile e percorribile «per pensare» (cioè per afferrare la realtà) è, di conseguenza, la prima, il cui soggetto sarà esplicitato come ἐόν (B6.1) ovvero τὸ ἐὸν (B8.32), ma già implicitamente individuabile, nella forma oppositiva di B2, come formula contraddittoria rispetto a τό μὴ ἐὸν. Si è detto67 che l’unico modo per rispettare il valore oppositivo delle vie che la Dea propone è di mantenere lo stesso soggetto per entrambe: abbiamo, però, ipotizzato che la linea di pensiero di Parmenide sia stata in realtà un’altra, che in B2 si lascia intravedere. Attraverso l'asseverazione della tesi «è» (ὅπως ἔστιν), pura espressione dell’immediata esperienza della realtà, coniugata con la contestuale negazione modale dell’antitesi («non è possibile non essere», ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la divinità pone le premesse per l'estrazione della nozione positiva di τὸ ἐὸν, che indicherà ovviamente ciò che è in senso pieno e necessario, il soggetto ontologico di cui si manifesteranno le proprietà in B8: la prima via è in questa prospettiva «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος). Nei versi 5-8, invece, dall’altrettanto pura negazione (ὡς οὐκ ἔστιν) di quell’originaria esperienza, coniugata con la relativa formula modale («è necessario non essere», ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι), ella ricava la nozione di τό μὴ ἐὸν, marcandone subito l'in- 67 Cordero (pp. 44-5), Ruggiu (p. 221). 326 disponibilità facendo leva su un’ulteriore, immediata evidenza: non è «cosa fattibile» (ἀνυστόν) conoscere e indicare «il nonessere» (τό μὴ ἐὸν). Il percorso di Persuasione La rivelazione divina delle «vie di ricerca» è accompagnata da due rilievi. Relativamente alla via «che è e che non è possibile non essere», la Dea osserva che: Πειθοῦς ἐστι κέλευθος - Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ - di Persuasione è il percorso (a Verità infatti si accompagna) (B2.4), marcando, dunque, con un genitivo a un tempo oggettivo e soggettivo, come il viaggio per tale via conduca a scoprire la realtà (Ἀληθείη): essa appare, allora, come un'istruzione (affermazione d'essere e sistematica esclusione del non-essere) da seguire nell'indagine. Nella stessa prospettiva, le formule modali di B2.3 e B2.5 possono essere intese come ammonimenti divini, affinché siano evitati gli sviamenti tipici dei «mortali che nulla sanno»: il «percorso» (κέλευθος) lungo la ὁδός anticipa effettivamente l’idea della μέθοδος che Platone introduce68, prospettando poi la filosofia (dialettica) come viaggio69. 68 In Fedone 79e: Πᾶς ἄν μοι δοκεῖ, ἦ δ’ ὅς, συγχωρῆσαι, ὦ Σώκρατες, ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου, καὶ ὁ δυσμαθέστατος, ὅτι ὅλῳ καὶ παντὶ ὁμοιότερόν ἐστι ψυχὴ τῷ ἀεὶ ὡσαύτως ἔχοντι μᾶλλον ἢ τῷ μή Mi sembra – disse - che chiunque, Socrate, anche il più tardo, muovendo da questa via [ἐκ ταύτης τῆς μεθόδου], debba convenire che l'anima è, in tutto e per tutto, più simile a ciò che è sempre che a ciò che non lo è. 69 Coxon, op. cit., p. 174. Il passo di Repubblica (532b) è il seguente: 327 L’insistenza sul processo (la via, il percorso) è importante perché sottolinea come la Dea prospetti, nell’immediato, essenzialmente la direzione di una ricerca, aperta al coinvolgimento razionale del κοῦρος. In questo senso, la dimensione della (progressiva) scoperta della realtà autentica (Verità), che culminerà in B8, se da un lato conferma l’associazione (heideggeriana) tra ἀληθείη e disvelamento (non-nascondimento), dall’altro accentua gli aspetti di attivo condizionamento del ricercare, donde il rilievo della “cognizione critica” (B7.5: «giudica con il ragionamento», κρῖναι δὲ λόγῳ) e il ruolo riconosciuto (B3, B4) a νόος e νοεῖν. La realtà (Verità) è obiettivo del percorso di Persuasione (che a Verità, osserva la Dea, «si accompagna», ovvero «tien dietro», ὀπηδεῖ), proposto come oggetto di apprendimento, conoscenza e discorso70: il percorso sarà genuino, vero, nella misura in cui svela la realtà. Che essa (Verità) si manifesti (a colui che ricerca con intelligenza) lungo la via (che pensa o afferma) «che è e che non è [possibile] non essere» è ulteriormente marcato – come abbiamo più volte rilevato – dall'indicazione con cui la Dea stigmatizza l'alternativa, seconda via (B2.6-8): Τί οὖν; οὐ διαλεκτικὴν ταύτην τὴν πορείαν καλεῖς; Ebbene, non è proprio questo itinerario che chiami dialettica? Poche righe sotto (532 d-e), Glaucone invita Socrate a determinare la natura della dialettica: λέγε οὖν τίς ὁ τρόπος τῆς τοῦ διαλέγεσθαι δυνάμεως, καὶ κατὰ ποῖα δὴ εἴδη διέστηκεν, καὶ τίνες αὖ ὁδοί· αὗται γὰρ ἂν ἤδη, ὡς ἔοικεν, αἱ πρὸς αὐτὸ ἄγουσαι εἶεν, οἷ ἀφικομένῳ ὥσπερ ὁδοῦ ἀνάπαυλα ἂν εἴη καὶ τέλος τῆς πορείας Devi dirci allora quale sia il modo della facoltà della dialettica, quali siano le specie in cui è divisa, e quali le vie; queste infatti, come pare, sono le vie che potranno condurre là dove, pervenuti, potrà esservi riposo dal cammino e fine del viaggio. 70 Mourelatos, op. cit., p. 66. 328 τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. Si tratta di un rilievo decisivo: la divinità mette in gioco l'autorevolezza del proprio “io” (τοι φράζω, «ti dichiaro») per rivelare, della via «che non è e che è necessario non essere», che essa è un «sentiero» (ἀταρπός, tracciato secondario) per cui non si accede alla realtà, lungo il quale non si può fare esperienza o imparare raccogliendo informazioni. Ciò-che-non-è È in questo contesto che la Dea introduce la formula τό μὴ ἐὸν (participio sostantivato). Nella cornice di un processo di indagine che evoca il tradizionale motivo omerico del viaggio71, la precisazione è netta: il ricercatore che pretendesse lasciarsi guidare dall'assunto «non è ed è necessario non essere», non potrebbe propriamente incontrare, né «indicare» (φράζειν) qualcosa. Pensare «che non è e che è necessario non essere» non porta da nessuna parte: nemmeno la guida divina può tracciare concretamente tale via, portando a casa un risultato conoscitivo: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν poiché non potresti conoscere ciò che non è - non è infatti cosa fattibile (B2.7). Possiamo allora, per contrasto, confermare che, lungo la via imboccata seguendo l'assunto «è e non è [possibile] non essere», 71 Mourelatos, op. cit., p. 76. 329 ci si muove verso «ciò-che-è» (verso la realtà-Verità), e che tale percorso può essere compiuto (cioè è «fattibile» - ἀνυστόν – a differenza dell'altro): la guida divina, in effetti, potrà fornire i segni o i criteri della via72. Dal momento che – come rivela la dea senza nome - non è in assoluto possibile («cosa fattibile») conoscere, ovvero determinare «ciò che (necessariamente) non è», solo la prima via, che pensa e afferma «che è e che non è possibile non essere», che muove dalla evidenza «è», è in grado di manifestare la verità, di estrarre dall’«è» indicazioni positive e ultimative riguardo alla realtà (donde il successivo impiego delle nozioni equivalenti di ἐόν e τὸ ἐὸν). I dati fondamentali su cui il κοῦρος è invitato a riflettere sono dunque: (i) l'esclusività delle vie di ricerca «per pensare [comprendere]» (in questo senso esse sono appunto designate come ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός νοῆσαι: l'infinito «per pensare» ne specifica la natura); (ii) la loro reciproca incompatibilità (sottolineata dal ricorso combinato alla negazione e alle formule modali - su cui ancora tra breve); (iii) l’impercorribilità della seconda via: non è possibile conoscere o indicare «ciò che non è»; (iv) la loro (conseguente) natura ontologica, ovvero, propriamente, il loro annunciare opposti modi d'essere: la modalità dell'essere necessario e quella del necessario non-essere73. B2 attesta un ricorso precoce al surrogato τό μὴ ἐὸν per «nonessere», probabilmente dandone per scontata l’immediata evidenza per il lettore\ascoltatore. Nella contrapposizione delle vie, ciò induce ad anticipare le formule opposte (ἐόν e τὸ ἐὸν). In questo senso, l’argomentazione di Parmenide appare sollecitata dalla preoccupazione di istituire e fondare la contrapposizione tra τὸ ἐὸν («essere») e τό μὴ ἐὸν («non-essere»)74, marcando (a) la loro reciproca incompatibilità, (b) l’intransitabilità del non-essere, così da 72 Ivi., p. 78. 73 Su questo punto è oggi da valutare quanto scrive Palmer, op. cit., pp. 83 ss.. 74 Leszl, op. cit., p. 105. 330 concludere (letteralmente) nella onto-logia. Ciò comporta riconoscere, con Cordero75, che l'assolutizzazione del concetto di «essere» è ottenuta da Parmenide attraverso la negazione della contraddittoria nozione di «non-essere». Il focus ontologico del poema (sinteticamente ribadito con formula ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν: «è [possibile] infatti essere, il nulla invece non è») è così proposto contestualmente all’unico, fondamentale rilievo sul non-essere: «non è [possibile] non essere». Due formule: «non è possibile non essere», «è necessario non essere» Torniamo allora ancora una volta alla formulazione delle due vie per concentrarci sulla loro struttura formale: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è [possibile] non essere (B2.3) ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι l’altra: non è ed è necessario non essere»(B2.5). La presentazione di ognuna consiste (nella nostra traduzione) in un verbo semplice (enunciato non modale), in forma impersonale, coniugato con un enunciato modale: «è», «non è possibile non essere»; «non è», «è necessario non essere»76. Ogni verso è articolato in due coppie di emistichi corrispondenti, (a) e (b); la prima coppia (a): ἡ μὲν ὅπως ἔστιν l’una [che pensa] che è, ἡ δ΄ ὡς οὐκ ἔστιν l’altra [che pensa] che non è; 75 Op. cit., pp. 64-5. 76 O’Brien, op. cit., p. 182. 331 la seconda coppia (b): τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι e che non è [possibile] non essere [ovvero: che non è possibile non sia], τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι e che è necessario non essere [ovvero: che è necessario che non sia]. La formula della prima coppia (primo emistichio) propone l'opposizione tra affermazione e negazione: la traduzione, supponendo la dipendenza di ὅπως e ὡς da νοῆσαι («le uniche per pensare: l’una che pensa che …, l’altra che pensa che…») ovvero (come spesso si è fatto) da verba dicendi («l’una che dice che…, l’altra che dice che…»), non presenta particolari problemi di resa – a parte quelli (essenziali) già ricordati, relativi al soggetto inespresso e al valore da attribuire al verbo «essere». Nel caso della seconda coppia (secondo emistichio) si impongono invece difficoltà nella resa dal greco. Il greco οὐκ ἔστι può essere predicato verbale («non esiste», «non c’è»), ovvero, come può apparire naturale alla luce del corrispondente uso dell'espressione χρεών ἐστι («è necessario») in B2.5b, e della (comune) relazione con lo stesso infinito (μὴ εἶναι), può tradursi con epressione modale («non è possibile»). Se, in questo caso, seguendo Aubenque77, interpretiamo la formula modale οὐκ ἔστι come sinonima di ἀδύνατον (impossibile), traspare allora l’intenzione parmenidea di proporre l’alternativa in termini netti: nell’enunciare la tesi della prima via (l’affermazione «è»), Parmenide marca, indirettamente, la sua necessità sottolineando l’impossibilità della antitesi (la negazione «non è»). Quanto affermato nella tesi non può essere negato, non può rovesciarsi nella antitesi: nella argomentazione della Dea, l’affermazione è collegata strettamente alla posizione della necessità logica e della impossibilità logica78. Resa italiana in 77 P. Aubenque, "Syntaxe et Sémantique de l’Être dans le Poème de Parménide", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 109. 78 Ruggiu, op. cit., p. 218. 332 questo senso più efficace potrebbe essere: «è e non è possibile che non sia». A sua volta la formula della seconda via, οὐκ ἔστιν («non è»), vede accentuata la propria forza di negazione da un’espressione - χρεών ἐστι μὴ εἶναι – che ribadisce l’intensità della antitesi («è necessario che non sia»). L'enunciazione delle vie evidenzia, quindi, per un verso, la loro assolutezza, per altro la loro reciproca incompatibilità. Non si deve tuttavia perdere di vista il fatto che la Dea, nel mettere in guardia il κοῦρος rispetto alla seconda via, si riferisca a essa con l'espressione τό μὴ ἐὸν, stigmatizzando l’impossibilità di afferrarne e determinarne la negatività (οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», in cui spicca – come nel termine epico ἀμηχανίη - la strutturale impotenza)79. Le vie non hanno, quindi, una mera consistenza logica, ma finiscono per enucleare due distinte nozioni ontologiche. 79 Ivi., p. 220. 333 PENSARE ED ESSERE [B3] Il frammento (è proprio il caso di usare il termine) ha assunto nel corso dei secoli il valore di sintetica espressione dell’essenza della filosofia di Parmenide1: esito paradossale dell’elaborazione della tradizione, dal momento che, oggettivamente, esistono difficoltà per la sua contestualizzazione all’interno del poema, e dunque anche per la sua intellezione. A ciò si aggiunga che, da parte degli interpreti, sono talvolta considerati con sospetto contesto e cotesto delle testimonianze di Clemente2 e Plotino3, che citano il verso parmenideo: anzi, soprattutto a causa della citazione delle Enneadi, quella che appare la traduzione più naturale è stata spes- 1 Tarán, op. cit., p. 41. 2 Il contesto di Clemente riporta: Ἀριστοφάνης ἔφη· δύναται γὰρ ἴσον τῷ δρᾶν τὸ νοεῖν, καὶ πρὸ τούτου ὁ Ἐλεάτης Παρμενίδης· τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστί < ν > τε καὶ εἶναι Aristofane ha detto: «il pensare ha lo stesso potere dell'agire», e prima di lui Parmenide: [B3]. 3 Il contesto di Plotino (Enneadi V, I, 8) è il seguente: οὖν καὶ Παρμενίδης πρότερον τῆς τοιαύτης δόξης καθόσον εἰς ταὐτὸ συνῆγεν ὂν καὶ νοῦν, καὶ τὸ ὂν οὐκ ἐν τοῖς αἰσθητοῖς ἐτίθετο “τ ὸ γ ὰ ρ α ὐ τ ὸνο ε ῖ ν ἐ σ τ ί τ ε κ α ὶ ε ἶ ν α ι ” λέγων. Καὶ ἀ κ ί ν η τ ο ν δὲ λέγει τοῦτο - καίτοι προστιθεὶς τὸ νοεῖν - σωματικὴν πᾶσαν κίνησιν ἐξαίρων ἀπ’ αὐτοῦ, ἵνα μένῃ ὡσαύτως, καὶ ὄ γ κ ῳ σ φ α ί ρ α ς ἀπεικάζων, ὅτι πάντα ἔχει περιειλημμένα καὶ ὅτι τὸ νοεῖν οὐκ ἔξω, ἀλλ’ ἐν ἑαυτῷ Già Parmenide aveva in precedenza aderito a una opinione simile a questa, quando riconduceva a unità essere e pensiero, e non poneva l'essere nell'ambito delle cose sensibili, affermando: [B3]. E dice anche che è immobile, dal momento che – avendo aggiunto il pensare – gli toglie ogni movimento corporeo, affinché rimanga nell'identico stato, definendolo simile alla massa di una palla, in quanto raccoglie tutto in sé e il pensare non gli è esterno ma interno. 334 so rifiutata, a favore di altre meno immediate e più tormentate dal punto di vista grammaticale, in quanto si è intravisto il rischio di fare di Parmenide un neoplatonico ante litteram4. La collocazione Nel tentativo di offrire contesto e senso al frammento si è per lo più operato in due direzioni, che appaiono legittime: (i) ricondurlo a complemento di B2.7-8 5 e quindi proporlo a sostegno (γάρ) dell'indicazione secondo cui il non-essere non può essere né indicato né conosciuto6; (ii) proiettarlo verso B6.1-2 e B8.34-37, come in particolare oggi propone Cordero7, con argomenti convincenti. B3 e B2 Nel primo caso si insiste soprattutto sulla compatibilità metrica e logica8 con l’ultimo verso di B2: i termini coinvolti – νοεῖν e εἶναι – sono chiaramente correlati nella prospettazione delle due vie («le uniche per pensare»), mentre in B2.7 Parmenide utilizza l’espressione τό γε μὴ ἐὸν per indicare l’oggetto su cui andrebbe a vertere la seconda via: oggetto che non può essere conosciuto e indicato. B3, dunque, non farebbe che esplicitare il nesso identita- 4 O’Brien, op. cit., p. 19. D’altra parte il senso della citazione di Proclo (Theol. plat. I, 66) appare indiscutibile: ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι, φησὶν ὁ Παρμενίδης 5 Come fanno – più o meno decisamente – Giannantoni, Ruggiu, Coxon, Sellmer, Heitsch, Gallop, e, in passato, Calogero. Scettici Tarán, Conche, O’Brien. 6 Ruggiu, op. cit., p. 233. Secondo Calogero (p. 19), B3 andrebbe congiunto a B2.8, con l’aggiunta dι ὅσσα νοεῖς φάσθαι: si avrebbe così: «perché pensare è lo stesso che dire che quello che tu pensi esiste». 7 E a suo tempo propose Giorgio Colli. 8 Coxon (p. 180); Sellmer (p. 33); Gallop (p. 8). 335 rio tra εἶναι e νοεῖν: le relative nozioni si implicherebbero inscidibilmente9. Questa conclusione non è in discussione: essa appare effettivamente il perno della tesi di Parmenide anche in B6.1 e B8.34- 37, sebbene le traduzioni possano diversamente modulare la relazione tra i due termini. In discussione è, invece, il fatto che l’impossibilità di afferrare il nulla (B2.7-8) abbia bisogno della dimostrazione introdotta da γάρ (B3): non è immediatamente chiaro che nel nulla non c’è nulla da conoscere, concepire, pensare10? D’altra parte, l’implicazione tra essere e pensare non sembra, a sua volta, aver bisogno della mediazione di un argomento: è stato giustamente osservato come, nell’uso greco arcaico, il verbo νοεῖν non veicolasse la possibilità di immaginare qualcosa di non esistente, denotando fondamentalmente un atto di riconoscimento immediato11. Concepito in analogia con la percezione sensibile, νοεῖν comportava nell’uso che si pensasse appunto qualcosa di dato indipendentemente dall'attività stessa del pensare, e che il rapporto con l’oggetto fosse del tutto immediato, una sorta di contatto con esso12. È possibile che la Dea, in B2.7, si limiti a rilevare come τό μὴ ἐὸν non possa essere conosciuto, osservando semplicemente: οὐ γὰρ ἀνυστόν, «non è infatti cosa fattibile», quasi a richiamare un'evidenza, per cui non è necessario ulteriore argomento. A questo corrisponderebbe il rilievo di B3, secondo cui εἶναι si identifica con νοεῖν: leggendo in continuità i due frammenti, non dovremmo riconoscere alla congiunzione γάρ un valore esplicativo, piuttosto intenderne nel contesto la presenza a conferma della tesi di fondo. Dovremmo inoltre, in traduzione, attribuire a νοεῖν non il generico significato di «pensare», ma, come suggerito da vari interpreti, quello specifico di «conoscere» o «comprendere» («capire»13, «Erkennen» 14, «Erfassen» 15 o ancora, più debolmente, 9 Heitsch, op. cit., p. 144. 10 Conche, op. cit., p. 87. 11 Guthrie, op. cit., pp. 17-8. 12 Leszl, op. cit., p. 67. 13 Cerri. 336 «conceiving»16). L’uso arcaico di νοεῖν evoca effettivamente funzioni analoghe a quelle del verbo γιγνώσκω (normalmente tradotto con «conoscere»), sebbene suggerisca in primo luogo il riconoscimento, la capacità di penetrazione intellettuale17. B3, B6.1 e B8.34-7 Anche Cordero ammette che in B2 si stabilisca una relazione tra un oggetto (l’essere), il pensare quell’oggetto e l’esprimerlo in un discorso: i versi B2.7-8 mirerebbero a marcare il carattere assoluto e necessario di tale oggetto, essendo la sua negazione impossibile. Come conseguenza, pensare e parlare non possono fare a meno di questo oggetto18. Ma per lo studioso è rilevante la connessione con B6.1, inteso a dimostrare la necessità di quella relazione: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι·(B6.1a) è necessario dire e pensare che – essendo - è 19; e soprattutto B8.34-7, in cui Parmenide attribuirebbe al pensiero una sola causa20: il fatto d'essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. oὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐφ’ [invece di ἐν] ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν·(B8.34-36a) pensare e ciò a causa del quale c’è il pensiero sono la stessa cosa dal momento che senza l'essere, grazie a 21 cui è espresso, 14 Heitsch. 15 Sellmer. 16 Coxon. 17 Leszl, op. cit., p. 68. 18 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 83. 19 Usiamo, traducendo in italiano, la versione dello stesso Cordero. 20 Come si vedrà, noi interpretiamo il passo in modo diverso. 21 Cordero utilizza la versione ἐφ’ (invece di ἐν), unanimente attestata nei manoscritti di Proclo. 337 non troverai il pensare22. Cordero osserva come nei due versi successivi si precisi che «senza l'essere (τὸ ἐόν) […] non troverai il pensare», ciò comportando che τὸ ἐόν designi sinteticamente quanto introdotto come οὕνεκεν ἔστι νόημα («ciò a causa del quale c’è il pensiero»). Senza τὸ ἐόν, νοεῖν risulta privo di fondamento, poiché (γάρ), come osserva Parmenide, c’è solo «l'essere» (B8.36-7)23: οὐδ΄ ἦν γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος Né, infatti, esiste, né esisterà altro oltre all’essere. È chiaro come ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν (B8.34) equivalga a τὸ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν (B3) e quindi è plausibile che τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα (B8.34) articoli la formula più secca τε καὶ εἶναι (B3). In forza di questo accostamento, difficile sostenere l’interpretazione idealistica che vorrebbe l’essere dipendente dal pensiero: «senza l'essere» (ἄνευ τοῦ ἐόντος), il pensiero non esiste; ovvero, positivamente, esso esiste solo quando esprime qualcosa su ciò che è24. Da B2 a B3 Mantenendo aperte le due prospettive e dunque collocando B3 concettualmente tra B2, B6 e B8, il frammento andrebbe tematicamente inquadrato tra l’esclusione della concreta possibilità di riferirsi al nulla nel pensiero e nel discorso (quindi della via «che non è»), la conseguente affermazione della via alternativa alla precedente («che è»), e l’esplicitazione delle sue implicazioni per il pensiero e il linguaggio. L’estrapolazione non consente di stabilire se B3 fosse effettivamente parte di un argomento ovvero, come sopra abbiamo prospettato, semplice precisazione a sostegno della tesi di B2. Certamente in B8 l’implicazione tra pensiero 22 Come per B6.1, traduciamo il testo di Cordero. 23 Cordero, By Being, It Is, cit., p. 85. 24 Ivi, pp. 88-9. 338 (νοεῖν, con il suo specifico valore conoscitivo) e essere è inserita in una cornice argomentativa. Un elemento testuale deve far riflettere l’interprete: Clemente, Plotino e Proclo citano B3 senza collegarlo in alcun modo a B225. In altre parole, le tre fonti del frammento vi leggono l’asserzione dell’identità di pensare (o conoscere) ed essere, indipendentemente dalla discussione sulle «vie di ricerca»26. Plotino, in particolare, mostra di intendere B3 chiaramente nell’orizzonte di B8, insistendo sulla riduzione a unità di pensiero ed essere e sulla posizione dell’essere al di fuori del campo sensibile («non poneva l’essere nell’ambito delle cose sensibili»), e parafrasando in tal senso proprio B8. Le ricostruzioni peripatetiche (Teofrasto e Eudemo) del logos di Parmenide (secondo Simplicio che riferisce in proposito la testimonianza di Alessandro di Afrodisia) fanno tuttavia intravedere il nesso tra B2 e B3: τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν· τὸ οὐκ ὂν οὐδέν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ciò che non è, è nulla; dunque, l’essere è uno (Teofrasto; DK 28 A28) τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὄν, ἀλλὰ καὶ μοναχῶς λέγεται τὸ ὄν· ἓν ἄρα τὸ ὄν ciò che è oltre l’essere, non è; ma l’essere si dice in un solo senso, dunque l’essere è uno (Eudemo; DK 28 A28). Nel citare i versi 3-8 di B2, Simplicio precisa che essi contengono le «premesse» (προτάσεις) del discorso di Parmenide: εἰ δέ τις ἐπιθυμεῖ καὶ αὐτοῦ τοῦ Παρμενίδου ταύτας λέγοντος ἀκοῦσαι τὰς προτάσεις, τὴν μὲν τὸ παρὰ τὸ ὂν οὐκ ὂν καὶ οὐδὲν λέγουσαν, ἥτις ἡ αὐτή ἐστι τῆι τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, εὑρήσει ἐν ἐκείνοις τοῖς ἔπεσιν 25 Un punto richiamato da Mansfeld, op. cit., p. 73. 26 Coxon, op. cit., p. 179. 339 Se invece qualcuno desidera ascoltare da Parmenide stesso queste premesse, quella che dice che ciò che è oltre l’essere non è ed è nulla, che è la stessa di quella che dice che l’essere si dice in un modo solo, le troverà in questi versi [B2.3-8]. Significativamente Diels annota che B3 si connette a questo: in effetti, l’espressione peripatetica τὸ ὂν μοναχῶς λέγεσθαι, che chiaramente Eudemo propone come premessa del sillogismo27, comporta la determinazione dell’essere come κατὰ τὸν λόγον ἕν («uno secondo il concetto»), versione aristotelica di B3. Come rilevato da Mansfeld28, l’unità concettuale dell’essere funge logicamente da assioma nella ricostruzione peripatetica di B2: un assioma indipendente, implicito, che Aristotele non introduce formalmente nella sua ricostruzione: Παρμενίδης μὲν γὰρ ἔοικε τοῦ κατὰ τὸν λόγον ἑνὸς ἅπτεσθαι […] παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν Parmenide sembra aver inteso l’uno secondo la forma (il concetto) […] Poiché egli ritiene che oltre l’essere non ci sia affatto il non essere, necessariamente deve credere che l’essere sia uno e null’altro (Aristotele, Metafisica I, 5 986 b18, 986 b27; DK 28 A24). La congettura adottata da Mansfeld, per giustificare a un tempo l’uso implicito di B3 come assioma nella tradizione peripatetica, e la sua autonomia da B2 attestata dalla tradizione neoplatonica, è quella di proporlo come modificazione della conclusione dell’argomento di B2, per noi solo implicita29: solo l’essere (ciò che è) vi è allora per pensare e dire. 27 Mansfeld, op. cit., pp. 78-9. 28 Ivi, p. 73. 29 Ivi, pp. 82-4. 340 Solo l’essere può essere oggetto per pensare: con τὸ ἐόν Parmenide avrebbe introdotto qualcosa che manca nella enunciazione della prima premessa (la prima via) del sillogismo di B2 (la cui conclusione, quindi, avrebbe dovuto essere: «solo la prima via – che è e che non è possibile non essere – è per pensare»). L’introduzione del soggetto τὸ ἐόν sarebbe giustificata proprio da B3: nel testo tradito di B2 ci si limita a rilevare l’impossibilità («non è infatti cosa fattibile») di procedere lungo la seconda via, designata dalla espressione τό γε μὴ ἐὸν; B3 potrebbe rinviare immediatamente – come precisazione - alla conclusione formale, in cui essere e pensiero sarebbero stati esplicitamente correlati. La Dea allora sottolineerebbe in B3 quella che dal suo punto di vista è una evidenza: l’identità di essere e pensiero (vi ritornerà in B8.34 ss. con una più articolata riflessione). Essere e pensare Nella nostra traduzione abbiamo scelto di mantenere la struttura sintattica più naturale del verso greco, cercando, allo stesso tempo, di preservarne l’ambiguità: la Dea di Parmenide didascalicamente reitererebbe, in positivo, l’implicito (nei nostri frammenti) risultato dell’argomento delineato in B2: (i) da un lato per marcare il nesso tra νοεῖν e εἶναι e la sua natura intellettuale - così preparando la nota discriminante rispetto all’ἔθος πολύπειρον, all'«abitudine alle molte esperienze» (B7.3); (ii) dall’altro per richiamare l’attenzione del κοῦρος sul contenuto della prima via (altrimenti espresso con ἐόν ovvero τὸ ἐόν). Il pensare è introdotto in B2 come esercizio avulso da riscontri empirici; un’attività in cui si è semplicemente chiamati a riconoscere un'evidenza: che – pur considerando la possibile alternativa – per pensare e conoscere la verità c’è una sola via da percorrere. Nello stesso tempo, l’identità affermata in B3 sottolinea lo stretto rapporto tra il percorso (la sola «via di ricerca» che effettivamente è possibile seguire) e il suo esito: la via è in qualche modo impo- 341 sta dalla realtà stessa (cui si allude forse con l'infinito εἶναι). La via (o il metodo) è concepita come la via del discorso (λόγος) che ha l’essere (ovvero la realtà) come contenuto30. Quale identità? Nel suo commento Cerri 31 ha segnalato, nell'identificazione dei due verbi, «stranezza apparente» e «sinteticità paradossale»: νοεῖν, infatti, evidenzia un atto della mente (che viene reso come «capire»), εἶναι uno stato delle cose. L’atto intellettivo sarebbe dunque solo l’aspetto soggettivo dell’identità tra due cose (esse sembrano diverse, essendo in realtà la stessa cosa); quell’ identità, invece, l’aspetto oggettivo dell’atto intellettivo. Ruggiu32 sottolinea, da un lato, l’aspetto linguistico dell’identità, la connessione immediata tra termini nel linguaggio ordinario non considerati identici; dall’altro l’aspetto che potremmo definire “dialettico” della relazione: l’identità è anche distinzione e si costituisce come rapporto di reciproca implicazione. Thanassas, infine, rileva come l’identità tra essere e pensiero non sia da intendere in senso matematico: il testo greco con τε καὶ suggerisce un’interazione, una «mutua connessione e reciproca referenza». Nessun pensare senza essere, nessun essere senza pensare33. Dall’incrocio con B2, B6 e B8 abbiamo ricavato segnali abbastanza definiti circa la relazione cui allude la sintetica formula del frammento: (i) rilevata l’impossibilità di percorrere un corno della disgiunzione tra le vie («è e non è possibile non essere - non è ed è necessario non essere»), in quanto non si può conoscere (γιγνώσκειν) né indicare (φράζειν) «ciò che non è», e (ii) probabilmente integrato il rilievo con la necessaria conclusione positiva circa la effettiva praticabilità della via alternativa (conoscere e indicare ἐόν, «ciò che è»), la Dea (iii) estrae quella che nella sua ot- 30 Leszl, op. cit., p. 64. 31 Op. cit., p.193. 32 Op. cit., pp. 233 ss.. 33 Thanassas, op. cit., p. 39. 342 tica è un’evidenza basilare, implicita nella impostazione di B2, espressa in termini astratti, generali, con due infiniti. Il verbo νοεῖν non è più assunto a designare genericamente un'operazione intellettuale, ma connotato specificamente per veicolare un atto di riconoscimento (che riassuma sostanzialmente lo spettro degli altri due verbi, γιγνώσκειν e φράζειν); εἶναι, impiegato per denotare quanto si ritrova, come suo oggetto necessario, al fondo di un pensare che sia riconoscere-esprimere-indicare: il fatto d’essere. Ma nell’identità accennata da τὸ αὐτό, la Dea non si riferisce semplicemente alla connessione tra pensare e essere, ma soprattutto alla reciproca implicazione: non solo il pensiero deve avere come oggetto ciò che è, ma l’essere deve essere espresso, manifestato nel pensiero. In apertura di una comunicazione di verità, questa osservazione è capitale: pur prospettato (più avanti, in B8.34) come «causa del pensiero» (Cordero), l’essere deve svolgersi completamente davanti al pensiero34, deve essere pensabile (il che non comporta che dipenda dal pensiero). Dal punto di vista della Dea, almeno, nulla, di diritto, sfugge al pensiero: il sapere che la Dea comunica al filosofo (e di cui questi è tramite rispetto ai propri discepoli e al pubblico di ascoltatori\lettori) è un sapere assoluto35. Ancora su pensare e essere Abbiamo insistito, nel commentare il frammento, sul rilievo della sua collocazione per una corretta attribuzione di significato; in particolare, proponendolo come sentenza con cui la Dea, ellitticamente, svela un principio fondamentale della sua rivelazione, dell’esposizione della Verità. B3 è l’occasione per interrogarsi sul valore di νοεῖν e εἶναι. Abbiamo già colto indicazioni in tal senso: ipotizzando la prossimità testuale e logica di B2 e B3, abbiamo determinato il campo semantico di νοεῖν in relazione a γιγνώσκειν e φράζειν, in- 34 Conche, op. cit., p. 90. 35 Ibidem 343 tendendolo come atto di riconoscimento immediato; in εἶναι abbiamo individuato la forma verbale con cui Parmenide esprime l’evidenza presupposta per ogni attività di pensiero: quanto possiamo indicare come «essere» ovvero il fatto di esistere. Una certa tensione sussiste tra B2 e B3 riguardo al valore di νοεῖν. Mentre in apertura della propria comunicazione la Dea salda l’alternativa delle «vie di ricerca» a νοεῖν (esse, ribadiamolo, sono «le uniche per pensare»), dunque collegando al verbo non solo la via positiva, ma anche quella negativa - non solo quella che avrà il proprio soggetto in τὸ ἐόν (B8.32), ma anche quella che (non) lo trova (B2.7) in τό γε μὴ ἐὸν -, nella formula sintetica del nostro frammento il pensare sembra vincolato all’essere, addirittura si afferma che pensare ed essere sono la stessa cosa. In che senso, allora, è possibile sostenere la relazione tra νοεῖν e la via: «che non è»? Abbiamo già osservato in sede di traduzione come i curatori delle edizioni dei frammenti abbiano spesso optato per determinare νοεῖν in modo da evitare di renderlo genericamente come «pensare»; ma non è facile aggirare la difficoltà, a meno di non decidere di mantenere il valore generico in B2.2 e introdurne uno specifico (comprendere, capire) in B3. Operazione legittima ma un po’ forzata. Secondo Leszl 36, invece, B2.2 presenterebbe νοεῖν come atto puramente intellettuale (implicitamente da contrapporre all’immediatezza del riscontro sensibile), che coglie l’alternativa delle vie in quanto possibilità del tutto astratte. Tale atto, tuttavia, sarebbe in ultima analisi riconducibile a un caso di intellezione immediata dell’oggetto, consistendo di fatto nel riconoscimento (intuitivo) della validità del principio del terzo escluso. In attesa di trovar sottolineato in B4 un ulteriore, essenziale carattere della facoltà indicata come νοεῖν - la capacità di rendere presente qualcosa che può essere lontano nello spazio e nel tempo -, possiamo provvisoriamente concludere che: 36 Op. cit., p. 69. Leszl intende B2.2 (αἵπερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι) come «quali sono le vie di ricerca, le uniche che sono da pensare», quindi attribuendo a noēsai valore passivo. 344 (i) νοεῖν è inizialmente introdotto in relazione alle «due vie di ricerca», come loro finalizzazione («le uniche per pensare») - evidentemente designando un atto di comprensione che dà senso all’indagine -, ovvero, intendendo diversamente il testo greco, come loro condizione di possibilità («le uniche da pensare\pensabili»), quindi accentuandone il significato logico; (ii) νοεῖν – pur non ancora esplicitamente contrapposto ai sensi – riceve una connotazione metaempirica: le vie sono «per pensare», non sono fatte per essere esperite percettivamente; νοεῖν è in grado di evidenziare quanto celato o sfocato nella percezione; (iii) νοεῖν è dunque attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, nel nostro contesto probabilmente oltre la complessità dei dati empirici, per ridurli al loro essenziale, al loro comune denominatore (fondamento) ontologico: nello specifico, il fatto d’essere (condizione del pensare stesso) e la nozione (opposta) di τό μὴ ἐὸν. In questo senso è giusto designarne la facoltà come «penetrazione intellettuale»37. D’altra parte νοεῖν è costantemente riscontrato su εἶναι o termini connessi: le vie sono determinate come «l’una che è (e che non è possibile non essere)», «l’altra che non è (e che è necessario non essere)»; l’oggetto della seconda è ulteriormente ripreso come «ciò che non è»; attraverso la formula τὸ αὐτὸ ἐστίν, νοεῖν è sovrapposto a εἶναι. All’acume e intelligenza di sguardo del νοεῖν corrispondono dunque la profondità e comprensione della nozione di εἶναι, che appare designare, nel contesto, analogamente al termine Ἀληθείη, ciò che genericamente indicheremmo come «la realtà», ciò che accomuna le cose che sono. Nell’uso quotidiano «essere» è sempre oscurato da questa o quella cosa, sempre presupposto in ogni possibile predicazione («è»): il νοεῖν riconosce come proprio oggetto specifico e condizione appunto questo presupposto, questa realtà. 37 Ivi, p. 68. 345 ENTI ED ESSERE [B4] Conservatoci nella sua interezza dalla sola citazione di Clemente di Alessandria, il frammento ha sempre costituito una croce per gli interpreti, divisi sul problema della sua collocazione assoluta e relativa: incerti riguardo alla sua appartenenza alla prima o alla seconda sezione del poema e (ulteriormente) alla sua posizione e funzione all’interno di esse. In proposito abbiamo due proposte estreme: (a) Diels, nella sua edizione del 1897, presentava il nostro testo come primo frammento della prima sezione, collocandolo subito dopo il Proemio (che in quella edizione, tuttavia, includeva anche B7.2-6); (b) Bicknell1 e Hölscher2, al contrario, lo hanno considerato conclusione dell’opera (collocandolo, quindi, dopo B19)3, quindi nella seconda sezione. Possiamo considerare intermedie tutte le altre proposte, variamente schierate, che fanno registrare convergenze su un punto da valorizzare, anche perché potrebbe spiegare la oggettiva difficoltà degli interpreti: il ruolo di cerniera di B4. Secondo Ruggiu, per esempio, esso collegherebbe i contenuti propri dell’Opinione (τὰ δοκοῦντα), al tema primario della Verità (τὸ ἐόν), marcando il radicamento del molteplice nell’Essere4. Che cosa rende di così difficile contestualizzazione, all’interno del poema, i versi del frammento? Che cosa contribuisce al disorientamento degli interpreti – arrivati con Fränkel a negare piena intelligibilità a B4? Si possono agevolmente individuare tre questioni: 1 P.J. Bicknell, “Parmenides' Refutation of Motion and an Implication”, «Phronesis», 1, 1967, pp. 1-6. 2 U. Hölscher, Parmenides von Wesen des Seienden. Die Fragmente, Frankfurt a.M. 1969. 3 In questo sono stati seguiti anche da L. Couloubaritsis (Mythe et Philosophie chez Parménide, Ousia, Bruxelles 1986), il quale, tuttavia, nell'ultima edizione della sua opera (La Pensée de Parménide, Ousia, Bruxelles 2008), ha optato per un inserimento all'interno di B8 (tra i vv. 41 e 42). 4 Op. cit., p. 245. 346 (i) il ruolo del νόος e la probabile valenza gnoseologica del frammento; (ii) il nesso tra ἀπεόντα - παρεόντα e τὸ ἐόν (vv. 1-2) e l’ulteriore implicazione tra gnoseologia e ontologia; (iii) i possibili riferimenti cosmogonici e relativi obiettivi polemici (vv. 3-4). Il noos e il suo operare Per decidere del significato del frammento è importante il contesto della citazione di Clemente Alessandrino (V, 15): ἀλλὰ καὶ Π. ἐν τῶι αὑτοῦ ποιήματι περὶ τῆς ἐλπίδος αἰνισσόμενος τὰ τοιαῦτα λέγει· [B4], ἐπεὶ καὶ ὁ ἐλπίζων καθάπερ ὁ πιστεύων τῶι νῶι ὁρᾶι τὰ νοητὰ καὶ τὰ μέλλοντα. εἰ τοίνυν φαμέν τι εἶναι δίκαιον, φαμὲν δὲ καὶ καλόν, ἀλλὰ καὶ ἀλήθειάν τι λέγομεν· οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι. Ma anche Parmenide, nel suo poema, alludendo alla speranza, sostiene cose di questo genere: [citazione], in quanto anche colui che spera, come colui che ha fede, con il pensiero vede le cose intelligibili e quelle a venire. Se ora affermiamo che c'è qualcosa di giusto, diciamo anche che c'è qualcosa di bello, ma anche che c'è qualcosa di vero: nessuna di queste cose, tuttavia, mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. L’autore alessandrino sottolinea come quel che Parmenide afferma in B4 alluda enigmaticamente (questo il senso del verbo αἰνίσσομαι: adombrare, alludere per enigmi) alla ἔλπις (e alla πίστις) cristiana: il saper rappresentare (rendere presente) il futuro da parte dell’intelligenza (νόος). In questo senso, Parmenide riconoscerebbe al νόος la capacità di rendere presenti enti assenti e 347 lontani 5. La prospettiva appare certamente gnoseologica, investendo una facoltà cognitiva che Clemente decisamente caratterizza rispetto all’organo di senso: un «vedere» (εἴδομεν) «con il pensiero» (τῶι νῶι) contrapposto (con l’avversativa) al vedere «con gli occhi» (τοῖς ὀφθαλμοῖς). Ad accentuare l’opposizione troviamo anche l’indicazione di oggetti specifici (τὰ νοητὰ) per l’intelligenza, diversi (significativo l’accostamento a τὰ μέλλοντα, «le cose a venire») da quelli immediatamente colti sensibilmente: si osserva, infatti: οὐδὲν δὲ πώποτε τῶν τοιούτων τοῖς ὀφθαλμοῖς εἴδομεν, ἀλλ’ ἢ μόνωι τῶι νῶι nessuna di queste cose mai vediamo con gli occhi, ma solo con il pensiero. Cose assenti presenti Ora, se passiamo alla citazione, possiamo effettivamente intravedere la ragione del suo recupero da parte di Clemente: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1). La Dea, che ha la parola, invita il κοῦρος a osservare e prendere in considerazione come «cose assenti (o lontane)» (ἀπεόντα) possano risultare «al pensiero» (νόῳ) a un tempo «presenti (o prossime)» (παρεόντα). Precisando ulteriormente: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι non impedirai, infatti che l'essere sia connesso all'essere (B4.2). 5 Per l’analisi della testimonianza di Clemente è essenziale e convincente il contributo di C. Viola, “Aux origines de la gnoséologie: Réflexions sur le sens du fr. IV du Poéme de Parménide », in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 69-101. 348 È chiaro come la possibilità di pensare (rappresentare) cose assenti o lontane come presenti o prossime passi attraverso la consapevolezza dell’omogeneità di τὸ ἐόν: il νόος raccoglie e supera, nella omogeneità di τὸ ἐόν, le differenze che si impongono sul piano empirico. Il νόος, in questo modo, si impone come uno sguardo altro rispetto a quello dei sensi, in grado di superarne le discriminazioni alla luce di una realtà che solo l’intelligenza stessa dischiude. È indicativo il fatto che Parmenide scelga un verbo – λεῦσσω – etimologicamente legato a λευκός (nel linguaggio omerico «chiaro», «limpido»), che porta con sé dunque l’idea di chiarezza, luminosità, trasparenza6. Un verbo che può essere direttamente messo in relazione con νόος (νόῳ), per assumere il valore di «chiarire con il pensiero [l'intelligenza]». I primi due versi di B4, quindi, si prestano alla curvatura gnoseologica che il contesto della citazione di Clemente implica, senza tuttavia comportarne necessariamente le opposizioni; senza imporre, in particolare, l’opposizione tra due inconciliabili visioni, sensibile e spirituale, come ha correttamente rilevato la Stemich, sottolineando come in λεῦσσε νόῳ siano a un tempo coinvolti entrambi gli elementi 7. Possiamo inoltre marcare come il frammento non autorizzi a retroiettare in Parmenide una teoria dei due mondi (sensibile e intelligibile, ovvero presente e futuro), ma semplicemente registri due distinte modalità di guardare alla realtà: l’immediato sguardo sensibile e la più accorta considerazione dell’intelligenza, che ne supera le contraddizioni. Con il risultato (che traspare in B4.1-2) di offrire, della stessa realtà, due prospettive, una soggetta a distorsioni, l’altra corretta (che nell’economia del poema sono accentuate come «opinioni dei mortali» e «Verità»). È nostra convinzione (che presuppone una complessiva interpretazione del pensiero di Parmenide) che proprio da questo frammento possano ricavarsi preziose indicazioni riguardo alla capacità dell’intelligenza di superare la frammentazione del dato 6 Viola, op. cit., p. 80. 7 Stemich, op. cit., p. 178. 349 empirico, raccogliendone pluralità e differenze nella unità e compattezza dell’Essere. L’uso del plurale ἀπεόντα-παρεόντα, quindi del singolare τὸ ἐόν, segnalerebbe appunto come ἀπεόνταπαρεόντα siano (-εόντα), in quanto τὸ ἐόν mantiene l’unità e la compattezza (nell’Essere) di tutti i suoi momenti8. Elementi che puntano in direzione della seconda sezione del poema. I due versi iniziali autorizzano, dunque, ad associare a νόος (e νοεῖν) due distinte ma coordinate operazioni: (i) superare i vincoli spazio-temporali “presentificando” la pluralità dispersa (spazio-temporalmente), rappresentando presenti «cose assenti»; (ii) cogliere la loro connessione (veicolata dal verbo ἔχεσθαι) in τὸ ἐόν (ovvero il fatto che τὸ ἐόν è connesso a τὸ ἐόν). La seconda operazione è propriamente “ontologica”, nel senso che riconosce e traduce in termini di τὸ ἐόν la molteplicità espressa nei due plurali del primo verso (ἀπεόντα-παρεόντα): la si è voluta leggere anche come un portare le cose lontane-assenti alla presenza dell’essere9. Lo spessore gnoseologico (ed epistemologico) del passaggio consiste nel fatto che l’oggetto (τὸ ἐόν) cui il νόος è riferito, direttamente10 o indirettamente11, è diverso dagli oggetti molteplici ai sensi (senza tuttavia trasformarsi in una entità che neghi la molteplicità del mondo12): li abbraccia e li raccoglie interamente, senza dislocarsi su un piano di realtà altro. Come nota puntualmente Leszl, ciò fa di νοεῖν un’attività che si spinge oltre l’immediato sensibile, rendendo presente l’assente, senza la sua preliminare evidenza percettiva: un pensare del tutto intellettuale, che ha per oggetto qualcosa che si impone 8 Ruggiu, op. cit., p. 241. 9 Couloubaritsis, Mythe et Philosophie, cit., p. 336. 10 Se accettiamo che ἀποτμήξει sia terza persona singolare dell’indicativo futuro, con νόος appunto soggetto sottinteso del verbo. 11 Nel caso si legga (come facciamo noi, ma di recente anche Palmer e Tonelli) lo stesso verbo in seconda persona singolare futuro indicativo medio, e la Dea quindi si limiti a esortare il κοῦρος a non ostacolare la connessione di τὸ ἐόν. 12 Thanassas, op. cit., p. 43. 350 all’intelligenza13. Non deve però essere trascurato un aspetto del passaggio: il movimento dalla assenza alla presenza rivela che l’uomo è comunque radicato nel mondo, legato allo spazio\tempo14. Così, nel contesto di un discorso che verte sulle «vie di ricerca», che focalizza il «percorso di Persuasione» (Πειθοῦς κέλευθος), non può sfuggire il fatto che il νόος sia connotato dinamicamente, attraverso quel movimento, che porta con sé anche la potenzialità del suo errare15: la sua conoscenza è esposta alla distorsione. È possibile che l’operare del νόος riceva ulteriore significazione dall’accostamento a λεῦσσω, che Omero utilizzava per indicare la capacità di considerare simultaneamente passato e avvenire per comprendere il presente 16. Una capacità associata alla maturità dell’anziano, al suo discernimento rispetto alla precipitazione dei giovani, e che nel poema potrebbe avere un riscontro nella relazione didascalica tra θεά e κοῦρος. «…saldamente presenti» Ritornando sull’apertura di B4, è chiaro che l’uso dell’avverbio βεϐαίως (saldamente) nel primo verso, e l’intero contenuto del secondo contribuiscono a determinare νόος come un pensiero che conduce alla continuità e stabilità dell’essere: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l'essere [ciò che è] sia connesso all'essere (B4.1-2). 13 Op. cit., p. 68. 14 Couloubaritsis, op. cit., p. 340. 15 Viola, op. cit., pp. 94-5. 16 Couloubaritsis, op. cit., pp. 336-7. 351 Effetto dell’operare del νόος è la solidità della connessione degli enti (-εόντα), al di là delle loro coordinate spazio-temporali, e il riconoscimento del loro comune denominatore nell’Essere (τὸ ἐόν). Più precisamente: il νόος è quello sguardo che, da una parte, illumina e unifica ἀπεόντα e παρεόντα (nell’ἐόν), dall’altra si vieta di introdurre discriminazioni (spazio-temporali) in τὸ ἐόν 17. Alla luce di B3, esso aderisce completamente all’ἐόν: l’avverbio βεϐαίως veicolerebbe allora l’idea di stabilità, costanza, caratteristica dell’oggetto (τὸ ἐόν, appunto), ma suggerirebbe pure qualcosa circa l’atteggiamento di chi è sulla strada della verità: la certezza e affidabilità (ricordiamo ἀτρεμὲς ἦτορ di B1.29) di un modo di vedere, corrispondente a un modo d’essere; a un νόος saldo e pieno di fiducia18. Dal momento che manca una specifica argomentazione a sostegno della affermazione di B4.2, alcuni interpreti (Kirk-Raven, West, Gallop) hanno messo in relazione B4 con B8.22-5: οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. Τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Questa indicazione, concettualmente apprezzabile, non comporta inevitabilmente una presa di posizione sulla collocazione del frammento nel complesso del poema. Non implica, in altre parole, necessariamente la dipendenza di B4 da B8 e dunque a una sua dislocazione nella sezione sulla Doxa (o addirittura all’interno dello stesso B8, dopo i versi 22-5). Forse, accettandone le impli- 17 Viola, op. cit., p. 100. 18 Robbiano, op. cit., p. 130. 352 cazioni cosmologiche, la funzione di B4 potrebbe essere stata prolettica, nella introduzione del discorso della Dea, che poi B8 avrebbe articolato e precisato. È significativo che nella sua prima edizione del poema (1897), come abbiamo sopra ricordato, Diels proponesse l’attuale B4 come B2, dunque all’inizio sostanzialmente della prolusione divina. Rimane comunque l'impressione che il frammento possa aver svolto, nell'economia dell'esposizione divina, un ufficio di raccordo, tra le due sezioni, analogamente a B9. In alternativa, valutando soprattutto il contesto della citazione di Clemente e la sua intenzione di marcare la differenza tra visione percettiva e visione spirituale, e convenendo con Coxon19 che Parmenide non sia in questo frammento interessato alla natura dell’Essere (la cui indivisibilità sarà argomentata proprio in B8.22-5), ma alla natura del νόος come capacità intellettuale, potremmo ipotizzare il posizionamento di B4 in relazione ai rilievi di B6 e B7 sui rischi della «abitudine alle molte esperienze» (ἔθος πολύπειρον). L’espressione kata kosmon e le implicazioni cosmologiche Sono comunque gli ultimi due versi (3-4) del frammento a rappresentare il maggior cruccio per gli interpreti, soprattutto per la determinazione del valore del greco κατὰ κόσμον e del senso della dinamica imperniata intorno ai due participi σκιδνάμενον e συνιστάμενον, che indicano dispersione e raccoglimento. Essi sono riferiti immediatamente a τὸ ἐόν, della cui connessione interna (rilevata dal νόος) costituiscono una alternativa: οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον 19 Op. cit., p. 187. 353 non impedirai, infatti, che l'essere sia connesso all'essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi (B4.2-4). Parmenide si limita a stigmatizzare la prospettiva di un moto – ordinato (conforme a un ordine) - di disseminazione e concentrazione degli enti, quale potrebbe essere rappresentato dalle cosmogonie ioniche, ovvero, più specificamente si riferisce a un modello, intenzionalmente impiegando il termine κόσμος per designare l’assetto complessivo della realtà? Il noos e il cosmo Che egli possa aver imboccato – tra i primi - questa seconda direzione, è suggerito dai passi paralleli - segnalati dagli editori - in Empedocle (B17.18-21; riferimento già in Clemente) e Anassagora (B8), in cui la dimensione cosmologica è indiscutibilmente centrale, implicando un’ontologia influenzata da Parmenide: πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γαῖα καὶ ἠέρος ἄπλετον ὕψος, Νεῖκός τ’ οὐλόμενον δίχα τῶν, ἀτάλαντον ἁπάντηι, καὶ Φιλότης ἐν τοῖσιν, ἴση μῆκός τε πλάτος τε· τὴν σὺ νόωι δέρκευ, μηδ’ ὄμμασιν ἧσο τεθηπώς Fuoco e Acqua e Terra e l’altezza immensa dell’Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Osservala con l’intelligenza, non restare con sguardo stupito (Empedocle; DK 31 B17.18-21). οὐ κεχώρισται ἀλλήλων τὰ ἐν τῶι ἑνὶ κόσμωι οὐδὲ ἀποκέκοπται πελέκει οὔτε τὸ θερμὸν ἀπὸ τοῦ ψυχροῦ οὔτε τὸ ψυχρὸν ἀπὸ τοῦ θερμοῦ Nell’unico universo non si trovano separate le cose, le une dalle altre, e non risultano tagliati a scure né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo (Anassagora; DK 59 B8). 354 Nel suo commento a B4, Cerri ha invece richiamato l’attenzione sulla pagina iniziale del trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele (ma più probabilmente di autore genericamente peripatetico20), che contiene passaggi che sembrano effettivamente riecheggiare i versi parmenidei: Πολλάκις μὲν ἔμοιγε θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον ὄντως χρῆμα, ὦ Ἀλέξανδρε, ἡ φιλοσοφία ἔδοξεν εἶναι, μάλιστα δὲ ἐν οἷς μόνη διαραμένη πρὸς τὴν τῶν ὄντων θέαν ἐσπούδασε γνῶναι τὴν ἐν αὐτοῖς ἀλήθειαν, καὶ τῶν ἄλλων ταύτης ἀποστάντων διὰ τὸ ὕψος καὶ τὸ μέγεθος, αὕτη τὸ πρᾶγμα οὐκ ἔδεισεν οὐδ’ αὑτὴν τῶν καλλίστων ἀπηξίωσεν, ἀλλὰ καὶ συγγενεστάτην ἑαυτῇ καὶ μάλιστα πρέπουσαν ἐνόμισεν εἶναι τὴν ἐκείνων μάθησιν. Ἐπειδὴ γὰρ οὐχ οἷόν τε ἦν τῷ σώματι εἰς τὸν οὐράνιον ἀφικέσθαι τόπον καὶ τὴν γῆν ἐκλιπόντα τὸν ἱερὸν ἐκεῖνον χῶρον κατοπτεῦσαι, καθάπερ οἱ ἀνόητοί ποτε ἐπενόουν Ἀλῳάδαι, ἡ γοῦν ψυχὴ διὰ φιλοσοφίας, λαβοῦσα ἡγεμόνα τὸν νοῦν, ἐπεραιώθη καὶ ἐξεδήμησεν, ἀκοπίατόν τινα ὁδὸν εὑροῦσα, καὶ τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ συνεφόρησε, ῥᾳδίως, οἶμαι, τὰ συγγενῆ γνωρίσασα, καὶ θείῳ ψυχῆς ὄμματι τὰ θεῖα καταλαβομένη, τοῖς τε ἀνθρώποις προφητεύουσα. Τοῦτο δὲ ἔπαθε, καθ’ ὅσον οἷόν τε ἦν, πᾶσιν ἀφθόνως μεταδοῦναι βουληθεῖσα τῶν παρ’ αὑτῇ τιμίων Ho più volte pensato che la filosofia sia cosa veramente divina e sovrumana, o Alessandro, e soprattutto in quell'aspetto per cui essa, da sola, innalzandosi alla contemplazione dei componenti della realtà nella loro totalità, si è impegnata a conoscere la verità che è in essi. E, mentre tutte le altre scienze si tennero lontane da questa verità a motivo della sua altezza e grandezza, la filosofia non temette l'impresa e non si reputò indegna delle cose 20 Rivendica la paternità aristotelica dell’opera G. Reale, A.P. Bos, Il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996. 355 più belle, e, anzi, ritenne che la conoscenza di quelle cose fosse in sommo grado congenere alla propria natura e massimamente conveniente. Infatti, poiché non era possibile col corpo raggiungere i luoghi celesti, lasciare la terra e contemplare quelle sacre regioni, come follemente tentarono gli Aloadi, l'anima, mediante la filosofia, preso l'intelletto come conduttore, varcò il confine e abbandonò l'ambiente che le è familiare, avendo trovato una via che non stanca. E le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero, con facilità, credo, perché riconobbe le cose che le sono congeneri e con il divino occhio dell'anima colse le cose divine, rivelandole poi agli uomini. E questo le accadde perché desiderava, nella misura in cui era possibile, far partecipi senza restrizione tutti gli uomini dei suoi tesori21. Quello che risulta interessante - in chiave eleatica – è, nei versi empedoclei e nelle righe peripatetiche, il nesso tra lo sguardo del pensiero (νόος, διάνοια) e la dimensione del tutto - le quattro radici in Empedocle, il riferimento agli elementi della totalità nello pseudo-Aristotele; nel frammento anassagoreo, invece, l’uso di κόσμος nel senso evidentemente di universo, complesso del mondo (e non genericamente di ordine), come rivelato dal riferimento ai tradizionali contrari cosmogonici «caldo-freddo», unitamente alla negazione della separazione delle cose nella unità del κόσμος. Lo stesso Empedocle (DK 31 B26.5) impiega κόσμος nella formula εἰς ἕνα κόσμον («in un unico mondo») nell’ambito della descrizione degli effetti cosmogonici dell’alternanza ciclica di Amore e Contesa; mentre in Eraclito (B30: κόσμον τόνδε), il termine è presente in senso già prossimo al valore cosmico, per indicare cioè l’ordine delle cose. L’espressione del pensatore agrigentino «osservala con l'intelligenza» (τὴν σὺ νόωι δέρκευ) sembra effettivamente ricalcare il parmenideo λεῦσσε νόῳ, così come la pseudo-aristotelica «le cose più lontane fra loro nello spazio essa riunì insieme nel pensiero» (τὰ πλεῖστον ἀλλήλων ἀφεστῶτα τοῖς τόποις τῇ διανοίᾳ 21 Ivi, p. 175. 356 συνεφόρησε) richiama complessivamente B4.1 (λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως). L’impressione è che i versi del Περὶ φύσεως, i loro cenni al κόσμος, alle cose lontane e vicine, assenti e presenti, allo sguardo del νόος, fossero chiaramente significativi in prospettiva cosmologica già nel V secolo (Empedocle, Anassagora), a ridosso della sua composizione: forse perché estrapolati dalla sezione cosmologica del poema, forse perché in quel senso andava inteso l’insieme dell’impegno parmenideo (come si evincerebbe in particolare dalla ripresa peripatetica, che risente tuttavia della lezione aristotelica). La possibile (probabile) implicazione cosmica, l’accenno alla dinamica di concentrazione-dispersione (eco plausibile della cosmogonia di Anassimene), e, in relazione a τὸ ἐόν, il rilievo della funzione omogeneizzante del νόος potrebbero suggerire ancora una posizione introduttiva del frammento rispetto alla revisione cosmologica proposta dall’Eleate (sulla scorta della lezione di B8): premessa, dunque, alla vera e propria esposizione fisicocosmologica della seconda sezione. Disperdendosi, concentrandosi I versi 3-4 alludono a qualche specifico precedente cosmologico-cosmogonico, ovvero dobbiamo pensare a un riferimento generico? Gli interpreti sono divisi anche su questo punto: qualcuno, come Coxon22, vi coglie una polemica nei confronti della teoria di una sostanza prima soggetta a condensazione e rarefazione (Anassimene23, pur non escludendo il coinvolgimento polemico di Eraclito DK 22 B9124); altri, come Guthrie25, ritengono Parmenide 22 Op. cit., p. 189. 23 Su questo concordano Reinhardt, Gigon, Albertelli. 24 Il frammento recita: ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι καθ’ Ἡράκλειτον οὐδὲ θνητῆς οὐσίας δὶς ἅψασθαι κατὰ ἕξιν < τῆς αὐτῆς >· ἀλλ’ ὀξύτητι καὶ τάχει μεταβολῆς σκίδνησι καὶ 357 alluda a Eraclito (B91)26; altri ancora, come Conche27, valorizzando l’intenzione ontologica del frammento, dubitano che possa riferirsi a fenomeni di condensazione-rarefazione, giudicando tale lettura “obiettivista”, superficiale e banale. In realtà, se si prende sul serio l’interesse cosmologico del poema di Parmenide, pare corretto individuarne un obiettivo polemico, da cui il filosofo avrebbe preso le distanze: nella logica dell’opera si potrebbe ipotizzare che la riflessione più strettamente ontologica offra gli strumenti concettuali per contestare alternativi modelli esplicativi della natura e fondare una più consapevole e coerente teoria fisica. Schematicamente convincente la lezione di Graham28, il quale, ammiccando a Thomas Kuhn, individua tre “paradigmi” scientifici, successivamente attivi tra VI e V secolo a.C.: (i) quello con cui originariamente si ricercò la scaturigine (φύσις) degli enti, il loro principio (ἀρχή), e si tentò di inquadrare i fenomeni naturali, indicato come Generating Substance Theory (GST); (ii) quello che avrebbe, secondo l’autore, radici nella seconda parte del poema parmenideo e sarebbe poi stato sviluppato, più o meno coerentemente, dai pensatori tradizionalmente designati come “pluralisti” (Empedocle, Anassagora, atomisti), definito come Elemental Substance Theory (EST); πάλιν συνάγει (μᾶλλον δὲ οὐδὲ πάλιν οὐδ’ ὕστερον, ἀλλ’ ἅμα συνίσταται καὶ ἀπολείπει) καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume, secondo Eraclito, né si può toccare due volte una sostanza mortale nell'identico stato; ma, per lo slancio e la velocità del mutamento, si disperde e di nuovo si raccoglie (piuttosto, non di nuovo né dopo, ma a un tempo si riunisce e si separa), viene e va. 25 Op. cit., p. 32. 26 Su questo concordano Diels, Nestle, Cornford, Vlastos, Calogero, Mondolfo. 27 Op. cit., p. 94. 28 D.W. Graham, Explaining the Cosmos. The Ionian Tradition of Scientific Philosophy, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2006. 358 (iii) quello espresso pienamente nei frammenti di Diogene di Apollonia, riconosciuto come Material Monism (MM). Il primo corrisponde al programma scientifico ionico, così riassunto per punti29: a) esiste una sostanza originaria da cui tutto il resto è sorto; b) esiste un processo per cui gli elementi costitutivi del cosmo scaturiscono dalla sostanza originaria; c) tali elementi si dispongono negli strati materiali del cosmo; d) le strutture e i materiali del cosmo si stabilizzano nell’ordine che conosciamo; e) emergono gli esseri viventi; f) un’ampia varietà di fenomeni è spiegabile secondo il modello. Rispetto a questo paradigma (modulato da Anassimene nel senso di una vera e propria teoria del mutamento30), Eraclito (cui è dedicata da Graham un’analisi convincente31) avrebbe abbandonato l’idea di primato della «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). È alla luce di questi precedenti, in particolare dell’impatto della lezione di Eraclito32, che Graham interpreta l’ontologia di Parmenide. La prima parte del Περὶ φύσεως metterebbe in campo tutti gli strumenti concettuali per negare il divenire come generazione dal non-essere e affermare una concezione di «ciò che è» che l’autore ritiene compatibile con il pluralismo di sostanze ingenerate, incorruttibili, omogenee, immutabili e complete (Graham parla di Eleatic Substantialism): la seconda sezione (Doxa) avrebbe quindi proposto una cosmologia basata sulle proprietà focalizzate nella Aletheia, coerente con i principi della metafisica di Parmenide33. Lasciando per il momento in sospeso altre valutazioni, la collocazione della riflessione dell’Eleate proposta da Graham appare 29 Ivi, pp. 8-9. 30 Ivi, pp. 45-84. La rivalutazione del contributo del “terzo” milesio è uno degli aspetti più interessanti dell’opera. 31 Ivi, pp. 113-147. 32 Ivi, pp. 148-162. 33 Ivi, pp. 182-5. 359 sensata e potrebbe aiutare a leggere correttamente anche il nostro frammento. Da un lato, infatti, i versi attestano un ruolo del νόος chiaramente inteso a ricondurre gli ἀπεόντα alla presenza di τὸ ἐόν, negando quindi lo spazio del non-essere potenzialmente implicito nel movimento assenza-presenza; dall’altro anticipano (ovvero sottintendono) i rilievi di B8 sull’omogeneità dell’essere, per rifiutare quelle proposte esplicative che sembravano comportare, di fatto, accanto all’essere del principio\natura, l’implicita ammissione del non-essere. Anassimene (DK 13 B1), in effetti, sulla base di quanto espone Plutarco, avrebbe sostenuto: τὸ γὰρ συστελλόμενον αὐτῆς καὶ πυκνούμενον ψυχρὸν εἶναί φησι, τὸ δ’ ἀραιὸν καὶ τὸ χ α λ α ρ ὸ ν (οὕτω πως ὀνομάσας καὶ τῶι ῥήματι) θερμόν [Anassimene] dice infatti che la parte dell’aria che si contrae e si condensa è fredda, mentre la parte che è dilatata e “allentata” (è proprio questa l'espressione che usa) è calda […] (DK 13 B1). Eraclito, a sua volta: σκίδνησι καὶ πάλιν συνάγει [...] καὶ πρόσεισι καὶ ἄπεισι […] si disperde e di nuovo si raccoglie […] viene e va (DK 22 B91). Il frammento di Parmenide – un breve passaggio nelle centinaia di versi complessivi del poema – potrebbe dunque essere risultanza di una più o meno esplicita evocazione dei precedenti ionici, per marcare l'originalità del contributo eleatico soprattutto in termini di coerenza – come attesterebbe l’insistenza sul νόος e sul suo operare - con i presupposti taciti nella stessa concezione della realtà della φύσις- ἀρχή ionica. Proprio questa possibile funzione critica farebbe di B4 una sorta di passe-partout per il poema: 360 (i) come controparte gnoseologica dell’argomentazione di B8 e dunque degli effetti paradossali di una coerente riflessione ontologica rispetto ai dati del senso comune; (ii) come trait d'union tra la sezione ontologica e quella cosmologica, a sottolinearne la continuità, cioè nell’ambito di una positiva interpretazione della φύσις sulla scorta della Verità, come vuole Ruggiu34. 34 Op. cit., p. 251. 361 UN’ESPOSIZIONE CIRCOLARE [B5] Il breve frammento ci è conservato in una citazione di Proclo, che lo connette a B8.25 (ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει, «ciò che è si stringe infatti a ciò che è») e B8.44 (μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ, «a partire dal centro ovunque di ugual consistenza»), riferendolo dunque all’Essere. In realtà, come spesso è stato riconosciuto, è difficile sfuggire all’impressione di una decontestualizzazione disorientante. Se l’indicazione di Proclo può suggerire un suo significato ontologico, in linea, per altro, con la relazione tra νοεῖν e εἶναι che emerge da B3 e la dinamica ἀπεόντα-παρεόντα-τὸ ἐόν di B4, è forte tuttavia tra gli interpreti l’opzione metodologica, che appare in qualche lettura particolarmente convincente1. Anche nel caso di B5, la questione del suo significato è decisiva per la sua collocazione. Laddove prevalga il rilievo del suo senso ontologico, l’attuale sequenza può essere mantenuta2. Laddove, al contrario, sia privilegiato il senso metodologico del frammento, il suo posizionamento nell’attuale ordinamento del materiale andrebbe rivisto (come fanno, tra gli altri, Pasquinelli e Coxon), a ridosso di B1 e prima di B2, come preliminare della esposizione divina. Registrata la ricorrenza dell’immagine del cerchio all’interno delle citazioni del poema - la verità «ben rotonda» (B1.29); l'analogia tra τὸ ἐόν e εὐκύκλου σφαίρης ὄγκος («massa di ben rotonda palla», B8.43); il discorso sulla verità indicato come ἀμφὶς Ἀληθείης (B8.51); il concetto di «limite estremo» (πεῖρας πύματον, B8.42) – appare comunque forzata la conclusione di Ruggiu3, secondo cui B5 esporrebbe la forma nella quale l’Essere esprime la propria natura. Soprattutto se teniamo conto della possibilità che il materiale conservato rappresenti solo una quota minoritaria dei versi del poema integrale. Nell’ambito della comunicazione della Dea, invece, il passo potrebbe essere inteso e marcare lo scarto tra 1 È il caso dell’analisi di Coxon e di quella di Conche. 2 Ovvero, ipotizzando una (improbabile) lacuna in B8 (Cornford), potrebbe essere accettato il suo inserimento tra i due riferimenti di Proclo. 3 Op. cit., p. 253. 362 sapere divino e sapere umano: la necessità di un ordine espositivo rivolto al κοῦρος e la sua indifferenza rispetto alla conoscenza di chi lo propone. Conche4 ha giustamente messo in relazione il frammento con il programma di insegnamento annunciato dalla Dea: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι È necessario che tutto tu apprenda (B1.28). La verità che il κοῦρος apprenderà è la verità del Tutto, un sapere compiuto: i limiti dell’uomo non consentono tuttavia che tale sapere sia acquisito tutto in una volta. È necessario un ordine, corrispondente alle tappe di una ricerca, modalità tipicamente umana di accedere alla conoscenza. Il percorso, la via da seguire (affermazione di una via ed esclusione di un’altra, ecc.) rappresentano un escamotage didattico che ha senso solo per il discepolo, non per la Dea: per lei il punto di partenza e l’ordine di esposizione sono indifferenti. In relazione a una verità definita nel poema εὐκυκλής («ben rotonda»), Cerri valorizza, a sua volta, la prospettiva didascalica del frammento5, rafforzata dal possibile accostamento a Eraclito (DK 22 B1036 ) e dall’eco nel Sofista platonico (237a7 ): Parmenide implicherebbe una sorta di circolarità della ricerca scientifica e del discorso che la espone8. 4 Op. cit., p. 98. 5 Pur non escludendo, a priori, la possibilità di un suo coinvolgimento all’interno di una (in vero implausibile) specifica argomentazione geometrica. 6 Il frammento recita: ξυνὸν γὰρ ἀρχὴ καὶ πέρας ἐπὶ κύκλου περιφερείας Comune è, in effetti, nella circonferenza del cerchio il principio e la fine. 7 Il passo è il seguente: Τετόλμηκεν ὁ λόγος οὗτος ὑποθέσθαι τὸ μὴ ὂν εἶναι· ψεῦδος γὰρ οὐκ ἂν ἄλλως ἐγίγνετο ὄν. Παρμενίδης δὲ ὁ μέγας, ὦ παῖ, παισὶν ἡμῖν οὖσιν ἀρχόμενός τε καὶ διὰ τέλους 363 In ogni caso, alla luce della successiva trattazione dell’Essere e del mondo della natura, sembra difficile poter insistere su tale circolarità, come ha opportunamente segnalato Coxon9: nel primo caso, infatti, lo sviluppo argomentativo procede in una direzione lineare; nel secondo l’esposizione delle «opinioni dei mortali» doveva diffondersi sul piano storico-descrittivo. Né è plausibile che la circolarità indifferente possa riferirsi al complesso delle due esposizioni, dipendendo la comprensione della seconda dalle analisi della prima10. Indifferente e circolare, invece, potrebbe essere considerata la discussione delle possibili vie di ricerca, non necessariamente legata a un ordine di sequenza e in questo senso indifferente rispetto all’argomento da articolare. Come segnala Coxon11, la circolarità di quella preliminare discussione sarebbe contrapposta alla linearità degli argomenti sviluppati lungo la via imboccata verso la Verità (B8). Una variante interessante è quella avanzata da Bicknell12, che abbiamo registrato nelle annotazioni alla traduzione: intendendo ξυνὸν come a basic point, B5 potrebbe essere immediatamente anteposto alla κρίσις di B2, per marcare come a essa l’argomentazione della Dea avrebbe dovuto ripetutamente richiamarsi. τοῦτο ἀπεμαρτύρατο, πεζῇ τε ὧδε ἑκάστοτε λέγων καὶ μετὰ μέτρων [DK 28 B7.1-2] Questo discorso ha osato supporre che sia ciò che non è: il falso, in effetti, non potrebbe generarsi in altro modo. Il grande Parmenide, invece, ragazzo mio, a noi che eravamo ragazzini proprio contro questo discorso testimoniava dall'inizio alla fine, in prosa e in versi, che [citazione B7.1-2]. 8 Cerri, op. cit., p. 202. 9 Op. cit., pp. 171-2. 10 In questo senso non convince il rilievo di Pasquinelli (I presocratici, p. 396) sulla presunta comunanza di tutti i punti del discorso della Dea. 11 Op. cit., pp. 171-2. 12 P.J. Bicknell, “Parmenides, DK 28 B5”, cit., pp. 9-11. 364 ESSERE E NULLA [B6] Il frammento, ricostruito a partire dalle sole sparse citazioni di Simplicio (quindi, come osserva Cordero1, ricomparso a un millennio dalla stesura del poema), è dallo stesso commentatore per un verso direttamente connesso a B22, per altro proiettato su B7 e B8: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα· εἰπὼν γὰρ [B6.1b-2] < ἐπάγει > [B6.3-9] μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti: dice infatti [citazione B6.1b-2a] e aggiunge [citazione B6.3-9]. (In Aristotelis Physicam 117, 2) Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). È dunque introduttivamente importante, per una valutazione del senso e della posizione del testo, ricordare che la citazione di Simplicio è intesa a confermare l’uso condizionante del principio di contraddizione3 (donde l’accostamento a B2) come premessa 1 By Being, It Is, cit., p. 90. 2 Simplicio cita B6.1b-9 subito dopo aver citato B2.3-8. 3 In questo senso Simplicio ne confermava l’implicita attribuzione a Parmenide da parte di Aristotele (Metafisica IV, 3 1005 a28-35): 365 che lo stesso Simplicio salda esplicitamente all’argomento ontologico successivo (B8). In effetti, il primo verso e il primo emistichio del secondo sono richiamati dal commentatore, in altro contesto, proprio per marcare il nesso tra pensiero ed essere: ἀλλὰ καὶ τὸ πάντων ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν εἶναι λόγον τὸν τοῦ ὄντος ὁ Παρμενίδης φησὶν ἐν τούτοις [B6.1-2a]. εἰ οὖν ὅπερ ἄν τις ἢ εἴπῃ ἢ νοήσῃ τὸ ὄν ἐστι, πάντων εἷς ἔσται λόγος ὁ τοῦ ὄντος Ma che la nozione di tutte le cose sia una e la stessa, quella dell'essere, Parmenide sostiene in questi versi: [B6.1-2a] Se proprio l'essere è ciò di cui è possibile dire e pensare, di tutte le cose vi sarà una sola nozione, quella dell'essere (In Aristotelis Physicam 86, 25-30). Per la sua discussa interpretazione è corretto e inevitabile rinviare al complesso B2-B3, a maggior ragione ipotizzando che gli attuali B4 e B5 siano fuori posto (in particolare che B5 possa precedere immediatamente B2 e B4 trovarsi a cavaliere tra prima e seconda sezione). È possibile, infatti, intravedere nei versi e nel contesto della citazione la centralità del riferimento critico a τό μὴ ὥστ’ ἐπεὶ δῆλον ὅτι ᾗ ὄντα ὑπάρχει πᾶσι (τοῦτο γὰρ αὐτοῖς τὸ κοινόν), τοῦ περὶ τὸ ὂν ᾗ ὂν γνωρίζοντος καὶ περὶ τούτων ἐστὶν ἡ θεωρία. διόπερ οὐθεὶς τῶν κατὰ μέρος ἐπισκοπούντων ἐγχειρεῖ λέγειν τι περὶ αὐτῶν, εἰ ἀληθῆ ἢ μή, οὔτε γεωμέτρης οὔτ’ ἀριθμητικός, ἀλλὰ τῶν φυσικῶν ἔνιοι, εἰκότως τοῦτο δρῶντες· μόνοι γὰρ ᾤοντο περί τε τῆς ὅλης φύσεως σκοπεῖν καὶ περὶ τοῦ ὄντος Così, in quanto è chiaro che [gli assiomi] appartengono a tutte le cose in quanto sono (l'essere è infatti ciò che è comune a tutti), è proprio di colui che indaga l'essere in quanto essere anche lo studio di questi [assiomi]. Perciò, nessuno di coloro che si limitano all'indagine di una parte si cura di dire qualcosa di essi, se siano veri o no: non il geometra, né il matematico. Ne parlarono, tuttavia, alcuni dei fisici, e a ragione: credevano in effetti di essere gli unici a ricercare sul complesso della natura e sull'essere. 366 ἐὸν (Simplicio: τὸ μὴ ὂν), formula estratta dalla seconda «via di ricerca» di B2, che evidentemente aveva costituito il preliminare oggetto di discussione nella parte mancante del primo logos della Dea. Come rivela l’ampio dibattito intorno alla traduzione del testo greco e alla sua intellezione, il frammento è decisivo per determinare: (i) la natura delle «vie di ricerca per pensare»; (ii) il numero di tali vie; (iii) l’obiettivo della polemica parmenidea. In particolare, relativamente all’ultimo punto, è dall’Ottocento oggetto di contesa l’attribuzione esatta dei riferimenti a βροτοὶ εἰδότες οὐδέν («mortali che nulla sanno»), δίκρανοι («uomini a due teste»), e ἄκριτα φῦλα («schiere scriteriate»), che molti hanno inteso come allusioni a Eraclito e seguaci, trovando nelle espressioni degli ultimi versi un possibile riscontro verbale (come abbiamo segnalato in nota): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro (B6.8-9). La natura delle vie Il primo verso e il primo emistichio del secondo, che sembrano fornire nell’insieme un asserto e le condizioni che lo giustificano (come evidenziato dal ricorso all’indicatore di premessa γάρ), introducono il primo problema interpretativo: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν che può rendersi letteralmente come: 367 È necessario il dire e il pensare che ciò che è è; poiché è possibile essere [ovvero, come preferiamo: è possibile infatti essere], il nulla, invece, non è». La nostra traduzione4 ricava due formule modali («è necessario», «è possibile») dal testo greco, che appare invece immediatamente costruito su tre formule tautologiche: ἐὸν ἔμμεναι (letteralmente: «ciò che è [l'essere] è»), ἔστι εἶναι (che si potrebbe rendere letteralmente: «è essere» ovvero «[l']essere è»), μηδὲν οὐκ ἔστιν (letteralmente: «ni-ente non è»). L’essere dell’ente Il primo emistichio è costituito da tre blocchi testuali: (i) l’espressione verbale χρή, che abbiamo reso come «è necessario»: si tratta di una formula con cui la Dea rileva un passaggio significativo della propria comunicazione, proposto come conclusione di un argomento (le premesse introdotte dall'indicatore γάρ); (ii) le due forme verbali all’infinito – λέγειν e νοεῖν – precedute da τό, con valore di articolo sostantivante («il [fatto di] dire», «il [fatto di] pensare»), ovvero, come crede qualcuno, di dimostrativo in funzione prolettica («dire questo e pensare questo: ….»); in ogni caso è evidente che la Dea (Parmenide) coinvolge due verbi particolarmente pregnanti nel contesto della sua rivelazione: νοεῖν richiama immediatamente B3 e B2.2 (νοῆσαι), mentre λέγειν può collegarsi a φράζω (B2.6-8); (iii) l’insieme verbale ἐὸν ἔμμεναι, formato dal participio presente del verbo «essere» (ἐόν, forma ionica di ὂν: «essente», ovvero «ente» o ancora «ciò che è» e quindi anche «essere») e dall’infinito dello stesso verbo (ἔμμεναι nella forma epica), che 4 Per le costruzioni e traduzioni alternative rinviamo alle note testuali al frammento. 368 abbiamo reso, come appare naturale, come proposizione infinitiva (dichiarativa) retta da λέγειν e νοεῖν: si tratta della prima formulazione ambigua (per la multivocità del verbo essere) della tautologia centrale (μηδὲν οὐκ ἔστιν non fa che esprimerla in negativo: da una lato l’«ente» di cui si afferma l’essere, dall’altro il «ni-ente» di cui si nega lo stesso essere). Nel contesto la traduzione proposta appare plausibile, ed evidenzia la difficoltà di interpretazione dell’ultimo blocco: la scelta di Parmenide è chiaramente quella di sfruttare la densità semantica della coppia participio-infinito dello stesso «essere», per marcare l’identità di soggetto e verbo. L’effetto ricercato potrebbe essere quello – su cui giustamente insiste la lettura heideggeriana di Beaufret 5 e Conche 6 - di richiamare l’attenzione sull’εἶναι (ἔμμεναι) dell’ἐόν, sull’essere di ciò che è; ovvero, più semplicemente, sul fatto d’essere, sull'evidenza dell'esistenza. È da tener presente che, in B2.7-8, la Dea aveva denunciato come: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo. B6 si apre appunto sostituendo all’espressione negativa τό μὴ ἐὸν di B2.7 il positivo ἐόν; al rilievo dell’impossibilità di conoscere e indicare (esprimere) «ciò che non è», quello della necessità di dire e pensare l’«essere» dell’ἐόν. Nel passaggio interviene l’importante novità dell’introduzione del soggetto di εἶναι (ἔμμεναι), ἐόν appunto: l’affermazione «è e non è possibile non essere» (B2.3: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι) che caratterizzava il Πειθοῦς κέλευθος, «percorso di Persuasione», trova in B6.1a ἐόν come proprio naturale soggetto di referimento. Nella sequenza B2-B6, possiamo intendere ἐόν come formula concettuale scaturita dalla riflessione sull'espressione della prima via di 5 Parménide, Le poème, présenté par J. Beaufret, cit., p. 81. 6 Op. cit., p. 102. 369 ricerca per pensare7: formula che manifesta l’essere di ciò di cui si afferma ἐστίν, ovvero come formula sintetica riassumente la totalità delle cose che si manifestano nella esperienza (come ricorda Thanassas8, è frequente l’uso del plurale ἐόντα nella sezione sulla Alētheia) di cui ἐστίν focalizza il fatto d’essere: ciò che è, l’ente, la “cosa”, «è», esiste. Siamo portati decisamente a credere che, nel contesto, il valore di ἔμμεναι sia esistenziale, pur avendolo reso ambiguamente con «essere». L’uso dell’iniziale χρή – anche senza volergli attribuire il significato forte di necessità logica – è funzionale alla ripresa della conclusione negativa di B2 riguardo a τό μὴ ἐὸν, integrata dal rilievo di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere. Delle «due vie di ricerca» di B2 – le uniche «per pensare» - quella che pensava che «non è» è di fatto indisponibile, perché, come abbiamo ricordato, «ciò che non è» non è conoscibile né esprimibile; questo porta la Dea in B3 a rilevare il nesso tra νοεῖν e εἶναι, tra il pensiero che svela (νοεῖν) e l’unico suo reale oggetto possibile (εἶναι) alla luce dell’iniziale alternativa tra le vie. Nell’apertura di B6, ai due infiniti (λέγειν e νοεῖν) viene esplicitamente attribuito un oggetto: la dichiarativa ἐὸν ἔμμεναι («ciò che è è»). La Dea non si limita in questo modo a riprendere ed esplicitare la propria tesi: sottolinea anche come pensiero e discorso debbano correttamente ammetterla9. A tale scopo, in B6.1b-2a, ella reitera nella sostanza le risultanze di B2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν essere, infatti, è possibile, 7 Thanassas, op. cit. p. 45. 8 Ivi, p. 44. B4.1-2, B8.25, B8.47-8. 9 Cordero, op. cit., p. 92. Preferiamo attenuare il carattere di necessità logica che Cordero attribuisce a χρή. 370 il nulla, invece, non è. La formula ἔστι εἶναι può estrarsi positivamente dall'insieme di affermazione e proibizione nella prima «via di ricerca per pensare»: ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. L'espressione μηδὲν οὐκ ἔστιν, a sua volta, ribadisce l'assolutezza della seconda via: ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, attribuendo coerentemente a οὐκ ἔστιν un adeguato soggetto logico. La traduzione dei due emistichi e la loro interpretazione sono comunque particolarmente controverse. Essere, non-essere Traducendo letteralmente: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν abbiamo almeno tre possibili costruzioni e relative plausibili soluzioni: (i) intendere il precedente ἐὸν come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] è essere, il nulla, invece, non è; (ii) intendere ἐὸν come soggetto di entrambi, con μηδὲν predicato (come εἶναι): poiché [ovvero: infatti] è essere, e non è nulla; 371 (iii) intendere εἶναι come soggetto del primo emistichio e μηδὲν del secondo: poiché [ovvero: infatti] l'essere è, il nulla, invece, non è. Nell'ultimo caso, esplicitamente ritroveremmo la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι, accompagnata dai due soggetti logici (il primo εἶναι, il secondo μηδέν) che la trasformano in una duplice asserzione tautologica (quindi vera). Per molti versi si tratta della versione più naturale10, ma ha lo svantaggio di non dare del tutto ragione dell’uso di γάρ. Seguendo una affermazione (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι), esso dovrebbe introdurre le proposizioni in grado di giustificarla: ora la doppia tautologia (si tratta dell’aspetto che rende più perplessi) sembra semplicemente riformulare la dichiarativa (εἶναι funge da soggetto in sostituzione di ἐόν), negando l’essere al soggetto contrario («[il] ni-ente»). La Dea, dunque, sosterrebbe la propria tesi direttamente, marcando la non esistenza del non-essere: oggetto del dire e del pensare non può allora che essere «ciò che è», perché solo «ciò che è [l’essere] è [esiste]». Il vantaggio di questa soluzione è quello di mettere in valore la possibile struttura delle due vie di B2: come abbiamo osservato, la disgiunzione ἐστί\οὐκ ἔστι è riformulata in termini tautologici, dunque investirebbe in realtà due verità, in questo senso proposte come le uniche vie di ricerca per pensare11, una delle quali (sviluppare coerentemente la premessa «che è») feconda, l’altra (sviluppare coerentemente la premessa «che non è») assolutamente improduttiva. Questo spiegherebbe il tono del discorso della Dea, che cambia e si fa sprezzante solo quando denuncia la confusione dei βροτοί che incrociano le due vie: come fa osservare Giorgio 10 Tra l'altro potrebbe essere suffragata dal fatto che due codici (BC) di Simplicio riportano τò εἶναι. 11 In questo senso la lettura della Germani, op. cit., p. 191. 372 Colli12, la via enunciata in B2.5 non era stata rifiutata con disprezzo, perché volgare, come accade invece con quella formulata a partire da B6.4. Le altre due soluzioni, in fondo, non si allontanano concettualmente dalla precedente, trovando comunque nel contesto dei frammenti una loro sensata giustificazione. Nel primo caso («poiché è essere, il nulla, invece, non è») sarebbe messo in valore l'essere di «ciò che è» (ἐόν), dell'ente, ribadendo la non esistenza del nulla, del "ni-ente"; nel secondo (la costruzione appare meno naturale) la Dea otterrebbe lo stesso risultato sottolineando che «ciò che è» è «essere» e non è «nulla». È necessario, è possibile, non è possibile Un’interessante soluzione alternativa alla traduzione letterale è quella proposta da O’Brien: essa, rendendo ἔστι\οὐκ ἔστι con valore potenziale, ricava da B6.1-2a tre espressioni modali: necessità (χρή), possibilità (ἔστι), impossibilità (οὐκ ἔστιν): Il faut dire ceci et penser ceci: l’être est; car il est possible d’être, il n’est pas possible que ce qui n’est rien. Poiché è possibile essere ed è impossibile che il ni-ente sia, dire e pensare (presupposti nel ragionamento) dovranno riconoscere come loro oggetto necessario l’ente. Come ricorda l’autore13, infatti, i candidati a essere oggetto di tali attività sono ἐόν e μηδέν: il primo può esistere, il secondo no. La difficoltà di questa interpretazione è principalmente legata alla lingua greca, in cui ἔστι assume valore potenziale in relazione con un infinito: è dunque legittima la traduzione del secondo emistichio del v.1, problematica la traduzione di B6.2a, nella quale, 12 Gorgia e Parmenide. Lezioni 1965-1967, a cura di E. Colli, su appunti di E. Berti, Adelphi, Milano 2003, p. 175. 13 O’Brien, Études sur Parménide, cit., vol. I, p. 214. 373 non a caso, O’Brien sottintende un infinito (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν < εἶναι >). Anche Mansfeld14 opta per una (diversa15) resa potenziale in entrambi i casi, proprio per garantire la corrispondenza, pur riconoscendo ininfluente la traduzione con valore esistenziale di B6.2a (come abbiamo scelto di fare). Parmenide potrebbe dunque aver derivato, dall’affermazione della possibilità dell’essere e dalla negazione del nulla, la necessità che l'essere sia16. Resta comunque valida l’obiezione, avanzata da Leszl 17, per cui, attribuendo alle due ricorrenze di ἔστι valori diversi, verrebbe meno la simmetria e soprattutto l'uniformità nell’impiego del verbo. Le due vie di B2 in B6 In apertura di B6, insomma, la Dea ritorna sull’alternativa delineata in B2, precisandola: sottolinea la necessità (correttezza) del riconoscimento dell’ἐόν come oggetto di λέγειν e νοεῖν, escludendo che μηδέν (τό μὴ ἐὸν di B2.7), teorico contenuto della via di ricerca «non è ed è necessario non essere», esista. In pratica ci troviamo di fronte a una riproposizione in positivo della conclusione di B2. La puntualizzazione riguarda «le uniche vie di ricerca per pensare»: alla pura formulazione oppositiva ὅπως ἔστιν\ὡς οὐκ ἔστιν si sostituiscono le espressioni tautologiche – ἐὸν ἔμμεναι, ἔστι εἶναι, e μηδὲν οὐκ ἔστιν, con l’esplicitazione, dunque, di adeguati soggetti logici. 14 Op. cit., p. 90. 15 Traduce: «denn dieses (das Seiende) kann sein, ein Nichts hingegen kann nicht sein». 16 Colli (Gorgia e Parmenide, cit., p. 174) ha osservato come l'affermazione iniziale di B6.1 (ἐὸν ἔμμεναι) sia l'enunciazione della prima via di B2, mentre B6.2 enuncerebbe la seconda. Ciò confermerebbe, secondo Colli, i soggetti delle due vie: «ciò che è», «ciò che non è». Questa lettura fa cogliere un nuovo aspetto: nel frammento 6 ci sarebbe una congiunzione delle due vie. Tra la possibilità che l’essere sia e la necessità che il nulla non sia, dovremmo scegliere la possibilità, che così diventerebbe a sua volta necessità. 17 Op. cit., p. 133. 374 In B2 la Dea aveva prospettato due potenziali percorsi di indagine – gli unici «per pensare»: (i) l'uno, ricercava pensando ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι, in pratica sviluppando le implicazioni dell'affermazione di esistenza - «è» - e negando possibilità al non-essere: valorizzando il significato arcaico di νοεῖν (come un vedere che coglie immediatamente il proprio oggetto), si potrebbe sostenere che lungo questa pista di indagine il focus era destinato a concentrarsi assolutamente sull'essere; (ii) l’altro, al contrario, tentava la ricerca imboccando la direzione opposta, pensando cioè ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι, nello sforzo di ricavare le implicazioni della negazione «non è» rinforzata dal vincolo di necessità: in tal modo la seconda «via di ricerca per pensare» tracciava un percorso verso il nulla, subito inibito in quanto in tale direzione non vi era «ni-ente» (μηδὲν) da vedere e riferire. La seconda via poteva essere delineata solo come radicale alternativa alla prima e sostanzialmente per confermarne la necessità: non è possibile νοεῖν, nel senso originario di percezione mentale, se non di ciò che è. La Dea, infatti, aveva immediatamente connotato la prima via come Πειθοῦς κέλευθος, in quanto capace di condurre alla vera realtà (Ἀληθείῃ γὰρ ὀπηδεῖ): un convincente chiarimento in merito era giunto però solo nei versi successivi, quando, a proposito della via alternativa, ella aveva ammonito che τό μὴ ἐὸν è indisponibile all’effettiva conoscenza ed espressione. In B2.7 la Dea aveva dunque estratto l'oggetto della seconda via, implicitamente ponendo quello della prima. In B6.1-2a, abbiamo l'indicazione in positivo dell'oggetto della ricerca: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι e l'esplicitazione dei soggetti logici adeguati delle formule delle vie: «ciò che è è» (ovvero «l'essere è») e «il nulla [ovvero, letteralmente: ni-ente] non è». A questa lettura – che ha conseguenze, come vedremo, sull'interpretazione dell’intero frammento - si contrappone in particolare 375 quella di Cordero (ma condivisa da altri), secondo cui nel complesso 6.1b-6.2a si registrerebbe la presentazione della prima via18: «il nulla non esiste» di B6.2a sarebbe una semplice riformulazione di 2.3b: «non è possibile non essere», riferendosi quindi alla prima via19. In questo senso si è orientato di recente anche Palmer20. Alla seconda via, a detta di Cordero, la Dea alluderebbe invece subito dopo, connotando l'indiscriminata combinazione di essere e non-essere: le cose dovrebbero essere e non essere allo stesso tempo, come segnalato da B7.1 (εἶναι μὴ ἐόντα «che esistano cose che non sono»). La struttura argomentativa, tuttavia, suggerisce che quanto «è necessario» riconoscere (dire e pensare) - ἐὸν ἔμμεναι – è la compiuta, esplicita espressione della formula per la prima via; a sua giustificazione sono addotte la possibilità dell'essere e l'inesistenza del nulla. È decisivo soprattutto questo rilievo. In B2.6-8 la Dea aveva infatti sottolineato il nesso tra la seconda via e τό γε μὴ ἐὸν: essa era «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθής ἀταρπός) in quanto «ciò che non è» è inconoscibile e indiscernibile. La sua negatività è ora tradotta nella tautologia μηδὲν οὐκ ἔστιν, come elemento dimostrativo per richiamare l’attenzione sulla necessità dell'opposto ἐὸν ἔμμεναι. Il guadagno teorico su B2 riguarda sia la riconsiderazione critica (argomentativa) del Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Verità»), inizialmente introdotto in forma direttiva, sia la definizione ufficiale del suo oggetto: ἐόν. Il numero delle vie È indicativa la formula utilizzata per valorizzare l’argomento proposto in apertura di B6: la Dea, infatti, con espressione caratteristica dell’epica omerica ed esiodea, insiste: 18 By Being, It Is, cit., p. 99. 19 Ivi, p. 105. 20 Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 112-3. Palmer offre comunque un'interpretazione diversa delle vie. 376 τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα Queste cose io ti esorto a considerare, che sembra richiamare l’invito iniziale di B2: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας Orsù, io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata. Come in quel caso, la Dea sottolinea il rilievo dell’alternativa tra le due vie per la corretta comprensione della realtà: il fraintendimento della loro natura, in effetti, è all’origine della confusione dei «mortali che nulla sanno», come appureremo tra breve. Analogamente, dopo aver presentato la via « è ed è necessario non essere», la Dea si premura di osservare (B2.6): τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν Questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni; in B6.3, allora, ella ribadisce (immediatamente dopo aver affermato che «il nulla invece non è»): πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω > Da questa prima via di ricerca, infatti, ti < tengo lontano >. Questa versione del testo greco, con l’integrazione della lacuna dei codici assunta da Diels (sulla base di una tradizione che risale alla edizione aldina del 1526), è stata vigorosamente avversata da Cordero e abbandonata anche da Nehamas21 (e dalla Curd22), i quali propongono, rispettivamente, di integrare con il verbo ἄρχω-ἄρχομαι (forma media), «cominciare»: 21 A. Nehamas, “On Parmenides’ Three Ways of Inquiry”, «Deucalion», 33-34, 1981, pp. 197-211. 22 Di ciò diamo conto in nota al testo greco. 377 πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > since you < will begin > with this first way of investigation, πρώτης γάρ σ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος << ἄρξω > For, first, < I will begin > for you from this way of inquiry. L’esigenza di mettere in discussione la lezione tradizionale, sebbene giustificata da un punto di vista filologico dalla oggettiva corruzione del testo dei manoscritti (con l’ulteriore possibilità che la lacuna si estenda a più versi), è dettata soprattutto dalla incoerenza cui si va incontro interpretando i primi due versi del frammento come ripresa della sola via «che è e che non è possibile non essere», da cui, ovviamente la Dea non potrebbe «trattenere» ovvero «tenere lontano»23, bensì solo «cominciare» o invitare a cominciare. Pur segnalando la lacuna e riconoscendo la coerenza degli argomenti filologici di Cordero, non crediamo necessario integrare secondo la sua lezione 24, ma offrirla solo come possibilità. L’interpretazione che proponiamo è coerente con la lettura tradizionale, dal momento che consente di riferire il complemento iniziale e il dimostrativo ταύτης alla formula μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Essa evocava l'unica indicazione desumibile dalla via di indagine «che non è e che è necessario non essere»: l'oggetto che se ne può estrarre in verità non esiste. È probabile che dopo l'enunciazione delle due vie la Dea avesse condotto la discussione a partire dalla seconda, mettendo in guardia dal suo coinvolgimento: B6 e B7 rappresenterebbero la conclusione di tale disamina, mirata ad affermare la necessità del riconoscimento che ἐὸν ἔμμεναι. In questo 23 Noto, per inciso che, nel caso del verso B6.3, Cordero preferisce la lezione τ’ dei codici BC a quella σ’ (pronome personale) di D (con E e F), di cui si era sottolineata, per la lezione del verso precedente, la bontà. Traducendo con il personale «ti», l’integrazione proposta risulterebbe impraticabile nel caso di Cordero, meno naturale nel caso di Nehamas («comincerò per te»). 24 Che appare comunque plausibile, dal momento che la costruzione ἄρχεσθαι + ἀπό è caratteristica nella letteratura greca arcaica. 378 senso, la seconda via prospetta diventa «prima» nell’ordine espositivo. Da questa prima via di ricerca, poi da quella…. Per chi (come Cordero, come noi e come altri) fa leva su B2 per sostenere un modello duale per le vie parmenidee, B6.4-5 propone una difficoltà, che la soluzione di Cordero e Nehamas effettivamente sembra risolvere, indicando una sequenza nell’esposizione della Dea. Adottando la congettura di Cordero avremmo: πρώτης γάρ τ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < ἄρξει > αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > con questa prima via di ricerca comincerai, poi con quella che mortali che nulla sanno s’inventano. Una sequenza che potrebbe alludere alle due sezioni del poema, e richiamare B8.50-52, considerato passaggio conclusivo della Alētheia e introduzione alla Doxa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno alla Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare. 379 Nella tradizione interpretativa, è stata decisiva (come per altri aspetti) la presa di posizione di Karl Reinhardt25, il quale, dal confronto tra B2 e B6, ricavò l’indicazione di tre vie: (i) quella che affermerebbe «l'essere è» (ricavata da B2); (ii) quella che affermerebbe (a) «l'essere non è» (ricavata da B2) ovvero (b) «il nonessere è» (ricavata da B7.1); (iii) infine quella che affermerebbe «l'essere sia è sia non è» ovvero «sia l'essere sia il non-essere sono». La prima via da evitare (nella lettura tradizionale di Diels di B6.3) sarebbe la seconda via di B2; l’altra via da evitare (B6.4) sarebbe allora una terza via rispetto alle due menzionate in B2: dal momento che essa esplicitamente coinvolge la condizione dei mortali, Reinhardt concludeva che dovesse concernere l’ambito dell'opinione26. È proprio per precisare questo passaggio classico delle interpretazioni parmenidee che il nodo delle vie richiede di essere affrontato e risolto (per quanto è possibile) in questa sede. A noi appaiono indiscutibili alcuni punti: (i) B2 delinea in modo netto una alternativa (ἡ μὲν ὅπως... ἡ δ΄ ὡς), marcando l’esaustività («le uniche per pensare ») delle «vie di ricerca» prospettate; (ii) B2 offre con «le uniche vie di ricerca per pensare» due direzioni d'indagine lungo le quali dirigersi: (a) la prima muove dall’immediata evidenza: «è» (ἔστιν), estraendone «essere» (εἶναι) e respingendo la possibilità della sua antitesi (οὐκ ἔστι μὴ εἶναι); (b) la seconda dalla connessa negazione: «non è» (οὐκ ἔστιν), marcando la necessità del non-essere (χρεών ἐστι μὴ εἶναι); (iii) lo stesso B2 registra immediatamente l'asimmetria delle due vie indicate: l'indagine, infatti, non potrà in realtà procedere lungo la seconda, in quanto non potrebbe discernervi alcunché: non è possibile conoscere né indicare «ciò che non è»; (iv) le «vie di ricerca per pensare» sono introdotte come vere e proprie premesse della complessiva esposizione della Dea: le sue 25 Nel suo epocale K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1916. 26 Sulla questione molto chiara la ricostruzione di Leszl, op. cit., pp. 120-1. 380 parole («io dirò - e tu abbi cura della parola, una volta ascoltata») suggeriscono il rilievo cruciale dell'alternativa per il kouros (e dunque anche per il discepolo, l’ascoltatore e il lettore); (v) difficile quindi ipotizzare che Parmenide attribuisca alla Dea la responsabilità di sostenere come possibile via di indagine («per pensare»!) la tesi contradditoria: οὐκ ἔστιν ἐόν - «via dell'errore», come vorrebbe Cordero27: è vero, piuttosto, che alla seconda via si alluderà (B8.17-8) come οὐ ἀληθής ὁδός («via non genuina»), percorso di indagine che non può concretizzarsi in conoscenza; (vi) dalle due vie, invece, potranno essere estratte due verità basilari per le successive argomentazioni: l'essere è necessariamente, il non-essere non esiste. Mentre si potrà procedere ulteriormente a determinare la prima via (seguendo i σήματα di B8), nulla potrà dirsi di più della seconda, evocata solo per marcare la necessità della direzione d'indagine alternativa. Come segnala la Germani 28 (e, in una prospettiva diversa, Cordero29 ), potrebbe in questo senso non essere casuale l'eco parmenidea della formulazione aristotelica del principio del terzo escluso: τὸ μὲν γὰρ λέγειν τὸ ὂν μὴ εἶναι ἢ τὸ μὴ ὂν εἶναι ψεῦδος, τὸ δὲ τὸ ὂν εἶναι καὶ τὸ μὴ ὂν μὴ εἶναι ἀληθές dire che l'essere non è o che il non essere è è infatti falso; [dire] che l'essere è e il non essere non è è invece vero (Metafisica IV, 7 1011 b26-27). B6.1-2 costituirebbe, quindi, lo sviluppo della conclusione di B2: la Dea, rievocando (implicitamente) l'alternativa tra le vie, afferma la necessità di riconoscere che «ciò che è è» (ἐὸν ἔμμεναι), attraverso il rilievo della possibilità di «essere» (ἔστι 27 By Being, It Is…, cit., p. 73. 28 Op. cit., p. 193. 29 By Being, It Is…, cit., p. 105 nota. 381 εἶναι), e dell’inesistenza del nulla (μηδὲν οὐκ ἔστιν) 30. In B8.15-18 il passaggio sarà richiamato: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il testo è significativo, secondo noi, perché scandisce efficacemente le sequenze del procedimento parmenideo: (a) introduzione (logica: le vie sono per pensare) della disgiunzione «è\non è»; (b) esclusione della via «che non è» in quanto ἀνόητον e ἀνώνυμον (che richiamano le connotazioni di B2.7-8); (c) riconoscimento dell’unica via praticabile per la ricerca: essa esiste è vera\reale (ἐτήτυμον), mentre l’altra non lo è (non è «genuina», ἀληθής), non può costituirsi, per sua natura, come effettivo percorso di ricerca. Liquidata la via ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι in quanto percorso di ricerca impraticabile («il nulla non è»), prima ancora di dedicarsi al sondaggio dell’unica via genuina (ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), la Dea si sofferma sull’erronea «invenzione» dei «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν), effetto del colpevole misconoscimento delle implicazioni nell’alternativa ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Ancorché prospettata come ὁδὸς διζήσιος, la strada imboccata dai βροτοὶ εἰδότες οὐδέν è chiara- 30 L’argomento sarebbe quindi: (i) ἔστι εἶναι, (ii) μηδὲν οὐκ ἔστιν ® ἐὸν ἔμμεναι. 382 mente caratterizzata, nelle scelte espressive dell’autore, come illusione31. L’impotenza dei mortali Il registro linguistico all’interno dei frammenti del poema muta sensibilmente, per assumere i toni della risentita disapprovazione: αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον e poi da quella che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante (B6.4-6). Questi versi assumono una grande importanza soprattutto per lo sfondo culturale che sembrano evocare: Gigon, Verdenius, Pasquinelli, Fränkel sottolineano come la terminologia parmenidea, ricavata da formule consolidate dell’epica e della lirica greca arcaica, veicoli un senso tragico dell’esistenza. Non a caso Jaeger32 richiama i versi del Prometeo eschileo (probabilmente di pochi decenni posteriore al poema Sulla natura): λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν’ ἀνθρώποις ἔχων, ἀλλ’ ὧν δέδωκ’ εὔνοιαν ἐξηγούμενος· οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα 31 Soprattutto se intendiamo il verbo retto da βροτοί come forma di πλάσσομαι, «mi invento» e non di πλάζω «vado errando», come interpreta Diels, seguito da molti altri. 32 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 155. L’autore osserva: «par di sentire l’eco di un’esortazione religiosa». 383 Parlerò senza disprezzo per gli uomini, narrando solo del favore dei miei doni. Dapprima essi, pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 445-50). Non vi è dubbio che Parmenide, nei versi di B6, sia impegnato a stigmatizzare una condizione mortale, facendo riecheggiare spunti della tradizione letteraria che si possono ancora riscontare nella produzione filosofica del V secolo in Eraclito ed Empedocle. La ἀμηχανίη segna la costituzione dei βροτοί (ricordiamo che è una divinità a parlare, ribadendo un consolidato stereotipo già impiegato dal poeta nel proemio): l’«impotenza» si traduce in una sorta di paralisi della comprensione, in una confusa percezione della realtà e in un vano orientamento. Proprio come denunciato da Prometeo. Ma, rispetto al luogo comune fissato nel mito, Parmenide pone l’accento sull'incapacità di discriminare tra le due vie, e dunque su un intreccio perverso di essere e non-essere: l’obiettivo polemico appare dunque una falsa interpretazione del mondo reale, dell’esperienza, di cui si sottolineerà l’inconsapevole consolidamento nel linguaggio del sentire comune, in una vera e propria “seconda natura” (ἔθος di B7.3)33. La Dea riferisce ai «mortali»una prima serie di caratteristiche negative. Li qualifica come εἰδότες οὐδέν, «che nulla sanno», una formula frequentemente impiegata nell’epica e nella lirica per indicare la limitatezza dell’orizzonte umano34 (concentrato sul presente, immemore del passato e ignorante del futuro)35. Li connota come δίκρανοι, «uomini a due teste», coniando un termine ad hoc per alludere allo specifico deficit di comprensione: la mancata discriminazione tra le due vie comporta che quei mortali guardino contemporaneamente in due direzioni. Attribuisce loro la “finzio- 33 Su questo Ruggiu, op. cit., p. 257. 34 Ivi, p. 259. 35 A questa situazione mortale era stata contrapposta la conoscenza rivendicata in B1.3 (εἰδώς φώς). 384 ne” (πλάσσονται, «si inventano») di una via: invenzione evidentemente frutto della confusione delle «uniche vie di ricerca per pensare». Denuncia la loro ἀμηχανίη, la debolezza per cui la loro mente (νόος) cede all’attrazione del non-essere - alla vertigine del nulla, come si esprime Conche36. In tal modo ella collega a un impulso irrazionale la chiave dell’erranza dei mortali: ἐν αὐτῶν στήθεσιν, «nei loro petti», potrebbe riferirsi a una localizzazione dello θυμός che consenta di differenziarne la funzione rispetto al νόος. Queste determinazioni negative sono ulteriormente accentuate con espressioni che sottolineano la fenomenologia del disorientamento: οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.6-7). I «mortali», dunque, non sono in controllo di sé; il loro atteggiamento ne svela la radicale incomprensione, che si manifesta a tre livelli: (i) nella perdita di contatto con la realtà: gli organi di senso deputati (la vista e l’udito) producono – nel loro caso dei «mortali» – isolamento, distorsione; (ii) nella conseguente tonalità emotiva della sorpresa37, da intendere nel contesto non come positiva apertura alla comprensione, bensì come sintomo della condizione contraria: profonda confusione; (c) nella mancanza di giudizio38, di discernimento (κρίσις, κρινεῖν), con cui spregiativamente la Dea connota le «schiere» (φῦλα) dei βροτοί, cioè la loro massa, il loro insieme indistinto, come confusa è la loro percezione della realtà. 36 Op. cit., p. 108. 37 Con formula omerica (τεθηπότες): in Omero (Odissea XXIII, 105) lo sgomento era attribuito allo θυμός e localizzato «nel petto» (ἐνι στήθεσσι). 38 Si tratta, a nostro avviso, dell’indicazione più importante nell’insieme del frammento. 385 Le due sequenze su cui ci siamo concentrati sono interessanti perché mostrano lo sforzo di Parmenide, per bocca della divinità, di ridefinire lo stereotipo tradizionale della fragilità mortale: così nel poeta-sapiente non troviamo alcuna condanna dell’uomo in quanto tale, semmai, sin dal proemio, il tentativo di individuare la norma razionale che vincoli umano e divino (Untersteiner). In questo senso la posizione di Parmenide appare vicina a quella del contemporaneo Eraclito: τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ ἀξύνετοι γίνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον· γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε ἀπείροισιν ἐοίκασι, πειρώμενοι καὶ ἐπέων καὶ ἔργων τοιούτων, ὁκοίων ἐγὼ διηγεῦμαι κατὰ φύσιν διαιρέων ἕκαστον καὶ φράζων ὅκως ἔχει. τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους λανθάνει ὁκόσα ἐγερθέντες ποιοῦσιν, ὅκωσπερ ὁκόσα εὕδοντες ἐπιλανθάνονται Di questo logos che è sempre gli uomini si rivelano senza comprensione, sia prima di udirlo, sia subito dopo averlo udito; sebbene tutto infatti accada secondo questo logos, si mostrano privi di esperienza, mentre si misurano con parole e azioni quali quelle che io presento, analizzando ogni cosa secondo natura e mostrando come è. Ma agli altri uomini rimane celato [sfugge] quello che fanno da svegli [dopo essersi destati], così come sono dimentichi di quello che fanno dormendo (Sesto Empirico; DK 22 B1) ὧι μάλιστα διηνεκῶς ὁμιλοῦσι λόγωι τῶι τὰ ὅλα διοικοῦντι, τούτωι διαφέρονται, καὶ οἷς καθ’ ἡμέραν ἐγκυροῦσι, ταῦτα αὐτοῖς ξένα φαίνεται proprio dal logos con cui hanno sempre costantemente rapporto, essi discordano, e quelle cose in cui si imbattono quotidianamente appaiono loro estranee (Marco Aurelio; DK 22 B72) ἀξύνετοι ἀκούσαντες κωφοῖσιν ἐοίκασι·φάτις αὐτοῖσιν μαρτυρεῖ παρεόντας ἀπεῖναι 386 ascoltando senza comprensione assomigliano a sordi; di loro è testimone il detto: pur presenti sono assenti (Clemente Alessandrino; DK 22 B34) ὁ Ἡ. φησι τ ο ῖ ς ἐ γ ρ η γ ο ρ ό σ ι ν ἕ ν α κ α ὶ κ ο ι ν ὸ ν κ ό σ μ ο ν ε ἶ ν α ι, τῶν δὲ κοιμωμένων ἕκαστον εἰς ἴ δ ι ο ν ἀποστρέφεσθαι E. dice che per coloro che sono desti il mondo è unico e comune, invece ciascuno di coloro che dormono ritorna a un proprio mondo privato (Plutarco; DK 22 B89) ξὺν νόωι λέγοντας ἰσχυρίζεσθαι χρὴ τῶι ξυνῶι πάντων, ὅκωσπερ νόμωι πόλις, καὶ πολὺ ἰσχυροτέρως. τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατεῖ γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκεῖ πᾶσι καὶ περιγίνεται Coloro che vogliono parlare con intendimento devono fondarsi su ciò che a tutti è comune, come la città sulla legge, e ancora più fermamente. Tutte le leggi umane, infatti, si alimentano dell’unica legge divina: poiché quella domina quanto vuole, basta per tutte le cose e avanza (Stobeo; DK 22 B114). Senza voler entrare nel dettaglio dell’interpretazione del pensiero di Eraclito, è sufficiente osservare come nelle citazioni sia marcato l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dai più: il suo discorso consapevole (λόγος) che annuncia come «tutto» accada secondo il logos (che manifesta dunque la struttura stabile del mutamento) è contrapposto all’incomprensione (mancanza di intelligenza della realtà) degli «altri» (uomini). Le espressioni impiegate denunciano chiaramente una condizione di inversione: pur essendo il logos alla base della realtà (in Eraclito abbiamo una delle prime attestazioni di κόσμος come ordine del mondo) che li circonda, gli «uomini» (ἄνθρωποι) ne ignorano la normatività; essi vivono così non da «desti» (ἐγρήγοροι) in una condizione di torpore, stordimento: una sorta di sonnambulismo. L’adesione al logos è adesione a «ciò che è comune» (τὸ ξυνόν) e quindi sensato, oggettivo, diversamente dall’ottusità della incon- 387 sapevole esperienza quotidiana, che convince falsamente di un mondo frammentario, discontinuo, caotico (il tema dell’estraneità). L’«io» della Dea di Parmenide e l’«io» personale di Eraclito sono – come correttamente segnalato da Conche39 - dalla stessa parte, in quanto «cooperatori del vero»; dall’altra ci sono coloro che non giudicano con la ragione: il segreto dell’erranza dei «mortali» è nel loro stesso pensiero40. A noi pare che lo studioso francese abbia colto nel segno sottolineando come l’espressione ἄκριτα φῦλα evochi l’«uomo collettivo», incapace di assumere la decisione (κρίσις) riguardo alle due vie: in questo senso, analogamente a quanto registriamo nei frammenti dell’Efesio, giudicare con intelligenza è possibile solo all’individuo che si distacchi intellettualmente dalle credenze collettive41. Una via “inventata” Per riassumere e concludere sulle vie di B6, ribadiamo la convinzione che Parmenide reiteri, in apertura del frammento, l’alternativa di B2, introducendo poi, in relazione a essa, il tema specifico dell’errore di fondo dei «mortali». Il passaggio alla confusa combinazione delle vie è accompagnato nel testo dal recupero del motivo tradizionale dell’impotenza umana (tanto più significativamente in quanto affidato alle parole di una divinità), che viene tuttavia “curvato” per corrispondere alle peculiari esigenze polemiche dell’autore. Il linguaggio parmenideo sembra insistere soprattutto sulla natura illusoria di una ὁδὸς διζήσιος («via di ricerca»), scaturita in realtà dalla presunzione e debolezza cognitiva dei «mortali». In questo senso esso non avalla alcuna “terza via”, non le riconosce alcuna consistenza, nemmeno sul piano strettamente logico: mentre la via che pensa «che non è e che è necessario non essere» si presentava come uno dei corni della alternativa 39 Non a caso editore sia dei frammenti parmenidei, sia di quelli eraclitei! 40 Conche, op. cit., p. 107. 41 Ivi, p. 108. 388 fondamentale e, pur impercorribile, poteva almeno essere prospettata correttamente, questa presunta “terza via” è stigmatizzata come “invenzione” di «coloro che nulla sanno», dunque come logicamente insostenibile. Le due vie di B2 possono essere ritradotte in forma tautologica in apertura di B6: ἐὸν ἔμμεναι e μηδὲν οὐκ ἔστιν; anche per la seconda via, dunque, a dispetto della sua negatività, è possibile, dunque, estrarre un soggetto, ancorché puramente formale (μηδέν, ovvero τό γε μὴ ἐὸν). Dei βροτοὶ εἰδότες οὐδέν - che nel loro scorretto argomentare e confuso parlare “si fingono” un commercio delle due vie alternative - si rileva invece: οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa (B6.8-9). È opportuno ricordare che Simplicio cita B6.1b-3 (dopo B2), tralasciando l’esordio del nostro frammento e concentrandosi sulla disgiunzione essere-non essere: ὅτι δὲ ἡ ἀντίφασις οὐ συναληθεύει, δι’ ἐκείνων λέγει τῶν ἐπῶν δι’ ὧν μέμφεται τοῖς εἰς ταὐτὸ συνάγουσι τὰ ἀντικείμενα Sostiene che le proposizioni contraddittorie non siano a un tempo vere [letteralmente: la contraddizione non sia vera] in quei versi in cui biasima coloro che mettono insieme gli opposti (In Aristotelis Physicam 117, 2). Precisa inoltre: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι Dopo aver biasimato coloro che congiungono l’essere e il non-essere nell’intelligibile (Simplicio, Phys. 78, 2; DK 28 B6). 389 Pur non concordando con l’analisi specifica di Leszl (vicina a quella di Cordero), mi sembra inoppugnabile la sua osservazione: Simplicio intende rilevare la contraddizione in cui cadono i mortali combinando termini incompatibili (essere e non-essere). Dei «mortali che nulla sanno» la Dea parmenidea denuncia essenzialmente l’incapacità di discriminare πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι («essere e non essere»), ταὐτὸν κοὐ ταὐτόν («la stessa cosa e non la stessa cosa»), che finiscono per essere contraddittoriamente riferiti a ἐόν. Nella loro finzione, secondo la Dea, essi indifferentemente assumono e combinano termini in realtà contraddittori, senza rendersi evidentemente conto della loro incompatibilità: proprio nella contestazione di tale ingiustificata, infondata assunzione, in questo come nei due successivi frammenti, si appalesa l’accanimento verbale di Parmenide. L’obiettivo della polemica Ma chi sono i «mortali» cui si rivolge l’attacco parmenideo? È possibile individuare un obiettivo specifico, ovvero dobbiamo pensare a una generica presa di posizione? Parmenide si limita a marcare la strutturale, originaria impotenza umana (come vuole Reinhardt), magari per legittimare la funzione rivelatrice della divinità (come vuole Mansfeld), oppure dobbiamo intravedere nei versi di B6 (come nei successivi di B7) la condanna di un errore determinato? Più precisamente: le assonanze espressive giustificano il coinvolgimento di Eraclito (e di suoi non meglio precisati seguaci) come oggetto delle critiche (come credono in molti), o dobbiamo piuttosto supporre che Parmenide prenda posizione in generale rispetto allo sfondo complessivo (e grandioso) della sapienza milesia (come sostengono, tra gli altri e in modo diverso, Untersteiner e Gadamer)? In un certo senso, citando a conferma della nostra lettura i frammenti eraclitei, abbiamo indirettamente già preso posizione, almeno rispetto ad alcune posizione consolidate del dibattito interpretativo. 390 Quella che mortali che nulla sanno s’inventano Se da un lato è corretta l’osservazione di Coxon, per cui in B6.4 il complemento pronominale (ἀπὸ τῆς) si riferisce alla ὁδὸς διζήσιος del verso precedente, e dunque a “ricercatori”, è dall’altro possibile che Parmenide abbia colto l’occasione per polemizzare nei confronti di coloro (il greco indica genericamente βροτοί, «mortali») che propongono un punto di vista ordinario, teoreticamente ingenuo, in una veste ispirata o sapienziale. Nel linguaggio della Dea sarebbero allora apostrofati («nulla sanno», εἰδότες οὐδέν) presunti sapienti che esprimono, in verità, solo opinioni volgari. L’errore ascritto – la mancata discriminazione delle due vie di B2 - potrebbe genericamente riferirsi all’incapacità di offrire una coerente (con le «uniche vie di ricerca per pensare») spiegazione dei processi naturali, preoccupazione esplicitata in B8.38-41 e soprattutto nella seconda sezione del poema. Ricordiamo che anche Eraclito ha modo di sviluppare, nei frammenti pervenutici, una polemica analoga: la sua nuova nozione di saggezza da un lato lo spinge a rifiutare i modelli della tradizione, discutendone lo spessore (il caso di Omero) o la competenza (Esiodo), dall’altro a contestare l’enciclopedismo dei contemporanei: τόν τε Ὅμηρον ἔφασκεν ἄξιον ἐκ τῶν ἀγώνων ἐκβάλλεσθαι καὶ ῥαπίζεσθαι καὶ Ἀρχίλοχον ὁμοίως Sosteneva che Omero fosse degno di essere cacciato dagli agoni e frustato e analogamente Archiloco (Diogene Laerzio; DK 22 B42) διδάσκαλος δὲ πλείστων Ἡσίοδος· τοῦτον ἐπίστανται πλεῖστα εἰδέναι, ὅστις ἡμέρην καὶ εὐφρόνην οὐκ ἐγίνωσκεν· ἔστι γὰρ ἕν Maestro dei più è Esiodo – costui credono sapesse una gran quantità di cose, lui che non aveva conoscenza di giorno e notte: sono infatti la stessa cosa (Ippolito; DK 22 B57) 391 πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσκει· Ἡσίοδον γὰρ ἂν ἐδίδαξε καὶ Πυθαγόρην αὖτίς τε Ξενοφάνεά τε καὶ Ἑκαταῖον l'apprendimento di molte cose non insegna la sapienza, altrimenti l'avrebbe insegnata a Esiodo e Pitagora e ancora a Senofane e Ecateo (Diogene Laerzio; DK 22 B40) Πυθαγόρης Μνησάρχου ἱστορίην ἤσκησεν ἀνθρώπων μάλιστα πάντων καὶ ἐκλεξάμενος ταύτας τὰς συγγραφὰς ἐποιήσατο ἑαυτοῦ σοφίην, πολυμαθίην, κακοτεχνίην. Pitagora, figlio di Mnesarco, esercitò la ricerca più di tutti gli uomini e raccogliendo questi scritti ne produsse la propria sapienza, il saper molte cose, cattiva arte (Diogene Laerzio; DK 22 B129). L’obiettivo, nel caso di Parmenide, potrebbe dunque essere generale, e coinvolgere le alternative al modello di sapienza filosofica che proprio la Dea interveniva a delineare, sollecitando il kouros a meditare le sue parole e a giudicare con intelligenza. Sul terreno filosofico è difficile pensare che le posizioni della tradizione milesia potessero meritare un'attenzione così critica e sprezzante. Il quadro offerto da Parmenide appare per molti versi analogo a quello delineato a Mileto, con la fondamentale differenza che, nel suo caso, non si punta a riscattare l’instabilità del divenire nella permanenza della φύσις-ἀρχή: nel complesso dei frammenti si può cogliere, semmai, la denuncia della debolezza degli schemi interpretativi ionici, come abbiamo già registrato nel commento a B4. Una polemica, aspra nei toni, come quella di B6 e B7 apparirebbe comunque eccessiva se rivolta effettivamente verso la cultura scientifica di Mileto (sempre ammettendo la praticabilità, all’epoca, di confronti del genere). L’impressione è che essa si rivolga piuttosto a una volgare contraffazione del sapere: Conche ha probabilmente ragione a cogliervi un riferimento alla massa di non filosofi, sordi e ciechi quando si tratta di intendere la parola della Dea, la parola della Verità. Anche in questo caso, potrebbe valere l’analogia con Eraclito. 392 Uomini a due teste All’inizio del secolo scorso Döring42 propose di leggere i versi B6.4-9 come polemica antipitagorica: una prospettiva rilanciata dall’adesione di una quota minoritaria degli specialisti (tra i più autorevoli certamente Raven43). Tra gli assunti di Döring44, soprattutto la convinzione che i primi pitagorici asserissero l’esistenza del vuoto, considerato identico al non-essere: posizione che Parmenide avrebbe riaffermato nella sua «terza via», combinando essere e non-essere. Si tratta, evidentemente, di tesi discutibili, che speculano su una materia molto controversa, non solo per le carenze documentarie, ma anche per la complessità di quel movimento culturale, con la sua tendenza a retroiettare verso l’origine conquiste teoriche maturate nel tempo. È vero, d’altra parte, che proprio queste difficoltà non consentono di escludere che Parmenide, sulle cui relazioni con ambienti pitagorici si è molto insistito, potesse attaccarne posizioni specifiche, immediatamente comprensibili nel contesto storico-culturale in cui erano avanzate, a un pubblico essenzialmente di uditori o discepoli. Raven, in particolare, ha ravvisato in B6.4-9 un riferimento al modello dualistico pitagorico45, in cui lo studioso riconosce un'impronta antica, pre-parmenidea. Esso troverebbe espressione nella tavola degli opposti attestata da Aristotele, riconducibile alla originaria opposizione di limite (πέρας) e illimite (ἄπειρον), cooperanti nella generazione di tutti gli enti46. 42 A. Döring, Geschichte der griechischen Philosophie, vol. I, Leipzig 1903. Dello stesso autore “Das Weltsystem des Parmenides”, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 104, 1894, pp. 161-177. 43 J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics. An Account of the Interaction between the Two Opposed Schools during the Fifth and Early Fourth Centuries B.C., Cambridge University Press, Cambridge 1948. 44 Si veda Tarán, p. 68. 45 Sebbene nella successiva opera con Kirk tale riferimento cada, a favore della possibilità del tradizionale coinvolgimento di Eraclito. 46 Aristotele, Metafisica, I, 5 986 a17-21: τοῦ δὲ ἀριθμοῦ στοιχεῖα τό τε ἄρτιον καὶ τὸ περιττόν, τούτων δὲ τὸ μὲν πεπερασμένον τὸ δὲ ἄπειρον, τὸ δ’ ἓν ἐξ 393 In questo senso, gli uomini «a due teste» (δίκρανοι) cui allude Parmenide potrebbero essere genericamente pitagorici oppure i pitagorici responsabili dell’elaborazione di quel modello dualistico: la testimonianza aristotelica, infatti, a dispetto dell’accenno a un contributo specifico dedicato all’argomento, rivela, (come nel ricorso all’espressione «i cosiddetti pitagorici», οἱ καλούμενοι Πυθαγόρειοι), incertezze di documentazione e difficoltà di determinazione, ricostruendo un percorso di ricerca (dallo studio matematico all'applicazione dei suoi principi a tutta la realtà) che potrebbe implicare un'evoluzione delle posizioni interne alla scuola. In ogni caso è per noi significativo il riferimento ad Alcmeone (contempoaneo di Parmenide) in relazione alla tavola delle due serie di contrari: ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· φησὶ γὰρ εἶναι δύο τὰ πολλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, λέγων τὰς ἐναντιότητας οὐχ ὥσπερ οὗτοι διωρισμένας ἀλλὰ τὰς τυχούσας [...] In tal modo pare pensasse anche Alcmeone Crotoniate, sia che questi prendesse tale dottrina da quelli, sia quelli da questo; poiché, quanto a età, Alcmeone fiorì quando Pitagora era vecchio, e si espresse in modo molto simile a costoro. Sosteneva, infatti, che la maggior parte delle cose umane sono dualità, pur non determinando, come fanno questi, le opposizioni, ma proponendole a caso [...] (Metafisica I, 5 986a 27-34). ἀμφοτέρων εἶναι τούτων (καὶ γὰρ ἄρτιον εἶναι καὶ περιττόν), τὸν δ’ ἀριθμὸν ἐκ τοῦ ἑνός, ἀριθμοὺς δέ, καθάπερ εἴρηται, τὸν ὅλον οὐρανόν [Essi pongono] come elementi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, l'altro limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi (è, infatti, insieme, e pari e dispari). Dall’Uno, poi, deriva il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero l’intero universo. 394 Secondo la Timpanaro Cardini47, dalla testimonianza aristotelica si può concludere che, come alla fisica ionica andava probabilmente ricondotta l'originaria dualità pitagorica (ἄπειρον-πέρας), così alla cultura scientifica milesia dovevano risalire quelle opposizioni (riscontrate poi nella pratica medica) che Alcmeone contribuì a introdurre nell'ambiente pitagorico, dove avrebbero ricevuto una elaborazione sistematica. Insomma, non è da escludere, a livello teorico, che le allusioni critiche dei versi parmenidei possano investire temi e figure di una tradizione che doveva risultare riconoscibile nello humus locale: in un’epoca per la quale è difficile valutare l’incidenza della distanza degli ambienti culturali, non vi è dubbio che appaia plausibile una referenza pitagorica. Sul rapporto con la tradizione pitagorica avremo comunque modo di tornare nel commento a B8. Il percorso torna all'indietro Sin dall’Ottocento (Bernays) è maturata tra un numero consistente di accreditati interpreti (Diels, Kranz, Mondolfo, Guthrie, Tarán, Couloubaritsis, Giannantoni, Cerri, Graham, tra gli altri) la convinzione che il vero obiettivo della polemica di B6.4-9 sia Eraclito (o, in alternativa, suoi presunti seguaci). Si va dalla supposizione motivata da considerazioni di contenuto (Guthrie48), alla lettura sostenuta dall'attenzione per la forma logica dei frammenti (Tarán e Couloubaritsis), alle conclusioni giustificate da assonanze espressive (per esempio Cerri). Sono spesso impiegati, come possibili evidenze testuali, le seguenti citazioni eraclitee: οὐ ξυνιᾶσιν ὅκως διαφερόμενον ἑωυτῶι ὁμολογέει· παλίντροπος ἁρμονίη ὅκωσπερ τόξου καὶ λύρης 47 Pitagorici antichi, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134- 135. 48 Op. cit., p. 23. 395 non capiscono che ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira (Ippolito; DK 22 B51) συνάψιες ὅλα καὶ οὐχ ὅλα, συμφερόμενον διαφερόμενον, συνᾶιδον διᾶιδον, καὶ ἐκ πάντων ἓν καὶ ἐξ ἑνὸς πάντα congiungimenti: intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose (Pseudo-Aristotele [de mundo 5 396 b7]; DK 22 B10) ποταμοῖς τοῖς αὐτοῖς ἐμβαίνομέν τε καὶ οὐκ ἐμβαίνομεν, εἶμέν τε καὶ οὐκ εἶμεν Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo (Eraclito; DK 22 B49a) ποταμῶι γὰρ οὐκ ἔστιν ἐμβῆναι δὶς τῶι αὐτῶι non si può discendere due volte nel medesimo fiume (Plutarco; DK 22 B91a). Nel testo di Parmenide si valorizzano per il confronto gli ultimi due versi (per lo più tradotti diversamente49): οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. 49 La resa italiana più frequente è la seguente: per i quali l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa: di tutte le cose c’è un percorso che torna indietro. 396 Secondo Tarán, la sottolineatura parmenidea riferirebbe a Eraclito (DK 22 B10) l’identità dei contrari come identità-nelladifferenza, secondo un modello del “sì e no”50, che l’Eleate ricondurrebbe all'opposizione fondamentale essere-non essere (per cui appunto «l’essere e il non essere sono considerati la stessa cosa e non la stessa cosa»). In questo senso, secondo Couloubaritsis, l’attacco di Parmenide sarebbe rivolto a una impostazione (quella eraclitea) ancora prossima alla logica ambivalente del mito, in cui la complementarità degli opposti suppone un legame indissociabile. Eppure lo studioso belga, nella modalità eraclitea di pensare gli opposti, riconosce già una presa di distanze da quella ambivalenza, soprattutto per l’introduzione di un’opposizione più inglobante, comune a tutti, quella appunto di essere e non-essere (DK 22 B49a, B91)51. Proprio la rottura radicale di quella logica caratterizzerebbe la κρίσις della Dea parmenidea, discriminante dunque allo stesso tempo anche rispetto alla posizione di Eraclito52. Ancora di recente, Graham53 ha proposto di leggere l’ontologia parmenidea come reazione prodotta dall’impatto dell’opera di Eraclito, la cui provocazione sarebbe consistita nella esasperazione della polarità presente nel modello ionico, con l’abbandono dell’idea di primato di una «sostanza generatrice» a vantaggio di quella di processo universale, regolato da una legge di scambio di masse elementari (fuoco, terra, acqua). A questi elementi di contenuto o struttura, si aggiunge poi il riscontro di un’eco espressiva eraclitea, quasi Parmenide intendesse colpire un avversario evocandone le parole. Sebbene Tarán, a proposito del conclusivo πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος, metta in guardia dalla tentazione di leggervi un puntuale riferimento alle parole di Eraclito (DK 22 B51)54, altri hanno molto insistito su questo punto: tra i contemporanei, per esempio, Cerri 50 Tarán, op. cit., p. 71. 51 Couloubaritsis, op. cit., p. 199. 52 Ivi, p. 200. 53 Per esempio, sia in Explaining the Cosmos, sia in The Texts of Early Greek Philosophy. 54 Semmai vi si dovrebbe ravvisare la caratterizzazione delle vedute degli assertori dell’identità dei contrari (p. 72). 397 trova conferma in B6.9 di una vera e propria «tecnica della citazione», già emersa nel proemio con la evocazione del mito di Fetonte e delle Eliadi55. Come Tarán e Couloubaritsis, anche lo studioso italiano marca vicinanza e distanza specifica della posizione di Parmenide rispetto a Eraclito, il quale, pur avendo anticipato la teoria dell'identità nella (apparente) differenza, manifestò nei suoi enunciati paradossali viva consapevolezza della problematicità di tale verità, delle oggettive contraddizioni insite nella realtà naturale e umana 56. Così non vi è dubbio, secondo Cerri, che siano proprio le formule scelte da Eraclito, del tipo «è e non è», a essere imputate da Parmenide: il filosofo di Efeso avrebbe infatti praticato quella (presunta) “terza via” denunciata dall’Eleate57. Lo studioso italiano, inoltre, sottolinea come le scelte lessicali di Simplicio, nel citare B6, mostrino come egli avesse inteso che la (presunta) “terza via” del frammento non si riferisse a un ingenuo atteggiamento ordinario della mente umana, ma alla tesi specifica di un indirizzo filosofico: il linguaggio impiegato dal commentatore, infatti, sarebbe quello con cui la tradizione peripatetica connotava inequivocabilmente la dottrina eraclitea58. Questa osservazione, tuttavia, non comporta alcunché riguardo all'identificazione del referente dell’attacco di Parmenide: tra gli specialisti è noto, infatti, come le ricostruzioni platonica e aristotelica propongano un’anomalia di fondo, che si ritiene effetto dei peculiari canali nella ricezione delle opinioni dei pensatori arcaici. Le prime collezioni delle loro tesi, infatti, sarebbero da attribuirsi, nella seconda metà del V secolo a.C., ai sofisti Ippia59, che avrebbe approntato una selezione per temi, e Gorgia, che invece avrebbe disposto il materiale per contrapposizioni teoriche: è dunque molto probabile che la versione offerta da chi (Platone e 55 Cerri, op. cit., p. 208. 56 Ivi, p. 206. 57 Ibidem. 58 Ivi, p. 208. 59 J. Mansfeld, “Aristotle, Plato and the Preplatonic doxography and chronography”, in G. Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Torino 1986, pp. 1-59. A. Patzer, Der Sophist Hippias als Philosophiehistoriker, Münich 1986. 398 Aristotele appunto) diede inizio alle prime forme di storiografia filosofica risentisse profondamente di quegli schemi riduttivi60. Mansfeld61 ha marcato come ciò risulti particolarmente evidente proprio nel caso di Eraclito e di Parmenide: del primo sarebbero stati esasperati la dottrina del flusso universale e della diversità (a scapito delle affermazioni su unità e stabilità); del secondo il motivo dell’Uno e dell’immobilità62. In realtà, come abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenza, è possibile leggere i frammenti di Eraclito in una prospettiva alternativa, tale da rendere problematici le facili schematizzazioni. L’Efesio, in effetti, proprio nelle citazioni sopra riportate, potrebbe essere impegnato in un'operazione analoga a quella parmenidea: considerare i modelli cosmologici e cosmogonici della prima riflessione ionica e delle teogonie poetico-religiose per estrapolarne gli schemi ricorrenti, sviluppando così la prima indagine sistematica sulle forme della razionalità applicata alla ricerca. Concretamente questo si sarebbe tradotto nel rilievo di tre aspetti essenziali: i) l'universale pervasività del divenire; ii) la forma inerente al divenire; iii) la stabilità persistente nel divenire. Significativa anche l’altra convergenza già segnalata: Eraclito esplicitamente polemizza con alcune figure della tradizione - Omero, Esiodo, Archiloco - e intellettuali contemporanei - Pitagora, Senofane, Ecateo - dalla cui sapienza egli si proponeva, evidentemente, di prendere le distanze, per delinearne, consapevolmente, quasi marcandone la novità, una propria. Eraclito manifesta una verità – relativa alla costituzione del mondo fisico e umano - a cui, pur avendone potenzialmente accesso attraverso esperienza e riflessione, la maggioranza degli uomini - indicata spregiativamente con l’espressione «i molti» (οἱ πολλοὶ) - rimane estranea. In questo senso, analogamente al kouros privilegiato dalla rivelazione della Dea, egli avverte e marca il proprio isolamento, sottolineando lo scarto tra una visione che va 60 Sebbene sia plausibile che Platone e Aristotele (e i suoi discepoli Teofrasto e Eudemo) avessero accesso a un manoscritto dell’intero poema. 61 F. Mansfeld, “Sources”, in A.A. Long (ed.), The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, C.U.P., Cambrdige 199, pp. 22-44. 62 Ivi, p. 27. 399 al fondo delle cose afferrandone la natura e la semplice, superficiale erudizione (πολυμαθίη) o la percezione parziale e distorta che impronta le credenze degli uomini (δοξάσματα). La pluralità delle cose è da lui colta come unitaria connessione cosmica, all’interno di due limiti essenziali: i) il «logos che è sempre» (τοῦ δὲ λόγου τοῦδ’ ἐόντος ἀεὶ); ii) la totalità degli enti che «sempre divengono secondo questo logos» (γινομένων γὰρ πάντων κατὰ τὸν λόγον τόνδε). Eraclito sottolinea il valore di norma del λόγος rispetto a ogni accadere, con allusioni all’unità della legge civile (νόμος) - cui si riconduce la identità della polis - e alla unicità della legge divina (cui si riducono quelle umane), e ne afferma la funzione strutturante all’interno dei singoli enti. Così, con riferimento al λόγος, «tutto è uno» 63, sia nel senso che le cose sono tra loro unitariamente organizzate secondo il suo piano, sia nel senso che nella natura di ogni singola cosa si riflette il suo schema. Il λόγος è la legge che regola il prodursi e il divenire degli enti nel mondo, pur rimanendo natura nascosta allo sguardo superficiale. È in considerazione di questi elementi teorici (al di là dei problemi di cronologia relativa, di non facile risoluzione64) che la supposizione di una polemica specificamente antieraclitea appare esagerata, a meno di non insistere su un atteggiamento in realtà più complesso (come sembrano fare Graham, Cerri e Couloubaritsis). Cerri, per esempio, riconoscendo come a Eraclito sia da attribuire un ruolo decisivo (da «archegeta») nella ricostruzione della dottrina dell’«essere», giustifica l’attacco di Parmenide come effetto dell’irritazione di fronte a un’incongruenza (la combina- 63 DK 22 B50: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας ὁμολογεῖν σοφόν ἐστιν ἓν πάντα εἶναι non me ascoltando, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno. 64 Su questo tra gli altri Conche (p. 108) e Colli (p. 178). 400 zione di «è» e «non è»), che rischiava di vanificarne l’intuizione scientifica65. In questo senso, però, le battute parmenidee sembrano destinate a stigmatizzare un errore ovvero un'incoerenza che il sapiente poteva cogliere non solo nelle espressioni della cultura tradizionale, ma anche nelle posizioni della stessa sapienza ionica. Ipotizzando per le opere degli autori presocratici – come ha fatto di recente Maria Laura Gemelli Marciano66 - un «contesto culturale e pragmatico» molto «concorrenziale», e concedendo quindi una circolazione sufficientemente ampia delle idee nel bacino del Mediterraneo, potremmo attribuire alla polemica parmenidea un riferimento generico e specifico a un tempo: (i) agli ignoranti colpevoli di fondamentali fraintendimenti dei propri dati sensoriali (da cui l’insistenza sull’ottundimento degli organi percettivi: cecità, sordità); (ii) ai poeti responsabili della divulgazione di quel volgare stravolgimento della realtà; (iii) ai pensatori ionici, che non avevano evitato un’ambiguità di fondo, riconoscendo la forza del principio a un elemento a scapito degli altri, concentrando l’essere in un’area della realtà, piuttosto che in un’altra; (iv) al limite allo stesso Eraclito, essenzialmente per le sue provocatorie enunciazioni di un logos che, per altri versi, Parmenide avrebbe dovuto apprezzare: formule in cui, pericolosamente dal punto di vista eleatico, essere e non-essere si trovavano accostati. Al centro dell’attacco dell’Eleate – come confermerà B7 – sono gli “uomini della contraddizione”, coloro che implicano – consapevolmente o meno67 – l’assurdo: «che siano cose che non sono»; in altre parole coloro («schiere senza giudizio») che, affidandosi acriticamente al dato empirico, condizionati dai meccanismi irriflessi dell’abitudine, avanzano una inaccettabile terza via. 65 Cerri, op. cit., p. 209. 66 M.L. Gemelli Marciano, "Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires", in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique? What is Presocratic Philosophy?, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq (Nord) 2002, pp. 83-114. 67 In questo senso la lettura di Gallop (pp. 11-12), che attribuisce alle convinzioni dei mortali riguardo a pluralità e divenire l’«assurda implicazione» che «essere e non-essere sono la stessa cosa e non la stessa cosa». 401 Come osserva Coxon68, la formulazione τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν è da leggere in opposizione alla tesi di B6.1a: χρὴ τὸ λέγειν τε νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι: il verbo νομίζω, con la sua soggettività, è contrastato dai positivi (e oggettivi) λέγειν e νοεῖν. Conche giustamente può marcare come l’espressione «mortali che nulla sanno» si riferisca alla massa di non filosofi, che Parmenide trova sordi e ciechi quando tenta di far intendere la parola della Dea, la parola della Verità69. Né va dimenticato un rilievo di Jaeger: νενόμισται evocherebbe non l’opinione di un uomo o di qualche individuo, ma la communis opinio, «la perversione del nomos dominante (cioè della tradizione)»70. A questa ignoranza, tuttavia, è possibile fossero associate nella condanna anche quelle espressioni scientifico-filosofiche in cui il discrimine tra «le uniche vie di ricerca per pensare» appariva debole o confuso: un fronte potenzialmente ampio, dai Milesi a Eraclito, passando per i pitagorici, la cui reale presenza polemica è comunque solo ipotetica. 68 Op. cit., p. 185. 69 Op. cit., p. 109. 70 W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, cit., p. 170, nota 36. 402 ESPERIENZA, ABITUDINE, GIUDIZIO [B7] Il frammento, ricostruito nel corso delle successive edizioni Diels e Diels-Kranz, è un collage di diverse citazioni: (i) Platone (Sofista 237 a 8-9) e Simplicio (In Aristotelis Physicam 143, 31–144, 1) riportano il secondo emistichio del primo verso e l’intero secondo verso; (ii) Aristotele (Metafisica XIV, 2 1089 a) riproduce l’intero primo verso; (iii) Sesto Empirico (Adversus Mathematicos VII, 111) trascrive i versi 2-6, citandoli di seguito a B1.28-32 e completandoli con B8.1b-2a; (iv) Diogene Laerzio (IX, 22) ci conserva i versi 3-5. Le sovrapposizioni sembrano quindi assicurare la plausibilità dell’attuale ricostruzione e la ragionevole unitarietà del frammento1, nonché la sua probabile saldatura con B8, in considerazione del fatto che il secondo emistichio dell’ultimo verso di B7 citato da Sesto corrisponde al primo verso della citazione dell’attacco di B8 in Simplicio. Anche da un punto di vista argomentativo appare piuttosto stretto il nesso tra B6, B7 e B82 e la loro dipendenza logica da B2 e B3. Coxon3 ritiene possibile che B7 seguisse B4, a causa dell’uso iniziale del plurale μὴ ἐόντα che richiamerebbe ἀπεόντα-παρεόντα (B4.1). Mansfeld4 - che propone la sequenza di tre blocchi logici (B2-B3, B6-B7, B8) – riconosce la possibilità che B5 si collochi tra il primo e secondo blocco. Rispetto all'attuale ricomposizione del frammento, rimane aperto il problema della (parziale) citazione sestiana in continuità con il proemio (e per questo accolta originariamente da Diels nel primo frammento del poema5 ), cui possiamo aggiungere anche quello linguistico e metrico, ipotizzando l'ulteriore continuità di 1 Tarán, op. cit., p. 76. 2 Mansfeld, op. cit., pp. 91-2. 3 Op. cit., p 189. 4 Op. cit., p. 92. 5 Di recente Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 49 ss.), che è sostanzialmente tornato a riproporre l'originale versione dielsiana. 403 B7.6[a] con B8.1[b]6. Attribuire l'origine delle difficoltà a una libera citazione antologica da parte di Sesto, ovvero a una sua citazione da antologia poco affidabile7, non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce del fatto che da Sesto abbiamo l'unica citazione dell'intero proemio, con tracce della redazione psilotica originaria (quindi di una tradizione alternativa a quella attica): è possibile, dunque, che «egli disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare di tutto il poema»8. Nel caso della sua citazione sarebbe semmai da valutare l'intenzione teoretica di fondo: mentre Simplicio esplicitamente si impegnava a documentare passi di un'opera ormai irreperibile, Sesto potrebbe aver consapevolmente "montato" parti del poema originariamente distinte, in funzione di un assunto generale: respingere la validità della sensazione come vero strumento di conoscenza9. Nonostante perduranti perplessità, negli ultimi decenni la critica si è mostrata tuttavia propensa a riconoscere la fondatezza della ricostruzione di Diels-Kranz anche riguardo al presente frammento. Non è in discussione, in ogni caso, il suo ruolo critico, per noi condizionato dalla ricezione di B6 e dalla soluzione del problema delle “vie”. Una via che è impossibile addomesticare L’attacco del frammento, infatti, ci proietta ancora sulla krisis di B2, ribadita all’inizio di B6: 6 Nella citazione di Sesto, il verso iniziale di B8 costiuisce il secondo emistichio (b) di B7.6a (ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα). Ma la forma tràdita - μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο - è improbabile in epica, dove si troverebbe μοῦνος (in vece di μόνος); d'altra parte, rettificandola, l'intero verso non reggerebbe metricamente. 7 Per esempio Plamer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., p. 380. 8 E. Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, Edizioni Quasar, Roma 2009, p. 31. 9 Ivi, p. 30. 404 οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). Il senso del primo verso coincide con la reiterazione della condanna della contraddizione, da cui la Dea mette in guardia il kouros, con scelte espressive (ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος, ma anche εἶργε νόημα, se accettiamo l’integrazione Diels per la lacuna di B6.2) che richiamano evidentemente il frammento precedente. Il nume sembra ancora impegnato a denunciare gli «uomini a due teste» (δίκρανοι), uomini della contraddizione appunto, formalizzandone in questo passaggio, nei termini delle «uniche vie di ricerca per pensare» (ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι B2.2), l’assurdità. Un pensare “selvaggio” Due elementi spingono in questa direzione: (i) l’espressione introduttiva (oὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) secondo cui è inammissibile che «cose che non sono» (μὴ ἐόντα) «sono [esitono]» (εἶναι); (ii) il sostantivo νόημα, che, come vedremo, può essere messo in relazione sia con la formula κρῖναι δὲ λόγῳ, («giudica invece con il ragionamento» ovvero valuta discorsivamente, attraverso l'argomentazione), sia, per contrasto, con ἔθος πολύπειρον, l’«abitudine» nata dalle «molte esperienze». Per quanto riguarda il primo aspetto, la traduzione che abbiamo adottato è sostanzialmente quella tradizionale, che Diels suggerì sulla scorta della lezione platonica e Tarán ha difeso per la sua sensatezza. Da O’Brien e Conche ne è stata proposta una versione più letterale (di cui si è data notizia in nota alla traduzione), che aiuta a comprendere il valore dell’affermazione εἶναι μὴ ἐόντα: «Jamais, en effet, cet énoncé ne sera dompté», «For never shall this [wild saying] be tamed» (O’Brien); «Car jamais ceci se- 405 ra mis sous le joug» (Conche). Ciò che la Dea vuol manifestare è l’insostenibilità, l’illegittimità della tesi che può ricavarsi dalla confusa posizione dei mortali «che nulla sanno». La contraddittoria commistione delle «due vie» (che si fondano sull’immediata evidenza «è» e sulla sua negazione), il mancato apprezzamento della loro disgiunzione, si traducono in una “selvaggia” (bestiale) contaminazione, che è impossibile “domare”, “aggiogare”, ricondurre a norma. Liddell-Scott-Jones propongono per damázw, in questo caso, proprio in relazione a questa attestazione parmenidea, lo specifico valore di «to be proved». La durezza della presa di posizione della Dea, che reitera le formule sprezzanti del frammento precedente, non si giustifica come semplice messa in guardia rispetto alla inconcludenza della “seconda via” (ὡς οὐκ ἔστιν), il cui statuto, ricordiamolo, era stato immediatamente definito in termini inequivocabili10: τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις· Proprio questa ti dichiaro essere sentiero del tutto privo di informazioni: poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né potresti indicarlo (B2.6-8). Ciò che viene stigmatizzato è piuttosto il fraintendimento corrente, consapevole o meno: il nume si riferisce a quelle posizioni che assumono esplicitamente o comunque implicano l’esistenza del non-essere. 10 Insiste su questo punto, in diversi passaggi del capitolo 5 (Parmenides’ Poem), la Wilkinson; in particolare pp. 77-8. 406 Cose che non sono Non è ovviamente sfuggito agli interpreti il fatto che in questi versi Parmenide utilizzi il plurale - εἶναι μὴ ἐόντα (una infinitiva, per altro, con soggetto senza articolo, così da lasciarlo indeterminato). Si è per lo più voluto cogliere in questa scelta un rilievo polemico nei confronti dell'esperienza sensibile11, di una “via” dei sensi che cerca di attribuire esistenza a cose che non esistono. Anzi, secondo Cordero12, la critica delle attestazioni sensibili salderebbe gli ultimi versi di B6 all’intero B7, in un complessivo attacco al πλακτὸς νόος dei mortali. Insomma, l’infinitiva iniziale (εἶναι μὴ ἐόντα), riassumendo B6.8-9, denuncerebbe l’esito di un modo di pensare – quello di «mortali che nulla sanno» (βροτοὶ εἰδότες οὐδέν) – condizionato, dalla fiducia nel dato sensibile e dalla guida di un intelletto instabile, a credere che esistano cose che non sono13. Parmenide avrebbe impiegato il plurale (μή ἐόντα) e non il singolare (μή ἐόν) perché il pensiero "selvaggio" di chi si allontana dalla strada dell’essere è esercitato a partire dalle cose che si presentano nell’esperienza14. In questo passaggio il filosofo non intenderebbe, tuttavia, riferirsi al «non-essere», non sarebbe impegnato a rigettare la seconda via15, ma a rilevare la contraddizione indotta dal fraintendimento dell’esperienza16. L’insistenza su questo punto nei due frammenti che precedono (secondo le ipotesi di ricostruzione cui abbiamo introduttivamente accennato) la lunga analisi della “prima via” in B8.1-49, rivela come esso sia cruciale nella economia del discorso di Parmenide, soprattutto in funzione della seconda sezione del poema. 11 Tarán, op. cit., p. 77. 12 By Being, It Is, cit., p. 129. 13 Ivi, p. 130. 14 Ruggiu, op. cit., p. 263. 15 Come ritengono Cordero e Tarán. 16 Conche, op. cit., p. 117. 407 Una posizione diversa e più specifica in proposito è quella espressa da Coxon17, secondo cui il contesto di B7 sarebbe quello di una critica non genericamente condotta nei confronti dell'esperienza sensibile o del suo fraintendimento, ma delle teorie fisiche precedenti e contemporanee. Ciò sarebbe confermato da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11-2), che cita il verso 2 proiettandolo nella discussione aristotelica degli argomenti del V secolo a favore o contro l’esistenza dello spazio vuoto: καὶ τὸ κενὸν οὐκ ἔχει χώραν ἐν τῷ παντελῶς ὄντι, ὥσπερ οὐδὲ τὸ μὴ ὄν non può esservi il vuoto in ciò che è in senso pieno, così come non può esservi il non-essere. Nella sottolineatura parmenidea dell'inesistenza di «cose che non sono», avremmo allora una contestazione delle teorie ioniche (i processi di condensazione-rarefazione cui alluderebbe anche B4, i cui ἀπεόντα-παρεόντα sarebbero evocati appunto da μὴ ἐόντα), e probabilmente delle posizioni di alcuni pitagorici sul vuoto: logicamente B7.1-2 dipenderebbe da B2 e B4, in quanto a essere coinvolta nell’attacco sarebbe appunto la supposizione che esista il vuoto (equiparato al non-essere), condizione per discriminare l’Essere in ἐόντα. In pratica la Dea richiamerebbe il kouros (in questa prospettiva essenziale l’enfasi sul «tu» personale) dalla tentazione di seguire coloro che asseriscono l’esistenza del non-essere (vuoto)18. In effetti, come ci ricorda anche la Wilkinson19, il concetto di «non-essere» sarebbe associato nella riflessione arcaica al termine e alla nozione pitagorica di ἄπειρον (illimitato): come risulta dalla testimonianza aristotelica, i Pitagorici sostenevano che, dall'esterno «illimitato soffio» (ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος), il vuoto (τὸ κενόν) fosse penetrato nell'universo (οὐρανός) come «respiro» (πνεῦμα), costituendo lo spazio discriminante e distanziante le cose: 17 Op. cit., p. 189. 18 Ivi, pp. 190-191. 19 Op. cit., p. 101. 408 εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermavano che esistesse il vuoto e che esso dall'illimitato soffio penetrasse nell'universo come se questo respirasse, e che è il vuoto a delimitare le nature, quasi il vuoto fosse una sorta di separatore e divisore delle cose che sono in successione. Questo accade in primo luogo tra i numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b22-27). Come abbiamo osservato commentando B6, l’ipotesi di un confronto con le tesi pitagoriche è suggestiva, anche per l’ambiente culturale cui si rivolgono i versi di Parmenide: le indicazioni di Coxon, in effetti, sono supportate dall’uso di aggettivi come ἔμπλεόν (B8.24) – riferito a ἐόν - ovvero πλέον (B9.3) per «pieno»: Οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. (B8.22-24). Αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, 409 e queste, secondo le rispettive proprietà, a queste cose e a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla. (B9). Nei due diversi contesti – la sezione sulla Verità per B8, e, quasi certamente, quella sulla Opinione, per B9 -, Parmenide associa a ἐόν e πᾶν omogeneità e pienezza, evidenziando, nel secondo caso, l’assenza del nulla. Ciò farebbe supporre implicito il rifiuto del «vuoto» (τὸ κενόν) e la sua identificazione con il nonessere (μηδέν, «nulla» appunto), che solo Melisso avrebbe esplicitamente sostenuto: οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν Né esiste alcunché di vuoto: il vuoto, infatti, è nulla; e ciò che è nulla non può esistere (DK 30 B7.7). Coxon20 nota come Aristotele – nella discussione sul vuoto commentata da Simplicio (In Aristotelis Physicam 650, 11), cui si riferisce la citazione di B7.2 – coinvolga sul tema, oltre a Leucippo e Democrito, solo i Pitagorici: essi avrebbero appunto attribuito al vuoto una funzione discriminante, all’origine della pluralità (in primo luogo dei numeri). La proposta di Coxon non è, tuttavia, del tutto convincente nello specifico, in quanto non è sufficiente a spiegare il ricorso a μὴ ἐόντα per indicare il vuoto. Forse giustificato per designare i supposti enti molteplici, effetto dell’assunzione del vuoto-nulla, l’uso del plurale – come conferma anche il lessico di Melisso - sembra improprio in riferimento a qualcosa che è in sé indiscriminabile e inconsistente. Appare dunque più probabile che l’apertura dell’attuale B7 riprenda la polemica aperta in B6 contro gli «uomini a due teste», formalizzandola in relazione alla krisis di B2: il γὰρ del primo verso sottolinea una continuità argomentativa che potrebbe trova- 20 Coxon, op. cit., pp. 189-190. 410 re, nella formula contraddittoria εἶναι μὴ ἐόντα, la possibilità di stigmatizzare con rigore l’assurdità implicita nelle assunzioni di βροτοὶ εἰδότες οὐδέν. Forse la lettura di Mansfeld 21 è incauta nell’assumere la validità dell’integrazione εἴργω di Diels per B6.3, ma la proposta complessiva è di grande interesse: i primi due versi di B7 riformulerebbero B6; εἶργε (B7.2) richiamerebbe εἴργω (B6.3), completandone il senso con un chiaro esempio di composizione ad anello. L’attacco ai «mortali che nulla sanno» sarebbe dunque compreso tra il primo richiamo alla disgiunzione fondamentale (B6.1-2: ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) e l’invito a «giudicare con il ragionamento» (κρῖναι δὲ λόγῳ): due modi per evocare la krisis di B2, prima e dopo la descrizione del mondo umano22. Che siano cose che non sono La Dea mette in guardia il kouros: a dispetto dell’alternativa rappresentata dalle «uniche vie di ricerca per pensare» e dunque contro una coerente considerazione razionale della realtà, si tenta di far accettare l’esistenza di cose che non sono. In gioco è la presunta pluralità di “non-enti” (μὴ ἐόντα) in qualche modo associata, nei versi successivi a ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze», un costume mentale scaturito dal commercio quotidiano con il mondo. B4.1-2 può essere su questo di aiuto alla comprensione: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque per la mente saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. 21 Op. cit., p. 91. 22 Ibidem. 411 Ciò che non è immediatamente percepito è comunque razionalmente raccolto nell’«essere» (τὸ ἐὸν), perché il νόος impedisce di considerare l’essere a “intermittenza”, quasi fosse alternato al non-essere. Sono i sensi ad attestare presenza e assenza immediate degli enti; è l’abitudine a tale oscillante attestazione empirica a tradire la corretta comprensione: una superficiale lettura dei dati empirici spinge a riscontravi la successione di essere (presenza) e non-essere (assenza). I sensi, in verità, non rilevano (né potrebbero) il non-essere, come giustamente ricorda Ruggiu23: essi attestano la presenza di qualcosa, quindi la sua assenza; mai, però, propriamente il nulla. Ciò che la Dea contesta è dunque una superficiale inferenza condotta dai mortali a partire dalla loro esperienza: in Parmenide, come in Eraclito, non è in discussione il valore dei sensi, ma quello dei giudizi dei mortali24. Ma tu … Leggiamo ancora una volta l’attacco di B7: Οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (B7.1-2). La Dea esorta il kouros a trattenere il pensiero (εἶργε νόημα) dall'incosciente illusione che esistano cose che non sono (εἶναι μὴ ἐόντα). Ritorna il riferimento alla «via di ricerca» (τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος), che richiama B6.4-5: […] ἀπὸ τῆς [ὁδοῦ διζήσιος], ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν 23 Op. cit., p. 266. 24 Conche, op. cit., p. 122. 412 < πλάσσονται >, δίκρανοι […] da quella [via di ricerca] che mortali che nulla sanno < s’inventano >, uomini a due teste […] Nel frammento precedente si era iniziato a costruire lo stereotipo degli sprovveduti mortali, impaniati nella contraddizione: il loro, in fondo, era solo un “preteso” percorso d’indagine, in realtà forgiato indebitamente (πλάσσονται, «s’inventano»). In B7, invece, si punta su due elementi: (a) la dura presa di posizione (οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ) rispetto alla pretesa che «siano cose che non sono»; (b) l’appello personale (ἀλλὰ σὺ) a trattanersi - evidentemente contrapposto con enfasi agli ἄκριτα φῦλα, alle «schiere scriteriate» (B6.7), impotenti a discriminare essere e non-essere. Questo richiamo personale segue: (i) l’iniziale allocuzione di saluto della dea al kouros (B1.24- 28) con l’illustrazione del suo programma di istruzione (B1.28b: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι); (ii) l’invito ad aver cura della comunicazione introduttiva sulle due vie alternative di ricerca, da cui dipende la possibilità di accedere alla Verità (B2.1: εἰ δ΄ ἄγ΄ ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούσας); (iii) l’esortazione ad atteggiare coerentemente la propria intelligenza (B4.1 e B6.2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως; τά σ΄ ἐγὼ φράζεσθαι ἄνωγα); (iv) la dissuasione dalla tentazione irriflessa di adeguarsi a uno stile di pensiero (e comportamento) diffuso ma logicamente contraddittorio (B6.3-4: πρώτης γάρ σ΄25 ἀφ΄ ὁδοῦ ταύτης διζήσιος < εἴργω >, αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς...). In B7 registriamo dunque il compimento dello sforzo dissuasivo della dea nei confronti del kouros, esplicitamente sollecitato a marcare il proprio atteggiamento intellettuale rispetto all’«impotenza» dei «mortali», a condividere razionalmente la disamina critica della Dea. La presunta "terza via" è delineata es- 25 Il codice D di Simplicio riporta σ΄ (così come E e F); B e C, invece, τ΄. 413 senzialmente per distogliere da essa: B6 e B7 svolgono, in questo senso, l'ufficio critico di «liberare la mente dell'allievo (e dell'uditorio) da presupposti invalsi e premesse fallaci» per concentrarla sul compito arduo di «riconoscere i segni scaglionati lungo la Via dell'essere»26. Chiara Robbiano, interessata a valorizzare in chiave performativa l’efficacia comunicazionale del poema, ha sottolineato lo specifico effetto identificativo sull’audience. Essa è stata incoraggiata a immedesimarsi nel destinatario della comunicazione divina: un «uomo che sa» (B1.3), partner degli dei (B1.24) sotto l’egida di Themis e Dikē (B1.28). All’audience è stata prospettata quindi la scelta tra le alternative «per pensare» proposte dalla Dea: la via lungo la quale è lei stessa a condurre alla manifestazione dei «segni» della realtà genuina, e l’altra, da cui ella mette in guardia, dal momento che, come abbiamo sopra ricordato: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις. Ora, le vie dei mortali, nel loro sforzo di comprensione della realtà, implicano il nulla: così in B7.4-5 la Dea metterebbe sull’avviso la propria audience contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle27, insistendo a stigmatizzarne confusione e distorsione. In questo senso, rispetto alla marcata contrapposizione del «tu» ai «mortali» (e alle loro vie confuse), il riferimento della Robbiano allo schema dissuasivo dell’antimodello28: tra B6 e B7 la Dea connoterebbe uno stereotipo negativo (un antimodello, appunto), così da condizionare nella scelta la propria audience interna (il kouros) ed esterna. Imboccare la via sbagliata impliche- 26 Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 48-9. 27 Robbiano, op. cit., p. 97. 28 Secondo la lezione di Ch. Perelman & L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, Paris 1958, §80: le modèle et l’antimodèle. 414 rebbe, infatti, essere assimilati a una tipologia umana con cui nessuno intende identificarsi29. Da questa via di ricerca… Come abbiamo segnalato in nota, nella testimonianza di Simplicio (forse direttamente dal testo del poema) la «via di ricerca» da cui la Dea inviterebbe a tenersi alla larga (B7.2) sarebbe la seconda di B2 (ὡς οὐκ ἔστιν), diversa da quella evocata in B6.4, inventata da «mortali che nulla sanno»: μεμψάμενος γὰρ τοῖς τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν συμφέρουσιν ἐν τῶι νοητῶι [B6.8-9] καὶ ἀποστρέψας τῆς ὁδοῦ τῆς τὸ μὴ ὂν ζητούσης [B7.2], ἐπάγει [B8.1 ss.] Dopo aver biasimato infatti coloro che congiungono l'essere e il non-essere nell'intelligibile [citazione B6.8-9] e aver allontanato dalla via che ricerca il non-essere [citazione B7.2], soggiunge [citazione B8.1 ss.] (In Aristotelis Physicam 78, 2). Certamente la “seconda via” è coinvolta nel rilievo della Dea, ma non nel senso che a essa immediatamente ci si riferisca: essa, piuttosto, risulta implicata nella posizione espressa dai mortali che combinano indiscriminatamente essere e non-essere. Ed è per questo motivo che B7.1 denuncia l'insostenibile contraddizione: εἶναι μὴ ἐόντα, dove, come abbiamo già segnalato, il neutro plurale plausibilmente si salda alla prospettiva del fraintendimento empirico di cui si renderebbero colpevoli i «mortali». Condividiamo dunque la lettura di B7.2 che Conche30 (e altri) hanno avanzato: la via di ricerca incriminata sarebbe quella che βροτοὶ εἰδότες οὐδέν illusoriamente si forgiano, quella appunto che pretende che i non-enti siano. Si tratta impropriamente di una 29 Robbiano, op. cit., pp. 103-4. 30 Op. cit., p. 120. 415 terza via, illegittima dal punto di vista della Dea: in B2 sono definite le uniche vie legittime da un punto di vista razionale (quello della Dea). Il pensiero e l’abitudine I versi che seguono l’avviso della Dea contribuiscono probabilmente a chiarire l’origine dello sviamento dei «mortali che nulla sanno»: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Appena invitato il kouros a trattenere il pensiero (νόημα) dalla fittizia via di indagine lungo la quale si trascinano i (o meglio certi) «mortali», il nume richiama l’attenzione sulle insidie dell’«abitudine» (ἔθος), che allignano nella irriflessa consuetudine quotidiana, con l’effetto di stravolgerne il quadro: i termini in gioco sono appunto (i) ἔθος, che guadagna la sua forza dal contrasto con (ii) νόημα. Il linguaggio dei versi 4-5 riprende chiaramente la fenomenologia degli ἄκριτα φῦλα (B6.7): l’«abitudine» è contrastata con la valutazione intellettuale implicita in νόημα, che può dissolvere le illusorie (perché in sé contraddittorie) certezze empiriche. Costume irriflesso Di quale abitudine si tratta? La Dea la qualifica come πολύπειρον, probabilmente per marcarne l’origine dalle frequenti 416 esperienze, e ne rileva l’azione a un tempo dispotica e insidiosa: evidentemente il quotidiano rapporto sensibile con le cose, quanquando non è guidato dall'intelligenza, può indurre assuefazione e spingere, inconsapevolmente, a ritenere che «siano cose che non sono». La nuova messa in guardia è giustificata dai meccanismi irriflessi che condizionano il nostro orientamento: proprio per questo i sensi non possono essere separati dalla ragione31. È sufficientemente chiaro che la condanna è rivolta al cattivo uso dei sensi per effetto dell’abitudine e non ai sensi stessi: è infatti marcato nel testo come sia l’ἔθος πολύπειρον a “forzare” (βιάσθω) la percezione. D’altra parte, se la Dea esorta a giudicare con la ragione è perché lungo la via sconsigliata la ragione non è impiegata, sotto l’effetto appunto dell’abitudine32. Costantemente sottoposti a input sensibili che richiederebbero di essere correttamente analizzati, i mortali sviluppano una acritica dimestichezza con le cose, progressivamente avviluppandosi in una spirale di incomprensioni. Eraclito aveva espresso forse lo stesso punto di vista: κακοὶ μάρτυρες ἀνθρώποισιν ὀφθαλμοὶ καὶ ὦτα βαρβάρους ψυχὰς ἐχόντων Cattivi testimoni per gli uomini sono occhi e orecchi, se essi hanno anime barbare [balbettanti] (Sesto Empirico; DK 22 B107). L’Efesio riconosce all’anima una funzione intellettuale – la presenza a sé stessi, la consapevolezza - testimoniata da prontezza di direzione, controllo sui gesti e in genere sul corpo (si vedano, per esempio, i frammenti B85 e B118) – integrata dalla capacità di discernimento, senza la quale, sostiene il filosofo, i sensi sono fuorvianti. I dati sensoriali in sé considerati sono insufficienti, richiedendo il vaglio critico della psychē, proposta come istanza indipendente rispetto alla sensibilità. Interessante, nella prospettiva parmenidea, l’uso dell’aggettivo «barbaro», in cui è stata ravvisata la probabile implicazione linguistica: il termine si riferisce, 31 Ruggiu, op. cit., p. 267. 32 Conche, op. cit., p. 121. 417 infatti, o al balbettare di chi non ha un buon controllo della lingua (gli stranieri) o alla incomprensione di chi non conosce il linguaggio. A sottolineare l’essenziale ruolo dell’anima come facoltà di raccolta, decifrazione e intellezione dei dati empirici. In Parmenide, come in Eraclito, non è in gioco il valore dei sensi, ma quello dei giudizi e del linguaggio dei mortali: i sensi, in effetti, non fanno che attestare presenza e assenza; il resto è frutto del giudizio e del linguaggio umani, che attribuiscono ai dati sensoriali una consistenza ontologica che essi non rivendicano33. L’erramento dei «mortali» è marcato dalla Dea (come in B6.4-9) come erramento del pensiero, intellettuale: se consideriamo il contesto del suo discorso, assicurato da B1, potremmo convenire con Conche che, se la via della Dea è discosta «dalla pista degli uomini» (ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου B1.27), l’abitudine, al contrario, pare proprio trattenere e intrattenere su quel percorso34. In questa prospettiva l’esortazione rivolta al kouros in B7.2 (ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα) può essere letta di nuovo in parallelo con il frammento B1 di Eraclito (già utilizzato nel commento a B6): l’isolamento del sapiente rispetto alle opinioni condivise dagli «altri uomini» (τοὺς δὲ ἄλλους ἀνθρώπους) si rivela nella tensione tra il suo discorso consapevole - che annuncia il dominio del logos su tutta la realtà - e l’incomprensione degli uomini (nei frammenti connotata come torpore, stordimento, una sorta di sonnambulismo) per le cose che li circondano, tanto più grave in quanto essi pure si muovono nell’ambito di quella legge universale e eterna, cui è improntato il divenire di tutti gli enti. Ramnoux35 preferisce allora al termine «abitudine» il termine «costume», per evidenziarne un effetto: esso ci spinge a giudicare come tutti gli altri, ad assumere un punto di visto ordinario, come se il nostro sguardo fosse privo di una propria identità. Per questo, dunque, l’appello personale della Dea al discepolo affinché valuti 33 Ivi, p. 122. 34 Ivi, p. 121. 35 C. Ramnoux, Parménide et ses successeurs immédiats, Monaco, Ed. du Rocher, 1979, p. 111. La referenza è di Conche, op. cit., p. 121. 418 ragionando. Conche 36 ne ricava un'indicazione suggestiva: l’abitudine esercita il suo potere in modo insidioso, facendo leva sulla pressione sociale, con il risultato di alienare il giudizio personale nel giudizio collettivo. La via ordinaria è la via “collettiva” dei mortali; la via della Dea, la via della Verità, è la via “singolare” del kouros37. Sempre in relazione a Eraclito, ma all’interno del più generale quadro di riferimento della cultura arcaica, Cerri 38 valorizza l’espressione ἔθος πολύπειρον, il «vezzo di molto sapere». I termini πολύπειρος e πολυπειρία (in greco sinonimo di πολυμαθία e ἱστορία) indicherebbero l’attitudine alle molte esperienze, a collezionare notizie, denotando in ultima analisi una forma di cultura nozionistica, nell’antichità attribuita per esempio a Solone39, impartita con la memorizzazione scolastica, che Platone (Leggi 7.811 a-b) esplicitamente condanna (come πολυπειρία e πολυμαθία), ma già duramente stigmatizzata, come in precedenza ricordato, da Eraclito (DK 22 B40; B129). Appoggiandosi a Gemelli Marciano40, anche Chiara Robbiano ha di recente ricordato come nel contesto presocratico (in particolare in Senofane, Eraclito ed Empedocle) sia costante la polemica nei confronti di altri filosofi ma soprattutto di altre autorità in campo culturale e sapienziale. In questo senso sarebbero da leggere le aspre critiche di Parmenide in B7: il riferimento sarebbe alla πολυμαθίη come sapienza tradizionale, che raccoglie e accumula conoscenza intorno a molte cose41. 36 Che, ricordiamolo, è anche editore di Eraclito. 37 Conche, op. cit., p. 122. 38 Op. cit., pp. 61-2. 39 Il quale (Plutarco, Sol. 2.1) avrebbe compiuto viaggi in giovinezza «a scopo di esperienza molteplice e di indagine conoscitiva». 40 M.L. Gemelli Marciano, “Le contexte culturel des Présocratiques: adversaires et destinataires”, cit., pp. 83-114. 41 Robbiano, op. cit., p. 102. 419 Occhio, orecchio e lingua La “forza” della consuetudine è dunque contrastata dalla “persuasività” (B2.4) che caratterizza il viaggio lungo la via autentica42: il logos deve rettificare l’eco confusa della comune ricezione empirica, la cui cifra è, ribadiamolo, essenzialmente la distorsione: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5). Parmenide recupera un motivo tradizionale, che ha riscontri in Omero43 e nei lirici e ritornerà ancora in Empedocle (DK 31 B3), ma soprattutto, come abbiamo già ricordato a proposito di B6.7, in Eschilo: οἳ πρῶτα μὲν βλέποντες ἔβλεπον μάτην, κλύοντες οὐκ ἤκουον, ἀλλ’ ὀνειράτων ἀλίγκιοι μορφαῖσι τὸν μακρὸν βίον ἔφυρον εἰκῆι πάντα Dapprima essi [gli uomini], pur avendo occhi, in vano osservavano; avendo orecchi non ascoltavano; solo di sogni simili alle forme, la lunga vita impastavano tutta senza disegno (Eschilo, Prometeo incatenato 447-50). Couloubaritsis ritiene che i μὴ ἐόντα (analogamente a τὰ δοκοῦντα) sarebbero da identificare con le “cose”, cui Parmenide 42 Coxon, op. cit., p. 191. 43 Coxon (p. 192) sottolinea la risonanza omerica (non l’uso che se ne fa ) dell’intero verso 4. 420 negherebbe lo statuto di essere, attribuendo al commercio quotidiano con esse, all’esperienza multipla, quella violenza sul pensiero che si traduce nella identificazione del reale con il divenire44. In verità, la Dea insegnerebbe che il loro statuto è quello di «nome» (ὄνομα): svuotate di ogni consistenza ontologica, le “cose” sono così destinate a sparire. Secondo l’autore belga, dunque, questa prima forma di “nominalismo” condannerebbe ogni tentativo di attribuire realtà alle cose come «vuoto parlare», «parlare per non dire niente»45. Noi riteniamo che in B7 Parmenide rilanci la propria denuncia contro il modo comune di guardare alle cose e di esperirle: i mortali implicano il non-essere nel tentativo di comprendere la realtà attraverso il dato sensibile: dunque, per riprendere una osservazione della Robbiano46, la Dea ammonisce la propria audience che quando si coinvolge il non-essere, non si troverà la verità. Per riprendere una formulazione, che ci pare efficace, della Wilkinson47, la Dea «non critica i mortali perché percepiscono in modo scorretto, piuttosto critica i mortali perché nominano in modo scorretto quello che percepiscono»48. Logos e elenchos Il frammento si chiude con una esortazione notevole: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata (B7.5-6). L’interesse del passo è legato alla connessione tra vocaboli destinati a diventare tecnici nelle filosofie posteriori - λόγος e 44 Mythe et Philosophie…, cit., p. 201. 45 Ivi, pp. 201-2. 46 Op. cit., p. 97. 47 Op. cit., p. 105. 48 Enfasi dell’autrice. 421 ἔλεγχος: il kouros è invitato a valutare, a sottoporre a scrutinio, con il logos (con il discorso, con l'argomentazione) l’elenchos (qualificato come πολύδηριν, «polemico», ma anche «molto contestato») appena proposto (sulle implicazioni temporali del participio aoristo ῥηθέντα si veda la nota alla traduzione). La Dea, con trasparenza, sollecita il proprio interlocutore a prendere piena coscienza della forza (razionale) della contestazione condotta: (i) ogni distanza (tra umano e divino) è così annullata sul terreno dell’argomentazione: il potere del logos può accomunare docente e discente; (ii) giudicare e discriminare appaiono come operazioni implicanti il logos e riferentesi a una «prova» destinata a contestare: in senso aristotelico, un argomento che intende accertare una contraddizione. Il termine λόγος indicava originariamente l’attività e il risultato del «raccogliere» (λέγειν), donde una prima associazione semantica alla «numerazione» e le successive due linee di sviluppo: (i) «enumerazione» e «racconto» (inteso appunto come raccolta e ordinamento di fatti), quindi «discorso»; (ii) «conteggio, calcolo, stima, ragionamento». Nel nostro contesto, e nella associazione con κρίνω, λόγος è espressione di operatività razionale: argomentazione, riflessione. Nel contemporaneo Eraclito, λόγος risulta polivalente, designando a un tempo il «discorso», la sua espressione scritta, il suo significato; con una forte valenza ontologica, nella misura in cui viene utilizzato per designare la struttura della realtà, la sua misura interna. Secondo Ruggiu49, anche in Parmenide, come in Eraclito B1, λόγος indicherebbe quella peculiare forma di conoscenza razionale che (analogamente al νόος) consente di penetrare il senso profondo delle cose. A determinarne l’accezione è proprio l’associazione con ἔλεγχος: il valore etimologico originario del verbo ἐλέγχω (da cui discende il sostantivo ἔλεγχος) è «provocare vergogna», una vergogna che scaturisce dalla cattiva figura; collegato a esso è il significato di «smentire una menzogna», riuscire a provare che qualcuno è colpevole di una menzogna. È possibile che in questo 49 Op. cit., p. 267. 422 modo il verbo abbia assunto il senso di «mettere alla prova, verificare, accertare qualcosa». L’espressione πολύδηρις ἔλεγχος sembra dunque riferirsi proprio alla critica, sviluppata tra B6 e B7, nei confronti della presunta sapienza tradizionale, probabilmente delle tesi di pensatori ionici e forse pitagorici. Una vera e propria confutazione, se consideriamo che la polemica è consistita essenzialmente nel denunciare la contraddizione implicita in quelle posizioni. La Dea dapprima (B2.3a; B2.5a) propone l’espressione diretta della semplice e immediata esperienza della realtà, ἔστιν, contrapponendole la negazione (οὐκ ἔστιν): da questa alternativa fondamentale e radicale, può ulteriormente ricavare τό μὴ ἐὸν (B2.7) e τὸ ἐὸν (B42; ἐὸν B6.1) come soggetti (ancorché il primo solo logico, il secondo reale) delle due coerenti «vie per pensare». Quindi, dopo aver riformulato (B6.1-2) in termini tautologici (ἐὸν ἔμμεναι; μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν) il contenuto delle vie, ella si concentra (B6.4-9; B7) sul cortocircuito prodotto nel pensiero (νόος) dei «mortali» dalla loro contraddizione50, cioè dall’incauta contravvenzione delle norme: οὐκ ἔστι μὴ εἶναι (B2.3b); χρεών ἐστι μὴ εἶναι (B2.5b). In questo senso la «prova» intorno a cui la Dea invita il kouros a meditare è, nella posteriore accezione aristotelica, una «confutazione» (ἔλεγχος), deduzione di una contraddizione (ἀντίφασις), cioè procedimento dialettico per eccellenza 51. 50 Heitsch, op. cit., p. 161. 51 Su questo si vedano in particolare i contributi di Enrico Berti, ora raccolti in E. Berti, Nuovi studi aristotelici. I – Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia 2004. 423 PERCORSI NELL’ESSERE [B8 VV. 1-49] Il frammento B8 ci è interamente conservato da Simplicio, in due passi del suo commento alla Fisica aristotelica, ma brevi citazioni (per lo più di singoli versi) sono riscontrabili nello stesso commentatore, in Platone, Aristotele, Pseudo Aristotele, Aetius, Plutarco, Clemente, Eusebio, Plotino, Teodoreto, Proclo, Ammonio, Filopono, Asclepio, Damascio. La collazione dei codici ha creato, almeno in alcuni casi, non pochi problemi per la ricostruzione del testo originale, con conseguenti, profonde divergenze interpretative, come abbiamo già documentato nelle note. L’acribia nella discussione critica si giustifica per il rilievo del lungo frammento, attestato dalla stessa messe di citazioni e comunque dalla sua eccezionale tradizione (B8 rimane uno dei più lunghi passi superstiti della sapienza greca arcaica): con tutta probabilità in questi versi Simplicio ci ha conservato (consapevole della rarità dell’opera) l’intera comunicazione di verità del poema - dopo le premesse (B2, B3) e un primo esame critico (B6 e B7) - insieme con l’introduzione della sezione convenzionalmente designata come Doxa (che, secondo i calcoli contemporanei, da sola doveva coprire i 2\3 dell’opera): καὶ εἴ τῳ μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος. ἔχει δὲ οὑτωσὶ τὰ μετὰ τὴν τοῦ μὴ ὄντος ἀναίρεσιν anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo. Dopo l'esclusione del non essere, le cose stanno così: [B8.1-52] (Simplicio, Commentario alla Fisica 144, 25-29). Nella nostra edizione e nel nostro commento abbiamo deciso di dividere i due segmenti, ma solo per ragioni di omogeneità: abbiamo in altre parole preferito concentrare l’attenzione prima 424 sulla presunta ontologia del poema, per passare poi in modo più sistematico a discuterne i principi interpretativi della natura. La via «che è» e la Verità Diogene Laerzio (IX.22), a proposito delle tesi di Parmenide, afferma: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. Alla luce di quanto risulta dalla nostra analisi di B1, tale struttura emerge dal programma annunciato dalla Dea in B1.28b ss.: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα Ora è necessario che tutto tu apprenda: sia di Verità ben rotonda il cuore fermo, sia dei mortali le opinioni, in cui non è reale credibilità. Nondimeno anche questo imparerai: come le cose accolte nelle opinioni era necessario fossero effettivamente, tutte insieme davvero esistenti. Nella prima sezione (dopo il proemio) indicata - per antica consuetudine, sulla scorta di tale programma - come Verità1, ritroveremmo dunque - concentrato essenzialmente in B8 - l’insegnamento (πυθέσθαι, anche «imparare») del «cuore fermo di 1 E che – ricordiamolo - Parmenide in B2.4 designa come Πειθοῦς κέλευθος - «percorso di Persuasione». 425 Verità ben rotonda» (ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ), correlato alla denuncia (B6, B7 e ancora B8) dell’errore insito nelle «opinioni dei mortali» (βροτῶν δόξας). La sezione indicata come Opinione sarebbe (nella nostra interpretazione) da mettere invece in relazione all’ultimo punto del programma: conterrebbe cioè una lezione (μαθήσεαι, «apprenderai») adeguata su τὰ δοκοῦντα, sui contenuti dell’esperienza. È significativo dell'originalità della sezione sulla Verità – soprattutto di B8 - il fatto che le citazioni relative siano più numerose e consistenti. Dei tre blocchi testuali in cui supponiamo fosse articolato il poema – Proemio, Verità, Opinione - l’apertura proemiale, che si prestava all’allegoresi, dovette riscuotere particolare attenzione in età ellenistica: probabilmente da una tradizione stoica dipende, infatti, la sua interpretazione da parte di Sesto Empirico, che è anche l'unico a riprodurne integralmente il testo (forse da fonte non attica2 ). In genere, però, già la produzione del V secolo a.C. attesta l’incidenza del modello argomentativo e della concettualità della Verità, che doveva costituire novità rispetto all'arcaica elaborazione ionica, sebbene, come vedremo, sia molto probabile che i "naturalisti" posteriori, da Empedocle agli atomisti3, abbiano adottato uno schema interpretativo desunto dalla Opinione. Anche la consistente eco parmenidea in Platone e Aristotele è per lo più riferita alla Verità e solo subordinatamente (so- 2 Secondo Passa (op. cit., p. 31), infatti, Sesto avrebbe utilizzato fonti diverse per il testo del proemio e per la sua parafrasi: nel secondo caso, la fonte potrebbe effettivamente essere stoica; nel primo caso, invece, la tradizione sestana è l'unica a conservare traccia dell'antica redazione psilotica del poema. Passa ne conclude che è plausibile che Sesto disponesse di una buona copia del proemio, derivata verosimilmente da un esemplare dell'intero poema. 3 Alexander Nehamas ("Parmenidean Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy. Essays in Honour of Alexander Mourelatos, edited by V. Caston and D.W. Graham, Ashgate, Aldershot 2002, pp. 51-2) sottolinea come, nonostante i presocratici posteriori avessero mutuato le caratteristiche ontologiche illustrate da Parmenide, nessuno si sentisse in dovere di sostenere l'introduzione di una pluralità di elementi giustificandola argomentativamente. Quasi non ce ne fosse bisogno: un segno, forse, di continuità con il poema. D'altra parte, Melisso, che non attribuisce esplicitamente a Parmenide le proprie posizioni, si impegnò a giustificare il proprio «numerical monism»: un segno, forse, di discontinuità con il poema. 426 prattutto in Aristotele) alla Opinione, cioè a quella che doveva presentarsi come una più tradizionale trattazione peri physeōs. È inoltre interessante osservare come, anche da un punto di vista “musicale”, dell’esperienza di ascolto dell’intero poema, B8 si distacchi dal resto, deviando spesso dalla cadenza del verso omerico: solo nei versi nella terza sezione il linguaggio ritorna alla semantica convenzionale e ordinaria e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio4. La reiterazione di ἔστιν (senza soggetto) produce (i) un’interruzione di ritmo (suono) e (ii) una dissociazione di significato5, come se Parmenide intenzionalmente rompesse la sintassi, le regolari relazioni semantiche e le relazioni logiche o strutturali: sia che il poema si legga in silenzio, sia che si ascolti in lettura, in B2 e B8 “è” (senza soggetto) incombe, con eco amplificata dal ritorno al ritmo poetico consueto nei due terzi finali del discorso della dea6. La via che è L’attacco del frammento (vv. 1-3a) non sembra lasciare dubbi sul contenuto: μόνος δ΄ ἔτι μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς… Unica parola ancora, della via che «è», rimane; su questa [via] sono segnali molto numerosi: che... Esplicito il richiamo a B2 (μῦθος; ὁδός) e ai suoi esiti: rimane un’unica parola da ascoltare, dopo che si è riconosciuto l’impraticabilità di alternative. È giunto dunque il momento di in- 4 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 5 Ivi, p. 96. 6 Ivi, p. 107. 427 camminarsi lungo la via che appartiene a Πειθώ e Ἀληθείη. Su questo Parmenide è ancora più netto nei vv. 15-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι. Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Nel sottolineare la bontà del proprio argomento, la Dea ricostruisce sinteticamente la ratio per cui μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται («unica parola ancora […] rimane» B8.1-2), evocando l’alternativa dilemmatica - ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν (espressione sincopata delle ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός […] νοῆσαι di B2.2) – e la conseguente, necessaria esclusione della via «che non è» (B2.7-8): «non è fattibile» (οὐ ἀνυστόν) conoscere (γνῶναι) e indicare (φράζειν) «ciò che non è» (τό μὴ ἐὸν). In questo senso va intesa la coppia di aggettivi «impensabile» (ἀνόητον) e «indicibile» («senza nome», ἀνώνυμον): la via ὡς οὐκ ἔστιν (τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι) è effettivamente impalpabile (B2.6), «sentiero del tutto privo di informazioni» (παναπευθέα ἀταρπόν). La «decisione» (il «giudizio», κρίσις) è conseguente: come destino («necessità», ἀνάγκη), ricorda la Dea, si è riconosciuto che non si tratta di via «genuina» (οὐ ἀληθής ἔστιν ὁδός), lungo la quale sia realmente possibile inoltrarsi e incontrare qualcosa. All’inizio di B8, delle «uniche vie di ricerca […] per pensare», non rimane quindi che imboccare quella «reale» (ἐτήτυμον), quella, appunto, ὡς ἔστιν (τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι): muoversi sul terreno di «è e non è possibile non essere», rinunciando a dare 428 consistenza a «non-è ed è necessario non essere», garantisce intelligibilità e comprensione della realtà7. Una sola parola L’eco inziale del μῦθος che la Dea aveva invitato il kouros ad accogliere e conservare - e che dunque propone i tratti di un authoritative speech act (Morgan) – è funzionale alla successiva notifica della vanità del nominare mortale (B8.38b-39): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali, ma anche al rilievo della svolta introdotta in conclusione del frammento (vv. 50 ss.), con una formula indicativa: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (B8.50-52). La «parola» (il «discorso») di Verità della Dea traccia i contorni della realtà attraverso l’esclusione sistematica di ciò che, nella propria inconsistenza (τό μὴ ἐὸν), si rivela ἀνόητον ἀνώνυμον. Si tratta della rigorosa applicazione argomentativa della formula della prima «via»: 7 Sul rapporto tra il tema della “via” e l’unicità del discorso in apertura di B8 si veda in particolare L. Couloubaritsis, Les multiples chemins de Parménide, in Études sur Parménide, cit., t. II, pp. 29-30. 429 ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι l’una: è e non è possibile non essere. In questo senso, in B7.5 ella aveva chiaramente esortato a valutare discorsivamente (κρῖναι δὲ λόγῳ) la «prova polemica» (πολύδηριν ἔλεγχον) fornita: donde forse – ipotizzando una sostanziale continuità tra B7 e B8 (come attesterebbero le citazioni e il commento di Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 111 e 114) – l’apertura con l’espressione μόνος δ΄ ἔτι μῦθος […] λείπεται. Tale μόνος μῦθος è relativo alla «via: è» (ὁδός ὡς ἔστιν), di cui la Dea informa (vv. 2b-3a): ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄… su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il discorso è uno, perché una sola è in effetti la via riconosciuta percorribile; molti i «segni» (σήματα) che consentono di identificarla8, molti gli argomenti che possono essere addotti per metterla alla prova: di qui il nesso tra πολύδηρις ἔλεγχος, μόνος μῦθος e σήματα. Come rivela il precedente epico del riconoscimento di Odisseo da parte di Penelope, essi, infatti, possono essere usati per provare (sottoporre a elenchos) l’identità di una persona9. Sarà allora lo stesso intreccio dei «segni» a rivelare unità e omogeneità di τὸ ἐόν e dunque a mostrare l’alterità tra il μῦθος della Dea e i discorsi dei «mortali»: essi ipostatizzano quanto, in vero, è solo «nome»; assumono come evidenza ultimativa la molteplicità di enti, senza ricondurla all’identità dell’«essere». Il μόνος μῦθος che la θεά articola in B8.1-49 corrisponde a quanto annunciato (B2.4) come Πειθοῦς κέλευθος («percorso di Persuasione») in quanto Ἀληθείῃ ὀπηδεῖ («tien dietro a Verità»): lungo la 8 Secondo gli interessanti rilievi di Robbiano, op. cit., pp. 108-9. 9 Ibidem 430 «via: è e non è possibile non essere» si esprime – non solo per l’autorevolezza dell'indicazione divina, ma per l’intrinseca costruzione razionale – quella πίστις ἀληθής (B8.28) che era stata negata (B1.30) alle «opinioni dei mortali» (ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής, «in cui non è reale credibilità»). Con una differenza significativa: nel proemio il kouros doveva semplicemente registrare un annuncio; la πίστις ἀληθής rappresentava quella credibilità che la Dea disconosceva alle convinzioni correnti. In B8 è lo stesso «convincimento», maturato argomentativamente, a trattenere dalla distorsione tipica dei «mortali che nulla sanno»: considerare (νομίζειν) (B8.27-28): ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Analogamente, in B6.4-9 e B7.1-5 la Dea aveva duramente stigmatizzato la confusione teorica corrente, mettendo in guardia il kouros: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται > […] ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν […] [ti tengo lontano] da quella [via] che appunto mortali che nulla sanno, […] schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa […] οὐ γὰρ μήποτε τοῦτο δαμῇ εἶναι μὴ ἐόντα· ἀλλὰ σὺ τῆσδ΄ ἀφ΄ ὁδοῦ διζήσιος εἶργε νόημα· μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω Mai, infatti, questo sarà forzato: che siano cose che non sono. 431 Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero; né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza. In B8.38 ss. è lo stesso μόνος μῦθος (articolato in relazione ai σήματα) a svelare in che cosa effettivamente consista quello stravolgimento: perdere di vista il fatto che, prescindendo dall’unico referente reale (l’essere), i vari nomi con cui designiamo i fenomeni della nostra esperienza sono, in realtà, solo simboli: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, persuasi che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. L’«essere» (τὸ ἐόν), ovvero «ciò che è» (ἐόν), è la sola cosa che possa essere pensata ed espressa nel linguaggio: a qualsiasi cosa i mortali pensino o di qualsiasi cosa i mortali parlino e in qualsiasi modo ne pensino o parlino, essi in realtà pensano o parlano di ciò-che-è 10. Questa è la lezione che si ricava dalla «parola» della Dea: trasfigurazione del linguaggio dell’esperienza, della rappresentazione ingenua, ma anche della (contestata) cosmologia ionica. Una lezione che discende, dunque, dalla krisis (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), condotta escludendo τό μὴ ἐὸν: l’unica via praticabile troverà manifestazione rigorosa attraverso i «segnali» che possono identificarla per la ragione. In questa prospettiva i vv. 50-52 marcano effettivamente un passaggio, dal momento che spostano l’attenzione (e l’istruzione) del kouros da quella manifestazione – il «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον) che esprime la Verità (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) – all’ambito delle nostre convinzioni empiriche (τὰ δοκοῦντα 10 R. McKirahan, “Signs and Arguments in Parmenides B8”, cit., p. 205. 432 B1.31), da ridurre a uno schema interpretativo adeguato (χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα B1.32). È la stessa divinità a connotare la propria comunicazione (μῦθος): a rilevarne con formule (κέκριται ὥσπερ ἀνάγκη) la cogenza, la dipendenza dalla κρίσις (ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),·e, attraverso figure (Δίκη, Ἀνάγκη, Μοῖρα), lo statuto trascendentale. La «parola», infatti, nel suo procedere argomentativo, appalesa, della realtà (τὸ ἐόν), ordine e superiore garanzia: «Giustizia [lo] tiene (ἔχει)», «Necessità potente [lo] tiene (ἔχει)», «Moira (Destino) lo ha costretto (ἐπέδησεν)». La nuova sezione, introdotta al v. 50, è, a sua volta, esplicitamente determinata: è sempre la divinità a sottolinearne la materia diversa – conseguenza dell’adozione di un punto di vista che potremmo definire “umano”: δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε («da questo momento in poi opinioni mortali impara» B8.51-2). Contestualmente, nell’abbandonare la parola garantita e il suo oggetto immutabile (τὸ ἐόν e i suoi σήματα), è la Dea stessa a mettere in guardia sul passaggio dal rigore del «discorso affidabile» (πιστὸν λόγον), del «pensiero intorno alla Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης), alla ricostruzione potenzialmente fuorviante (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, «ascoltando l’ordine delle mie parole che può ingannare»). Il poeta segnala il cambio di registro anche a livello espressivo, tornando, come abbiamo in precedenza ricordato, alla semantica convenzionale e alle relazioni sintattiche caratteristiche del proemio: in questo senso, rispetto ai versi centrali della Verità, ἀπατηλὸν (passibile di inganno) appare effettivamente l’organizzazione stessa delle parole11. L’attuale frammento B19 confermerà la natura “umana” della prospettiva (κατὰ δόξαν) adottata, e la sua peculiare costruzione linguistica: οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ 11 L.A. Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 107. 433 Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. La via e i suoi «segnali» La Dea si affretta a osservare (B8.2-3), riguardo alla ὁδός (ὡς ἔστιν), come: ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄ su questa [via] sono segnali molto numerosi. Il rilievo è importante perché sottolinea la fondatezza della comunicazione divina, sottraendola all’arbitrio, e la sua intenzione razionale: essa allude a «segni», proprietà, evidentemente da riconoscere come genuini indicatori della realtà, e implicitamente è introdotta la loro discussione. La presenza di «segnavia» lungo un percorso (κέλευθος) è naturale, così come la loro funzione di orientamento: trattandosi di Πειθοῦς κέλευθος, il compito educativo della Dea diventa quello di illustrarli e, così facendo, di sviluppare la conoscenza della via, di guidare alla comprensione dell’essere. I σήματα si riferiscono immediatamente alla ὁδός, non a τὸ ἐόν, ma la loro discussione, il riconoscimento della loro funzione, contribuisce a determinare e far prendere consapevolezza della nozione di τὸ ἐόν: la «via», in effetti, è indicata come ὡς ἔστιν. In questo caso la natura descrittiva dei «segnali» rispetto al percorso di conoscenza si fa ancora più netta. Simplicio (Phys. 78, 11) parla di τὰ τοῦ κυρίως ὄντος σημεῖα, che potremmo tradurre come «connotazioni dell’essere che veramente è». 434 Segnali La Dea ne propone un catalogo, nel seguito utilizzato (anche se non integralmente) per l’analisi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Dei molti problemi testuali abbiamo dato notizia in nota. Qui interessa tentare di comprendere che cosa i σήματα rappresentino per l’autore. Una prima risposta possiamo ricavare dalla versione che abbiamo proposto (una delle possibili): la via ὡς ἔστιν è tradotta in termini proposizionali, con un soggetto (ἐόν, lo stesso emerso in B6.1) e, apparentemente12, due serie di predicati: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. I «segnali molto numerosi» sulla via ὡς ἔστιν sarebbero dunque caratteristiche che si possono legittimamente riferire a «ciò che è», sulla scorta – come risulterà più chiaramente nel corso della esposizione divina (e come abbiamo anticipato) - della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Formulando diversamente lo stesso concetto: predicati essenziali di τὸ ἐόν, implicati (e deducibili) dalla 12 Come segnalato in nota, Leszl, Heitsch e di recente Palmer (tra gli altri), fanno iniziare l’analisi dei segni dal v. 5, con ciò considerando gli attributi dei vv. 5-6 già parte della discussione e non propriamente σήματα. 435 stessa nozione di ἔστιν (τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), con esclusione di οὐκ ἔστιν (τε καὶ [...] χρεών ἐστι μὴ εἶναι); attribuiti all’essere, essi ne manifestano la natura. È plausibile nel contesto che la Dea intenda σήματα e ἔλεγχος non disgiuntamente, in altre parole che l’orientamento conoscitivo richieda non semplicemente il catalogo, ma l’argomentazione che lo sostiene. Anzi, dal punto di vista della lezione divina, la valutazione razionale del giovane allievo appare preoccupazione primaria, come marcato in B7.5-6: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον ἐξ ἐμέθεν ῥηθέντα Giudica invece con il ragionamento la prova polemica da me enunciata. I «segnali» potrebbero dunque costituire il materiale concettuale su cui esercitare la razionalità del kouros, con un duplice scopo: (i) fargli prendere confidenza con τὸ ἐόν; (ii) fargli prendere coscienza delle inconsistenze di altre posizioni teoriche (ioniche, forse pitagoriche). Si tratta ovviamente di due risvolti della stessa strategia, nella misura in cui il riconoscimento della natura di «ciò che è» comporta, per un verso, la presa di distanza dalla superficiale lettura del dato sensibile, per altro la contestazione di lezioni concorrenti. Così ritroveremo riaffermato (B8.34-36a) il nesso tra pensiero (addirittura nella formulazione astratta τὸ νοεῖν) e essere: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. Οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Un rilievo che ribadisce appunto l’equazione di B3: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere, 436 e soprattutto richiama la funzione “ontologica” del νόος di B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. L’aspetto che appare tuttavia peculiare nella relazione tra σήματα e νοεῖν è il fatto che alcuni dei «segnali» fondamentali siano evidentemente costruiti - sul piano linguistico – con l’uso dell’alfa privativo, mentre su quello argomentativo (attraverso ἔλεγχος, confutazione) tutti siano sostenuti ribaltando il dato di senso comune (nascita e morte, accrescimento e diminuzione, mobilità ecc.). Un risultato che a loro modo anche la sapienza ionica aveva ottenuto, ma, come rivelerebbe la discussione parmenidea, in modo contraddittorio. In questo senso, i σήματα possono essere letti come elementi concettuali espressamente rivolti a contestare i metodi tradizionali di interpretazione dell’universo13. Il catalogo e la relativa discussione investirebbero direttamente alcuni contributi della elaborazione cosmologica arcaica14: (i) il paradigma di fondo della cosmogonia (B8.6-21); (ii) il modello esplicativo per successive differenziazioni – quale è possibile intravedere nelle testimonianze su Anassimandro e Anassimene (B8.22-25); (iii) la riflessione sul mutamento – cui possono ricondursi in parte i frammenti di e le testimonianze su Anassimene e Eraclito (B8.26-31); (iv) il modello biologico di sviluppo dell’universo, che possiamo ritrovare nelle testimonianze su Anassimandro (B8.32-49). È allora possibile che la natura dei σήματα non fosse quella di predicati astratti, concettualmente dedotti dalla nozione di «esse- 13 Robbiano, op. cit., p. 109. 14 Ibidem. 437 re», bensì quella di contrafforti dialettici scaturiti dal confronto con specifiche dottrine, e, in questo senso, storicamente, culturalmente determinati. La loro funzione “segnica” rispetto alla «via» consisterebbe nell’evitare che essa possa essere abbandonata, seguendo il richiamo di assunzioni acritiche ovvero di presunte, scorrette, teorie. Donde l’impronta discutiva e confutatoria dell’analisi di Parmenide. La via, i segnali e la guida D’altra parte è evidente nel testo come la Dea scelga di riferirsi ai «segnali» nel contesto della propria istruzione al kouros, del proprio esercizio di guida. Anzi: ella guida attraverso σήματα, che impegnano razionalmente. La tradizione li conosceva come «segni augurali» che gli indovini dovevano interpretare15, come mezzi di rivelazione di una potenza superiore16. In questo senso il contemporaneo Eraclito evocava lo stesso modello: ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖόν ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει ἀλλὰ σημαίνει Il signore, di cui è l'oracolo in Delfi, non dice, non nasconde ma dà un segno (Plutarco; DK 22 B93). Anche la dea di Parmenide invia segnali ai mortali, per far conoscere cose normalmente oltre la loro portata: Robbiano e Cerri hanno probabilmente ragione nel sottolineare come il termine σήματα non si riferisca allora tanto ai predicati enumerati in B8.2- 6, quanto ai successivi argomenti, risultando essenziale nella relazione tra l’umano e il divino il momento dell'interpretazione dei segni per giungere alla verità. In questa prospettiva – come rilevato da Mourelatos17 - σήματα e ὁδός (ὡς ἔστιν) si salderebbero nel motivo della quest: per raggiungere il fine della ricerca è necessa- 15 Cerri, op. cit., p. 219. 16 Mansfeld, op. cit., p. 104. 17 Op. cit., p. 94. 438 rio percorrere la strada «che è»; per fare ciò è necessario tenere d’occhio i segnavia. L’accostamento al modello oracolare - giustificato non solo dalle implicazioni tra σήματα e σημαίνειν, ma pure dal nesso lessicale tra σήματα e σημεῖον, termine per «segno divinatorio» (di qualsiasi tipo), e «responso oracolare» (testo verbale) – è ricco di risvolti significativi nel contesto. Il segno divinatorio, infatti, proviene dalla sfera divina: nel segno la sapienza divina irrompe nell'ambito umano, per condensarsi poi nel responso,: la parola del responso è umana come suono, ma rivela una conoscenza che separa l'uomo dal dio18. Ora, non vi è dubbio che Parmenide rielabori, in forme originali, questi elementi: la rivelazione, lo scarto conoscitivo e il suo rilievo esistenziale, la comunicazione di verità come evento privilegiato. Come ricorda la Robbiano19, la dea di Parmenide evoca un dio che manda segnali ai mortali per far loro conoscere cose normalmente fuori della loro portata: non dobbiamo dimenticare che in Omero la divinazione comporta la conoscenza delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato: […] τοῖσι δ’ ἀνέστη Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ’ ἄριστος, ὃς ᾔδη τά τ’ ἐόντα τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καὶ νήεσσ’ ἡγήσατ’ Ἀχαιῶν Ἴλιον εἴσω ἣν διὰ μαντοσύνην, τήν οἱ πόρε Φοῖβος Ἀπόλλων Si alzò allora Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore degli indovini, il quale conosceva le cose che sono, le cose che saranno, le cose che furono, e aveva guidato le navi degli Achei fino a Ilio grazie all’arte profetica che gli donò Febo Apollo (Iliade I, 68-72). 18 Su questo punto si veda G. Manetti, Le teorie del segno nell'antichità classica, Bompiani, Milano 1987. 19 Op. cit., p. 126. 439 In Parmenide è la divinità stessa a indicare i «segnali» che tracciano la via al pieno dispiegamento della realtà (Verità) nella conoscenza, e a interpretarli per il kouros; è la divinità stessa a tradurre la propria sapienza in immagini e discorsi: essa riassorbe in sé, insieme alla funzione rivelativa, anche quella di μάντις e προφήτης, marcando l’eccezionalità del privilegio concesso. Il «colpo d’occhio [del dio] che conosce ogni cosa» (Pindaro), la visione simultanea di passato, presente e futuro, si presenta nei segni che l’indovino deve riversare in parole (enigmatiche) e l’interprete chiarire per i mortali. In questo senso la divinità di Parmenide ha un ruolo simile a quello delle Muse (le quali garantiscono al poeta la trasposizione della loro sinossi nello sviluppo del canto), ma “laicizzato”: analoga l’intenzione pedagogica, comunque diversamente declinata. La Dea, infatti, propriamente non ispira un canto, piuttosto insegna argomentando; pur marcando lo scarto tra umano e divino, ella comunica razionalmente, insistendo sulla «forza di convinzione» (πίστιος ἰσχύς), sulla «convinzione genuina» (ovvero «reale credibilità», πίστις ἀληθής), per illustrare i σήματα al proprio interlocutore (cui è richiesto di non accogliere supinamente, ma riflettere su quanto comunicato): interpretarli significa, nel nostro contesto, giustificarli razionalmente alla luce dei principi (le «vie») introdotti in B2. Alla ripresa del motivo tradizionale segue, dunque, una sostanziale revisione: è attraverso ἔλεγχος che la Dea sviluppa il tracciato della «via che "è"»; è contestando ed escludendo errate assunzioni di senso comune e contributi teorici concorrenti che ella viene determinandola dialetticamente. È indicativo del retroterra culturale il fatto che Parmenide scelga di proporre in prima istanza un catalogo (memorizzabile) di «segni», quindi un prolungato sforzo argomentativo – un unicum nel panorama della produzione arcaica –, sostenuto da una serie di immagini plastiche (catene, legami, sfera) e figure (divine). Ritroviamo sapientemente intessuti ἔλεγχος, metafora e mito, quasi costituissero ancora tre aspetti inscindibili di una stessa esperienza comunicativa. Segnavia 440 L’attacco di B8 sottolinea dunque una volta di più il ruolo della guida divina e la centralità del tema della via: è la Dea, infatti, a ricordare come rimanga ancora solo la possibilità di un μῦθος; è la Dea ad annunciare i «segnavia» (σήματα) e quindi che il percorso sarà discorsivo. È la Dea, insomma, che non solo anticipa al kouros l’identità della via che resta (ὡς ἔστιν), ma prospetta pure la prova (ἔλεγχος) che il giovane discepolo deve sostenere. Come opportunamente osservato da Coxon20, B8 è introdotto da un resoconto delle evidenze lungo la via, sulla quale, nella narrazione, il kouros deve ancora viaggiare: gli argomenti di B8 valgono quindi come guida (filosofica), grazie a cui è possibile mantenere la direzione e percorrere fino in fondo la «via genuina» (ὁδός ἀληθής), in B2.4 connotata come Πειθοῦς κέλευθος. Come anticipato, Parmenide sembra articolare un doppio registro di evidenze da sottoporre all’attenzione; in effetti il testo recita (vv. 3-6): ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν, οὖλον μουνογενές τε καὶ ἀτρεμὲς ἠδ΄ ἀτέλεστον· οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές che senza nascita è ciò che è e senza morte, tutto intero, uniforme, saldo e senza fine; né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Ne abbiamo sopra estratto due liste di attributi di ἐὸν: (i) ἀγένητον, ἀνώλεθρόν, οὖλον, μουνογενές, ἀτρεμὲς, ἀτέλεστον; (ii) νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. L’argomento di B8 – pur coinvolgendoli complessivamente – sembra costruito per privilegiare questi enunciati: 20 Op. cit., p. 193. 441 γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος è estinta nascita e morte oscura (B8.21) πᾶν ἐστιν ὁμοῖον è tutto omogeneo (B8.22) ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (B8.29-30) οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché] (B8.32-33). In questo senso appare plausibile la ricostruzione di Mourelatos21 (ripresa di recente anche da Robbiano22), elaborata tenendo conto delle convergenze tra gli interpreti sui seguenti blocchi testuali e relativi sÔmata di riferimento: B8.6-21: ἀγένητον (ingenerato) e ἀνώλεθρόν (imperituro); B8.22-25: συνεχές (continuo) e\o ἀδιαίρετον (indiviso); B8.26-31: ἀκίνητον (immobile, immutabile); B8.32-33: οὐκ ἀτελεύτητον (non incompiuto); B8.42-49: τετελεσμένον (compiuto). Possiamo precisare leggermente questo schema e privilegiare la discussione (ἔλεγχος) di quattro σήματα di base, riferibili, in quanto «segnavia», direttamente a ὁδός (ma, nella nostra traduzione, predicati di τὸ ἐόν), cui è poi possibile ricollegare gli altri: (i) «senza nascita e morte» (ἀγένητον, ἀνώλεθρόν B8.5-21); (ii) «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον B8.22-25); (iii) «immobile» 21 Op. cit., p. 95. 22 Op. cit., p. 108. 442 (ἀκίνητον B8.26-31); (iv) «compiuto» (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον B8.32-49). Di recente McKirahan23 ha proposto un elenco più minuzioso, classificando con una più articolata suddivisione in gruppi tutti i predicati: A: ἀγένητον (ingenerato) ἀνώλεθρόν (imperituro) B: οὖλον (intero) τέλειον24 (completo) ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme) συνεχές (che si tiene insieme) C: οὐδέ ποτ΄ ἦν (né un tempo era) οὐδ΄ ἔσται (né sarà) νῦν ἔστιν (è ora) D: ἀκίνητον (immobile) ἔμπεδον (immutabile) E: ἀτρεμὲς (stabile) F: μουνογενές (unico25) ἕν (uno). Nella nostra esposizione seguiremo lo schema di Mourelatos che abbiamo precisato, integrandolo con le osservazioni desumibili dall’elenco di McKirahan. Ingenerato (e imperituro) Il vero e proprio attacco argomentativo del frammento è formulato come interrogazione (vv. 6-7)26: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? 23 “Signs and Arguments in Parmenides B8”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, edited by. P. Curd – D.W. Graham, O.U.P., Oxford 2008, p. 191. 24 McKirahan legge hdè téleion in vece di ἠδ΄ ἀτέλεστον. 25 Noi abbiamo preferito rendere come «uniforme». 26 Ma alcuni sostengono che l'argomentazione cominci al verso precedente con οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται... 443 L’implicita opzione discutiva impronterà lo sviluppo discorsivo: la Dea non si limiterà a ragionare con il proprio (muto) ascoltatore, ma mimerà un autentico confronto dialettico, attribuendogli le convinzioni teoriche (o di senso comune) che è necessario confutare per dimostrare la propria tesi. Un possibile modello argomentativo I versi 7-15 – nella versione (a dire il vero tormentata) che abbiamo accolto e tradotto27 - possono esemplificare efficacemente la struttura del procedimento razionale di Parmenide: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι. τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί. οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό· τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». Quale bisogno, inoltre, lo avrebbe spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 27 Come risulta dalle annotazioni al testo greco, abbiamo accettato l'emendazione proposta da Karsten della forma ἐκ μὴ ὄντος attestata dai codici, in ἐκ < τοῦ ἐ > όντος. 444 L’argomento – insieme agli interrogativi che lo introducono - ha come soggetto sottinteso (nella nostra traduzione) ἐόν (v. 3): per escluderne generazione (τίνα γένναν αὐτοῦ; - «quale nascita di esso?») e derivazione (πῇ πόθεν αὐξηθέν; - «come e donde cresciuto?»), la Dea non concede: (i) che esso possa nascere (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον) - «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος); (ii) che esso origini (γίγνεσθαi) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος). Non rimanendo alternative, ella conclude il proprio ragionamento (a dimostrazione della tesi: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν) appoggiandosi alla superiore garanzia di Dike (il nume tutelare dei limiti e delle prerogative a essi associate), la quale vincola ciò che è a essere ἀγένητον (e ἀνώλεθρόν). La struttura dell’argomento risulterebbe dilemmatica, come segnalato dall'uso di οὔτε (v. 7) e οὐδέ (v. 12): «non è vero questo, e neppure è vero quest’altro», dove «questo» e «quest’altro» rappresentano le uniche due possibilità concepibili in proposito28, appunto ἐκ μὴ ἐόντος (v. 7) e ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (v. 12 emendato). Di questa struttura si trova conferma nello scritto Sul non-essere di Gorgia (versione Sesto Empirico, Adversus mathematicos VII, 71): καὶ μὴν οὐδὲ γενητὸν εἶναι δύναται τὸ ὄν. εἰ γὰρ γέγονεν, ἤτοι ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος γέγονεν. ἀλλ’ οὔτε ἐκ τοῦ ὄντος γέγονεν· [...] οὔτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος·[...] οὐκ ἄρα οὐδὲ γενητόν ἐστι τὸ ὄν E ancora, l'essere non può neppure essere generato: se è stato generato, infatti, certamente è stato generato o dall'essere o dal non-essere; ma non è stato generato né dall'essere [...] né dal non essere [...]. L'essere, di conseguenza, non è stato generato; 28 Leszl, op. cit., p. 177. 445 e in Aristotele (Fisica I, 8 191 a23 ss.), con chiara allusione anche agli Eleati29: Ὅτι δὲ μοναχῶς οὕτω λύεται καὶ ἡ τῶν ἀρχαίων ἀπορία, λέγωμεν μετὰ ταῦτα. ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Che così solamente si risolva anche la difficoltà dei pensatori antichi, lo diremo in quel che segue. Coloro, infatti, che per primi hanno indagato in modo filosofico la realtà e la natura delle cose furono sviati come spinti lungo una via diversa dalla loro inesperienza. Essi sostengono in effetti che degli enti nessuno né si genera né si distrugge: poiché ciò che si genera, necessariamente, si genera o da ciò che è o da ciò che non è, ma è impossibile che ciò accada in entrambi i casi30. L'essere, infatti, non si genera (perché è già) e nulla può generarsi dal non essere, dal momento che qualcosa deve fungere da sostrato. E sviluppandone ulteriormente le conseguenze, affermavano allora che non esiste il molteplice, ma solo l'essere stesso. Lo stesso Simplicio, parafrasando due volte il testo (Phys. 77, 9; 162, 11), offre questo senso: 29 Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy cit., pp. 129-133) ha contestato, con buoni argomenti, che il testo si riferisca esclusivamente agli Eleati. 30 Enfasi nostra. 446 καὶ γὰρ καὶ Παρμενίδης ὅτι ἀγένητον τὸ ὄντως ὂν ἔδειξεν ἐκ τοῦ μήτε ἐξ ὄντος αὐτὸ γίνεσθαι (οὐ γὰρ ἦν τι πρὸ αὐτοῦ ὄν) μήτε ἐκ τοῦ μὴ ὄντος Anche Parmenide infatti sosteneva che l'essere in senso pieno è ingenerato: mostrava che esso non si genera né dall'essere (poiché non c'è qualche essere oltre a esso), né dal non essere (162.11). Accettando questa lezione, ritroveremmo Parmenide impegnato a elaborare una dimostrazione dialettica rigorosa31: (i) gli interrogativi (retorici: τίνα [...] γένναν διζήσεαι αὐτοῦ;) introducono l’ipotesi contraddittoria alla tesi che l’autore intende dimostrare (nella forma gorgiana: εἰ γὰρ γέγονεν), in questo modo delineando la struttura dilemmatica di base: «ciò che è è ingenerato» (ἀγένητον ἐὸν) - «ciò che è è generato» (Gorgia: γενητόν ἐστι τὸ ὄν); (ii) tale ipotesi viene articolata in un nuovo dilemma: nascita e crescita implicano necessariamente un’origine o (a) ἐκ μὴ ἐόντος o (b) ἐκ < τοῦ ἐ > όντος (secondo lo schema citato da Simplicio); (iii) dal momento che entrambe le possibilità sono razionalmente insostenibili, l’ipotesi (nascita e crescita di ciò che è) si rivela infondata, e la sua contraddittoria, la tesi difesa da Parmenide, è dimostrata: «che ciò che è è ingenerato» (ὡς ἀγένητον ἐὸν … ἐστιν). Come abbiamo già segnalato, anche il contesto appare implicitamente dialettico: viene (monologicamente) mimato il dibattito tra un sostenitore (che pone gli interrogativi) e un oppositore (di cui si anticipano le risposte possibili) della tesi di Parmenide. Compito (retorico-persuasivo) della Dea rispetto al kouros (e al pubblico di ascoltatori e lettori di Parmenide) è di illustrare i passaggi della (virtuale) discussione, marcando il nesso tra «forza di 31 Contro questa ricostruzione, che presume l’introduzione (consapevole) di un modello argomentativo dilemmatico da parte dell’autore, può valere l’osservazione di Leszl (p. 178) secondo cui la sequenza di tre argomenti (vv. 7b-9a; vv. 9b-11; vv. 12-13a) rende improbabile una struttura dilemmatica. 447 convinzione» (πίστιος ἰσχύς), «giudizio» (κρίσις), necessità (ὥσπερ ἀνάγκη). Appare trasparente nella confutazione della prima possibilità: οὔτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è il riferimento a B2.7-8 e B6.1: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι È necessario il dire e il pensare che ciò che è è. Questo comporta che quanto leggiamo a livello frammentario fosse in realtà organizzato in una costruzione argomentativa complessa, che il discorso della Dea in B8 presuppone (e talvolta richiama esplicitamente): in particolare il μῦθος di B2. Il modello delle «uniche vie di ricerca per pensare» ricavate dall’alternativa «è»-«non-è», il rifiuto del secondo corno sulla scorta della sua inconsistenza (assenza di contenuto da pensare, dire e indicare) e dunque la piena accettazione della prima via di indagine («che è»), insieme alla conseguente esclusione di una effettiva “terza via” (B6.4-5, 8-9; B7.1), consentono a Parmenide di operare di fatto con i principi di non-contraddizione e del «terzo escluso»32: donde l’impossibilità di sostenere che «ciò che è» non sia, ovvero 32 Conche, op. cit., p. 142. 448 ammettere qualcosa che possa comportare che «ciò che è» non sia33. D’altra parte la pervasiva presenza della Dea - che pone domande e risponde (vv. 6b-7a: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν;), che sottolinea i passaggi (v. 7b: οὔτ΄... ἐάσω;) e richiama le condizioni (v. 15b: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν...), che complessivamente ribadisce il rigore del procedimento seguito (v. 16b: κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη...) e ne conferma i risultati con il proprio commento (l’inciso ai vv. 17b-18a: οὐ γὰρ ἀληθής ἔστιν ὁδός) – ci ricorda che il contesto narrativo entro cui si inserisce il ragionamento è comunque quello di una rivelazione. Il fatto che alcune premesse rimangano implicite si giustifica forse proprio con la forma apodittica della comunicazione divina: come osserva Mansfeld34, i «segni» sono ricavati - immediatamente o mediatamente - dalla disgiunzione di B2, le cui premesse sono garantite dal μῦθος della Dea. Questo potrebbe anche spiegare la scelta dell’espressione σήματα, il mezzo di comunicazione di una potenza superiore: Parmenide sceglie di lasciare la «parola» della Dea a fondamento di tutti i processi (e progressi) del pensiero in B835. Ella sollecita l’autonomia del discepolo, ma lo invita a registrare e ad aver cura di un μῦθος contrapposto a quanto comunemente assunto dai «mortali»: il suo ruolo pedagogicamente “eccede” lo stesso esercizio razionale, assicurandone i principi, così come le altre divinità evocate nel frammento (Dike, Ananke, Moira) “trascendono” (garantendolo) τὸ ἐὸν, ciò che, secondo l’istruzione razionale, pretende di dominare – di fronte al pensiero – senza eccezione36. 33 McKirahan, op. cit., p. 192. 34 Op. cit., pp. 103-4. 35 Mansfeld, op. cit., p. 106. 36 Su questo in particolare la terza edizione dell’opera di Couloubaritsis, più volte citata, Mythe et Philosophie chez Parménide, ora con nuova titolazione: La pensée de Parménide (en appendice traduction du Poème), Éditions Ousia, Bruxelles 2008, per esempio p. 247. 449 Nascita e crescita Abbiamo sottolineato come la prima sezione argomentativa si apra con tre interrogativi, che offrono alla Dea l’opportunità di dimostrare ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν; essi sono così formulati (vv. 6b-7a): τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto? È possibile intenderli come introduzione ai tre successivi argomenti: (i) vv. 7b-9a: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che non è; (ii) vv. 9b-10: τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale necessità lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? (iii) vv. 12-13a: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. 450 Le relative risposte negative sarebbero formulate espressamente ai vv. 13b-15a: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. Piuttosto che sollevare problemi diversi (ancorché collegati) e rinviare a distinti argomenti, la progressione delle domande, il ricorso a interrogativi retorici (vv. 9-10) e la possibile articolazione dilemmatica sembrano evocare l’incalzare dialettico di un confronto, i cui termini di riferimento – il sostantivo γέννα («nascita», «generazione») e il participio αὐξηθέν («cresciuto», da αὐξάνω, «crescere, incrementare») – puntano direttamente al problema dell’origine, come esplicitamente rivelato dall’uso di due espressioni verbali indicative: ἀρξάμενον (da ἄρχω, «iniziare, cominciare, dare origine», da cui ἀρχή, «principio») e φῦν (da φύω, «generare, produrre», ma anche «sorgere, nascere», da cui φύσις, «natura»). In questo senso le tre formule inquisitive (τίνα γένναν, πῇ αὐξηθέν, πόθεν αὐξηθέν) potrebbero essere assunte come equivalenti: la seconda e la terza, in particolare, come riferentesi alle condizioni necessarie alla nascita: essa è un processo (questo spiega il «come?») che richiede un’origine («donde?»)37. Analogamente gli argomenti possono essere letti come momenti della stessa progressione negativa contro l’ipotesi di γένεσις di τὸ ἐόν: le domande ne articolerebbero le implicazioni per consentire di confutarne più efficacemente le condizioni di possibilità. 37 McKirahan, op. cit., p. 193; Robbiano, p. 112. 451 Nascita e morte oscura Proprio la connessione tra γέννα e φύσις (di cui «nascita» esprimerebbe uno dei significati originari) ha fatto supporre38 che Parmenide nel nostro passo discuta il senso stesso della nozione di φύσις, scomponendola nei suoi originari termini costitutivi, di fatto attaccando la riduzione dell’Essere a φύσις. Obiettivi della confutazione sarebbero, in particolare, Esiodo (il quale aveva posto il problema: chi venne per primo?) e i pensatori ionici (per la ricerca della ἀρχή) 39. Esemplari in questa prospettiva i frammenti di Anassimandro: ἀρχὴn... τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον... ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι͵ καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. principio delle cose che sono è l’infinito... è secondo necessità che verso le stesse cose, da cui le cose che sono hanno origine, avvenga anche la loro distruzione [ovvero letteralmente: le cose dalle quali invero le cose che sono hanno la loro origine, verso quelle stesse cose avviene la loro distruzione secondo necessità]; esse, infatti, pagano le une alle altre pena e riscatto della colpa, secondo l’ordinamento del tempo (Simplicio; DK 12 B1) ταύτην (sc. φύσιν τινὰ τοῦ ἀ π ε ί ρ ο υ ) ἀίδιον εἶναι καὶ ἀ γ ή ρ ω che essa [una certa natura dell’infinito] è eterna e non invecchia (Hippolitus; DK 12 B2) ἀθάνατον.. καὶ ἀνώλεθρον (τ ὸ ἄ π ε ι ρ ο ν = τὸ θεῖον) immortale.... e indistruttibile (Aristotele; DK 12 B3). 38 Per esempio a Ruggiu, op. cit., p. 289. 39 Ivi, p. 290. 452 Il frammento B1 ci è conservato nella testimonianza di Simplicio, il quale nel suo commento alla Fisica aristotelica si serve del prezioso contributo di Teofrasto (uno degli ultimi a disporre probabilmente dell’opera del Milesio) nelle sue Opinioni dei fisici: la citazione, che appare sostanzialmente accurata40, è inserita in una presentazione delle opinioni di Anassimandro che è necessario non perdere di vista per intenderne correttamente le parole: [A.] [...] ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον, πρῶτος τοῦτο τοὔνομα κομίσας τῆς ἀρχῆς. λέγει δ’ αὐτὴν μήτε ὕδωρ μήτε ἄλλο τι τῶν καλουμένων εἶναι στοιχείων, ἀλλ’ ἑτέραν τινὰ φύσιν ἄπειρον, ἐξ ἧς ἅπαντας γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τοὺς ἐν αὐτοῖς κόσμους· ἐξ ὧν δὲ... τάξιν [B 1], ποιητικωτέροις οὕτως ὀνόμασιν αὐτὰ λέγων. δῆλον δὲ ὅτι τὴν εἰς ἄλληλα μεταβολὴν τῶν τεττάρων στοιχείων οὗτος θεασάμενος οὐκ ἠξίωσεν ἕν τι τούτων ὑποκείμενον ποιῆσαι, ἀλλά τι ἄλλο παρὰ ταῦτα· οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως. [...] dichiarò l’apeiron principio e elemento delle cose che sono, adottando per primo questo nome di “principio”. Egli sostiene, infatti, che esso non sia né acqua né alcun altro di quelli che sono detti elementi, ma che sia una certa altra natura infinita, da cui originano tutti i cieli e i mondi in essi: [B1], parlando di queste cose così in termini piuttosto poetici. È evidente allora che, avendo considerato la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne adeguato porre alcuno di essi come sostrato, ma qualcosa di diverso, al di là di essi. Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno. [...] (Simplicio; DK 12 A9). 40 Per l’analisi relativa si rinvia al fondamentale contributo di Ch. Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 19943, in particolare alla prima parte, dedicata alla documentazione dossografica. 453 Dal complesso di testimonianza e citazione possiamo in effetti intravedere nel testo di Anassimandro sei aspetti su cui si sarebbe concentrata la sua indagine: (i) l’ἄπειρον come «principio delle cose che sono» (ἀρχή τῶν ὄντων); (ii) «le cose che sono» (τὰ ὄντα), la totalità degli enti della nostra esperienza41, sottoposti ai processi di generazione (γένεσις) e corruzione (φθορά); (iii) «le cose dalle quali» (ἐξ ὧν) le altre («le cose che sono») hanno origine: nel contesto molto probabile il riferimento agli «elementi» (στοιχεία) – nel linguaggio peripatetico della testimonianza; più plausibile intendere i «contrari» (τὰ ἐναντία) da cui esse si fomerebbero direttamente, come documentato da PseudoPlutarco: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι καί τινα ἐκ τούτου φλογὸς σφαῖραν περιφυῆναι τῶι περὶ τὴν γῆν ἀέρι ὡς τῶι δένδρωι φ λ ο ι ό ν [Anassimandro] sostiene anche che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla generazione di questo mondo, e da esso una sfera di fiamma si sviluppò intorno all'aria che circonda la terra, come la scorza intorno all'albero (DK 12 A10); (iv) «le cose verso cui» (εἰς ταῦτα) si produce (γίνεσθαι) la corruzione delle altre cose: gli elementi (ovvero i contrari) cui esse si riducono; (v) il come tale processo si sviluppa: «secondo necessità» (κατὰ τὸ χρεών), secondo l’ordine del tempo» (κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν) 42; 41 Su questo punto la nostra interpretazione diverge da quella di Kahn (pp. 180 ss.), che costituisce ancora un riferimento imprescindibile. 454 (vi) il perché, la causa del processo: il costante e compensativo confronto conflittuale tra i contrari (διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας). Da un punto di vista filologico, Kahn43 ha convincentemente insistito sulla probabile genuinità della citazione, rilevando, con riscontri nella letteratura del periodo, le ascendenze ioniche e arcaiche del lessico del frammento: è per noi di particolare interesse la conferma – addirittura nella costruzione sintattica – dell’uso omerico di γένεσις nel senso di «generazione» ma anche di «origine causale» e - accanto alla plausibile autenticità di φθορά (termine non attestato prima di Erodoto e Eschilo), come in Parmenide impiegato nella letteratura ippocratica in contrapposizione a αὔξη («crescita») - la possibilità di τελευτή («morte»), presente, con forme verbali derivate (τελευτᾶν), in Senofane (τελευτᾶι B27) e appunto in Parmenide (τελευτήσουσι B19). Secondo quanto attesta Ippolito: οὗτος ἀρχὴν ἔφη τῶν ὄντων φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου, ἐξ ἧς γίνεσθαι τοὺς οὐρανοὺς καὶ τὸν ἐν αὐτοῖς κόσμον. ταύτην δ’ ἀίδιον εἶναι καὶ ἀγήρω [B 2], ἣν καὶ πάντας περιέχειν τοὺς κόσμους. λέγει δὲ χρόνον ὡς ὡρισμένης τῆς γενέσεως καὶ τῆς οὐσίας καὶ τῆς φθορᾶς [Anassimandro] disse che principio delle cose che sono è una certa natura dell'apeiron, da cui si generano i cieli e l'ordine [il mondo] che è in essi. Essa è eterna e non invecchia, e inoltre circonda tutti i mondi. parla poi del tempo in quanto la generazione, l'esistenza e la dissoluzione risultato ben delimitate (DK 12 A11), 42 Secondo S.A. White ("Thales and the Stars", in Presocratic Philosphy cit., p. 4) l'espressione rifletterebbe le conquiste astronomiche di Talete. Sullo stesso tema l'autore è tornato più diffusamente in "Milesian Measures: Time, Space and Matter", in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy cit., pp. 89-133). 43 Op. cit., pp. 168 ss.. 455 di quella «certa natura dell’infinito» (φύσιν τινὰ τοῦ ἀπείρου) Anassimandro avrebbe inoltre sostenuto che (i) è «eterna» (ἀίδιον) e (ii) «non invecchia» (ἀγήρω). Predicati analoghi a quelli - «senza morte» (ἀθάνατον, immortale) e «senza distruzione» (ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν ) - che Aristotele, riferendosi esplicitamente anche ad Anassimandro, aveva a sua volta citato, nel discutere dell’ἄπειρον come principio: non a caso marcandone il nesso con «il divino» (τὸ θεῖον). Ora, è possibile che Parmenide, nel complesso della sezione B8.6-21, tenesse presenti proprio il modello se non addirittura lo scritto di Anassimandro: le assonanze verbali (ovviamente per quanto la filologia ha potuto ricostruire del testo del Milesio) appaiono esplicite, così come l'esigenza di escludere che (i) «da ciò che non è» (ἐκ μὴ ἐόντος) qualcosa possa «essere cresciuto» (αὐξηθέν) – ovvero che qualcosa possa «nascere» (φῦν) «originando dal nulla» (τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον); appare chiaro soprattutto il disegno di sistematica contestazione di nozioni come γένεσις e γέννα (cui si deve aggiungere ὄλεθρος) e dell’idea stessa che (ii) «da ciò che è» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος) possa generarsi «qualcosa accanto [o oltre] a esso» (τι παρ΄ αὐτό). È una evidenza che la Dea, nella propria confutazione, insista sulla γένεσις, senza produrre, in effetti, una specifica argomentazione a supporto dell’incorruttibilità (ἀνώλεθρόν): sebbene poi sottolinei (vv. 14 e 21) di averlo fatto. Dobbiamo concludere44 che Parmenide giudicasse gli argomenti a sostegno di ἀγένητον sufficienti anche per ἀνώλεθρόν (considerando l’affermazione dell’indistruttibilità dell’essere implicita nell’esclusione della sua generabilità45); ovvero che non ritenesse necessario confutare la corruzione in quanto processo analogo, ancorché opposto, al precedente; o ancora che la rubricasse tra le espressioni della via negativa. Significativamente, egli connota ὄλεθρος («morte», distruzione) come ἄπυστος («oscura», oggetto di oblio) come aveva fat- 44 Con McKirahan, op. cit., p. 193. 45 Tarán, op. cit., p. 106. 456 to per la via negativa con παναπευθής («del tutto privo di informazioni» B2.6)46. D’altra parte, l’idea di forze elementari a un tempo «immortali» e tuttavia generate era parte della tradizionale concezione del mondo omerica ed esiodea (donde il genere teogonico) 47. Lo schema della testimonianza teofrastea ribadita da Simplicio potrebbe confermarne il residuo nella distinzione anassimandrea tra: (i) «principio» - τὸ ἄπειρον, pensato eterno e stabile, in contrapposizione all’instabilità degli elementi (στοιχεία); (ii) «contrari» (τὰ ἐναντία: di base «caldo» e «freddo») che scaturiscono per «separazione» (ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων), «a causa del movimento eterno» (διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως), e che producono con il proprio conflitto il processo cosmogonico (ovvero, più correttamente, la «cosmo-gono-phthoria»48); (iii) «cose» (τὰ ὄντα) sottoposte alla vicissitudine di generazione e corruzione. Il resoconto della Dea avrebbe dimostrato come, secondo ragione, «ciò-che-è», oltre a implicare la stessa incorruttibilità abitualmente attribuita al divino e a quanto a esso immediatamente connesso (i cieli), escludesse in ogni modo la possibilità stessa di «generazione», nel duplice senso di derivazione da qualcosa di «altro» dall'essere o di produzione di altro essere. Aristotele, i Milesi e Parmenide Possiamo trovare un'eco della discussione arcaica sulla «generazione» nella ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia (Metafisica I, 3): a proposito della posizione della «maggioranza di coloro che per primi filosofarono» (τῶν δὴ πρώτων φιλοσοφησάντων οἱ πλεῖστοι), secondo cui «principi di tutte le co- 46 Mourelatos, op. cit., p. 97. 47 Ibidem. 48 A. Laks, Introduction à la «philosophie présocratique», PUF, Paris 2006, p. 10. 457 se» (ἀρχὰς πάντων) sarebbero «solo quelli nella forma di materia» (τὰς ἐν ὕλης εἴδει μόνας), Aristotele osserva: ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che né si generi né si distrugga alcunché, dal momento che una tale natura si conserva sempre (983 b8- 13). Nello schema interpretativo di Aristotele, dunque, alle origini della tradizione filosofica ritroveremmo, per dar conto del divenire degli enti, l’applicazione di un principio: nulla si genera (dal nulla) e nulla si distrugge (nel nulla). Ciò avrebbe di fatto imposto una forma di «monismo materialistico»49, di riduzione del molteplice empirico all'unità soggiacente del principio materiale. Il movimento dal principio e verso il principio, cioè verso «quella natura che si conserva sempre» (τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης), richiama quasi letteralmente (il complemento di origine è espresso al singolare e non al plurale) il frammento anassimandreo. Più avanti, precisando tale posizione che riconosce «unico il sostrato» (ἓν τὸ ὑποκείμενον), Aristotele si riferisce implicitamente agli Eleati in questi termini: ἀλλ’ ἔνιοί γε τῶν ἓν λεγόντων, ὥσπερ ἡττηθέντες ὑπὸ ταύτης τῆς ζητήσεως, τὸ ἓν ἀκίνητόν φασιν εἶναι καὶ τὴν φύσιν ὅλην οὐ μόνον κατὰ γένεσιν καὶ φθοράν (τοῦτο μὲν γὰρ ἀρχαῖόν τε καὶ πάντες ὡμολόγησαν) 49 Secondo l'acuta lettura di Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 48 ss.. 458 ἀλλὰ καὶ κατὰ τὴν ἄλλην μεταβολὴν πᾶσαν· καὶ τοῦτο αὐτῶν ἴδιόν ἐστιν ma alcuni di quelli che sostengono l’unità, come sopraffatti da una tale ricerca, affermano che l’uno è immobile e così anche l'intera natura, non solo rispetto alla generazione e alla corruzione (questa è infatti convinzione antica, su cui tutti concordavano), ma anche rispetto a ogni altro mutamento: e questo era loro peculiare (984 a29-984 b1). L’inciso nel passo rende ancora più evidente l’assunto aristotelico secondo cui già i primi filosofi accettarono la doxa che è impossibile che qualcosa sia generato da ciò che non è, sviluppando sistemi in coerenza con essa: la peculiarità della posizione eleatica (a Parmenide si accenna esplicitamente due righe sotto) è risultato della “estremizzazione” della stessa doxa adottata dagli Ionici50. In pratica, Aristotele da un lato avalla una sorta di continuità tra la posizione ionica e quella eleatica - nella condivisione del principio esplicativo di fondo, dall’altro rileva lo scarto alla base della deviazione eleatica dall'indagine peri physeōs nella radicalizzazione dell’applicazione di quel principio, che avrebbe condotto alla negazione di ogni forma di divenire e dunque fuori dell’ambito della filosofia della natura. Torneremo più sotto sul modello cosmogonico e cosmologico milesio e sullo schema interpretativo aristotelico. È tuttavia opportuno anticipare come il complesso delle testimonianze (di matrice essenzialmente peripatetica) faccia in realtà intravedere la possibilità di una lettura diversa: dalla natura individuata come origine (ἀρχή) si sarebbero generate, per effetto in ultima analisi del moto intrinseco, alcune realtà elementari indipendenti (connesse ai «contrari»: Pseudo-Plutarco accenna a fuoco, aria e terra), da cui deriverebbe tutto il resto. Un modello pluralistico, che 50 Sulla ricostruzione aristotelica delle origini della filosofia sono molto interessanti le osservazioni di Leszl in W. Leszl, “Aristoteles on the Unity of Presocratic Philosophy. A Contribution to the Reconstruction of the Early Retrospective View of Presocratic Philosophy”, in La costruzione del discorso filosofico nell’età dei Presocratici, a cura di M.M. Sassi, Edizioni della Normale, Pisa 2006, pp. 355-380, in particolare pp. 362 ss.. 459 ancora risentirebbe del politeismo teogonico esiodeo51, e che avrebbe suscitato dunque almeno due ordini di problemi di "second'ordine" (metacosmologici) per la riflessione posteriore: (i) perché una realtà dovrebbe avere una precedenza, un primato (ontologico) sulle altre? (ii) come è possibile che una natura ne produca altre? Da ciò che non è... Tornando ora al testo, per mostrare l’insensatezza degli interrogativi sull’origine di «ciò che è» espressi all’inizio della sezione: τίνα γὰρ γένναν διζήσεαι αὐτοῦ; πῇ πόθεν αὐξηθέν; Quale nascita, infatti, ricercherai di esso? Come e donde cresciuto?, la Dea, come abbiamo già osservato, procede a considerare una prima eventualità: che ἐόν sia scaturito (nato e cresciuto) ἐκ μὴ ἐόντος. Tale possibilità è scartata sulla base di due successive argomentazioni: la prima si richiama alla linea di pensiero sviluppata nei frammenti precedenti: ἐκ μὴ ἐόντος ἐάσω φάσθαι σ΄ οὐδὲ νοεῖν· οὐ γὰρ φατὸν οὐδὲ νοητόν ἔστιν ὅπως οὐκ ἔστι Da ciò che non è non permetterò 51 Su questo schema interpretativo si veda in particolare Graham, Explaining the Cosmos…, cit., capp. 3 e 4. Il tema era già stato affrontato dall'autore in saggi precedenti: per esempio in "Heraclitus' criticism of Ionian philosophy", «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 1997, 15, pp. 1-50. A. Nehamas ("Parmenides Being/Heraclitean Fire", in Presocratic Philosophy, cit., pp. 45-64), con qualche distinguo, accetta lo schema proposto da Graham. Elabora un modello analogo S.A. White, “Milesian Measures: Time, Space, and Matter”, in The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, cit., pp. 112 ss.. 460 che tu dica e pensi; non è infatti possibile dire e pensare che «non è». (vv. 7b-9a). Abbiamo sopra rilevato in questo caso la ripresa delle tesi di B2.7-8 e B6.1, e dunque di quanto immediatamente rivelato dalla Dea: (i) esistono solo «due vie di ricerca per pensare» (B2.2); (ii) «una: è» (B2.3), «l’altra: non è» (B2.5); (iii) la seconda è di fatto impercorribile, in quanto παναπευθής ἀταρπός («sentiero del tutto privo di informazioni» B2.6); (iv) è allora necessario che ciò che è sia (cρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι B6.1). Il primo argomento dipende direttamente dall’autorevolezza (e dall’autorità) del μῦθος divino, per escludere, con le sue logiche implicazioni (la formula χρή, con le sue sfumature di cogenza, correttezza e opportunità), un percorso di ricerca che coinvolga la via negativa, cioè comporti concettualmente – a qualunque titolo – il ricorso a «ciò che non è». A questa contestazione fa seguito un secondo, più discusso, argomento (vv. 9b-10): τί δ΄ ἄν μιν καὶ χρέος ὦρσεν ὕστερον ἢ πρόσθεν, τοῦ μηδενὸς ἀρξάμενον, φῦν; Quale bisogno lo avrebbe mai spinto, originando dal nulla, a nascere più tardi o prima? Come abbiamo segnalato nel commento, il testo greco lascia adito a due possibili interpretazioni. (i) Perché mai, in un momento qualsiasi, «ciò che è» dovrebbe generarsi? Nel «nulla», in effetti, manca una ragione per cui esso debba sorgere. (ii) Per quale circostanza – ammettendo che sia generato - «ciò che è» dovrebbe generarsi in un momento dato piuttosto che in un altro («più tardi piuttosto che prima»)? In realtà - «originando dal nulla» - non c’è ragione per cui un momento debba essere privilegiato rispetto a un altro: non vi è affatto ragione, dunque, per la sua generazione. In entrambi i casi ci troviamo in presenza dell’applicazione del principio di ragione, per cui un evento determinato è necessario 461 che abbia la propria «ragione», cioè la propria causa, in una situazione che possa produrlo (e quindi anche spiegarlo). La più antica, esplicita formulazione del principio è in Leucippo (dalle fonti ellenistiche supposto discepolo di Zenone e dunque considerato vicino alla concettualità eleatica): οὐδὲν χρῆμα μάτην γίνεται, ἀλλὰ πάντα ἐκ λόγου τε καὶ ὑπ’ ἀνάγκης nulla accade invano, ma tutto da ragione e necessità (DK 67 B2). In questo senso, la risposta di Parmenide agli interrogativi sull’origine di «ciò che è» è netta: nel «nulla» non è possibile rintracciare tale causa; non c’è ragione per cui «ciò che è» debba nascere (φῦν) dal nulla. Ma nella seconda interpretazione, al comune terreno rappresentato dal principio di ragione si aggiungerebbe un’ulteriore implicazione: il ricorso consapevole all'indifferenza rispetto al tempo52, per cui nulla si verifica senza che vi sia una ragione sufficiente a spiegare perché è così e non altrimenti. La nascita in un momento piuttosto che in un altro non è casuale, ma conseguenza necessaria di una causa determinata53: (i) affinché «ciò che è» si possa generare, è necessario si generi in un certo momento; (ii) ma, derivando dal nulla, non c’è ragione per cui si generi in un momento piuttosto che in un altro; (iii) non essendoci ragione per cui esso si generi in un qualche momento, esso non potrà mai generarsi. Insomma: deve esserci qualcosa che faccia la differenza: il non-essere non può fare differenza. È qui possibile ancora un’eco di Anassimandro, nel cui scritto sarebbe stata presente una particolare applicazione cosmologica del principio, per giustificare l’immobilità e la centralità della Terra all’interno della sfera celeste: 52 Leszl, op. cit., p. 183. 53 Conche, op, cit., p. 140. 462 τὴν δὲ γῆν εἶναι μετέωρον ὑπὸ μηδενὸς κρατουμένην, μένουσαν δὲ διὰ τὴν ὁμοίαν πάντων ἀπόστασιν La Terra è sospesa, da nulla dominata: rimane nel suo luogo a causa della equidistanza da tutto [da tutti i punti della circonferenza celeste?] (Ippolito; DK 12 A11) μέσην τε τὴν γῆν κεῖσθαι κέντρου τάξιν ἐπέχουσαν la terra giace in mezzo, occupando la posizione centrale (Diogene Laerzio; DK 12 A1) εἰσὶ δέ τινες οἳ διὰ τὴν ὁμοιότητά φασιν αὐτὴν μένειν, ὥσπερ τῶν ἀρχαίων Ἀναξίμανδρος· μᾶλλον μὲν γὰρ οὐθὲν ἄνω ἢ κάτω ἢ εἰς τὰ πλάγια φέρεσθαι προσήκει τὸ ἐπὶ τοῦ μέσου ἱδρυμένον καὶ ὁμοίως πρὸς τὰ ἔσχατα ἔχον· ἅμα δ’ ἀδύνατον εἰς τὸ ἐναντίον ποιεῖσθαι τὴν κίνησιν· ὥστ’ ἐξ ἀνάγκης μένειν vi sono alcuni, come Anassimandro tra gli antichi, che sostengono che essa [la terra] rimanga in posizione a causa della equidistanza: una cosa stabilita al centro, infatti, e equidistante rispetto agli estremi, non conviene si porti verso l’alto piuttosto che verso il basso o orizzontalmente; ma poiché è impossibile muoversi contemporaneamente in direzioni opposte, necessariamente rimane in posizione (Aristotele, De Caelo 295 b11-16; DK 12 A26). Nel caso del Milesio l’indifferenza (e quindi l’assenza di “ragione” per il movimento in una direzione o nell’altra) è espressa in relazione ai limiti celesti; Parmenide l’avrebbe applicata al tempo, nel senso di negare la possibilità che nel nulla si dia ragione per fare differenza, ai fini di un’ipotetica generazione dell’essere, tra un momento e l’altro. Appare tuttavia più plausibile che il filosofo intendesse semplicemente marcare la mancanza di una ragione per cui, «originando dal nulla», «ciò che è» si possa formare in un qualsiasi momento: nella completa negatività del non-essere non può tro- 463 varsi alcuna necessità che possa generarlo, nulla che possa fungere da ragione (causa) per la sua generazione54. Al termine del secondo argomento, al v.11, abbiamo un rilievo: οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί Così è necessario sia per intero o non sia per nulla. Insistendo sul valore avverbiale di οὕτως, qui non ritroveremmo la conclusione del ragionamento ma solo una sottolineatura importante: «ciò che è» deve essere integralmente ingenerato ovvero assolutamente non essere. In pratica la Dea ribadirebbe l’alternativa fondamentale della propria rivelazione, escludendo che tra le due vie possa darsi una via intermedia e dunque un commercio tra essere e non-essere. Come indicato in nota al testo, McKirahan55 ha riconosciuto al verso una funzione prolettica: segnalerebbe che quanto stabilito è rilevante per la successiva discussione. In effetti, πάμπαν πελέναι appare plausibile parafrasi di «tutto omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον), «tutto pieno d’essere» (πᾶν ἔμπλεόν ἐόντος) - discussi a partire dal v. 22 – piuttosto che di «ingenerato» o «ingenerato e incorruttibile». Se invece, come per lo più si riscontra tra gli interpreti, si attribuisce a οὕτως valore conclusivo («perciò»), il verso risulterebbe comunque anticipare la krisis dei vv. 15-16 («Il giudizio in proposito dipende da ciò: "è" o "non è"»), ribadendo l’assoluta incompatibilità di essere e non-essere e dunque negando un passaggio dal non-essere all’essere (e viceversa): nel contesto questo significa bandire definitivamente la possibilità di generazione «dal nulla», ovvero che ci possa essere una diversità dell’essere nel tempo56. Leszl, in particolare, convinto che l’uso degli avverbi sottolinei nei vv. 9-10 la preoccupazione parmenidea rispetto alla generazione nel tempo, interpreta: «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»57. In questo senso la conclusione – e- 54 Leszl, op. cit., p. 185. 55 Op. cit., p. 194. 56 Leszl, op. cit., pp. 185-186. 57 Ivi, p. 185. 464 scludendo il variare nel tempo di «ciò che è» – effettivamente diventa anche funzionale alla successiva discussione della sua omogeneità. Né mai dall’essere... Accettando l’emendazione di Karsten, i vv. 12-13a risultano: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ < τοῦ ἐ > όντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. In pratica, dopo aver eliminato la possibilità di una derivazione di «ciò che è» dal non-essere, la Dea si sbarazza rapidamente anche della possibilità alternativa: che «ciò che è» si generi da altro essere. In che senso, infatti, «qualcosa» (τι) potrebbe «generarsi» (γίγνεσθαί) «dall’essere» (ἐκ < τοῦ ἐ > όντος)? Parmenide assume che la nozione di γένεσις ἐκ < τοῦ ἐ > όντος introduca implicitamente la prospettiva di qualcosa di diverso dall’essere, cioè che «accanto [o oltre] a esso» (παρ΄ αὐτό) possa prodursi altro. È plausibile che anche qui egli si confronti direttamente con la riflessione sull’ἀρχή: nella misura in cui si riconosca l’ἀρχή come «ciò che è» e si tenga fermo il principio di esclusione del nonessere, che cosa potrebbe generarsi «accanto [oltre] a esso»? In pratica ammettere la generazione dall’essere comporterebbe riconoscere che: εἶναι μὴ ἐόντα siano cose che non sono (B7.1). La Dea in proposito può ricorrere a una formula di divieto diversa da quella “personale” utilizzata in B8.7 (ἐάσω... οὐδὲ «non permetterò che...»): in questo caso la proibizione risulta più astratta, vincolata a una considerazione razionale (οὐδὲ ποτ΄... 465 ἐφήσει πίστιος ἰσχύς «Né mai concederà forza di convinzione [certezza]», B8.12), alla linea di pensiero espressa nel testo precedente. Una versione alternativa dell’ultimo argomento è quella tradizionalmente accolta sulla scorta dell’autorevolezza del codice di Simplicio: οὐδὲ ποτ΄ ἐκ μὴ ἐόντος ἐφήσει πίστιος ἰσχύς γίγνεσθαί τι παρ΄ αὐτό Né mai dal non essere concederà forza di convinzione che nasca qualcosa accanto a esso. (B8.12-3) Si tratterebbe di un ulteriore sostegno (il terzo) alla negazione della possibilità di generazione dal nulla, che presenta tuttavia una difficoltà: il riferimento, nel contesto, dell’espressione παρ΄ αὐτό. Coxon58, per esempio, traduce: Nor will the strength of conviction ever impel anything to come to be alongside it from Not-being, riconoscendo a παρ΄ αὐτό valore locativo e riferendolo all’essere. In modo analogo intendono il passo, tra gli altri, Mansfeld59, per sottolineare come ogni origine dal nulla sia impossibile (il nulla è l’assoluto nihil), e Cerri60, che vi intravede addirittura la dimostrazione che l’Essere è οὖλον μουνογενές e ἕν, συνεχές. Altri, come Leszl61 esplicitamente, riferiscono αὐτό a μὴ ἐόντος, e colgono una (nuova) giustificazione del principio di ragione (ex nihilo nihil fit): il non-essere, per la sua negatività, non può essere la causa di qualcosa. Conche62 segnala, in questo caso, come risulti incomprensibile attribuire valore comparativo ad αὐτό («autre chose que lui-mêmê»), dal momento che così la Dea implicherebbe l’esistenza del Non-essere. 58 Op. cit., p. 197. 59 Op. cit., p. 95. 60 Op. cit., p. 224. 61 Op. cit., p. 187. 62 Op. cit., p. 143. 466 Alcuni 63 di coloro che mantengono la lezione dei codici di Simplicio - e quindi non riconoscono struttura dilemmatica all’argomentazione parmenidea, rilevandovi piuttosto tre successive, insistite contestazioni contro la possibilità della genesi e dell’accrescimento dal non-essere - colgono nel passo un riferimento al concetto pitagorico di «vuoto» (= non-essere), così attestato in Aristotele: εἶναι δ’ ἔφασαν καὶ οἱ Πυθαγόρειοι κενόν, καὶ ἐπεισιέναι αὐτὸ τῷ οὐρανῷ ἐκ τοῦ ἀπείρου πνεύματος ὡς ἀναπνέοντι καὶ τὸ κενόν, ὃ διορίζει τὰς φύσεις, ὡς ὄντος τοῦ κενοῦ χωρισμοῦ τινὸς τῶν ἐφεξῆς καὶ [τῆς] διορίσεως· καὶ τοῦτ’ εἶναι πρῶτον ἐν τοῖς ἀριθμοῖς· τὸ γὰρ κενὸν διορίζειν τὴν φύσιν αὐτῶν Anche i Pitagorici affermarono ci fosse il vuoto, e che esso penetrasse, dall’infinito soffio, nel cielo [universo] come se [questo] respirasse, e che fosse il vuoto che delimita le realtà, quasi essendo il vuoto qualcosa di separato delle cose successive e di distinzione; affermarono anche che questo avvenga dapprima nei numeri: il vuoto, infatti, distingue la loro natura (Aristotele, Fisica IV, 6 213 b) οἱ μὲν οὖν Πυθαγόρειοι πότερον οὐ ποιοῦσιν ἢ ποιοῦσι γένεσιν οὐδὲν δεῖ διστάζειν· φανερῶς γὰρ λέγουσιν ὡς τοῦ ἑνὸς συσταθέντος, εἴτ’ ἐξ ἐπιπέδων εἴτ’ ἐκ χροιᾶς εἴτ’ ἐκ σπέρματος εἴτ’ ἐξ ὧν ἀποροῦσιν εἰπεῖν, εὐθὺς τὸ ἔγγιστα τοῦ ἀπείρου ὅτι εἵλκετο καὶ ἐπεραίνετο ὑπὸ τοῦ πέρατος Non si deve allora essere per nulla esitanti circa la questione se i Pitagorici non assumano o assumano la generazione: essi, infatti, affermano chiaramente che, una volta costituito l’uno – sia da superfici, sia da un piano, sia da un seme, sia da cose che sono in difficoltà a indicare – subito la parte prossima dell’infinito fu attirata e delimitata dal limite (Aristotele, Metafisica XIV, 3 1091 a13-18). 63 Cornford, Raven, Untersteiner, Mondolfo, per esempio. 467 Mondolfo64, in particolare, nel complesso della sezione B8.5- 21 non coglie semplicemente la negazione del divenire come processo di generazione e corruzione, in antitesi ai modelli cosmogonico e teogonico, ma l’attacco a una concezione determinata, di cui lo studioso ritiene si possano tracciare i contorni definiti: una dottrina che affermava la molteplicità in connessione con la discontinuità; che introduceva la generazione dell’essere, senza precisarne processo e necessità, e, soprattutto, suscitava il problema dell’inizio, suscettibile di accrescimento in relazione al nonessere. Come risulta appunto dall'attestazione aristotelica, si sarebbe trattato della cosmologia pitagorica, l’evocazione della quale spiegherebbe convincentemente anche la sequenza di interrogativi ai vv. 6-7 e in genere la scelta dei σήματα dell’essere da parte di Parmenide. Pur non escludendo le due possibilità - (i) che la versione dei codici di Simplicio sia quella corretta e (ii) che l’allusione sia effettivamente alla “respirazione cosmica”, che avrebbe lasciato anche altre tracce antiche (in Senofane e Pindaro, secondo Mondolfo65) – l’impressione è che in realtà l’insistenza del poeta sia essenzialmente su γενέσθαι e ὄλλυσθαι e che l’eventuale riferimento dottrinale sia da individuare all’interno di una discussione più ampia, in cui per Parmenide era fondamentale attaccare le posizioni che in qualche misura ancora implicavano γένεσις e ὄλεθρος. In questa prospettiva, l’emendazione che abbiamo accolto e la connessa ricostruzione argomentativa (in cui οὐδέ al v. 12 richiama οὔτε al v. 7) appaiono più convincenti. Sarebbe forse praticabile un’altra strada66 per l’interpretazione di ἐκ μὴ ἐόντος, tuttavia più complessa e meno plausibile: ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol. II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4. 468 che alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il «non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν per questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere [abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15). Marcando l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή che è anche περιέχον (avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un “non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή difficilmente avrebbe potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente. Giustizia e le sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò che non è» non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente (vv. 13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è legato al fatto che Parmenide sceglie, nel contesto della narrazione avviata con il proemio, all’interno del discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in particolare di un passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a Ananke e Moira - un ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi che la citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora»67. Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la «ineluttabile legge dell’Essere» 68: in altre parole, come l’Essere debba sempre essere identico a se stesso. La questione è, in realtà, più complessa, sia dal punto di vista della costruzione del poema, sia da quello delle specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione liminare e, in relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza; (ii) essa, tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa dall’intervento delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela del mondo infero e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις e Δίκη sono espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo discorso: il viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma sotto l’egida della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o «via» (κέλευθος), costituiscono la struttura portante nell'architettura dell’opera69, elementi di continuità nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”: il contesto entro cui le specifiche trattazioni su «ciò che è» e sulla Doxa assumono il proprio senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione di 67 Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato nell’ultima edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia “trascendendo” «ciò che è» (ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere (problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a dispetto della sua assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il perfetto equilibrio attraverso l’esclusione della coppia oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (B8.30-31) Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37). La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni cosa: Parmenide, reagendo 70 Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5. 471 forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da figure di garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero inteso marcare immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere a turbare dall’esterno. Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come ipostatizzazione della causa dell’equilibrio, Dike, Ananke e Moira, pur sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non hanno consistenza ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione dell’audience cui il poema si rivolgeva72. In realtà, il recupero del mito nel contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e la conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere, potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea, supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema, tra discorso significante e discorso mitico74. Giudizio ed essere D’altra parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv. 15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73 Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è. Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e] inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene» (χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη). Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii) conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21) e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo, γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» - che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere» (ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale). Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6. Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77 Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La stessa preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo, negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν - «è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo [passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ) – alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di «ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v. 19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν) che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80. 79 Ma come insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι; o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit., p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn, ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι), si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito: l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo. Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a) κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi, l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso (si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione, (iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita», «inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον· οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi) identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30). L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità, alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. 480 Dal riconoscimento dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e, ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo: «è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione: πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo, che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi, p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità” (o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν, è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι. È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην, ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν, εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata, chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco, condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο. (3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος < δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco; mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione, l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre. Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari (Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria, nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος) nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa diretta del «mutamento» (μεταβολή). 484 Il lessico peripatetico delle testimonianze fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole, acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale. Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno (DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento, nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε, τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36 e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema (γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile, feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος), dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui» discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare», διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo [lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico, il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i) accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e «senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità (connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’ ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως· ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’ ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane, sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo («sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le] fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene; (ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità (sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea, tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη (Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii) l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi escluso87. Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di «ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος. Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος). 87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments, in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press, Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità, identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero, uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»); il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole], invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto, come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce (vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo: ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a). Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89 Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole, utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero) oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90. 90 McKirahan, op. cit., p. 202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali (B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica) tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza (espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα) «che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti» di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92 McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale) dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel contesto, insomma, a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si riferisce il termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide (γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire, essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa. Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni (ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93 Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione (νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla «esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò, in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità, unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei «mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν, essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet (éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham, Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi (πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto (πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν), manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη· δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745. Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere). Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον, τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia, Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al «corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke. Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München 1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss.. Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...] per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità, l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere (ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100. Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua "densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno (vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità (τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne (con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti: (i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον); (ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος); 505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso («ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla». Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi – sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta "in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) - come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν: nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν, ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna, continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506 cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità delle cose considerate appunto come essere103. Solo in coerenza con l'esigenza di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla» è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a). L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas (Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on *h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira) e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà, rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme: sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre «identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J. Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς, οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...] E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno, né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo 33b-c7)108. 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR, Milano 2003. 509 DALL’ESSERE ALLE FORME [B8 VV. 50-61] Sin dalla antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28 A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che doveva coprire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi 12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…, cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme, l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα - «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8 allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia, probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato: come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori: καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette, sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia: non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης · δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano – adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione, ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista. Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere, apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8 – la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti, possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né, diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!); (c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea) offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60 l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo», accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare «ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme» (μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale (διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza, la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità, differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα) all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo «principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων): ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui, infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza, per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele, Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone – attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee, offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα) – in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla «riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di «ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων, B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee: in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica (per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello 519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica. Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b) che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali, distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello (pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»: non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4). Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso, secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν..., «poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali» criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα) Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων, τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p. 65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις (decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità (εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare, l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena determinate 4, mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H. Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come «opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, [...] [...] ἀτὰρ [...] τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto leggero [...] [...] dall’altra parte [...] le caratteristiche opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος, δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ] καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων [ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui: Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele - che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν) che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven (nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans, Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane (Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro). Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK 28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa, sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli "elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός) i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo: χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto; celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di Petelia)9. Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma, sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro, dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»), [ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante») concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp. 172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis 1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις) cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle, colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε, τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6). In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων [...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54). Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13. La situazione appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai», πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare, interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale, invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp. 61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni, Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [...] εἰ δὲ "μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico, emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro, senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e «opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op. cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio, nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui, in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν) e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono segnali molto numerosi: che...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...), la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende, dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων). Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile: questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον), pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione (ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio: non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema, al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa «è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione, l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα (B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile») potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536 chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti, ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento, rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo, qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura. Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων, περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…, cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp. 7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo quindi un senso profondamente diverso: 537 Il pensatore di Crotone (che Diogene Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale opposizione (μὲν θεοὶ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze. Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è», sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni» attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli indizi. 538 LE FORME, L’ESSERE, IL NULLA [B9] Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ ‘μ η δ ε τ έ ρ ω ι μ έ τ α μ η δ έ ν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν), Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni accostamenti verbali manifestano questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno (B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22). A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν (B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι (B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος (l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba- 541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin- 3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo "riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata – come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii) aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti (B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4), Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως· ἐ π ὶ τ ῶ ι δ έ ἐ σ τ ι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τ ὸ φ ά ο ς καὶ τὸ μ α λ θ α κ ὸ ν καὶ τὸ κοῦφον, ἐ π ὶ δ ὲ τ ῶ ι π υ κ ν ῶ ι ὠ ν ό μ α σ τ α ι τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la stabilità del mondo4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme (anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc, per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5 Ruggiu, op. cit., p. 327. 6 Ivi, p. 328. 7 Op. cit., p. 200. 545 UN GRANDE AFFRESCO COSMICO [B10-11-12- 13] I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse: Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12 in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12, un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione («poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio), viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai... degli astri». Il commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco (Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore, chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον) implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione. Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica (conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra» (στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ) «tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie (εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa) di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10 costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un "secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548 proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος) - e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma, ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme» (B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva. O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell, «Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far «conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni» (πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα) del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far «apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura» (φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11 (nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide: Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea, evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la sezione astronomica del proprio poema 6. Le opere della natura Di questo programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61, l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la «generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις: nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p. 259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα), nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di classificare i fenomeni 7: in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i) quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9. Nella stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7 In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione» dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e «opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà [δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo, costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo "catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato, nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem. 11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12 alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste (sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della «Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione "copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente «invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai processi cosmici. 554 Il sistema del mondo Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11 si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3 versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato, sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o «corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa) testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους, τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν, ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης [sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit., p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come «anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto, dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche, anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato: come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης, «e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona] ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti». Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας). Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius) dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere» avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico). Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...] (Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius – costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile, sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p. 343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante, circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri, dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri; (ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος), che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22 Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero: l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che [Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α ν ὸ ν καλεῖ) si riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων). Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός: «l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea, composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo: quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘α ἱ γ ὰ ρ... κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘α ἱ δ ’ ἐ π ὶ... θ η λ υ τ έ ρ ω ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero [...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»] sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28 A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico, quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile: dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione, solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς καλεῖ [B 7] καὶ Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν καὶ μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν β ω μ ό ν τε καὶ σ υ ν ο χ ὴ ν καὶ μ έ τ ρ ο ν φ ύ σ ε ω ς. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’ ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κ ό σ μ ο ν, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν. καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην. Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto [dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e «misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole, quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»; quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre, entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK 44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo, sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος «la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός – compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone», probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra (Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia) filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη: καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione. D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p. 234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13, osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’ «perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica (πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569 non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ: in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste (come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26 Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης. La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la «natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Δ ι ὸ ς ο ἶ κ ο ν ) o «madre degli dei» (μ η τ έ ρ α θ ε ῶ ν ), connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica, Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te [Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii 27.7)28, e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13: ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina, potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius: περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo, coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29 Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀ θ ά ν α τ ο ν γὰρ καὶ ἀ ν ώ λ ε θ ρ ο ν, ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle [abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς, καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα). Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto (Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento [dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose» (Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς, sia in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni analoghe a quelle del filosofo greco (quae... rerum naturam sola gubernas, I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op. cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι). Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni, e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros, che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche, documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e «maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κ υ β ε ρ ν ᾶ ι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μ έ σ ω ι π ά ν τ ω ν ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’ κτλ. καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo [B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’ perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4 984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν μ έ ν, φ η σ ί ν Ἔρωτα … πάντων’ [ B 1 3 ] Si potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam: coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi > monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam, qui C u p i d i t a t e m [B 13] ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie: riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i) la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»), che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros. Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente, dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso (cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀ φ ρ ο δ ί τ η ς ), di cui Eros (insieme alle altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p. 242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω: pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω: meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un rapporto di pura filiazione concettuale»37. 37 Cerri, op. cit., p. 273. 580 NOTTE DI LUNA [B14-14A-15-15A] I quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a, per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente, per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche (obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν. nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» – elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre rivolta verso i raggi del sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole), illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1 Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee; (iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda; l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc. εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide...... È la diversa commisurazione degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici) più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza): il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla calda e quindi neppure splendente3. 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. 583 IL CORPO E IL PENSIERO [B16] Frammento di interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato, infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili, diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei (Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà. L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584 fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero (φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti] si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti, afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero (μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις): si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama, nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’ καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare, il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3 427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e «percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei (Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino. Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl), Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3, Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16 troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione (dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata) lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε, φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B 16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν. 3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione. [citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa: perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea, il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica. Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5, riferendosi entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4 Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso, Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché [...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso [sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della "fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις): «il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile (evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi, che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico. Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii) e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due «elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio. L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la relazione psico-fisica che vi è tematizzata7. Ricostruzione dei vv. 1-2a I primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des "Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p. 181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo, intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero (ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν, τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος 594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle, nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων) non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle «membra» e condizione della mente 8: in tal caso, il tradizionale motivo poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich, op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op. cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei, quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico corporeo10. L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo, tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta, di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa: παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue: τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto. Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che «ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν) con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13. A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero (νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di "conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco), informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος, νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero» (νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua (B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»: una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti, schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica: averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a): ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων, B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo, espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea «il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente) la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione: difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non avesse opportunità di controllo15. Queste supposizioni assumono maggiore consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un «cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος, letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa, come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17 Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare probabilmente con lo stesso Parmenide18. È possibile, dunque, che egli praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria, ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo, la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit., pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari, Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit., pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi (B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici), delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero. Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che rimane comunque una "scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare, nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν (Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘f e m i n a... s e x u m ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue. [B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione letterale, ma traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento, e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p. 285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων): φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν, καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra, e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che [deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile, cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai genitori6: entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes, δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se, infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op. cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes, quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio sessuale e psichico7: lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora» (Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σ ο ν ο μ ί α ν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ, ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς μ ο ν α ρ χ ί α ν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti. [...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante» (Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius; DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni (umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p. 252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile, come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia; probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli constatava nella pratica della medicina10. Su questo sfondo piuttosto sfumato è possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita come μάθημα essenziale11. 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale 1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide, Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente, dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre [la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53]. Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la deduzione che esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti: (i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια): nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto» (ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento – naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura «sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso, l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle «cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι. καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν; οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’ ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […] percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi, fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28 A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere (Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso, il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον) dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro. Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν) «secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν) - formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista, Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa, probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura "costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa realtà4: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza – e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν – giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5, caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op. cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6. Per la terza volta, dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. 6 Ruggiu, op. cit., pp. 370-1. 7 Ivi, p. 370. 8 Ivi, pp. 370-1. 617 Coloro che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero, aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.).  Verb Edit fīō (present infinitive fierī, perfect active factus sum); third conjugation, semi-deponent  (passive form of) faciō (copulative) I become, am made Vōs ōrāmus ut discipulī ācerrimī fīātis ― We are begging you so that you may becomevery keen students I happen, take place, result, arisequotations ▲synonyms ▲ Synonyms: interveniō, ēveniō, expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō, contingō ut fit ― as happens usually/as is customary fit ut ― it happens that Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 13: silentium et repentina  fit quies A stillness and a sudden hush took place I appear quotations ▲ Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 10: fit obvius cum exercitu Romulus Romulus appeared with his army Conjugation Edit While it does have a fourth conjugation pattern when conjugated, this verb has an irregular infinitive (fierī), and is therefore third conjugation.  less ▲   Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant, irregular long ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative singular plural first second third first secondthird activepresent  fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future  fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first second third first secondthird activepresent— fī — — fīte — future—fītō fītō—fītōte fīuntō non-finite formsactivepassive presentperfect future presentperfect future infinitives fierī factumessefactum īrī——— participles—factus———— verbal nounsgerundsupine genitivedative accusativeablativeaccusativeablative fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū Usage notes Edit This verb ousted Facior, Facī in the sense of "to be made".  Verb Edit fīō  first-person singular present passive indicative of faciō Related terms Edit faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō (see there for further descendants) → English: fiat References Edit fio in Charlton T. Lewis and Charles Short (1879) A Latin Dictionary, Oxford: Clarendon Press fio in Charlton T. Lewis (1891) An Elementary Latin Dictionary, New York: Harper & Brothers fio in Gaffiot, Félix (1934) Dictionnaire illustré Latin-Français, Hachette.  Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla metafora mitica in Parmenide Author(s): Antonio Capizzi Source: Quaderni Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 3 (1979), pp. 149-160 Published by: Fabrizio Serra Editore Stable URL: http://www.jstor.org/stable/20538610 Accessed: 22-06-2016 10:52 UTC Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at http://about.jstor.org/terms JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact support@jstor.org.    Accademia Editoriale, Fabrizio Serra Editore are collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Quaderni Urbinati di Cultura Classica This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni sulla met?fora mitica in Parmenide Antonio Capizzi 1. Non posso fare a meno di ringraziare Fritz Fajen per la dura critica1 che ha rivolto alia mia interpretazione dei frammenti 1 e 6-7 di Parmenide2. Devo ringraziarlo perch? (a differenza di altri critici non meno duri) prima di giudicare il mio libro lo ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti da lui attaccati sono in effetti gli argomenti portanti della mia dimostrazione; ma soprattutto devo essergli grato perch?, attaccando quei punti, mi ha costretto ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e pi? validi argomenti in loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono: gli argomenti di Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai debolmente. Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera interpretazione del frammento 1, e cio? la lettura real?stica e topogr?fica del viaggio di Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro dei tempi verbali del proe mio; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il viaggio si localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta, la narra zione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen ? invece del par?re che, "in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come preparatoria ad una specie di rivelazione o simili, sia come espo sizione di un viaggio storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso". Premetto che il proemio, formalmente parlando, ? in ogni caso "preparatorio ad una specie di rivelazione": il contenuto del poema Sulla natura viene presentato come il discorso di una dea (Dike) all'autore, cosi come il contenuto della Teogonia ? una rivela zione che altre dee (le Muse) hanno fatto ad Esiodo; e la divergenza tra le vari? interpretazioni verte sulla localizzazione delPincontro tra la divinit? e il poeta, localizzazione inesistente nelle letture mistiche e 1 In Gymnasium 84, 1977, H. 1, pp. 39-41. 2 Contenuta nel volume La porta di Parmenide, Roma 1975. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   150 A. Capizzi allegoriche, esistente nel mondo celeste nelle esegesi astronomiche, e infine esistente in una citt? reale di questo mondo {certamente Velia) nella mia interpretazione. Ora, Fajen pu? pensare ci? che meglio crede sui significato dei tempi verbali nei vari tipi di narrazione; ma tanto il suo par?re quanto il mio resta?o inverificabili se non si basano su esempi concreti. Concretamente parlando, gli scrittori precedenti Parmenide, o a lui contemporanei, non ci forniscono esempi di nar razioni allegoriche in prima persona, e, per quanto concerne viaggi nel Pal di l? (celeste, infero o mistico che sia questo al di l?), non ci danno che la Nekyia omerica: ma anche la sola Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai significativa per il nostro problema. Essa si compone di tre parti: il passaggio di Odisseo e dei suoi compagni per Pultimo agglomerato umano, abitato da esseri viventi e definibile come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per il paese dei Cimmerii {k 1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da Circe4, e cio? nel bosco di Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale le ombre dei morti giungono uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la penetrazione di Odisseo (preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo assicura il suo ospite che ci? che dira verra creduto 6 anche se narrera "avvenimenti straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu? vedere anche personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire dalPErebo (k 583 sgg.). La seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso la fossa, in mezzo ad una nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle persone, ed ? quindi priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece, contengono localizzazioni e descrizioni rispettivamente di cose del nostro mondo (appunto la citt? e la terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago e Palbero di T?ntalo, il monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim merii il poeta interrompe la serie degli aoristi e degli imperfetti, che punteggiano il viaggio della nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con un perfetto equiparabile ad un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non avviene per i luoghi delPErebo, e cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v. 583; uSwp anokzcrxzio, v. 586), per la 3 Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<; te tc?Xic te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<; x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ (ibidem, 22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc?? 'Epa?eix; (ibidem, 36-37). 6 J??, 363-366. 7 dicrxzka spy a (ibidem, 374). 8 xoct' E?puTCuX?? "A?5w? 565 (ibidem, 571). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal ritirarsi del lago {ycda piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea .. . x&, v. 588), per il macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e soprattutto per la cintura di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella parmenidea della porta (fr. 1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP dai iniziale si sosti tuisce un Tjv (v. 610). II processo, per cui i tempi storici di una nar razione si interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni volta che il narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea l?stico, non ? limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti contenuti nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche nei tragici, come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo dal messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un fiume 12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re udito la gente parlare di un decreto di Creonte 13, allude a una fontana ben nota (come la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata ? Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS?? TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto, magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono due, quello di Eumeo a Odisseo (XV 390-486) e l'altro di Odisseo a Penelope che ancora non lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno stesso clich?: entrambi infatti contengono un'introdu zione, nella quale l'oratore acconsente a parlare e spiega le ragioni del suo as senso (XV 390-402; XIX 165-171); una localizzazione, in cui vengono descritte rispettivamente le isole di Siria e di Creta (XV 403-412; XI 172-178); e la narra zione vera e propria, legata alia localizzazione in entrambi i casi dal ricordo di un re che regnava nelle terre descritte (XV 413-486; XIX 178-202). La localiz zazione ? sempre caratterizzata da tempi principali, la narrazione da tempi sto rici; e ci? avviene anche in altri racconti deH'ultima parte d?iVOdissea (cfr. ad es. XXIV 331-344). 10 Pers. 272 sgg. 11 Ibidem, 447-449. 12 Ibidem, 487. 13 Med. 68-69. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   152 A. Capizzi ta" (in quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta dino, ma congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o "attraverso tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i due porti, Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto velino verso il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci ritroviamo sempre in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura che Fajen ritiene inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni alternative, devo supporre che egli opti per le interpretazioni non topografiche ten?ate fino ad oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del proemio un'allegoria speculativa simbo leggiante il viaggio delPintelletto verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra, Deichgr?ber), gli occttt) sono le province del sapere; se si propende per Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger, Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo intendere per ?o-rr] i gradi delPilluminazione; se infine si sceglie Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa sui carro del sole lungo le orbite celes ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i "centri abitati" simboleggiano i segni dello zodiaco o qualcosa di simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare gli autori antichi in cerca delPesatto significato di acrru, ha trovato in qualche scrittore traslati di questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo. c) Diels ritiene che il izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. 6,5 non sia una forma regolare di rcXacrcrG), ma una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con esempi tratti dal tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli esempi, "non essendo plausibile un dorismo in quel contesto", ma non di invalidare Pipotesi, essendo Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci) fondata su "un'intera se rie di verbi in -o"o*co invece del -?w che ci si aspetterebbe" citata nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non credo che sia necessario rileg gere le grammatiche per sapere ehe in greco le reg?le sulla formazione del presente dal tema verbale sono alquanto precarie: ma icX?Cco ha un presente regolare attestato da numerosi scrittori, e Diels non lo ha certo negato. Diels ipotizza un hapax, e cio? una forma irrego lare che sarebbe attestata dal solo Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere io a ricordare al collega che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un emendamento) viene a cadere appena si dimostri che 14 Si veda in proposito E. Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della Civite?V, Riv. studi salern. 1969, pp. 389-396. 15 E. Schwyzer, Griechische Grammatik I, M?nchen 1939, p. 715. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 153 il passo ha senso compiuto senza di essa. Anche se Fajen trovasse non una serie di presenti irregolari o di doppi present? (come quelli elen cati da Schwyzer), ma addirittura una serie di hapax analoghi a quello presunto da Diels, Poner? della prova resterebbe sempre a lui. Alla fine della sua breve ma densa recensione Fajen mi accusa "di non essere al servizio della scienza", e non posso dargli torto: se scienza ? quella che traspare dalle sue argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il vecchio perch? vecchio e nel rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ? chi (come Cesare Cremonini) rifiuta di guardare nel cannocchiale se il cannocchiale non mostra Puniverso descritto da Aristotele. II servizio di questo tipo di scienza lo lascio volentieri al mio c?rtese obiettore. 2. Ho tralasciato volutamente il primo argomento di Fajen, quello riguardante la mia interpretazione delle "fanciulle Eliadi", citate in Parm. 1,9, come pioppi fiancheggianti la strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in Omero, le 'HXi?S?<; compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen obietta che in questi autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno al pianto delle fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in Parmenide viene a man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo al di fuori di ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere a?YSi?poi come in Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte, ma neanche possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al mito di Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione al mito di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la contemporaneit? tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche e soprattutto perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a volte no) ci risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma anche ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin terrogativo ? lo stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ? Palternativa, e che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se optiamo per la lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se riprendiamo Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo sull'interpretazione astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito troviamo le Eliadi come equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di Parmenide ci riportano a miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il fatto che fino ad oggi nes suno ha letto il proemio di Parmenide come una narrazione mitica (non This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   154 A. Capizzi ? mai esistito un mito di cui fosse protagonista lo scrittore che lo nar rava) : i moderni fautori delle tre interpretazioni menzionate pi? sopra hanno visto tutti nelle Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui giudizio Fajen mi rimprovera di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia tentato un'interpretazione del proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie del sole (che simboleggerebbero le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il continuo uso di metafore (xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il retore Menandro 18 precisa che fece uso di quelle particolari metafore mitiche consistenti nel dire "Apol lo" per sole, "Era" per aria, "Zeus" per calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la letteratura antica, da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io propongo per le Eliadi parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il personaggio m?tico viene nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza alcun riferimento al mito che giustifica Passociazione. Queste considerazioni sarebbero sufficienti per rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho detto, la mia inveterata abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha spinto a fare ulteriori ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho osservato, ad esempio, che questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi? fr?quente nel Pantichit?, compare assai di rado nel lungo elenco di metafore poe tiche e retoriche fornitoci da Aristotele 19, e il fatto non mi ? sembrato casuale: Panomalia dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non diacronico delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della genesi e delPevoluzione della lingua e dei suoi modi"20. Aristotele scrive in un'epoca nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri poeti, i retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano soprattutto preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica valuta le metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che il filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ? per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono allusioni dei 16 Sext. Adv. Math. VII 112. 17 Parm. I 665,17. 18 Rhet. I 5,2. 19 Poet. 21-22; Rhet. Ill 2-4; 10-11. 20 G. Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e stilistica di Aristotele, Roma 1967, p. 242. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 155 poeti e degli oratori a modi di dire gi? esistenti e diffusi tra la gente del pop?lo che (in ?poca di viva tradizione orale) li ascolta diretta mente. Aristotele, insomma, non pensava mai che gli aedi omerici dovevano farsi capire dalla gente delle citt? che visitavano; e che i poeti e gli oratori del sesto e del quinto sec?lo avevano un ben pre ciso uditorio 21, nel quale le loro met afore dovevano suscitare reazioni immediate. Nessun cantore o parlatore avrebbe detto "Ares" per indicare la guerra se non av?sse saputo che i suoi ascoltatori usavano gi? la stessa met?fora; e le metafore mitiche erano popolari prima di essere letterarie. La popolarit? delle metafore cui pi? sopra ho accennato era senza dubbio estesa all'intero mondo di lingua greca, e la ragione ? f?cil mente intuibile: si tratta di metafore o gi? presenti nei poemi ome rici, o da essi der?vate. Ma esistevano metafore mitiche popolari di origine postomerica o extraomeriea: Empedocle, che subi fortemente la suggestione stilistica di Parmenide, e che gi? il retore Menandro accomunava a Parmenide proprio per Puso di metafore mitiche22, usa per i suoi elementi tre nomi di divinit? omeriche, Zeus, Era e Edoneo (= Ade), ma per il quarto elemento, Pacqua, si serve di Nesti23, una divinit? siciliana24; e abbiamo qui un chiaro esempio di met?fora po? tica che riproduce una met?fora mitica popolare locale, e cio? di poesia adattata ad un uditorio limitato, come era anche quella di Parmenide. Le Eliadi pero, pur non essendo un mito omerico, non sono neanche un mito locale campano, o pi? in gen?rale italiota: sono, nel momento in cui Parmenide compone il suo poema, un mito tr?gico. I miti metamorfiei e i miti dionisiaci sono i due pi? importanti gruppi di miti non omerici, ed hanno entrambi la stessa origine: i sa tiri e i sileni della mitografia dionisiaca, le donne-uccello e le donne albero della mitografia metamorfica, derivano tutti certamente dai riti di caccia, raccolta e agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si camuffano con pelli di animali o con fronde vegetali per mimare 21 Rinvio, per lo sviluppo di questa prospettiva storica, a B. Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente uditorio nella lirica c?rale greca', Stud. urb. 39, 1965, pp. 70-88: per Parmenide si vedano le pp. 87-88. 22 Menand. loc. cit. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr. 96, v. 2. Un altro personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la nutrice di Persefone, viene nominato da Empedocle (fr. 153) metaf?ricamente per indicare il ventre. 24 Lo attestano Eustazio {ad II. p. 1180,14) e Fozio (s.v. N^ctttic). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   156 A. Capizzi appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa, ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si l?gano per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in effetti Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione delle opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune origine tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo dramma di Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle27. Ma la leggenda delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle Pandionidi, figlie di un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione originaria erano 25 Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel Prometeo inca tenato, dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente si allude anche nelle Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ? chiaro che ancora in Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva sulla scena con una maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che anche negli Uccelli di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche attributo legato alla sua me tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca alludono chiaramente i due per sonaggi che commentano la sua comparsa (vv. 672-674). 26 ?piufumi po?tae dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus, etc." {N.H. XXXVII 2, 11,31). 27 "Super omnis est Sophocles po?ta tragicus [...] Hic ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum deflentium" [ibidem, 41). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 157 state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un parente morto (e ce lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29, due poeti vissuti assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio, chiamino IIav8iovi<; la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi, esse esprimono il loro dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici, prima in forma allusiva nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per esteso nel Tereo di Sofocle, troviamo questo mito gi? contaminate (probabilmente per la somiglianza tra i patronimici Ilav Siovi? e navSapTQi?) con quello di Aedone, figlia di Pandareo, che uc cide per errore il proprio figlio Itilo e si trasforma in usignolo M, oltre che con la truce storia (variante tessala del mito di Medea) della vendetta di Procne su Tereo: ne vien fuori un complesso mito meta morfico, dove le Pandionidi si sono prec?sate nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate Puna in usignolo e Pa?tra in rondine, mentre Tereo si trasforma in upupa; tuttavia anche in questo caso il mito diventa popolare (e ce lo attesta perfino Aristofane)31 quando si rappresenta pubblicamente la tragedia sofoclea che narra la metamorfosi. Tutti e tre questi miti diedero luogo a metafore popolari, e Ate ne, proverbialmente ricca di uccelli, appunto la sua attenzione sui due miti sofoclei, ritrovando le Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie avicole locali: la rondine dovette essere chiamata abitualmente Filo mela, se tutti compresero a vol? quando Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una met?fora famosissima, evidentemente, se perfino Aristotele32, che abbiamo visto cos? restio a citare metafore mitiche, la ritenne degna di menzione); e Meleagridi furono chiamati, pi? in gen?rale, gli uccelli che nidificavano numerosi nelPAcropoli e che ri chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le immagini e i cori del Meleagro 33. A Velia, ricca di pioppi **, suscito invece maggiore im 28 Op. 568. Probabile reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat. IX 70. 29 Fr. 88 Bergk. 30 Od. XIX 518-523; Apollod. III 5,6. 31 Toia?Ta uivToi Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a (4i;. 100-101). 32 Rhet. III 3, 1406 b 16-19. 33 Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v t^ ?xpoitoXei. 5W.: M? X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei X?Youca 8? o? uiv tgc? ?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc? u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX. Phot. s.v. = Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide cit. pp. 33-34. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   158 A. Capizzi pressione la metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli abitanti del centro campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia di" gli alberi che fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide utilizz? Pimmagine mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa via". Ma il fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore popolari locali non mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle trag?die cui il suo uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da oratore, dato che si rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono dei tragici"35; Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta, illuminando la met?fora popolare di origine eschilea con altre metafore tratte dai testi stessi di Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per "?ocpo?" e di "x??P" per "o?o?" e l'?vidente gioco sui doppio significato di "x?pa" ("testa" e "cima"36 che ritroviamo nella splendida immagine del verso 10: "xaX?-rcTpa" per "velo di t?n?bre" ? in effetti accertato come espressione eschilea37, mentre le immagini della trasformazione delle braccia in rami e della testa in cima frondosa sono anche nei versi dedicati aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che nella parte finale (allorch? le sorelle si lamentano tutte insieme con un andamento che richiama i cori tragici)39 sembrano fortemente influenzati dalle Eliadi di Eschilo, dove le figlie del Sole costituivano appunto il coro. ? anche significativo come queste metafore popolari abbiano dato, in epoca pi? tarda, esiti assai simili: mentre i mitografi conti nuavano a narrare la metamorfosi senza discostarsi molto dalla versione tr?gica, gli scienziati attingevano ai nomi mitici per denominare ani mali o piante poco conosciuti. Il nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.). Aristotele aveva coito bene l'al lusione perch? conosceva il testo del Tereo (cfr. Poet. 16, 1454 b 37). 36 Per x?pa significante "cima d'albero" cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph. &14. Ma va chiarito che i versi di Parmenide risentono con tinuamente di quelli di Eschilo: si cfr. per es. Eum. 516 con Parm. 1,25; Eum. 538-542 con Parm. 1,14; Prom. 210 con Parm. 8,53-54; Prom. 447 con Parm. 7,5; ecc. 38 Tertia cum crines manibus laniare pararet, avellit frondes. Haec stipite crura teneri, ilia dolet fieri longos sua brachia ramos (Met. II 350-352). 39 Parce, precor, mater, quaecumque est saucia clam?t, parce precor: nostrum laniatum in arbore corpus (ibidem, 361-362). This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   Eliadi, Meleagridi, Pandionidi 159 vano come sin?nimo di "uccello"40 o pi? specificamente di "ron dine"41, venne dato dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela maggiore")42, poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi detto perch? si diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo; e Pequivalenza tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la celidonia (la comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua forma "x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse detta a volte anche "tcocvSlo? pt?oc"44, certamente, come ben vide Wellmann, corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a". "Uccello meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto dal suo discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il nome dato dagli ornitologi47 alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli uccelli comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede del mito di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto id?ntico, i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet? di quella pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel fatto che i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore popolari zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ? quella che deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la maggior presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia piccola e poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di valore". Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido implumes detraxit (Verg. Georg. IV 511-513). 41 "Mortalium penatibus fiducialis nidos philomela suspendit, et inter commanentium turbas pullos nutrit intr?pida" (Cassiod. Var. VIII 31). 42 Mey<xXtq (piXou//)Xa (Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). 43 Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms. Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian. Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II 180. 45 Hist. anim. VI 2, 559 a 25. 46 Riportata testualmente da Athen. XIV 655 B-E. 47 Diod. Ill 39,2; Paus. X 9,16; Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48 Menodot. Sam. ap. Athen. XIV 655 A. 4* ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V. Apoll. T. V 5,87). 50 IX 28. This content downloaded from 128.143.23.241 on Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC All use subject to http://about.jstor.org/terms   160 A. Capizzi quelle metafore nei versi del pi? illustre figlio di Velia, n? di rico noscerle come tali anche se in quei versi essa compare disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente riferimento.  . Antonio Capizzi. Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il verbo divenire, perche usa la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione, calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico, meleagride, pandionide,  fieri, in esse, in fieri.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capizzi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51714170366/in/photolist-2mPTYES-2mMNDa1/

 

Grice e Capocasale—segni di dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Montemurro). Filosofo. Grice: “You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia, mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con la morte del padre, avvenuta quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del diritto.  Dopo esser stato governatore baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a Napoli. Dal 1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV precettore di logica e di metafisica all'Napoli.  Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe Bonaparte: sotto il suo governo gli fu concessa solamente la docenza privata. Con la restaurazione, Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816. Capocasale, tuttavia, preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così come fece più tardi con l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la cattedra di diritto di natura e delle genti: i suoi teoremi, di stampo lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da essere citati da filosofi come Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile e Eugenio Garin.  Alcuni suoi discepoli divennero importanti personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Giustino Quadrari, Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella. Sempre fedele alla monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni carbonare del 1820. Dal 1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie: Ferdinando II. Fu inoltre membro di varie Accademie come la Parmense, la Fiorentina, la Cosentina, l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna, degli Intrepidi di Ferrara, de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota novena del gloriosissimo taumaturgo S. Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione verso il glorioso confessore S. Rocco” (Napoli); “Cursus philosophicus” (Napoli); “Saggio di politica privata per uso dei giovanetti ricavata dagli scritti dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo dell'uomo e del cittadino” (Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo i veri principi della ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per giovanetti” (Napoli); “Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso filosofico per uso dei giovanetti”.  Dizionario biografico degli italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem sternit. Ea vero rationis solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm investigat. In vero autem inveniendo methodus utramque facit paginam: patet primum philosophi studium esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi, ad veritatem methodice investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque mediis opportunis acuere, vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem mederi remediis. Et quia veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur. Demonstratio vero methodo perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei pecessarium esse, mentem quoque ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut in eo habitum adquirat, in quo philosophi scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali quodam verum cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate praediti sint, eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne perfectionis gradum sit redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii, nisi facul tatem illam regulis quibusdam certis, at que indubiis dirigant, disciplina aliqua in veniatur, oportet, quae regulas ac prae cepta tradat, quibus naturalis illa cogi tandi vis augeatur, perficiatur, et ad ve ritatis investigationem inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi, iudicandi, ratio cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur, quae qunn in casuum similium observatione, adeoqne in sola praxi consistat, non solum erroribus est obnoxía sed rerum caussas et rationes ignorans, confusam tantummodo co gnitionem, non vero scientiam producere pol est. Ex quo legitime fluit Logicae artificialis necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA ARTIFI Cialis appellatur, quam definimus per do ctrinam, qua regulae traduntur, quibus, humana mens in cognoscenda, et diiu; dicanda veritate dirigatur. * * Vocatur haec a ' nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA; 32 Logicae Prolegomena quae tantum abest, ut essentialiter a Naturali differat, ut sit potius distincta eiusdem explicatio, adeoque tanto illa praestantior % quanto distincta cognitio praestat confusae. Ex quo patet, Philosophum sola Logica natu rali esse non posse contentum, sed ei colen dam esse artificialem. 14 Quandoquidem autem Logica artifi cialis leges explicat naturalem iudicandi fa cultatem dirigentes: sequitur 1. ut eas ex mentis humanae natura deducat, adeoque 2. mentis operationes prius, carum que naturam distincte explicare; deinde vero eam in veritatis investigatione, atque exa mine veluti manuducere debeat: uno verbo, ut prima theoriam, deinde praxin ostendat. Vltro ergo mihi sese offert genuina Logicae divisio, in THBORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc est, cur opusculum boc in duas partes distribuerimus: in quarum prima de mentis operationibus; in altera de legitimo carum usu, quantum satis erit, tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus modis res cognoscit; vel enim eas tan tummodo percipit, vel de iis iudicium pro fert, vel denique rationes conficit: * de tribus his mentis operationibus priore pår te agemus. Quumque veritates vel per se pateant, vel per rationem et meditationern inveniantur, vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur: inventae vero cum aliis communicentur: de omnibus his parte se cunda nonnulla haud proletaria monebi mus. } Experientia namque constat, nos omnis cognis tionis expertes in mundum prodire (quidquid pro ideis innatis Platonici, et Cartesiani cla mitent ), atque primo res simpliciter perei pere, earumque ideas adquirere, deinde bi nas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare, indeque novas verita tes deducere. Mentis actio, qua res aliquas sensibus obvias percipit, aut ab iis abstra hendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO, sive idea dicitur: quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM: dum vero eas cum aliis comparat, atque inde novas veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec aliae attente con sideranti mentis operationes occurrere pote runt. Scholion. De Logicae utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi periculum facere poterit: nam qnidquid ex recta ra tione capiet emolumenti, id omne huic disciplinae se debere, aperto cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est SIMPLEX PERCEPTI, sive notio, quam de finimus per simplicem rei alicuius reprae sentationem in mente factam. praesentationem autem intelligunt adcura tiores assimilationem eorum, quae sunt exlra ens, in eodem ***. ** Dici quoque solet idea, conceptus, vel sim ** Per rea plex apprehensio, ut Scholis placuit. Sunt, qui perceptionem ab idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt, mentis actio nem in obiecto percipiendo; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti percipienti obviam, Sunt, qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id est, nobis placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob versantcm. Buddeus Phil. instrum. cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante. Hollmannus Log. Sed hae, aliaeqne definitiones eodem redeunt. *** Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat, quum sit cuique nota: sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus, sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio: in omni autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi, et obiectum, sive res ipsa quae repracscntatur: liquet, in qualibet idea itidem duo animadverti posse, scilicet percipiendi modum, et ob iecta nempe res perceptas; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur. Si ergo ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur, Et quia utroque re spectu ideae inter se differunt: de forma li, ac materiali earum differentia diversis sectionibus agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde constat quaedam ita percipere, ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam vero non ita. Repraesentatio illa, quae sufficit ad rem perceptam ab aliis dignoscendam, idea di citur CLARA; OBSCURA contra, quae ad eam discernendam est insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram, et obscuram E. Rosae ideam claram habes, ei eam a lilio, hiacynto, aliisque floribus distinguere scias, et quotiescumque tibi occurrit, eam dem agnoscas; contra si arborem peregrinam videas, eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris illius ideam habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum, hominum bene potorum, eorumqne, qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS enim Physicis est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas alias ab aliis distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet tenebra rum eftectus: nam quun tenebrae in lucis privatione consistant, haec vero obiecta exter pa distinguere faciat; deficiente luce, deficit distinctionis facilitas: adeoque obscuritas in distinguendi impotentia sita est. Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis involutae observentur, ut infra dicemus; hae vero, nisi attente consideranti, sensuumqne aciem ad obiecta convertenti, innotescere non possint, ut experientia patet: recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam, quo plu. ra possunt in obiecta distingui; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri sensus cum attentione coniunctos, qua des ficiente, ideas fieri deteriores ** Esenplo sit hono in maxima distantia con stitutus, qnem qui vilet, primo dubius hae ret, utrum corp is quidlibet sit, an vivens; deinde in obiectum illud oculorun aciem at tente convertens, a motu animal esse compe rit, sed cuiusnam speciei, nescit; propius ve ro'accedenten, ho nisen distinguit; tandem ex corporis habiti, facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit. Vides quan attente spe-. ctator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quemadmodun ideae meliores funt, si ex obscuris clarae evadant, ex confusis distin ctae, ex inadaequatis adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant obscurae ex distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia vero ab attentione penlet cla ritas idearum, eaque gralus ha bet, nec semper, aut in omnibus eadem est: liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic. Pars 1. bis percipi posse, ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed RELATIVAM. Hinc 4. obscuritatis caussam plerumquc in hominibus, raro in re percepta quaeren dam esse; ac proinde praecipitanter iu dicare illos, qui absolute obscura esse di cunt, quae eorum superant captum: quo ut quae ignorant (ut Aesopica vul pes ) exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est, vel relativa. Illa habetur quum res percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; haec autem, quando rem qampiam aliqui subobscure, quidam clar re, clarius alii percipiunt. Quod quum acci dit, illorum claritas respectu maioris horum claritatis est obscuritas relativa. fit, 21. Quoniam autem ad idearum clarita tem utramque facit paginam attentio, qua deficiente deteriores fiunt: con Sequens est 6. ut obscurae eyadant perce ptiones, si alicui meditationi defisi alia percipiamus, vel 7 si unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8. denique si ab una perceptione ad aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem turbant, ut cxperientia docet: infertur 9. menten adfectibus agitatam * ad ideas cla ras vel numquam, vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate, et confusione orti, de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis praedominan tibus nullae, nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si namque in ideis claritas et distinctio adesset, nullis adfectibus animus ve xaretur. Hinc ergo est, ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur. E. xemplo sit homo ira aestuans, qui donec ea agitatur, nec res clare percipere, nec perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid. Seneca de Ira Lib. I. cap. 1. et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor, iraque mentem prae cipitant.Vides hinc, obscuritatis caussas easdem esse, quae attentionem turbant vel minuunt: nem pe 1. distractionem, 2. obiectorum multipli citatem, 3. praeproperam festinationem, 4. denique adfectuum praedominium. Quae omnia mentem frustra fatigant, et ad proficiendum în studiis ineptam reddunt. 22. Sed quia Philosophus non solis stare sensibus; rerum autem latebras et recessus idest caussas et rationes inve stigare debet: per se patet 10. eum claris notionibus adquiescere non pos * adeoque il. in distinctarum et adae quatarum perceptionum statu versari debe re ut infra dicemus. 2 se; · Clarae namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic. Pars I. quiruntur; sensus autem, ut mox adparebit, res tantummodo exsistentes confuse repraesentant', in quarum cognitione nullum ra tio habet exercitium: nihil ergo Philosophus age Tet; nec hihim quidem in scientia proficeret si claris dumtaxat ideis contentus rationem ne gligeret, nec in caussarum inve stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem experientia docet, nos re rum quas clare percipimus, vel notas sive characteres quibus ab aliis discer nuntur, distincte nobis sistere posse, eo rum scilicet ideam claram nabere; vel characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure percipere. Re praesentatio clara' notarum obiecti, quod percipimus, idea dicitur DISTINCTA: repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin de merito dividitur in distinctam, et con fusan. seere 8 Si quis invidiam novit esse taedium ob alterius felicitatem, illius characteres sibi clare sistit, adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri notas distinguere nequeat, licet eum ab aliis coloribus discer nat, ejusdem ideam habet confusam: uti sunt omnes ideae colorum, saporum, sonorum, odo rum, etc., quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec a Cartesio, et Leibnią * E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit: alii namque grammatica vo cum significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum; ad claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens est 12 ut clarae ideae di stinctae fiant potissimum attentione, qua deficiente, etiamsi distinctae sint, confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent nominibus, qui bus exprimuntur: infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse, si cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus; oppositum autem ess: indicium ideae confusae. Hinc 13. idcas confusas aliis referre volentes, objecta, quae confuse percepimus, ipsis ostendere, vel cum alia re, de qua ideam habent claram, comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis supra allatis. Qui notionem invidiae habet distinctam, is eam verbis explicare poterit: quod recte ex sequetur, si notas, quib:is a:lfectuš iste ab aliis distinguitur, eau neret. Contra ei, quo modo coloris albi aut rubri nolas proferet, ut cum aliis eius notionenı corninunicet? Pro cul dubio, ut ab illo intelligatur, colorem illum, aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis admovere, vel cum alia re iarna nota conferre oportebit, sicque in altero con fusa quoque idea orietur. Hinc est, ut colo rum ideas coeco nato nullo modo explicarc possimus, isque visu carens nullam, nequi dem obscuram, umquam huiusmodi notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei, cuius distinctam habe mus ideam, vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA; vel quosdam tantum · eosque insufficientes, eaqne INCOMPLETA dicetur. * Idea ergo distincta dispescitur in completam, et incompletam. * Sic invidiae idea iam tradita completa est: adsunt enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume, notionem haberes incom pletam: * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus discernendum, ut ostendit Diogenes Cynicus, dum hanc Pla tonis sententian irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis discipuli, addito latorum unguium charactere: nusquam enim homines a simiis discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm. 40. ** Licet duo clarissimiViri Leibnitius, et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique in eamdem sententiam ierint: in hoc tamen hic ab illo discessit. Quumque Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit: Wolffins contra eam in completam, et incompletam dividi debere, docuit et demonstravit. a * 26. Denique eadem experientia edocti scimus, nos quaedam ita percipere, ut non solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus, sed et novas characte rum notas enumerare queamus;. quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere. Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta; idea totalis erit ADAEQUATA; quum antem notas neb; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA. Quo fit, ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam, et inadaequatam. * E. g. Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum imperfectionis, et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii: is invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail juie scat: nec ulterius in iis evolvendis progredia tur, tunc ideam habebit inadaequitam. Ob servandum tamen, quod quo novas notas, donec fieri possit, invenire liceat, eo adaequatior evadet notio. * Hanc porro doctrinam Leibnitio debemus, qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann. 1684. semper 44 Logic. Pars I. p. 437. seqq. proposuit, eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. cap. i. f. 9. seqq. * 27. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum. Quumque idea fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat: patet 15. eo adaequatiorem fieri notionem, quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero ob sensuura limites non possumus plura distincte percipere: infertur 16. nos in notionum analysi" in infinitum progredi non posse: ideoque 18. quum ad notas vel simplices, vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam instituere prohi bemur. ** * Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo in alias aliasque particulas resolvunt, donec ad exilissima tandem filamenta perveniant, om nes interim earum connexiones, structuram, et proprictates attente perscrutantes: ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque iterum atque tertio in novas notas mente resolventes, minima quacque adcurate contemplantur. ** Sicuti ergo Medicis, quum ad indivisihiles particulas pervenerint, eas in novas rursus se care non licet: Philosophis etiam ea facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in analysi notionum, si vel ad simplicia et indivisibilia, vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum, vel finis obtentus sit, ob quem fuerat analysis instituta. SECTIO II. De obiectiva, sive materiali idearum differentia. 28. Haecaec de divisione idearum formali. Ad, materialem, sive obiectivam quod at tinet, primo res, quas nobis repraesen {are possumus, vel sunt exsistentes, vel proprietates iis communes. Quidquid exsi stit dicitur INDIVIDVVM, sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po test id, quod est omnimode determina tum. Repraesentatio ergo individui vo catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles, Caius, Titius, haec dumus, haec mensa, hic liber quem legis, sunt individua, quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores, ut Socrates sit Socrates, et non Plato, Caius sit praecise Caius, et non alius: ita ut si aliqua earum desit, desinant esse quae prius erant. Hinc individuum idem est cum uno mathemat.co, quod concipitur tanquam 46 Logic. Pars 1. * > individuum in se, et ab aliis separatum. Iu re igitur individuum res singularis; ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. 29. Quamvis autem individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis involuta (S. 27:), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant: 11 bent tamen aliquas determinaliones, in quibus perpetuo conveniunt. ** Harum de terminationum complexus aliam ideam su periorem constituit, quae SPECIES dici. tur. Non iniuria ergo species a recentio. ribus definitur per similitudinem indivi duorum. Determinationis vocabulum, licet barbariem redoleat, iure tamen hic a nobis adhibetur, et quia civitate donatum, et oh termini pu rioris deficientiam. Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis notum; eius vero completam no tionem dabimus in Ontologia, ubi methodici rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates, Plato, Caius, Titius, li cet aetate, ingenio, roribus, conditione, habitu, ceterisque inter se multum distent, habent tamen commuue corpus organicum, et animain ratione praeditam. Duae hae de terminationes speciem constituunt, qnae ho m, dicitur. Hinc vides, haec omnia individua in eo siunilia esse, quod sint homincs. Si plurium specierun pariter cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto, ut aiunt, coelo differre; in aliquibus vero perpetuo similes esse. Atque hae determinaciones, in quibus spe. cies, licet diversissimae, perpetuo conve. niunt, novam ideam, eamque supremam, constituunt, quae GENVS vocatur. Genus ergo recte definitur per similitudinem specierum. E. g. “homo”, “equus”, leo, canis, quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant, habent tamen in vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui animalis nomen inditum. Observes ita que, omnes illas species in hoc esse per petuo similes, quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum (S. 30. ), idque constituatur a com plexu circumstantiarum, in quibus species perpetuo conveniunt; in speciebns autem aliae determinationes exsistant, quibus il lae inter se differunt: sequitur 1, ut non abs se harum proprietatuin di versificantium summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et commiseratio id habent commune, quod sint taedium. En genus. In eo ve ro differuut, quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem; commiseratio vero ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32. Repraesentatio, quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes, di citur idea VNIVERSALIS. Et quia notio nes generum et specierum determinationes continent pluribus speciebus vel individuis communes (SS. 29. 30. ): infertur 2. i deas generum et specierum esse universa Jes. Rursus quoniam hae ideau couficiun tur, si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus; unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE; liquido patet 3. ideas uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est, ut vulgo dicatur, ideas esse vel concretas, in quibus omnes simul adsunt de terminationes; vel abstractas, quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem est, ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse, vel universales. 53. Ex dictis porro consequitur 4. ideas universales non exsistere, nisi in singula ribus, nempe speciem ac genus nusquam inveniri, nisi in individuis; adeoque 5. plus esse in individuis, quam in specie; plus quoque in speciebus, quam in genere.  Ex quo patet 6. quam scite Logici pro puntiaverint: Notionis extensionem esse in retione inversa comprehensionis. * Regula haec aliter ab aliis enunciatur, sci licet: Ono maiorem habet idea comprehensio nein, eo minorem habet extensionem, ct con tra. Comprehensio dicitur complexus determi dationum, quae ideam aliquam constituunt. Ex tensio vero est consideratio subiectorum, qui bus delerminationes illae tribui possunt. Vid. la Logique, ou l'art de penser. part. 1. chap. 6. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones complectatur (9. 28. ), ad unum tantum subiectum extenditur; genus vero paucissimas comprehendens circumstantias (5. 30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non videt. Posita igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7. nec ab individuo ad speciem, neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu sionem; ac proinde 8. non licere generi tribui, quod speciei convenit, aut ab illo removeri, quod huic repugnat; contra vero 9. a genere ad speciem, atque ab hac ad individuum bene concludi, ideoque 10. individuo dandum, quod speciei convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire observatur. ** * T.I. C 50 Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo comprehensio maior est, extensio minor, quam in specie, ut et in hac relate ad genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur, eius proprietates differentiales; si ita loqui fas sit, respicit, quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de de hac enunciari nequit. Eodem modo, quae de specie dicuntur, differentiam tantum specificam spectant: genus autem proprieta tes multis speciebus communes continet; adeo que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt. Res clarior fiet exemplo. Socrates est individuum, in quo omnimoda invenitur determinatio; id vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte enunciabis, quod fuerit philoso phus, quia attributum hoc ei convenit ob scientiam, qua praeditus erat (S. 3. 4. ), quaeque inter Socratis proprielátes individua • les enumeratur. Possesne id de specie, idest de homine pronuntiare? Minime quidem: in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed scientiae capacitas, nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare solent susurrones quidam, qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus individuis for san occurrentia toti speciei, coelui, vel clas si imputare non erubescunt. ** Quum enim genus in specie, species pariter in individuo, contineatur (§. 23. ): quidquid generi conyepit, cum specie coniungi; et quik uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari debet aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat.E. g. Animal sentit, ergo homo sentit: homo est intelligens, quia libet igitur homo intelligens est etc. 35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis sunt omnes animae actiones; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus nostris obyer santia, vel mutationes in corpore humano ciusque organis supervenientes. SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE, hae contra SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10, ideas omnes singulares sola sensionc adquiri * Illae * Intra nos sunt affectus, et cogilationes vo strae, quae interno sensu, conscientia refle xione (haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g. si quis tristitiam, vel metum sentiat, ciusque idcam sibi formet, hanc sensu intern:), sive conscientia, nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà, adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia sensibus obvia. Sic in deas omnes singulares, quaecumque illae sint, sensibus percipi, nemo ignorat: superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare. ** Cuilibet autem de plebe noturn est, exter sensus quinque numerari, visum nein pe, auditum, olfactnm, gustum, et tactum, nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque totidem organa esse destinata; visui scilicet cculum, auditui aurem, olfactui na res, gustui linguam, tactui denique specia tim manus, generaliter vero totam corporis humani superficiem. 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur; ideoque ideae sin gulares sensione adquirantur; ex singula ribus vero universales sola mentis abstra ctione formentur (S. 32. ): liquido infer tuir 11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est, quod a multis docelur, omnes ideas partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE, partim CONSCIENTIA, vel REFLEXIONE adquiri. Vid. Heinec. Logic. S. 22. Nos enim sensio cum conscientia et reflexione confundi debere, docuimus supra ſ. 35. ** Addunt alii tertium adhuc ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM, veluti quum quis ideam hominis cum idea equi componit, novamque Centauri notionem conficit: cuius census sunt etiam notiones montis aurei, intellectus perfectissimi etc., quae nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores ab intellectu, vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem tradunt regulam: Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint, impossibiles sunt, adeoque fal sae (quae alio nomine CHIMERICAE, a Scola sticis ENTIA RATIONIS vocantur ); si vero inter se non repugnent, pro possibilibus, adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse, 37. Ex quibus omnibus plane consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis, i deas omnes ex earum origine vel ADVEN. vel FACTITIAS. * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de iis praedicent Plato, Cartesius eorumque asseclae, quorum tamen au ctoritas tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim intelligunt notiones sen sique adquisitas ($. 36. ): per fictitias vero illas quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes, qnibus Deus monstruvii universi naturam, ac leges frtales edixit: sed quum a diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate inclusa fuissent eo rum omnium, aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob quos dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas, non nisi longo sensuum usu, àc nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum eius effatum: Stu et discere idem esse, ac reminisci. Cicero Tuscul. quaest. 1. 24. Illas ergo ideas, quas antea habebant, vocavit innatas. Sed quum id purum putumque sit Platonis som nium, nequaquam erimus de eo refutando solliciti. Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm. ann. Sed pèr hanc rectam rationem intelligi, quisque videt, quam proin de ideam adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia, quae ab ipsa cogitaudi facultate ortum ducunt, veluti: totum csse maius qualibet sui parte; non posse idem simul csse, et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat, haec esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione, ac ab ideis totius et partis, exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius adquisitis immediate pendent? Quae quum ita sini, ideas invatas nullo modo dari posse, merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES, a quibus nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE, bus per mentis abstractionem plura divi dere, atque invicem separare licet. ** in qui Ex quo necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse, at confu sas; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum, sonorum saporum, voluptatis, taedii, quas ideo aliis explicare non possumus, nec illarum chara cteres invicem discernere, ut ita üs'definien dis omnino incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum matericm, formam, figuram, colorem, magnitudincm, et id genus alia. His addunt aliqui ideas ASSOCIATAS, si ve coniunctas, eas scilicet, quae ita simul a nobis adquisitae sunt, ut quum una nobis occurrit, altera quoque menti obversetur: veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi, quotiescumque odorem illum sentio, rosae etiam idea menti fit praesens.Denique quuin vel substantias, vel modos, vel relationes pobis repraesentare queamus, ideae sunt vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto,: veluti inhaerere conci piuntur.. *., MODI sunt adfectiones, et attributa substantiis inhaerentia, a qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RE LATIONVM denique ideae sunt, quarum unius consideratio alterius considerationem includit ita, ut haec sine illa non possit intelligi. *** figura, * Veluti diximus, ut nostram imbecillitatem adivemus: id enim in substantiis creatis lo cum habet, non autem in increata, in qua nulla inter essentiam et attributa, nec inter ipsa attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali demonstratum ibimus. * MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia. occurrant, ut dimensio, color etc. in corpore; vel EXTERNI, si in hominis mente sint, et tamen substantiae tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni aeslimatam, quae tamen aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt ideae omnes quantitatum, item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus. Videatur abunde ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. §. 2. seqq., et in Arta Grit. part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re; idcoque 15. substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles;. quinisomo ló. rerun natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam esse cautionem in perpendendis re lationibus, ne vel earum fundamentum non recte considerantes, vel absolute de relativis ideis enunciantes, praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in se dandis hominum adfectibus, dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se paupe rem esse dolet, quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si vero relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis rebus egentem: declamare de sinet, quia sibi tantum superflua desunt. Be ne ergo Seneca in Troad. v. 1016. Est mi ser nemo, nisi comparatus, Schol. Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin acMilanius, quem paucis, iisque perutilibus, include mus regulis. Quisquis ergo Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es cupidus, sequentes animo infigito. CANONES. i. Curato, ut rerum, quas pertra ctare cupis ', claram semper et distin ctam cognitionem adquiras: attentionem proinde, quae ad idearum perfectionem utramque facit paginam, in omni re adhibeto. Quoniam vero Matheseos studium mirifice at tentionem acuit: hinc est, ut hodie studio rum initium a Mathesi capiatur, exemplo Platonis., qui neminem erudiendum suscipie bat, nisi Geometria instructum. 2. In studendo praeproperam vitato festinationem; praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto, nec, nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito.* * Quantum enim festinatio idearum claritati osobsit, diximus in. 21. adeoque in adole. soentibus naturalis illa festinatio, et praeci pitantia caute est obtundenda, ne superficia rie discant et errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune docuit: Ius venum ingeniis, non plumas vel alas, sed plumbum el punderą auditinus. Caveio, ne nimia rerun varietate mentem obruas, neve plura semel simul que addiscenda putes. - Panca discito, eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim attentio ad plura dividitur, minor fit atque inepia: proindeque ideae deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est, qui ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9. praeclaram il lud monitum studiosae iuventuti perutile prae buit: Non multa 7, sed multum. to 3 * AC 4. Priusquam ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt:: ne relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem, animique tran quillitaiem amato; ne affectibus attentionem iurbes, iran, tristitiam, an liaque pathemata; adeoque sodalitates, compotationes., spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius Tristium l. v. 30. Carmina proveniunt animo dédlicta serenos * Comessationibus enim corporis inertia aus getur, mens obstupescit et habetatur, ani mus ad voluptates inclinatur s spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic. Pars I. animus avertitur, quo fit, ut aut nullae ad quirantur ideae, vel saltem obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae legisti, audivisti > ditatus es, ita familiaria tibi reddito, ut eorum notas aliis indicare queas. Ea proinde vel in chartam coniicito, te ipsum saepe examinaudo, idcarum tuarum distinctionem experitor. ** * vel * Stilum Cicero vocat oplimum, et praest an tissimum dicendi effectorem, et magistrum. De Orat. l. 33. ** Notum est vulgatum illud; docendo disci mus. Rationem huius canonis invenies supra.  nes, utpote rei immaterialis a stiones, nullo modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis, quae in sensus incur ruot;; abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res quaedam sensibilis quae praeter sui notionem excitat in mente ideam alterius rei, Sed quum ideae ng  ** strae ordinario vel voce, vel scripto patefiant: binc prioris gencris signa VOCES, posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum signa recte definiuntur, ut et voces signa quaedam sono articulato prolata, mentis nostrae conceptus indicantia. Signa quidem generatim appellantur, quia praeter soni vel scripturae; nationum nostrarum ideam in audientibus vel legentibus excitant. E. g. Lacrimae sunt signum tristitiae: quia quum hominem videmus lacrimantem, illico eum tristitia adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est SIGNVM ignis, quia eo viso non solum fumi, sed ignis etiam notionein ad quirimus. Quae de signorum diversitate Scha Jastici docent  utpote ad rem impertinentia, praetermittimus: astin Ontologia quaedam observatu digna obiter attingemus. Cave tamen credas, voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum enim eaedem res non iisdem vocibus a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas ab hominum ARBITRIO pena der, adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique vero notum est, ad sona nar ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis vice funguntur, ORGANUM VOCIS scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis apparatibus; LINGVA, cuius vis Braliones vocem prae ceteris articulatam red dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi lingua stras vid rationes exercet; quatuor DENTES incisores dicti, quibus sibilantes litterae efformantur, et in quos nedum lingua, sed et labia vibrant; ac denique LABIA, quae in se invicem et in dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus. Ex qua definitione patet verba et voces inter se differre: quum verba et iam scripto, voces autem non nisi sono articulato proferri possint. Nos ideo voces adhibere, ut ab aliis intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces adhibendas esse, ut alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos sint; adeoque non licere terminis in anibus vet notionem deceptricem continentibus uti; sed tantum ii, qui ali quam notionem habent adlixam; quitinimo, singulis terminis eamdem semper ideam, eamque claram, respondere debere; ideo que cos, qui vel obscuram, vel non semper eamdem exprimunt notionem, om nino esse proscribendos. Alterius vero mentem intelligere dicimur quum, terminis easdem notiones adggimus, quas loquens cum iis coniunxit. mus TERMINUS INANIS dicitur, qui nulla, habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil, praeter solam soni ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente case' sâ, vel sonus sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus. Talis est versus ille, quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit Dyinus Poeta Etruscus: Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties autem vocem proferentes, aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita puldaunque sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum analysin cora, et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor dubius haerebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS, qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS vel DETERMINATV; qui vero incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem significantes, SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum adpellare placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur “aequivocus”, hoc est plura aeque significans. E. g. Cultus varios habet significatus: saepe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro honore: nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet: utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quaestio namque haec ad philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis animae cogitationibus usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est qui qualitatem expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam a subiecto separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit, cui significandae est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem aliam indicandam transferatur ob quamdam similitudinem. si Sic “pius” est terminus concretus, “pietas” terminus abstractus, Concretus porro a Wolffio dicitur, qui notionem exprimit concretam (sive singularem); abstractus contra, qui ideam continet abstractam (sive universalem ).  Haec autem omnia idem significant. E. g. Vox oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin indicet. Ubi vero Cicero Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe ornamentum ac pracsidium: improprie sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc vide, voces improprias esse vagas et indeterminatas. USVS LOQVENDI est significatio vocum in communi sei mone propria. At quoniam in familiari sermone voces aliquae occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis adiixas animum non hae voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad significandum organum sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium plurium terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum. а Logicis dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus, vocabulorum technicorum pe, ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit. Dicuntur autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt in qualibet disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania faere evaderent, nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam familiari quain erudito sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto, quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at persaepe in te veritatis notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla, nisi benedigestum, emitiere posse verbum. Caveto, ne ideam soni habens, rei quoque notionem habere te credas; aut voces coniunctas intelligere quas disiunctas intelligis. Falluntur enim persaepe homines, quum ter minos inanes, et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt, in quibus solam ideam $ 9. ni habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam probavit? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11. Cap. 4.  eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati, ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto, nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam. Stil. cultior. Id vero egisse Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs, ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero, a quibus hoc nomen obvenit, id quoque habeant in vitio, qnod singulis verbis latinas interse runt phrases ac textos: ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e ruditionis niultiplicitatem, vel ob nimium tem poribus inserviendi studium, nullum, nisi pe regrino sale conditum, queunt formare ser monem. 5. Si aliis displicere non vis, quoties cumque loqui oportuerit, modesto vultu atque amoeno fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius, quam veruin dicere, videaris. 7Est et haec paedagogorum nota, qui pueris in docendo imponere adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant, seque invisos au dientibus, maximo veritalis detrimento, red dunt. Vid. Buddei Oratio de bonarum littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá, sive definitionis obiectum, vocatur DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta, et qua ratione ad quiratur, dixiinus supra. seq. De idea completa cousule, quae breviter do cuimus g. 25; diffusius enim hic, quae de illa dici merentur, enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus, isque clarus si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain, sive ' emuinerando; il dias characteres, non uno, sed pluribus claris opus est termiuis: ita complexus ille yocum, * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc est idea distincta completa sermone expli cata, definitio dici consuevit; adeoque non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum. 2. eas ** ne 49. Ex qua definitione consequitur 1. in definitione notas et characteres enume rari oportere, qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab aliis rebus distinguenduin; notas tales esse debere, ut nulli, nisi so li definito in tota eius extensione, conve niant; quare 3. merito a Logicis ad firmari, definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito, sed ipsi aco, qualem esse debere, ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem, per quod res ab aliis rebus distin guitur, eius essentia a Metaphysicis adpellari consuevit: inde ergojest, ut definitionem Lo gici esse dicant orationem, qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus quod cuinque subiectum, cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui possunt; perinde est, ac si dicas, definitionis notas tales esse debere, ut omnibus subiectis, spe ciebus nempe, et individuis sub definito con tentis conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae, et specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae, quae integram definili essentiam expo. nunt, et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet, definitionem ex genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non sit, ut possit definito substitui, vel (ut aliis placet ) cam eo reciprocari, vel illo latior, vel angustior erit, adeoque deficiens. Substitutio autem in co consistit, ut definitio pro subiecto, defini tum pro attributo, et contra, adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita: contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. 90. Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse, nisi ea, quae Jei perpetuo et constanter insunt, idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque 5. locum in ea non habere ACCIDENTIA, seu MODOS. * * Quaenam sint essentialia, et attributa, pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet, tam essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse: nam attributa sunt eiusmodi characteres, quorum ratio suf ficiens cur rei insint, in eiusdem essentia et natüra continctur: ut sunt tria latera et tres anguli in triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no  nec tio clara notarum (5. 23. ): sequitur ut ea vocibus claris sit exponenda, obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec vagis ($. 43. ), nec metaphoricis nec negativis ** terminis in illa sit locus. Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est, si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in definiendo committatur. Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri quid habere videantur, prius adcurate definiantur, ut claritatem adquirant. Sic in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit, nisi prius taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis negativis concipitur definitio > si explicet quid res non sit: ut si dicas, invi dia non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam, adeoque defi niti ideane inde oriri confusissim un, quod est contra definitionis indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium adinittentibus, quarum una recte definita, altera negativis terminis explicari potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret, substantia, quae non exsistit in alio, tamquam in subie *** Definitio identica est, quae idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum cio etc. definitiones quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis allata per accidens, a quo res dicitur quanta. Quid, quaeso, haec verba significant, nisi quod quantitas sit quantitas? Cui vero usui definitiones istae esse possint, tironibus ipsis iudicandum relinquimus. **** Circulus enim Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata: in defi niendo ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis characteribus, eorumque novis definitionibus formandis, in aliquam ipsarum definitum ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id, per quod defini lum ipsum explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem idemlicam, quae in vi to posita est. Illa notas et characteres e numerat sufficientes, quibus definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni possit; haec autem rei definitae genesin et originem exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam vocis explicationem, qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur: vel multiplex eiusdem significatio, eoque casu Homonymia; Cap. III. De definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est, realis inter illos audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus, si eum definiveris per substantiam intellectu et volun tate praeditam: realis autem, si invidiam definias per taedium ob alterius felicitatem: in ea enim eiusdem caussa et origo explica tur. Vides hinc, nominales definitiones esse arbitrarias: reales contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed incompleta: tunc non definitio, sed DESCRIPTIO nominatur; adeoque in descriptione accidentia qnoque locum inve piunt, qnae quum in individuis tantum concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur, abstractae vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum propriae sint. Descriptio itaque, licet plures enumeret no tas; quam definitio, eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales notae non exsistunt, nisi in rebus singularibus;, utpote omnimode determinatis: universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac sufficientes ipsis distinguendis . 76 Logic. pars I. > continent characteres. Inde ergo fit, ut ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares, et si ab his definitiones proferri videmus, eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu expressas, ubi accidentia attributis, caussas effectibus permixta observamus, quas tamen Philosopho imitari nefas erit, quippe cui idearum analysis, essentiae rerum investiga. tio, verborum praeterea praecisio in deliciis esse debent. Schol. Superest, ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus. Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit, sequentes animo imbibat CANONES. 1. Definitiones, utpote rei naturam et essentiam explicantés, ciim cura disci to, ' ạtque teneto. ' Iudicium porro cum m moria coniungito: ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito; sed ope rum dato, ut eas intelligas, et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli memoriae consulentes, quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne discunt, ac turpe putant ab eo discedere. Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au feras, nihil, praeter arroquarov quoddam, maneat. Homunciones isti memoriae dumtaxat exercendae intenti, iudicii vero prorsus ex pertes, libros quosvis sine delectu memoriae mandare adsueti, innumeris snnt expcsiti er roribus; quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes, qui memoriam tantum in Scholis huc usque exercuerunt, eamdem premant viam, sibique pessime cou sulant: visum est, cautionem hanc eo neces sariam, quo prima scientiarum hic funda menta sternuntur, ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis, et ad eruendas inde propria meditatione veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum libris, prum phrasiumque lenociniis ne conti eto: sed ut sententiam ipsis subiectam lare, ac distincte intelligas, pro vi ili curato. Ita vitabitur stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo, quae in caussa fuit, ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars. I. lescentes, quos inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt ausi, iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in telligis, definitiones proprio marte con ficito, ut ex iteratis' actibus, continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi momenti erit, multun que laboris impendendum, pauco forsan aut irrito eventu. Animo tamen non deficiant a: dolescentes: ab exiguis enim initiis maxima procedunt, atque experientia tandem, qui sit huius canonis fructus, addiscent. Poterit autem quisque imitando incipere, experiundo prosequi, ac notionum analysi sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas; * aut definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur synonyma, verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis, adeo que re unum idemque significare poterunt? 5. Si e Philosopho Orator aliquan dofieri cupis, definitiones pro definitis adhibeto: tunc enim auditorum animos inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis indicium. Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1. ubi de laudibus Theo logiae acturus, amplificat syllogismun quam brevissimum has continentem propositiones: Facultas hominem Deo con ugens est omnium praestantissima. Egpyas a eius talis est. Nam si eorum omnium, quae in hac inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio tenetur; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to perfectior est, quanto propius ad illud, a quo ductus et propagatus est, exemplar ac cedit: dubitari profecto non potest, quia ea sit omnium praestantissima facultas, quae, quoad eius fieri potest, cum humanis divi na copulando, mortalitatem nostram, quantum illius imbecillitas patitur, Divinae natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars 1. logiae definitionem, oratorio licet more pro latam, multum orationi pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam, si ab aliis di stingui exoptas, efformare curato; id que obtinebis, si intellectuales morales que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus eris, nomenque tuum in tenebris, ob scurumque manebit ila, ut vel patrio, vel alio adpellativo nomine indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione consistere, snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in partes, sive notas dividi, hasque rursus in alias disper tiri, quisque novit qui earum naturam habet exploratam. Tunc igitur idea illa ut totum consideratur, characteres autem ut eius partes: adeoque non abs re analysis idearum verbis expressa DIVISIO nominatur, * quae recte definitur, quod sit to tius in partes resolutio. * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur: iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam vero quidlibet ut totum considerari potest: variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1. totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, 2. totum integra le, compositum nempe ex corporibus, quorum snmma eius integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo ambitu comprehendit, 4. subiectum, quod plura accidentia sustinet, 5. accidens quod pluribus subiectis inhaerere potest, 6. caus sa, quae plures producit 7 effectus, qui a pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa ' quae versatur in tot partes distribui potest, quot sunt objecta. Inde ergo est, ut va riae a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive essentialis, sive in tegralis, in suas partes, GENERIS in suas species subordinatas, SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE, ACCIDENTIS in sua snb 7, D 5 82 Logic. pars 1. iecta, rei in suas caussas, denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec: Homo dividitur in animam et corpus; vel as dividitur in duo decim uncias. Secundae: Animal dividitur in hominem, et brutum. Tertiae: Homo est, vel doctus vel indoctus. Quartae: Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae: Philoso phiae dogmata alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae: Veritatis impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique: Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et intellectuales versatur. 56. Totum illud, quod in divisionem cadit, DIVISUM; partes vero, in quas dispertitur, MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus; hoc autem in caput, truncum o et artus reliquos. En subdivisionem, 57. Ex membrorum itidem dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS; si tres? trichotomia seu TRIMEMBRIS; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS divisio, appellabitur. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam, et curvam, trimembris trianguli in aequila terum, isosceles, et scalenum; quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum, rc ctanguluin, rhombum, et rhomboidem., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio; totum autem ae quale partibus simul sumtis esse debet: consequens est 1. ut membra dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec minus compre hendant; * 2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per novas definitiones, easque oppositas, distincta; ** 3. ut ex ipsa rei dividendae natura petantur, scili cet in tot membra totum dividatur, capax est; 4. denique ut ad confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate liberetur, posteaque divisio insti tuatur. i quot *** * Contra hanc regulam peccant, qui angulum dividunt in rectilineum et curvilineum, vel qui lineam esse aiunt, vel rectam, vel curvam & derari potest: vel mixtam. In primo enim casu membra di videntia simul sunt diviso minora; in se cundo autem eodem maiora. ** Huic quoque regulae adversantur ii, qui bo. num dividunt in honestum, utile, et iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut genuinam boni denominationem tue ri possit: adeoque non sunt repugnantia. Peccant etiam ii, qui licet totum in membra opposita distribuant, ea tameu definitionibus non repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus constat: illud contra definiunt per id, in quo nihil consi *** Repréhensionem ergo.eruditorum merito incurrunt Ramistae, qui tam superstitiose di.chotomiis adhaerent, ut in plura membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis, qui nimiae mem brorum multiplicitatis sunt amatores. Idem enim vitii, inquit Seneca, habet nimia, quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et subdi visiones potionum analysin contineant, haec autem in idearum adaequa tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem distinctionem in nobis producendam sit comparata: sequitur 5. ut divisionibus aeque, ac subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis, omnia vi tentur, quae confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur, ac intellectui veių. ti tenebrae offundantur, Schol. Haec de divisione. Ad hujus porro doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus regulis. Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque, ac necessarios hosce discat CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata, sed naturam tantum consulito. * Confusionem aeque, ac tae dium vitare curato. * Hoc namque modo nec Ramistarum supersti tiosa restrictio, nec Scholasticorum nimia di visionum membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum, quae ordi... nem non scrval, et in qua ea, quae in sub divisione cxprirai deberent, comprehendun tur: e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam, divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De iudiciis, et propositionibus, 6o. Hactenus de ideis, earumque ana lysi, quantum instituti brevitas tulit, actum. Eas vero si comparemus, scilicet si duas ideas inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio, quae IVDI CIVM adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel E NUNCIATIO. ** * E. g. Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas, videasque unam alteri conve nire, tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas: contra, si indestructibilitatis ideam cor Cap. V. De iud. et prop. 87 separas: haec poris notioni non convenire observes,corpus non esse indestructibile colligis. In primo ca su ideas coniungis; in altero mentis operatio, qua earum relationem ex pendis, iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina statuunt: ut prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur; posterius vero, si extra id inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret ineptum. 61. Quoniam iydicium duas ideas compa rat, et si verbis exprimatur, propositio di citar ($. 60. ); idearum vero signa sunt voces seu termini: liquet, quam libet enunciationem duobus constare termi nis, quorum ille, cui aliquid convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM; is vero, qui subiecto tribuitur vel ab eo removetur, ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur, qui duo simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo substanti vo exprimatur: merito vox illa ex hoc verbo desumta, quae propositionis extrema coniungit, COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est aeternus,” Deus est subiectum, quia ipsi tribuitur aeternitas; aeternus dicitur attributum, quia Deo convenire enunciatur; vox deniqne “EST”, quae duo haec extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat, copula, hoc est coniunctio, adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA, et ATTRIBVTO constare debere, ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si namque horum aliquis lateat, CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur, quia naturalis compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit: idem enim esset ac dicere: Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum species, iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp sin eruenda: ut in illis: veni, vidi, vici: hic namque tres iusunt enunciationes ex iis dem verbis repetendae, nempe: “Ego fui-ve nens, ego fui videns, ego fui vinccns.”  QvanVandoquidem in qualibet idearum comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet: materia, sive ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa; qualitas comparationis; eiusdem quantitas; objectum, 6. denique evidentia relationis: ideo sub totidem adspectibus propositiones intueri possumus; videlicet, ratione MATERIAE, FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et  EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem divisionis natura suppeditet: liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante omnia perpendere, utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque postposita, nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus, scilicet prae vel separa dicatum subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est aeternus”, extrema seiung, idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius partem negatio afficia, non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g. Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam. Vtrum que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES, vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed unuin habet subiectum, et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura > Cap. V. De iud. et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS, si compositionem habeat latentem, et paullo obscuriorem. Addunt alii enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt, quoties terminus ali. quis propositionem contineat incidentem sibi adnexam, quae, licet ad essentiam proposi tionis non pertineat, ad eam tamen intelli gendam plurimum confert, exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato, qui divinus fuit dictus, ideas innatas admisit. Propositio illa, qui divinus fuit dictus, in, çidens est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi, aut nullius fere est momenti. Simplex ergo erit propositio: Deus est ae. ternus, iten que: aer est gravis. *** In quo vero consistat palens, vel latens compositio, ex sequentibus abande patebit, ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id porro sedulo observandum, in compositis non unam, sed plures contineri enunciationes, id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM; DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic, est, quae praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e. g. “Si mundus est ens contingens, non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem, altera propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non largitur: visi enim veritatem adquirat, enunciatio vera esse non potest. Sic si dicas, “Si navis ex Asia venerit, centum tibi me daturum promitio”: promissio vera non erit, nisi navis ex Asia redux fuerit; 2. conditio impossibilis habet vim negandi. Et -recte: nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire poterit; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere: si digito Coelun tetigeris, centum ti bi dabo, ac si diceres: numquam tibi dabo centum: conditio namque impossibilis est. Coniuncta, sive copulativa dicitur, in qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”.  Disiuncta, vel disiunctiva est, in qua uni subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num attrubutum pluribus subiectis, ut plu ribus unum, vel uni plura conveniant, licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris, aut in doctus. Quae de hac observari merentur, con fer in S. 58. cur (1 ) Caussalis est, in qua ratio additur, praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra, quia amamus, defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit, sedulo exco lenda, 1 Discreta dicitur, quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa: ut illud Horatii. Coelum, nou animum mutant, qui trans mare currụnt. Item illud Terent. andr. 1. SC. 2. Davus sum, non Oedipus. Relata, seu relativa est, cuius una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur  ut il lud Virgilii Georg. II. v. 291. et quantum vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero species sunt EXCLVSIVA;  EXCEPTIV;  COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque inceptivas, desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc., estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E. g.: “Omne ens, praeter Deum, est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore validior.  Restrictiva denique est, quae multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus, in quantum, quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo, quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a creatione incoepi; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut: tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique, in quibus subiectum geminalum at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est, a spiritu differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS: in quibus si necessita, contingentia, possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE dicentur; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”. Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”.  Possibilem vocamus, in qua attributum sn biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens, cur libertas homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura, hoc est, ut Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur, sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in negante vero additur particula NON.  E. g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem singularem: subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus consequitur v. ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari, propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos, qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus, vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest. Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin ct thesin. Nobis in secunda part, ubi de experientia sermo erit, huius modi commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere, veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”, “I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”, verum universaliter ambae. Asserit I, negat O, sed particulariter ambo: De rat. et Syll. S E Ć T10 11. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est, quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur, vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc, theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis. contra haec: “Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır.  E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica definitione immediate deductam; Euclides au tem illam, quae primo intuitu ab unoquoque perspici potest. Res eo redit, ut axioma vo cemus enunciationem per se claram, adeoque demonstratione non indigentem, sive a defini tione, sive aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque amplectitur sententiam, ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione, postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex definitionibus Dei, et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut duabus illud constet partibus, nempe enunciatione, qua veritas șive propositio theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur: ideoque in fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D., hoc est, “quod erat demonstrandum.” Quum Problema sit propositio practica, pa lam est, illud tribus absolvi, propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum, quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se concludit, addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est haec enunciatio: Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc: Nihil est sire ratione sufficiente, per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne, quod ratione sufficiente destituitur, nec est, nec esse potest.  SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur: ut videre est in omnibus Mathematicorum, et Philosophorum recentium scriptis.  LEMMA est proposititio ex aliena disciplina desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina, quam tra ctamus in subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa: Cuiuscumque numeri bi partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop. 103 S E C T10 lll. De propositionum adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest, ut de earum adfectionibus pau ca dicamus, de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones referuntur: OPPOSITIO,  SVBALTERNATIO, CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se pugnantium collatio: estque vel CONTRARIA, si earura utra que sit universalis in qua propositio nes ambae possunt esse falsae, sed non ambae verae; vel CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant, *** in qua enunciationum illarum necessario una ve ra esse debet, altera falsa; vel deni que SVBCONTRARIA, si ambae sint par ticulares, **** in eaque propositiones am bae verae, at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones: Omnis E 4 spiritus cogitat; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se, quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo est ratione praeditus: nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est, altera falsa. Possunt tamen da ri casus, in quibus ambae falsae sint, veluti huum unirersaliter enunciatur, quod particu lariter proferri debebat. E. g. Omnis homa est eruditres: nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod quibusdam tan tum convenit, est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. *** Ita propositiones: Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat, sunt contradi ctoriae, earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter negat. Iure igitur exclusa altera includitur, et contra: nam falsum est a quibusdam removere quod omnibus con renit, vel aliquibus tribuere quod nulli com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites: quidam homines non sunt divites: Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod si dicas: quidam homo est liber: quidam homo non est liber, quum haec falsa sit, altera vera esse debet. Rationem eius re gulae, ne longius provehamur, coram dabi una, mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105 propositionum sola quantitate differen tium, sed eosdem terminos habeniium mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS; particularis vero SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda occurrunt: 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi tur, non contra **. 2: Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam subalternantis arguit, non autem con tra. E. g. Duarum propositionum:, Omnis homo est eruditionis capax; quidam, homo est eruz ditionis capax, illa subalternans, haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo verum sit, omnes homines doctrinae esse capaces, verum quoque erit, quosdam homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae verae esse non possunt (S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta, et in contradictoriis necessario una sit, altera falsa (C. eod. *** ), liquet subal ternatan necessario verum esse debere; alias, enim in contradictione falsitas ex utraque par te daretur, quod est absurdu:n. Contra ea si verum est, quosdam hom nºs esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes homines eruditos esse. *** Si namque subalternata est falsa, eius con tradictoria vera erit; sit contraria subalternans, haec non poterit non esse falsa, adeoque subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse mortalem: falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem. At şubalternantis fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante, utpote univer sali, subiectum in tota sua extensione suma tur ($. 68. ), poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere sufficientem, adeoque aliquibus tantum spe ciebus, aut individuis conveniens propositio piem efficere particularem (f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit subalternáns, non vero subalternata. Hinc si falsuin est, omnes homi nes ésse doctos, non ita falsum erit, quosdam homines esse doctas. 80. CONVERSIO est mutua extremorum salva enunciationis veritate, substitutio Ea fit tribus modis, scilicet 1. SIMPLICITER, quum eadem qualitas et quantitas manet; 2. per ACCIDENS, quin quan titas sola mutatur; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM, quum salva pro, positionis quantitate, terminis additur ne galio, qua fit, ut enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop: 107 * Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um, qui huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt; sed non caret sua uti litate; imo haud raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio: Omnis spiritus est substantia cogitans: omnis substantia cogi tans est spiritus. ** E. g. Omnis doctus est homo, copyertitur per accidens hoc modo: ergo quidam homo est doctus. *** Sic: Quidam homo non est. pius, per con trapositionem convertitur: ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec? ais. Con fer, Dan. Richterum diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur enunciationes, quae verbis licet di versae, cumdem tamen sensum habent. * Duae ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et sentio: nihil tam ani manti proprium est, quam vita et sensie. Quae de his postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur, tempus terendum potius, quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis, ac propositio nibus cupidae iuventuti observanda arbitra. mur, ea paucis exponenda supersunt. Qua propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES, 1, Q Voniam iudicia sunt sapientiae, vel stultitiae fidelia indicia, par cius iudicato ne aliis sis ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel carentem adpellamus. 2. De nuila re, nisi cuius adaequa tam, aut saltem distinctam habes ideam, iudicium proferto, tuum. Idearum enim confusio praeiudiciorum mater est fera cissima. * Quum enim rerum, de quibus iudicare volu mus, distinctatu vel adaequatam habemus ide am: tunc eas undequaque cognoscimus, re lationesque perpendimus; adeoque termino rum nexibus optime coguitis, recte iudiça þimus, Cap. V. De ind. et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio vel alieno caussam et rationem atten te perspicito, cur tales ideae tali modo coniungantur vel scparentur, nec alio. * * Etenim infra abunde patebit, verae prope, sitionis criterium esse, si ratio sufficiens ad. sit, cur praedicatum subiecto tribuatur, vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta, non poterit iudicium non esse verum; ac proinde errandi metus procul aberit. 4. Praecipitantiam fugito: ideoque in iudicando tardus, in enunciando tardior esto, ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud: ver IA BIS AD LIMAM, SEMEL AD LINGUAM, Ne cit enim, monente Horatio, vox missa Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto, ac pro sapiente seinper habi. to, datum, postquam semel toqui voluit: Si tacuisses, Philosophus mansisses. 51. De moribus, et viia hominum num uam iudicato. Nemo enim alterius in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri 110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite iudicare, ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus inculeatum sit, ostendemus in Iure Naturae. Quoniam duarum idearum convenien tia, aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest, adeoque dan tur veritates demonstrabites(s 71. ); de monstratio autem ratiociniorum serie absol vitur: ordinis ratio postulat, ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM, actio mentis, qua ex duobus iudiciis no tionein communem habentibus tertium eli citur; vel practice est duarum idearum cum teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio. Ratiocinium porro verbis expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu ius nouduin certa, eius extrema, sive ideas confert cum idea aliqua tertia, et ab earum convenientia vel discrepantia, tertium elicit Cap. IV. De rat. et Syll. III iudicinm: tunc ratiocinatur, hoc est rationes conficit, ut veritatem inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam gravis; cum tertia idea corporis, ob servatque, num inter eas adsit convenientia: qua comperta, duas illas ideas inter se quo que convenire concludit hoc modo: Omne corpus est grave: Aer est corpus; Ergo aer est gravis. En ratiocivium. Quod si verbis exprimatur, erit syllogismus. 83. Experientia teste scimus, duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se: vel enim cum illa conveniunt, vel u na convenit, altera discrepat, vel ambae ab ea discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens, in secundo negans, in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his axiomatis con tinetur: nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt inter se: 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat, illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato; alterum negantis: e g. Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi, alteram vero ab ea di screpare: unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere, adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad sint tirinini; guain tres, syllogisuum es se falsum. ** Quumque tres ideae totidem combinationes adinittant (per exper. ): sequitur 4: ratiocinium tria quoque iudicia continere; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures, enunciationes admittere) Advertendum hic, tam terminos, quani pro positiones syllogismums, componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a teruninis incipiamus, praedicatum tertiae propositionis,, quae principalis dici potest, MATOR adpellatur, subiectum eiusdeni, MINOR; {erminus vero, qui tertiam ideanı ex. primit, quique rationem continet suffizientem couvenientiae, vel repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa, in qua medius cum maiore confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter; illa, in qua medius cum minore comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur, propositio denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto, a Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est terminus maior, aer minor, cor pus est terminus medius, adeoque prima pro positio est maior, altera minor, tertia con clusio. * Solet enim quandoque quartus irreperę ter. minus, et syllogismum corrumpere, idque raro patenter; nam saepius in termino aliquo, vel compositione latet. Fieri hoc potest 1. per aequivocationem, ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso: eg: Vilpes habet qualuorpedes, Herodes est vulpes; er go Herodes habet quatuor pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie; secundo vero metaphorice suintam; 3. per supposi tionis mutationem, ut si idem terminus ma terialiter in una, formaliter in premissarum altera sumatır. E. g. Iinne ens est generis neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius, in quo nocens in miori gran. matice; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem termini abstracti cum con creto. E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus: Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes syllogismi materia dici possunt: forma namque legibus absolvi tur, quas infra 'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo intuitu videatur: difficilis tamen admodum est termini me dii, qui communis idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus, mentem postrani in ratiocinando duplieem ingredi viam: vel enim notionum alteram ad pro prium genus, vel speciem revocat, et quid quid his convenit, illi quoque tribuit, vel definitionis characteres evolvit, eosque al. teri convenire observans definic tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus: altera sub iectum ad genus, vel speciem, sub qua continetur, reducendi, eique tribuendi, vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit, vel ab ea discrepat; altera attributi definitionem cum subiecto comparandi, et ab eorum convenientia vel discrepantia, praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea Cap. IV. De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis, aer sit gravis? Reduc subiectum sub genere corporis, et vide, utrum huic conveniat gravitas, eam de aere quoque enunciabis, ita ratiocinando. Quodlibet corpus est grave, aer est corpus: ergo aer est gravis. Haec erit prima medium inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve, eiusque characteres, nem pe corporum inferiorum pressionem confer cum aere. Quumque ei conveniant, attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo: Quidquid corpora inferiora premit, est grave: Aer premit corpora inferiora: Ergo aer est gravis Habes hic alteram medium inveniendi me thodum. Eodemque modo in aliis ratiociniis investigando procedes: quod si adcurate ser ves, numquam tua te fallet ratiocinatio. 86. Ex hoc principio fluunt sequentes regulae ratiocinii fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei, conve nit etiam omnibus speciebus, et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus, et individuis sub iisdem contentis. * 3. Cui convenit  definitio, convenit pariter definitum: ac proinde 4. a quo discrepat definitto, di screpat etiam definitum. * Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere, quia ideam universalem, ge. mus nempe vel speciem, exhibet. Quod si bis particulariter sumeretur, ratiocininm vi tio laboraret, ut infra dicetur. Quumque praedicatum tam latc pateat, quam subiectum cui tribuitur, ut cuique manifestum est: li quet, propositionem, in qua medius vicem praedicati sustinet, particularem esse. Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea propositione, cuius subiectum constituit Et quoniam propositio, in qua subiectum in tota sua extensione sumitur, est universalis: liquido infertur, saltem unam praemissaram esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae Scho lasticis fuere in deliciis, quas barbaris ali quot vocabulis, versibusque distinguere consueverunt. Nos, missis futilibus tracla tionibus, regulas quasdam Tironibus ma xime inservituras, quibus syllogismi leges breviter exponuntur, hic subiiciinus, quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto, quamtres. Si quartus irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda, quo omnia sophismata, si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an liquitatis, amphboliae, dictionis composi tionis, divisionis, caussae, dicti simpliciter, con e juentis, accidentis, cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati, in quibus quarins cryptice latet? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet. Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem ingreditor. Monstruosuin enim es set, caussam in effectus constitutionem immisceri.: * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur. Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii adplicatione cognoscit, nec, nisi in comparatione, mensuram adhibet: ita et in tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium ervit, in quod medium comparatio nis ingredi, valde foret absurdum. Vitiosum ergo esset ita raziocinati: Omnis bonus Phi losophus est homo: Titius est bonus Philo sophur: ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex parte in conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac fuit in praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae sunt veluti comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato, scilicet mersura: iudicium ex comparatione ipsa procedens, perfecte com parationibus ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam in praemissis, idem esset, ac si dice res productum maius vel minus esse altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio, si ita diceres: Qui alium l'aesit, puniendus est: Cajus alterum laesit: Cajus ergo morte puniendus est. Minus con tra, si sic ratiocinaris: Qui furium commi sit, restitutioni et poenac subiacet: Titius fur tum commisit: tius restitutioni subiacet. 4. Ex puris particularibus, vel ne gantibus (praemissis ) nihil sequi, ius estc. Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f. 86. *, praemissarum unam saltem esse debere universalem: unde si am hae essent particulares, impingeretur in regulam 1.1. S. cit.; si vero ambae negantes, tunc duarum idearum neutra cum tertia conveniret, adeoque nihil sequeretur per S. 83. Falsum ergo esset dicere: Quidam bo mines suni doeti: quidam homines sunt in docti: ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur: nullus impius est pius: ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem sequatur debilio rem, probe curato, ne in superiora pecces. * Pars debilior est propositio particularis, vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit particularis, conclusio quoque particnlaris, conclusio quoque particularis esse debet, alias plus esset in conclusione, quam in praemissis; quod est contra regulam 3.: si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans contra regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio convenit, alterum ab eo discre pat; adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum est; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris regulae vulgo traduntur, eae ad rem non faciunt; ac proinde a nobis tuto prae terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM. De aliis ratiocinandi modis. 38. Sunt et aliae ratiocinandi formae, quae licet a syllogismo diversae adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM, vel 2., COMPOSITVM, vel 3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS est, in quo forma ordinaria (*. 71 * ) quo modolibet périurbatur, aut occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i. per ordinis perturbationem, *. 2. per propositionum aequipollentiam per propositionis alicuius omissionem, quo casu dicitur ENTHYMEMA, 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur, ai quando propositiones transponuntnr: ut si prino conclusionen vel minorem, de nde maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ), debei omnino compesci (conclusio); omnis namque adfectus est compesccn dus (maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E: 8. Adfectus est attentionem turbare. Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ': infertur, in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur est syllogismus dua bus constans propositionibus, quarum prima ANTECEDENS altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua reticetur, speciatim vero illa, quae cuique patet, ut: omnis adfectus tur bat attentionem: ergo ira turbat attentionem. Minor deest, utpote quae ab audiente sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri, minor contra exprimi solet: e. g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10, ergo sum: ubi eogito est medius, est terminus maior; adeoque minor, scilicet ego, cum tota propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio: ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS COMPOSITVS est, in quo adest aliqua' propositio composiía, estoque vel HYPOTHETICVS; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS, vel tandem ex hoc primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom. I. F. Sun: Hypotheticus, sive conditionalis est, eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo est rationalis, sequi tnr, ut sit libertatis capax: atqui est ratio nalis; ergo est capax liberatis De hoc te nenda regula: Adfirmata conditione, adfir matur conditionatum; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis, adfirmata caussá adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari debet.. ** Copulativus, sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul propositiones coniun gentem, et negantein, quarum unam minor adfirmat, alteram conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere, et cum corpore perire, atqni aelernum vivit: ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple: aut compositum: sed non est cns compositum, ergo est simplex. Notanda crgo regula: Ad firmato uno disi!ınctionis membro, reliqua negantur; ct negatis rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur, DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id vero definitur: Syllogismus hypotheticus, cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva, quae in minore negatur, et in conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te oritur tunc aut ex alio simplici, aut e composito oriri debet: sed neque ex alio ente simplici, neque c composito oriri potest: ergo naturaliter ex alio ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in Joann, quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM, licet imperfecte exhibent 1. EPICHERE MA, in quo alterutri, vel utrique prae missarum probatio additur; * 2 PROSYLLOGISMVS, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS, qui plurium syllogismorum connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones, ut prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum. EPICHEREMA ergo rsl syllogisms. cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus, is sce lestissimus ét audacissimus sit, oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN. Sex Roscius non est talis PROB. Non est audax, non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars. I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo adsunt syllogismi coniuncti, quorum posterior ma iorem habet in prioris conclusione contentam: quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis spiritus est ens simplex, MIN. Anima humana est spiritus: CONCL. Ergo anima humana estens simplex. MIN. SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile. CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius procedat, aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr, dicetur polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta. Exemplum habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus. SORITES a Cicerone de Divin. Lib II. cap. 4. acervalis dictus, est plurium propos sitionum cumulus ita connexarum, ut unius praedicatum sit alterius subiectum, adeoque tot syllogismos continet, quot sunt propo sitiones, demptis duabus, eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot triangula resolvi potest, quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae funt. 1. Nulla praemissarum diibia sit, aut falsa: > 1 Cap. VII. De aliis rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens, quem vitio laborare supra observavimus (F. 87. can. 4. ). En Soritis exemplum. Quodlibet corpus est ali quo loco: quod est in uno loco, potest etiam esse in alio: quod potest esse in alio loco, potest rnutare locum: quod potest mutare lo cum, est mobile: ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis rationem reddemus 92. Syllogismo, eiusque speciebus. e diametro opponitur INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori, quippe quae a singularibus ad particularia, alquc ab bis ad universa lia procedit. Haec autem syllogismo prior est: nam quum ope experientiae praemis sas conficiat, indeque conclusiones eliciat universales, hac vero syllogismi praemissas constituant, utpote qui ab universalibus ad particularia, vel ab his ad singularia gra dum facit: hunc sine illa construi non posse, quisque videt, INDVCTIO itaque est argumentatio, in qua quiquid de singulis speciebus vel individuis speciation praedicatur, generatim quoque de toto genere vel speeie enunciatur; adeoque in ea tot minores adsunt, quot species vel in F 3 dividua exprimuntnr. E. g. aurum, argentuan orichalcum, cuprum, stannum, plumbun, ferrum, igni inieclun liquefiunt: ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad inductio nem ergo duo requiruntur, 1. plena partium enumeratio, 2. ut quod inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes enuncientur, inductio dicelur com pleta, sin aliquae tantum, incompleta erit: si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad oratores non ad Philosophos pertinet, quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis enim, quae diximus Cap. 1., liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus, indicia universalia a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est, quod Inductionem constituit. Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet, In ductionem syllogismo principia praestruere: adeoque illo priorem esse. Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa hac tractatione homini philosopho servanda sunt, qui sequuntur, exponunt. Cap. VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi. innotescit, principia prius con siderato num solida sint et indubia. Propositiones deinde ad trutinam revo cato, ac denique eurum connexionem adcurate perpendilo, ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “. Quum enim syllogismus materia et forma con siet: illan vero propositiones, hanc propo sitionum connexio, lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur: patet; Philosophum de utraque sollicitum esse debere, ut ratioci. nia sua tulo proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum, id agito, ut huius leges nocturna diurnaque manu verses: alioquin loqui scies, non ratio cinari. Exploratum namque est, quamcumque ar gumentationem syllogismuni esse vel crypti cum ", vel compositum, vel multiplicem: nisi ergo syllogismi probe gnaa rus, nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos, et de Philosophia optime atque abunde meritos, syllogismo fuisse adeo in fensos, ut eum inutilem, immo nullins bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit, scientificam methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi: unde evidenter proseguisque deducet, syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur Wolffius in Log. Germ. S. III. seq., ubi mathematicas demonstrationes absque illo fieri non posse, experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit, omnia eius argumenta in syllogismos resolvito: tunc enim clare perspicies, cunctane re. cte procedant, an aliquis lateat error, an sub ambagibus fallacia occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore evoluti, qui tamen si ad sillogismum eiusque leges, tamquam ail ly, dium lapidem, exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus, si soriten duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas: 'nonne statim patescet do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio, adeoqoe contra quartam eiusdem " legem peccatum esse, observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti nolle idem esset, ac in. ventis frugibus, glandibus vesci. Hucusque usque satis satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum. Quum autem Logicae sit non contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere, atque intel lectum in veritatis investigatione dirigere: doceamus, oportet, qua ratio ne tribus hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti debeamus. Quod ut commodius effici pos sit, pauca quaedam de veritate generatim spectata, eiusque genuina tessera, hic prae mittemus, VERITAS est, vel METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam; vel ETHICA quando quilibet sermo interno sensųi, F 5 130 Logica Pars. II. scilicet conscientiae, respondet; ** vel denique LOGICA, si cogitationes nostrae obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil no bis est negotii, de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus, quae ad con stituendam eius essentiam sunt necessariae: adeoque huic falsum opponi nequit, qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius docebimus, ac proin de nequit ens exsistere, et sua simul essen. tia carere. Ita aurum est verum aurum, qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur, inquies, falsum aurum? Minime. Tunc enim non aurum, sed cuprum, orichalcum, aliudve, aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum iudica. re, est nubem po lunone amplecti, atque a veritate Logica aberrare. ** Verę loqui dicimur, quum secundum cong scientiam loquimur, idest dicimus quae trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica, cui opponitur falsilo suium, quod est sermo contra concientiam prolatus, de in Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no. De ver. eiusq. crit. 131 stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat, vel in ideis forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis (S. 15. ): liquet, logicam veritatem vel in ideis, vel in iu diciis, vel in ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con sideramus: concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo consentaneam. Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM. Illa est, cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente nostra concipitur: quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro, cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM adpellare consueverunt. Illa est clara, distin cta, et indeficiens, quippe qua mens de se suisque operationibus iudicat, haec vero ob scura, dubia, et fallibilis: non enim per eam, scire possumus, utrum cogitatioues nostrae obiectis suis extra nos positis conveniant necne? adeoque quum veritatem habemus in ternam, de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus; quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur, si quando nca bis rem, uti in seu est, repraesentemus: *verum est lyDICIVM, siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus, separanda seinngamus; 've rum itidem RATIOCINIVŇ, si ' neque in materia, neque in forma peccaverit, * Idea ergo singularis ($. 28. ) vera est, si quando eius obiectum extra nos realiter exsi stat, eoque modo, quo nobis illud reprae sentamus: vera pariter dici debet idea uni versalis, dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit, ita ut characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc, ideas deceptrices, chimae ricas, aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici non posse veras. Advertas - tamen, absolutam obiecti deficientiam, vel ideae ab eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens, nec ideae characteres eum eo conferre queamus; con tra vero sufficientibus indiciis de eius verita te certi simus: notionem illam deceptricem vel terminum eam exprimentem inanem ad pellare, est contra Logicae regulas, ac pri ma cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes, aliquam credentibus notam inu rere conantur, quod vocabula mente cassa proferant e id quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret: veluti quum soli spendorem iri, buimus vel tenebras ab removemus? tunc judícia nostra veritate gaudebunt, f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis, sive syllogismi materiam es se tres illas propositiones, e quibus confla tur; formam vero leges. (S. 87. ) expositas, supra docuimus (6- 84.** ). Si ergo pro positiones fuerint verae: leges autem adcuras te servatae, ratiocinium non poterit non es se verum: quia, quum qualis est caussa, ta lis esse debeat effectus, non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex quo liquido colligi potest, eum, qui prae missas concessit, non posse negare conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem. Cave tas men, ne ex conclusione, licet evidenter ex praemissis deducta, de hárum veritate audeas áudicare: potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis es, set sequens syllogismus: Omnis virtus est fugienda: Avaritią est virtus; Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis praemissis deductam. Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur (§. 60. ): evi dens est. propositionem dici veram, quae adfirmanda adfirmat negandaque ne gat, servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas, nec ab omnibus distincte perspicitur: criterium aliquod inveniatur, oportet, ad quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem, propositio nem quamcuinque exigentes, eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam; vel uni versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem. Vid. supra Part. I. Cap. 5. Sect. 1.. 68. ** Hoc autem criterium exsistere debet quo propositiones veras a falsis, a phanta smatis, realitates ab insomniis discernere pos simus: alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur, id quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium. Quia de te Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio quaedam sufficiens, per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur, vel ab eo removeatur. * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu haberi de bent, quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia ita determinetur, nt mens adquiescat, nec ullus de earum veritate supersit dubitanli locus. ** Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte dicuntur, *** Cap. I. De ver. eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis omni aetate fuere Philosophorum opiniones, exceptis Academi cis, üsqne, qui Scepticismum ad furorem usque provehere ausi, atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum nomine insigniti, nihil a nobis vere sciri posse, temerario ausu adfirmarunt, quorum insania comploranda potius esset, quam confutanda. PLATO yeri tesseram es se statuit, evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus participatarum; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter tenens, utramque evi dentiam veri criterium posuit: illam nempe in intelligibilibus; hanc in iis, quae sensi bus percipiuntur. STOICI, secundum Laer, tium, veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est, evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus, elaram, et distin ctam perceptionem: in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam, quam inter na animi coactio sequitur, ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib.I.de inquir. verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia, intellectus, sensus et auctoritatis criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur, in ipsis praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione: Aer est gravis, qualitas attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur: in hac enim inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora inferiora premat; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis notionem requira tur: clare patescit, aerem esse gravem, adeo que propositionem esse veram. Et hoc est, quod Wolffius, criterium verae proposi, tionis ésse determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac propositione: Caius est invia dus, requisita ad veritatem sunt invidiae cha racterés alibi enumerati, qni in Caio deprehenduntur, quique rationem con tinent sufficientem, cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis criterium in ratione sulficiente consistat, et a requisitorum collectione constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt, ut a mente, quamvis invita, adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem nostram non convinci, nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in tellectus evidentia in intelligibilibus, auctoritatis deuique pondere in iis, quae neque sensu, nec ratione percipi possunt: liquet 2. criteria illa pro rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse, intellectus sensuum et auctoritatis EVIDENTIAM. nempe, Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis, sed et ipsas animae actiones, quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur:Naturae sa pientissimus Auctor hominem conscientia, sen suque cum omnibns organis instruxerit, ut: omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret, eorumque conscius esset: non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo cognitionis humanae principio, nempe non posee idem simul esse et non esse, ori ginem suam repetit; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit. Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant, id quod ra tione duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur,et mens adquie scit: evidens ergo est, veritates tam demon strabiles, quam indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere, ab homini bus certo cognosci posse, earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi debere nempe ut Malebranchius ait, iu ea 'eviden ' tia, qnae internam producit coactionem, at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones humanum ca ptum superantes, nobisque ideo imperviae, quae quum ab Ente intelligentissimo tantum agnosci possint, revelatae tandem addiscun tur, fidemque mereatur: quum entis illius perfectiones sint infinitae, nec de illarum 2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta, sive propositiones singulares, quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec. sensibus, nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D. Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm.; sed sensibus olim ab adstantibus coaevis que percepta, ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad. nos pervenerunt: ct quia narrantium auctoritas suspecta non est, certitudinem, aut saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc, sententiam nostram in intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam, in factis rebusve humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve; adec que eamdem asse cuin Cartesiana, Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec certitudinem potius, mentis scilicet nostrae statum, quam rei veritatem respicit, de ea, quam producit, evidentia plura infra, ubi de veritate certa sermo erit, haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss. de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint adfectiones, patet, falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis reperi ii; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius sufficientis defectum. Cap. I. De ver. eiusq. Falsa ergo est idea, quum aliter se habet a re repraesentata; falsum iudicium aiens., si quando subiecto non conveniat attributum, negans vero quoties boc illi conveniat; adeo que falsa propositio, quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat, vel quae universaliter enunciat quod particulariter enunciari debe. bat; falsum denique ratiocinium, quod in materia vel forma peccat: i illa, quando propositiones sunt falsae; in bac vero, quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera tessera est, si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto tribuatur, vel non; verum adsit rl tio, cur contrariuin enuncietur: tunc enim subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens, vel latens. Si vitinn sit manifestum, dicuntur PARALOGISMI; si vero crypsi aliqua tegatur, vo cantur SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens: Omne homicidium est vitandum, nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can. 4.6. 87.: me dius enim terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii, si sie ratiocinabea ris: Populus ex terra crescit: mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II. minum est populus: ergo multitudo hominum ex terra crescit: quatuor namque termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem, in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam usque a Scho laflicis tradita invenientur, qui tamen tot tan tisque tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem, vitium plerumque latet in quarto termino cryptice tecto: Auditorum nostro rum mentes non ultra fatigabimus: attamen, si sapient, syllogismi leges memoriae inscul pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose servatis, aut nihil scimus, aut numquam, neque de cipi ratiocinando, nec alios deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst, ut aliqua addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis. Qui ergo Philosophi nomen adse qui cupit, hos probe teneat. Cap. 1. De ver. eiusq. crit. CANONE S. I Dea, quae characteres continet si * bi invicem repugnantes, deceptrix est: imaginaria vero, qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt, quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati, ligni ferrei, creaturae infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium, quia earum vices gerunt, ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi: licet enim nulla adsit analogia inter spiritum el corpus, atque adeo inter eorum proprie lates: ob similitudinem tamen, quod, sicut in receptaculo plura servamus, quae inde, quum opus fuerit, depromiinus, ila memoria plures ideas, quae tamdiu latuere nobis sug gerit, memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De eo, cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem, tuto adfir mato: negalo vero, quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc nosti: licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit, ne temere iudicato, donec veri tatis eius, falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia, quae incautos maxime adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod exigunt; quo fit, ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti, ratione tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in veritate invenienda fru. stra taboraveris, examen reintegrato. Si ne id qutdem profuerit, ne rem pro falsa, aut impossibili venditato, nitam ridiculus sis, qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc cautionem inculcat Genu eusis noster, quae dici non potest, quanto sit omuibus adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa, eiusque caussa in - bo mirum n.entibus, raro in re percepta, sit quaerenda (S. 20. ): nullum est huiusmo di iudicium, quod non ex praecipitantia fluat. Qui enim ita se gerunt, ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt, perinde ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore, aliasve doctrinas, quas intellectu adsequi nequeunt, proimpossibi libus venditant, ut fusius in Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit, nemo non videt. De ignorantia et errore, eorumque caussis. A Ctio mentis, qua verum (S. 94. ) agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit, COGNITIO adpellatur. Eius vero absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione desti tulae. * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit, eaque mente tenet, illius cognitione gaudet: contra vero, si ea cogni lione sit 'destitutus, disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna it aliena doceri potest, hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus cogno scere; plurima quoque nesciri ab iis, qui acriori se praeditos ingenio jactant: cos vero, qui doctissimorum virorum nomine gaudent, quo longius sua sese exserit co gnitio, eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II. * Ex innumerabili rerum, quae sciri possunt, puniero ingenii cuiuscumque vires superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium rerum cognitionem ani mum adplicandi, neglectis iis, quae ad cu iusqne statum minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari, quia superflua discimus. Id ipsum er go argumento est, homines, postquam ad sublimiorem, ut aiunt, cognitionis apicem pervenerint, quamplurima adhuc habere, quorum nulla se gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari, ac ne minem un quani reperiri posse, qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet: quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari, ut primo necessaria * deinde ütilia, postremo iu cunda discantur; adeoque 3. eruditorum reprchensionem merito incurrere eos, qui neglecta hac methodo ad superfluarum re rum siudiuin animum adplicant, param curantes ea, quae ad interni extervique status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur, quae Dei suique cogni tionem spectant, item quae facultatem quam quisque profitetur, postremo quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor. cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus, si ne glecta medendi arte, eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum est, operam daret. Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus, si pro legum codici bus, medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam maximam ail fert experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM, non solum in iis rebus, quae nostrum si perant captum, sed etiam in iis, quae iu jus limites von excedunt, 2. MENTIS IMBECILLITATE, sive impotentia co gnoscendi idearum nostrarum relationem, LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE, MEMORIA vel nimia, vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum mediarum defe ctu pendet: quo fit, ut communi illa defi ciente mensura, nec conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. (ones T. 1.  ** Confusio studiorum habetur, vel quia fine attentione aut ordine fiunt, vel quia plurima eodem tempore cursimque discuntur: ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia illa sciolorum turba, solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum, nostram invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris impatientiam, adeoque ignorantiam parit; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get. Ecqua enim cognitio ei, qui unam al teramve propositionein memoria retinere non valet? (+ ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve viventes illi sint, sive mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici non po test, quot sublimia vilescant ingenia, quae vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema, quo ingenia ista iuveni euidam com parat, cuius sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur, dextera vero ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem reddemus Dolendum autem magnopere est, quod si quando iuvenes isti litterario furfure vix in crustati Rempublicam invadunt, societatis perturbatores, bilingues, susurrones, ad pessima demum et turpissima quaeque, (si paucos excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni verre dissensim, falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter ERROR definiri potest, quod sit confusio iudiciorun. Error autem in iu dicando commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur, quod esse dicimus iudicium erroneum praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium, vel quia sanae mentis praevenit iudicium, vel quia praema ture et fine criterio profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia, veluti: discum solis diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas: et alia eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum; error vero confusio iudiciorun: evidens est s. praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse petendam. Equidem sunt plerique, qui praeiudiciorum originem a voluntaté repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt; ii tamen io to aberrant coelo: voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis liberandi, pro praeiudia ciis venditant. Si vero rem probe per penderint videbunt, ea, quae voluntatis vitia asserunt, ab intellectus vitiis vel imagin natione pendere: et si qui méntem obun brant ad feclus, appetitus quippe sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus, non aliunde, quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in Phil. rat p: 5. 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera, AVCTORITATIS scilicet, et NIMIAE CONFIDENTIAE. * Illa sunt, quae nostris viribus parum confisi, nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum, quorum apud nos plurimum valet ancio ritas, scriptis vel sententiis kausta adopta mus, eaque pro sanctis habenda puta mus; hec vero, quae nostris viribus niinium fidentes, quamquam praecipitan ter et sine meditatione prolata., tainquam vera lamen adsumunus illis firmiter achae remus, et proeiis, veluti pro aris et fo. cis, pugnamus. * Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi opiniones praeconceptae a nutricibus parentibus, atque magistris a teneris, ut aiunt, unguiculis haustae: ea ad auctoritatis praeiudicia referri, nemo non ri det. Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia,, quae iilola vocat, in quatuor dividit classes, quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet quae in ipsa hamana natura fundata sunt; altera idola specus, hoc est hypotheses a nobis ipsis provenientes; tertia i: lola fori, idest prae concept as opiniones, quae ab hominum com mercio mabant; quarta denique idola the *** Cap. II. de ign. et er. eor. caus. 149 atri, videlicet erronea iudicia, quae ex Phi losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas, quas retulimus, classes com mode referri possunt, ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt ea, quae a nu tricibus, magistris (vivis illis mortuisve ), aut populo haurimus: eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus, familiis, vel.: sectis familiares, quarum cultores illis, tam quam glebae, adscripli, nulloque utentes iu dicio, eas, tamquam oracula, pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur. Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico, de viro quodam nobili Peripatheticae philosophiae addicto, qui qunm Venetiis in domo cuiusdam Medici sectionem anatomicam perfici vidisset, in qua maximam nervorum stirpem e cerebro exeuntem, per cervicem transire, per spiralem distendi, ac postea per totum corpus divaricari observasset, nec, nisi tenue filamentum, funiculi instar, ad cor pertingere, a Medico rogatus, adhuc in Aristotelis sententia manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu respondit: Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus. Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret, in sententiam tuam per tracturus me fueris. Quis, quaeso, haec au diens a risu ' temperaret? *** Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos, novitatis, similia: ut sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE, stemata omnia ab eruditis inventa, quibus tam acriter inhaerent, ut uullum sit rationis pondus, quo ab opinione sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca addamus, Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant et disponunt; vel " PROXI., quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem impellunt, erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur, et speciales. Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit deteriores ADFECTVS, quos attentionem turbare, idearumque obscuritatem parere supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS vocabulorum VSVS, quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LI BERTAS PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate repetenda est, idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et adfectus er his ergo caussis praeiudicia nasci, quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet, adeoque ignorantiae tantum Caussa esse possit (* 105. ): cum sciendi tamen libidine conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit, ut intellectus tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras consistere nolit, opportunisque prae • diis vacuus ea investiget, quibus par non est, ac proinde in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi iuxto maior in receptas hypotheses illidit; nimis autem con etricia in auctoritatis praeiudicia nos urget, sel saltem crassam parit ignorantiam. 110. Speciatim autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE, scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et praeiudicia NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quaedam singularia attingamus, id sedulo notandum: praeiu dicia, quae ab ca procedunt, tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE, cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint, propositio non in ter praeiudicia, sed inter veritates com muni hominum consensione probat as est referenda. Quot mala hominibus adferat educatio, vix dici potet. Parentes enim tantum abest, ut puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent, ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis, erro neisque opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus, ab iis enim quam multa hauriuntur praeiudicia, quum iuvenes in magistrorum verba iurantes quaeuis eo run effata sancta esse putent, ac de illis veluti de Religione, dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis, consuetudo cum po pulo quot foveant errores, quum res sit me ridiana luce clarior, in ea explicanda nihil immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1. Qui nimium suo indulget ingenio, fieri non potest, quin in errores incidat, el pacdın tismum vel contradictionis spirituin induat, quae duo vitia aliorum aversionem odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala produxerit, ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent, donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum; nou sunt ubique earlem, sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant, diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur; rudium tandem von eti am sapientum mentes occupant ita, ut dum illi inter praeconceptas opiniones erroresque iacent, hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er. eor. caus. 253 mus Omnes illae, quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae sunt; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA. Quae quum ita sint, optimum, idqne uni cum, ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE: est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas, ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum, vel Pyrrhonismum insanam nempe illum de onnibus dubitandi miorem, quo hodiernos incredulitatis fauto. res uii, non sine dolore videmus. Stolidi tas enim, nedum temeritas infanda foret sine sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus dubitationem eo fine institutam, ut suspendatur iu licium, donec mens ad ideas distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex sistentibus, nullaque evidentia suffultis est intelligendum. Etenim quae Divina auctorita te nituntur, aut mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare, impium; de his ve ro, foret adprime stullum. Schol. Espositis mentis humanae imbe. cillitate et vitiis, reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri, inter quos Nicolaus Malebranchius, et Antonius Genuensis, quamplurima ad id remedia. proposuerint, quibus vel minimum quidem addere, non opis est nostrae; licebit ta men, ad Auditorum nostrorum instructio nem, si plura n quimus, eadem saltem ab ipsis tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis, hos menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne, meditatione ab obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in. tellectus perfectio sita est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia. * Ut id consequantur adolescentes, prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte observavimus, ea praecipue, quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad studia praeiudiciis liber ac do cilis, uti modo in lucem editis infans, accedito. Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io, nihil verens ab eius, qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap. II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum, quum te ignoran tia deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio adhi benda est: abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum, de quibus ideo pauca inferius delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur studiorum confusio, quam ignorantiae caus sam haud postremam esse, experientia sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil, nec multum deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus; sensus vero communi ne glectus audacem efficit, omniaque sibi permittentem. 5. De iis, quae vel Divina auctori tate, vel maxima evidentia destituta sunt, prudenter dubitato, donec certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito. Quae captum vero tuum superant ne perqui rito, nisi prius opportunis mediis probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum superent, ca non investigare omnino, recta ratio docet. 6. Laboris patiens, memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto. Me mento Poetae illud: ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc, quam immerito a nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et dictionaria, quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato. Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper coniungito  Non nostrum est praeceptum, sed Senecae, qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret, librorum paucitatem diserte com mendat his verbis: Cum legere non possis quantum habueris, sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8. Poetas caute legito, ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum, utpo te pessimi argumentum, ut anguem fu gito. Senecam audito dicentem: SANA TIMUR, SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er. cor. caus. 157 Ad poetas quod attinet, eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan, vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas: id quod ia legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca, quum ait: Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria, melliisque ad cam perveniendi. $ 12. sis ad veritatis investigationem gradum faciamus. VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla nobis de illa re maneat suspicio aut dubium, vel PROBABILIS, si propius ad certitudinem acce dat, nempe quum non omnia insunt re quisita. De illa nunc, de hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i, ut si quam minima adsit suspicio non certitudo, sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non idem est om. nibus mentis status, sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam esse posse, al teri incertam. Tandem quoniam quisque mentis suae statum agnoscit, consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex esse possit. * Quia omne, quod verum est, vel absolute et in se tale est vel in relatione ad mentem, quae non semper terminorum nexum distincte percipit: ideo Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM, il lamque esse, aiebant, nexum propositionis in trinsecum, hanc mentis nostrae statum respi cere. Nos illam proprie VERITATEM, hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma; Totum est maius sua parte, si absolute et in se spectetur, VERUM dicitur, si vero ad men tem referatur, CERTUM est, quia talia ad sunt indicia, ut ipsi absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad certitudinem ducentia trium generum esse possunt, sci licet vel absolute infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus, vel denique sccundum huinanae prudentiae leges: evidens est 4. triplicem etiam esse certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM, quae illis; PHY. Cap. 111. De veritate certa etc. 159 SICAM, quae istis; MORALEM tandem, quae his fulcitur indiciis, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus;alterius haec propositio: corpus non suffultum cadt: pos fremi vero haec: Augustus fuit primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat, men tem nostram non statim, nec semper, quod verum est, certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi monstranda est, qua tuto ad certitudinem perveniat: eaque, pro certitudinis varietate, diversa est; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO seu DEMONSTRATIO, et AUCTORITAS, de quibus singillatim, et quantum res ipsa furet, breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest, vel singulare est vel universale (S. 26. seqq. ); itemque vel effectus, vel caussa. Singulares porro ideas sensibus ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura, praecedit, ut in Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur, altera, quae a singulari bus ad universalia; itemque ab effectibus ad caussas ascendit, nemp: a sensibus, si ve experientia incipit; ideoqne dicitur co gnitio a posteriori: altera, quae ab uni versalibus ad particularia, a caussis ad ef fectus rationis ope descendit descendit,, ac proinde vócatur cogniíio a priori. De illa nunc; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque, quod experientiae ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus aquam made. facere, ignem col fucere, ceram igni admo tam liquefieri, ct id genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum singulars experimento addisci, * extra eas nsilium alind esse experientiae obiectum, adeoque 3. eam in abstractiş 2 2. Cap. Ill. de Veritate certa ctc. 161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult, is casum singu larein, allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia; 5. denique, ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam. * Quoniam vero est vel internus, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA. Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere percipimus: e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus; toties taedio nos adfici animadvertimus; haec ve ro, si res in organis nostris mutationem pro ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus. "Experientia rursus dividitur in VVLGAREM, quae mnibus aeque patet, ut calor ignis, et ERVDITAM, quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis mediis cooficitur, arleoque so lis innotescit eruditis, ut ' aeris gravitas, elasticitas ctc. 118. Habitus, sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere, aut aliquot instrumenta s ertractan. 162 Logica Pars II. di peritiam habere, ut experiundi arte prae ditus quis dici possit, sed opus est habitn longa exercitatione adquisito, non solum res experimento subiiciendi, sed propria aliorum que experimenta ad critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas, sive corolla ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur; ad sensionem autem duo requiruntur, scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab externis obiectis produ cta, et repraesentatio in anima huic obie cto conformis (ut in Psychologia ostende mus ): consequens est 6. ut sensus, po sitis ad sentiendam requisitis quam fallant; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed a iudicio, quod ani ma praccipitanter fert super experientia, persaepe falli. Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et Requisita ad sentiendum tria sunt, orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio, 3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur, et quartum requisitum adesse debet, nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem incidentes reflectantur, et in acre prius, deinde in oculi humoribus ac lente cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat, u Cap. 111. De Veritatė certa etc. 163 hi motum in nervo optico, quod sensationis caput est, producunt: si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur, non eadem erit lucis refra ctio, adeoque non idem locus obiecti parti ' bus adsignabitur: unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus, non sensuum, sed judicii defectú id provenire, fatendum est. Cautiones, quas inculcamus sunt 1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur instrumentis, 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob serventur 3. ad tot sensus, ad quot redi gi possunt, redigantur. Si cautiones istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit error: si vero quae dicta sunt probe attendantur, non in surgent amplius difficultates, nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti, turris que emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes, sensuum fal laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii, qui ea, quae minime ex perti sunt, vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia deductis debentur, pro experientia obtrudunt. * Tales sunt, qui pliaenomeni alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars II. ferrum a magnete altrahi videns, experien. tia compertum esse diçat, ex magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia, vitium subreptionis incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares, ut et 11. singularia iudicia ipsis innixa. * Quumque his nova deducta iudicia non nisi ratiocinationis ope eruan tur: evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non posse singularia, sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia INTVITIVA, quia in his, quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur, eidem tribuimus: ut ignis est rulidus: aqua madefacit. Scholastici ea vocabant discursiva: ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est cctivus: vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur. 13. ut ea conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22. Cap. III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa occurrit, vel ab ca removendo quod in aliis, non etiam in illa observatur. * remove * In primo casu habebis iudicium aiens, in secundo negans. E. g. Ignem percipis eique calorein inesse observas. Sume ergo ignem. pro subiecto, calorem pro attributo, et ha bebis iudicium aiens: ignis est calidus. Contra quia alias observasti aquam madefa cere, id vero in igne non intueris: ab igne hoc attributum, eritque indiciun negans: ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem enunciatio. nes particulares in universales comunitari possunt: ita, quamvis notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u niversalia transmulari possunt, si regulae sequenies exacte servcolur. 12. Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ($. 18., et variis circum stantiis involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun: 15. allributa haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II. convenientia abstractionis ope retinenda, atque inde notae characteristicae depro mendae sunt, quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant. Hi quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat, 17. ac cidentia omittere, 18. attributa, quae non seinper eadem sunt, determinationis bus particularibus liberare, ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia attendere in quibus perpcluo conveniant, aut inter se discrc pent. * E. g. Vt scias quid sit commiseratio, ob serva casum aliquem, in quo videas te, aut alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem, aut plu res etiam, si id res exigat, videtoque cir cumstantias, quae sunt perpetuo similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis, cuius notae definitionem suppe ditabunt realem, commiserationem nempe es. se tacdinm ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo iudicia universa lia a posteriori coulcianlur, observemus. Cap. III. De Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva: videatur primum, num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale: quo casu enunciatio erit uni versalis ($. 68* ). Deinde experientiam multoties repetendo dispiciatur, utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur, investiganda est ratio, cur in ea aliquando deprehendatur, eamque biecto addendo, indiciuin enascetur uni versale (5. 69. ): * Ita e. g. esperientia novimus, igni semper calorem inesse, ceram autem non seinper es se liquidam. Iudicium ergo ignein esse cali dum erit universale: at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse liquidam;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat, quae quun sit in igne, cui tunc admovetur, hac subiecto addita, universalis orietur ennnciatio: cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam sequa tur oportet, ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae sunt: 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur, qun ties obiecto alteri iungitur, idquc con 168 Logica Pars I. stanter: tunc hoc esse illius caussano 3 tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura, licet perpetuo, coexsistere wel se mutuo sequi observeniur, sta tim inferre licet, unum esse alterius ca ussam, nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae liquentis igni, aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa existat, vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare, hunc esse caussam illius. 21. 128 Ex quibus omn: bus clare deducitur 20 propositiones ex experientia legitime uistitala confectas esse certo veras; quouicumque sensioni omnibus requisitis in stuctae convenit, pro certo haberi, adeo. que 22. et definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas, et 23. axio mata vel postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere.  Rationem definivimus per facile tum distincte perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem, de cuius veritate iudicium ferre volumus, ita cuin aliis connectimus, ut inde ter minorum nexus ctare perspiciatur: id ve. ro est, quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio isthaec vocatur DEMONSTRATIO, cuius est veritates ex certis principiis per legitimam ratioci nandi seriem eriiere (š. cod. ). SERI ES porro RATIOCINÀNDI habetur, si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo requiri, nempe principia demonstrandi certa it in: dubia, eorumqne cum conclusione coone xionem. Et quia experientiae rite institu definitiones, axiomata et postulata T. 1. tae, 2 > H 170 Logic. Pars II. certitudine gaudent (s. 128. ): infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da, proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare, qui ea ex incertis dubiisque principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur, a priori scilicet, sive per rationem; et a posteriori, seu per expe rientiam: sequitur hiec 4. duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO. STERIORI: illam haberi, quando veri tatem aliquam a principiis legitime connexis deducimus, vel effectum per suas caussas probamus; si quando eam ex experientia reete institu ta, vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a priori demonstrare volumus, principia statuamus necesse est, antequam ad syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc proposi tionem: Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus. DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est, qui omnia * hanc vero, sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap. II!. De Veritate certa etc. 1. ): sed era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2. Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem. THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO. 1. Ens perfectissimum in tellectu gaudet perfectissimo (ax. Deus cst ens perfectissimum (def. 1. ); go Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu perfectissimo (num. 1. ): onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui omnia sihi distictissime rapraesentat, ideis caret confusis (ax. 2. ): at Deus om niasibi distinctissime repraesentat. (num. 2 ): ergo Deus caret ideis confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus (def.?. ): quuin ergo Deuts careat idcis confusis (num.' 3. ); liquet, eum care re quoque appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo, is caret adfe clibus (def. 4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo (num. 4. ): ergo Deus caret adfe ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta confectam esse demonstratio nem. ** A posteriori demonstratur animae in nobis exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus, obserica biinus, aliquid in nobis esse, cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab aliis rebus extra nos positis, inter eas vero alias ab aliis distinguiinus, boc est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO. Id. ipsum, quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium, dicitur anima. TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat, aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium: id ipsiin autem est quod dicitur anima (per defin. ): e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio iterum est, vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **. Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo; haec autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes, conclusionem falsam inde deduci mus, ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit demonstratio, si ordinem sequatur hactenus explicatum ($. 131., si ve a priori sil, sive a posteriori: ut videre est in superadductis exemplis ($: 131 " ); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel ard absurdum, quia oppositam propositionem ut veram alla sumens, ex ea absurdum aliquod, sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo, cur id sit aut fiat, erit in nihilo: adeoque nihilum ex sistet simul, et non exsistet. Essistet, quia aliter non posset esse caussa alterius: non exsistet, quia aliter non esset nihilum. Quod quum contradictionem involvat, sitque ideo impossibile: ergo nihil est sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere metaphysica, proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem perveniendi praestantissimam. Quumque ex perientiae et demonstraționis excellentiam ostenderimus: ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici. dubia ' sensione, vel evidenti principio ni titur, dummodo in demonstrando CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii, qui propositio nem probantem demonstrant per propositio nem probandam: quia in tali casu idem per idem demonstratur. Huic adfiuis est illa, quae a Scholasticis adpellari solet PETITIO PRINCIPII, nempe quum principium de monstrandi vel nullum est, vel nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque enunciationes Epicuraeorum, Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum, Stoicorum, aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134. Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo, sive methodus requiritur: ne longius hic pro grediamur, de ea sequenti capite, prout res exegerit, breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca dieamns. Ea non scientiam, ut experientia et rutio; sed FIDEM parit. Est autem FIDES: ad sensus propositioni datus, alterius te stimonio itinixus. Ex quo patet, rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque auctoritas vel Divina sit, vel humana: fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo consistere, ut narrans taliasit, qui nec falli nec tallere possit; ac proinde 2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et infinite verax, quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio (per princip; Theo. nat. ): evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni exceptione maiorem; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum veritatis com pletum, omnibusque numeris absolutum; adeoqu 5. debere nos Deo loquenti ad quiescere, nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere, utpote vel falsam prorsus, vel indigestam. * Non potest enim certitudo certitudini adver: sari, quia si id esset, tunc contrariarum propositionum utraqua vera esset, adeoque idem simul esset et non esset: quod quum repugnet, non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit fundamentum veritatis com pletum (num. 4. f. huius. ): patet, quam cumque demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana fidem parit bumanam, et certitudinem moralem: de ea pauca adhuc addenda supersunt. Et primo quidem, quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides, quo certiores sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus (S. eod. ): liquet 6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam, si non adsit ra tio, cur in narrante aut imperitiain, aut malitiam supponere possimus: veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil emolamenti ex iis, quae narrat, perceperit, si ' parratio rectae ra tioni non repugnet; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit, vel per secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt scientia et probitate, nec de his semper certo iudicare possumus, quum id io so la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si vero deficiat, liu modo priores adfint circumstantiae, certilu do vim suam non amittit.. Schol. Nunc in eo sumus, ut explica tae doctrinae usum paucis tradamus. Qua propter Philosophus noster hos, qui se quuntur, observet. CANON E S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in strumentis me accedito. Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177 aliorum experimenta consulito, dummo do eorum integritatis scientiaeque con stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat, aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras, caussasque facilius investigare possis. * Et quidem experientia erudita instrumentis opus habet, sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint, observationes nul lae erunt: ac proinde aliorum experimenta consulenda, praemissis cautionibus, quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus, ut phaea nomena observari possint, a quibus ad caus sas proximas rationis ope concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis rerum exsistentia observatur; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt, su bripiendo a dsensum extorquere conantur: et tunc evenit, ut cum ratione experientia pu gnare videatue, de quo infra sermo erit. Quod sem el expertus es, ne teme? depromito, sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens, an costantia sint, observato; nec, nisi certior omnino factus, de iis enunciato. Saepe enim accidit, ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus, vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta, ut diiudicari possit, utrum principali, an accessorüs caussis, effectus il le tribuendus sit, adeoque non mirum, si facta semel observatione, effectus productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito; sed sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est, ut supra diximus. Ne ciedito, quamcumque enuncia tionis probationem pro demonstratione sumi posse: qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit demonstratio cui nihil potest roboris accedere. * Nimiruni demonstrationis robur a praemis stabilitate, legitimaque connexione procedit, adeoque pro; earum firmitate con clusionis pondus augetur, vel minuitur. sarumriat, 6. Demonstratio, ut certitudinem ра talis esto, quae neque per mate riam, neque per formam ulla possit ra tione convelli. Iunc enim adsensum etiam ab invito, extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur, haecfallax esto. Absurdum namque foret id exsistere, quod rectae rationi repugnat. * Eo namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes, alteram singularem, quae quidpiam exsistere pronuntiat, univers salem alteram, quae idem existere posse ne gat; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit (per princ, Ontol, ): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde experientiam dici debere fallacem, quippe non experientia, sed subreptionis vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig:bili evidentiae physica adversetur, FALLAX HABETVR PHYSICA, est enim haecminor, cui proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili subdubitan re, quae summa est, acmathematicam parit certitudinem, par est. Cui deinde subiungit: Fingamus (quaquam id falsum keputo, ma thematica evidentia demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret, non esset audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1, Sed quid, in quies, alienam auctoritatem in re tam evi, denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam, apud quos Genuensis no stri plurimum valet auctoritas, nigro lapillo notatus est: ut sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam, sed ratio De aç unanimi hominum ratione utentium consensione fultam. cum eius quoque Viri ipsis non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas esto, Quum Deum loquutum esse con stal, cuncta silento. Huic metaphisicą, certitudo numquam refragator: sed si per rationem liceat, demonstrationes ad calculum revocato; * vel si Dei vera bum explicatione egeat, Ecclesiam in, fallibilem eius interpretem con sulit o. * Referentes nồs ad ea, quae diximns, quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est, dummodo intra rationis fines quaer stip sit rationes,iterum conficiautur, e de Cap. IX. De. Methodo. 181 monstrationes ad calculum revocentur, ut adpareat, undenam oppositio illa ortum duxe rit, principiisne dubiis et incertis,, an a defectu legitimae connexionis? * Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore, eius que Administris est petenda, non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere, patet ex ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult, ubi Apostolis ait Ec ce ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18. Cum, venerit ille Spiritus veritatis (Pa. raclitus ), docebit vos omnem veritatem. Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat, assistente su premo animarum Pastore Christo, et docente Spiritu Sancto pronuntiat; adeoque per eana Deus ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo. 138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test, enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse, scilicet vel eam dividendo, et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo, vel componendo idest, principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre. diupdo. Vnde clare patet, methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis, vel SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad principia, synthetica a principiis ad princi piata (uti Scholae aiunt ) procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus. Ad demqnstran dam enunciationem alibi (S. 131, ) allatam? Deus earet adfectibus: analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo, caret @ap. IV. De Methodo, 183 etiam affectibus (per defin. aff. ): atqui Deus caret appetitu sensitivo; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret repraesentatio nibus confusis, caret quoque appetitu sensi tivo (per defin. app. ): Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret appetitu sensitivo. 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime repracsentat, repraesentationibus caret confusis (est axioma ): sed Deus omnia si bi distinctissime repraesentat: caret ergo repraesentationibus confasis. 4. Min. prob. intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime repraesentat (per defin. intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu perfectissimo: omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo (est axioma ): Deus autem est ens perfectissimum (per defin. Dei ): ergo Deus gaudet intellectu perfe ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ($. 131. * ). At in gratiam Tironum, quos ad Philosophiam manuducere instituimus, aliam adhuc dabimus demonstrationem, bre vem illam, at mathematico more confectam hoc modo: THEOREMA, Deus caret affectibus. DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum (defin. 1. ), cuius est intcllectu gaudere perfectissimo (ex 1. ), qmniaque 184 Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare (defin. 2. ) id quod omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit (ax. 2. ), Quum itaque ab idearun confusione pendeat appetitus sen sitivus (defin. 3. ) ', cuius vehementiores motus dicuntur affectus (defin. 3. ): iure colligitur, Deum omnino affectibus carere. Vides hic, quam bene monuerimus in fine primae partis, maximum atque insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis demonstrationibus: atque hinc patet, quam inepti ad demonstrandum sint ii, qui syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam methodus analytica a dif ficilibus ad facilia, a compositis ad sim. plicia progreditur (s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (S. eod. ) conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda, haec in alios docendo adhibeatur; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est, haec sterilior **: novit quisque 3. docendi ordinem id exigere, ut post quan auditoribus synthetice veritas fuerit explanata, iisdem "analytice modus. indi cetur, quo fuit ab auctore inventa. Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem esset, aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV. De Methodo. 185 rones ducere via, eosque ad veritatem vel numquam, vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem est analytien methodus quia singula ad examen revocat, minuta quae que considerat, atque possibiles omnes fin git casus, inde ab hac quasi sylva conserta, enodatis extricatisque ambagibus, ad rem ipsam perveniat; synthetica vero sterilior, & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior, haec facilior est: adeoqne illa viatori tramitis inscio, qui di vinando et om nia tentando difficiliter quo tedebat pervenit: haec eidem perito similis, qui brevi apertaque via iter conficit, et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad melhodi leges, tum utri que communes cum alterotri peculiares, tradendas acMilanius. Eas aliquot complc clemur regulis; quarni quinque genera les, ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum que igitur veram: methodum in veritatis investigatione cailere cupit, hos rigides servet. 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad demonstrandum accedis, cur ato, ut a facilibus notisque incipias, indeque ad ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida, ideasque selig ito medias, atque ea semper cordi habelo * Est haec lex, quam inculcavimus ($. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis gradibus eamdem semper servato evidentiam, ut altei um ab altero derivari clare sentias. * * Ita vitabitur paedantismus, hoc est inutile illud memoriae pondus iudicio destitutum, et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans gloriolam, de quo vide supra Part. I. Cap. 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor facili, ac naturali, non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum, quantum ideis clare exprimen dis satis est adhibeto: nec, nisi in ideis claris, quidquam tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est: quae namque ignoramus vel confuse scimus, ea nimia verborum cir cuitione explicare cogimur. Cap. IV. De Methodo. 187 4. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate, si quafuerit, liberato prius; deinde in tot membra dividito, quot ca pax est: singula attente examinato ac definito: * omnia clarissimis explica to verbis, ac quaestione quam simplicis sime exprimito. * Prae oeulis tamen habeantur, quae de de finitionibus diximus Verba: quce obscuritatis aliquid habent, adcurata definitione dctermina to, in eoque semper sensu adhibeto. * Confer quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto: 6. Ad veritatem inveniendam, quae stionemve solvendam, ne nudus princi. piorumque inscius accedito: num sorida cognitione ad id paratus advenias, se dulo perpendito. * Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis, fieri non poterit, quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae stione aliquam habent connexionem di 88 Logica Pars II. ligenter exquirito: omnes possibiles ti bifingito hypotheses: quaecumque ei lu men adferre possunt, ne rciicito sed Omnia simul colligito et comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes perpendito efinesque sectator, eaque, superflua de mendo in parvum referto numerum. Omnia deinde corrigito diuque considera to, ut tibi familiaria fiant. * Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo tradenda forent, ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra, ubi de modo alios docendi sormo erit, enodabuntur. Si quis autem metho dum hanc callere cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica, universae Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia, su pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo minus nobis illa veritatis indicia pa. teant ita, ut veram absque ulla oppositi suspicione perspiciamus. Hinc ergo est, cur in praesenti capite de probabilitate, quantum satis erit, dicere instituerimus. 143. Est autem PROBABILITAS status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis, cum aliqua tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest ratio in sufficiens, cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat, Clodium Miloni insidias struxisse. Ait enim: Clodium dixisse, Milo nem esse occidendum; 2. eum Miloni neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse, 3. idque itinere effecisse maxime expedito, et praeter consueludiuem; 4. servos cu: n les lis ante fundum suum collocasse. Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem, sed probabiliter, insufficientibus quippe indiciis, adeo ut aliqua adhuc adsit oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem esse proposi tionem, quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM, si ex alterutra parte aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM qua paucissima inveniuntur; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr; 4. omne probabile, esse quoque possibile, quamvis 5. non omne possibile dici pro babile possit. * Probabilitas enim supponit possibilitatem: quum enim probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet, exsistere vero nequeat, cui deest possibilitas, liquet, tunc de pro. babilitate qnaestionem institui posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem demonstravit, uihil aliud oneris habeat, omnemquede probabilitate contro versiai tollat. Possibilitas autem non infert probabilitatem: nam quum possibile sit, quod non involvit contradictionein (per princ. Onol. ), non ideo probabile dici potest, nisi quaedam adsint circumstantiae, quae id revera exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari quoque syllogismum probabilem. Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem; debilior vero est pro positio probabilis, prae certa: consequens est 7. ut conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit. Sed quoniam conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s. 82. seqq. ), infertur 8. ut si utraque praemissarum sit probabilis, conclusionis probabilitas minuatur pro sum ma graduum, quibus illae a certitudine recedunt. * Denique quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis, quorum unus ab altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem, in qua vel una probabi lis propositio irrepsit, non esse, nisi 7 pro babilen. * Certitudo namque in philosophicis se habet, ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae qualitatis nulli sunt gradus, ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior est vel minor provt minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas servata proportione. Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una prae missarum tantum certa sit, altera duobus gradibus ab ea recedat, habebimus conclu sionem probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a certitndine distantem: tunc enim ma ior erit Ei, minor -, quibus addie tis, babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate, sive certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse, ut duo bus gradibus a cerit udine deficiat, altera ve ro tribus; habebimus conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a certitudine recedit, quot deerant in am babus praemissis. Dem. 146. His generatim expositis, ad pro babilitatis species transeamus. Probabilitas recie dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM. De singulis pau ca delibabimus. A probabilitate differt OPINIO, quae est propositio insnfficienter probata, scilicet a principiis nondum certis, et precariis dedu cta, quae ideo est mutabilis, ac proinde po test ut plurimum esse falsa: unde opinio di viditer in PROBABILEM, et IMPROBA, BILEM, prout principia sunt prout princi pia sunt probabilia, vel precaria, omni nem pe rationis auxilio destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et. Eius au ctores sunt homines: fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et complete narrans, HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes neque experientia, nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem, nec de omnium probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur, non certitudinem, sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate freti adsensun historiae praebeamus: evidens est, historicae probabilitatis funda mentum esse fidem humanam. * Ut autem narratio historia dicatur, dcbet non modo esse fidelis, hoc est res clare, eoque, quo contigerunt, ordine narrare, sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta, circumstantias, relationes, caussas; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in nititur, estque fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve, aut fal li aut fallere possunt, ut experientia testa tur: consequens est, ut ad adsequendam probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint, quibus testium an ctoritas, factorum genuinitas, natrationuin qucque veritas dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA, sive habitus aliorum auctoritatem ad trutinam re. vocandi, recte adhibendi, factaque scienter ac sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis cri ticae officium, vulgarem sequuti opinionem, infra ad solum librorum examen atque in terpretationem restringamus; non ideo no bilissimam hanc artem cancellis adeo angu stis coarctare volumus; sed quidquid de usi auctoritatis, rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt, ea ad artem criticam: pertinere, qnisque sciat: id quod semel pro sem per observandum. 119. Quia ergo in omni narratione tria considerari possunt; narrans nempe, bar ratiun, et ipsa narratio: hinc est, ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat, scilicet i. ad homines narrantes, ad res narratas, 3. ad modima parran di. * Ab hominibus nunc ordiamur. * Atque in his, quae sequuntur, regulis tam historicam, quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus, nedum librorum genui nitatem integritatsmve expendentibus, gene rales totius críticae leges ad singulares spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo maiorem operam collocare debet, qui philosophi nomen tue ri cupit, quo frequentius in evolvendis li bris, factisque diiudicandis erit ei, re exi gente, versandum, Quoniam hominibus, licet eadem natura, non cadem tamen est perspicacia, mcrumque probitas, nec omnes iisden sensibus eamdein rem percipere possunt (per cxper. ); hoinnes autem factum aliquod narrantes testes vocantur 147. ): patet in quolibet teste tria concia derari posse, scilicet INTELLECTVM, VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur, testesa sunt vel PRVDENTES ac PERSPICACES, yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel VNITANTVM faventes, itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis perceperunt, vel AVRITI, qui illud ab aliis audiverunt; et hi denno vel Co AEVI sunt, qui eodem facti tempore vi xerunt, vel RECENTIORES qui id postea ab aliis acceperunt.  Sic Livius inter testes prudentes est referen dus: multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum parti favebat, quippe Romanus et ipse. Tandem factorum, quae sua aetate evenerunt, testis coaevus, eorum autem, quae ante conditam condendanıve urbem, ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur, recentior dicen dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione, quod attentionem iudiciumque requirit, homines prudentes et perspicaces rudioribus ignavisque esse antehabendos; promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus, non etiam iu dicio, indigentibus, dummodo in illis af fectus partiumve studium non metuatur: tunc enim rudiorum testimonium proba bilius erit; 3. testes neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri, nec non 4. oculatos auritis, 5. coaevos recentiori. bus,  inter auritos autem prudentes ru dioribus, eos tamen, ad quos ex oculato Cap. IV. De Veritate Probalili. 197 nullam esse, fide digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit, ceteris incerto alio. quin rumore ductis esse anteferendos, ac denique 8. coaevi testimonium plurium contestium narratione augeri, cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse possit, 153. Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta; observandumu 9. probabilitatem si circumstantiae adsint sibi invicem repugnantes;nihil enim impossibi le potest esse probabile (S. 144. ); 10. nullam quoque esse probabilitatem, si testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret: licet 11. probabilius id ha bendum sit, si a pluribus probatae fidei viris unico contesta narretur; 12. nulla itidem probabilitate gaudere, narrationem, quae claris rationibus -aperto repugnat; 13. non idem tamen dicendum de ea, quae moribus opinionibusque nostris ad versatur, *** nec 14. si caussa modusque ignoretur, aut vim artemque nostram su peret. Sic pleraque prodigià ab uno Livio narrata nullam merentur fidem, utpote omni proba bilitate destituta: veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum cum Albanis, Tullo ' Hostrilio Rege 1 factam, I 3 198 Logica Pars. II. in Monte Albano lapidibus pluisse; vel quando, Tarquinio Prisco regnante, Au guris Attii Nevii cotem novacula discissam refert Lib. I. cap. 25.: id enim mirabile quidem et insolitum, sed a Livio tantum relatum. Qua de re iure idem Historicus de his, fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem suam sartam tectam servat, non modo singulorum narratione, sed et in historiae suae proaemio, ubi cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur, ut potc poeticis magis decora fabulis, quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis confirm mata. nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae, quibus Mu hamedanum scatet Alkorauum, a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis manicam delapsam iterum in coelum repositam; palmae eiulatus in eius absentia, et id genus alia. > *** Sunt enim, mores pro regionum ac tem porum varietate, varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est, fortasse apud alias Gentes honestum erit, et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio: tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur, non vitio verteret The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse? Et tamen haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos. in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem, id sedulo advertendum, facta stilo simplici non oratorio aut poetico, narrari debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur, maiorem meretur lidem, quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica, politica, et practica. 153.TJAEc de fide humana, quam qui ritatis praeiudicio occupatus conseri debet. Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac Milanius, nempe PHYSICAM; quae ha betur, quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat hypotheses. 8 Probabile est, fluxum maris à lunae solisque attractione pendere: nam ex plurie. bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse, compertum est. Ad physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories: 1. ut phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea, aut clara saltem, habeatur, ne chimaeram pro re, aut nu bem pro Iunone amplectamur; 2. si phae nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam ad lydium lapidem, exigatur: 3. eius porro caussae omnes pose sibiles investigentur, et.cum phaenomeno conferantur; ac denique 4. ex iis una plu resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant. * Quum autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat: sufficiat de ea quaedam tantum hic notasse: commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA probabilitas ea est, qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones concludamus: evidens est tracta tionem hanc ad Ethicam potius, quam ad Logicam pertinere: adeoque non mirum, si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius politica probabilitas intelligi pos sit, sumamus e. g. aliquem, in quo vultus hilaritas, iocandi studium, corporis mobi litas, laboris impatientia, prodigalitas', in constantia, garrulitas etc. observentur: non ne eum statim voluptati deditum esse con Cap. V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit probabilitas politica. Lega tur interim Cl. Heineccii dissertatio: Dein cessu animi indice. Quae de probabilitate PRACTICA dici inerentur, ea fusius persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8., et Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem expediemus. Eam Rudige rus vocat, qua ex physicis vel moralibus principiis futurum aliquem praedicimus even tum. Quod quum in practica casuum si milium expectatione consistat, eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA; id quod maximo apud Politicos usui esse solet. * * Politici namque in gubernandis rebus publi cis probe versati probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem, propte rea quod aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint: adeoque a simi Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem. CA habetur, quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus. Saepe enim accidit, ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant, quae multiplicem sensum ad mittunt: tunc ex auctoris fine, verborum significatione, locorumque collatione pro babiliter colligitur, quidnam auctor ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri potest per habitum Auctorum loca interpretan, di, sive eorum sensum eruendi. SENSUS AUCTORIS est ceptus, quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur, qumun ex legitimis principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas auctorum loca inter pretandi; consequens est 1., ut eius sit genuinum auctoris sensum erue Te; adeoque 2. regnlae tradantur, opor tet, quarum ope sensus ille quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v. De Veritate,probabili. 203 Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint: non mirum, si a canonibus huic sectioni subii.. ciendis abstineamus, quippe qui superflui omnino forent, et loquacitatem potius, quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam, qua scriptor conceptus suos expressit, eiusque idiotis, mos probe calleat: adeoque patet 4. falli eos, qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus translationibusque fidunt; 5. ut ad scriptoris sectam, finem, affectus,mu nus, aetatem, gentis suae mores ' attendat: unde 6. integrum Auctoris systema prae oculis babeat, ac de eo secu dnm dome sticas notiones, non ex propriis opinioni bus, iudicium ferat., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct, inquit Vir eruditissimus, nostrarum opi nionum veluti oblivisci, el quaerere, veteres illi Magistri senserint non quod sentire dcbuisse nobis videniur, ut sape rent. 162. Ex eodem principio fluit 7 inter pretein affectibus, praeconceptisque opinionibns omnino vacuum esse debere; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare, sed antecedentia et con sequentia attente conferre: multoque ma gis y. loca parallela auctoris eiusdem sol licite comparare, ut quod obscuritatis ir, repserat, statim evanescat. Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem om ne momentum ferat attentio (m. 19. ): sequitur 10. ut qui librum aliquem probe interpretari vult, eum attente atque ordi ne legat, et codicem habere ' curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat editio, ratio in promptu est. Videmus enim, quam multis scateant erroribus edi tiones quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis, ut Delio saepe notatore opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris claris, qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno Hermeneuticae adiumento est Ars Critica: non abs re fuerit, pauca de hac illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus, communi sa pientum consensu probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus trademus ut quantum fieri pote rit, libros genuinos a nothis, integros a corruptis discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa, si Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est Clericus, quo'nemo elaboratius eam pertra ctare, operaeque pretium facere posset. Nos autem tironibus scribentes, notiones maxime genericas jis suppeditare adlaboramus; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium, et matura aetas, omnia, quae hoc super argu mento scienda forent, in eodem Clerico legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi, 20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras notiones genuinitatis, et in tegritatis librorum in legentium animis excitare. * Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque ea in re generales tironibus suppeditari: latiori Damque significatione tam historicam proba bilitatem, quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta, yeluti per lancem saluram, ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur, qui ab eo, cuius nomen prae se fert,-. fuit exaratus; SUPPOSITUS autem, qui ab alio, quam cuius nomine insignitúr, scripius est. * Liber dicitur INTEGER, si tantum contineat, quantum Auctor in eo descripsit, CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit, vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS; sin den tuni, MVTILVS appel. latur. si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus: nempe Librarios (dictantes perin de, ac scribentes ), Criticos, impostores, tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat. 166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus ex ponemius regulis, quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo. CANONES t. " S " ppositum habeto librum, qui in vetuslis codicibus alii tribuitur Auctori; interpolatum, si in aliis de sideretur, quod in eo reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint, ea vero nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur: aut alius esto, aili muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant, genuinus esto et inte ger, nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber, cuius nulla fit inentio in veteribus catalogis, aut a scriptoribus proxime sequentibus, plerumque fictus esto, cut saltem suspectus,. 209 Logica Pars I. > 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata, nequit recentio, rum auctoritas, nisi gravissimis rationi. bus,, pro genuinis admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária, quae scriptor cuius nomen praefert, alibi constanter defendit, ut plurimum aut spurius esto, aut interpo latus. 6. Idem iudicium ferto de eo, in quo personae, facta, uut nomina com memorantur Auctore, cui tribuitur, recentiora. 7. Spurium quoque aut interpolatum iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae, vel adest scriporis imitatio. 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis scatens, aut ineptus, viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi, in quo ille vixit, spurius esto, eiusque censendus, ius stilo est conformis. In. Vocabula recentiora Auctorem arguunto recentiorem, aut libri interpo Talioncm: in translatione vero, si ni hil est quod sapiet linguam, in qua scripsisse constat Auctorem, cui tribyi: utr, translatio non esto, cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis: sed res est maximi momenti, et nimis implicata, nec in stituti brevitas eam disquisitionem patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica, ubi plurima inveniet suo gustui. adcommodata. Id interim notasse sufficiet, in hisce omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam, adeoque in errores prono cursu la bamur CAPVT SE X T V M. De Veritatis inquisitione. 167. Sendus pecialior Logicae usus nunc evol vendus, nempe PRAXIS, qua mentis nostrae operationes sint in verita tis investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per meditatio nem rite institutam; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam revocatur. Quia vero nec meditationi, nec bonae lectioni par est, qui hasce lautitias nondum degus tavit: Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti adolescentes et recte mea ditari, et libros cum fructu legere dis cant. Quumque nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere: de duobus his veri tatem inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque, quum cogitationes nostra's bonae methodi legibus g. 138. seqq. ) ita dirigimus, ut veritates ex veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur 1. ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione, tantum optima methodus a medi tatione distet,. meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur (S. 141. ), callere debeat; adeome 3. eo felicius meditetur, quo exactius leges illas esequitur; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus, ut ex ijs veritates aljas erue re legitime possit (S. 167. ). 5. Tirones ergo, aliique bonae methodi, veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti. * Cui enim serei principium deest, nullo mo do seriem ipsam, hoc est veritatum catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat, quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat, nec illas recte disponere, nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad bonam methodum requi ritur idearum claritas (5 141. cap. 3. ); ad claritatem autem confert attentio (S. 19. );consequens est 6. ut qui feliciter meditari vult, attenitonem praecipue colat; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis indubiisqoe principiis (S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad principia referantur praecipue de finitiones (f. eod. ): recte consequi tur 9. ut res de qua institui vult mcdi. tatio, edcurate definiatur, f. 141. cap. 5. ), ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen, quae de definitionibus (Par. I. Cap. 3. ), et divisionihu:s (Cap. 4. ) docuimus, et quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam axiomata et postulata enumerantur (S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex definitionibus axiomata eruendi, * ut om nes principiorum species probe tencat. Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic adden dum. Tribus quidem modis id effici posse certum est: scilicet PARTIS OMISSIONE, nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac definitio ne: Invidia est taedium ob alterius felicita tem, omitte genus, et habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius: omitte differentiam, eritque aliud axioma: Invidia est taedium 2. INVERSIONE, si definitio in definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit est invi. dus 3. CONVERSIONE, si aientes pro positiones in negantes convertamus E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium, -non esi invidus; vel eum, qui non est in vidus, alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein ratione conficiuntur, si nempe modus exprimatur, quo quid fieri potest: sed ea melius ex realibus, quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea dem definitione habebis postulatum: Invidia excitatur, si invido alterius felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis, opor tet il. ut ex eorum collatione THEO REMATA, vel PROBLEMATA compo nantur, j 12. et unde consequentiae im mediatae sese offerunt, COROLLARIA deducantur, vel 13. ubi maiori explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213 Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3. Sect. 2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis (§. 171. * confectis erui poterit theorema: Invidia oritur ab odio, et similia. Pari mo do quia Problema est propositio practica, eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema: Juvidiam in altero excitare; cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo invidiam excitare vis, ala terum odio prosequatur, cuius inde felicita tem ei ostende: ex ea namque taedium per cipiet, adeoque in eo invidia excitabitur. Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur corollaria, veluti ergo qui tae dii non est capax, invidus esse non potest: item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat, ei non invidet; atque ita porro. 173. Haec omnia vero praecepta, ut aemoriae infingantur, brevissimis ample temur regulis, quas, qui sequuntur, shibent 214 Logica Pars II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert, exa cte dividito. 2. Ex definitionibus axiomata, item postulata deducito, atque ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito. 3. Plura principia vel antecedentes propositiones mutuo conferto, et sic theoremata vel problemata efformabis, ex quibus, quae haberi poterunt, erues consectaria. 4. Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato, et id agito, ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates, novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est, qua met hodo ratiociniorum series in ordinem rediga tur, modo regulae alias ($. 141. ) propo sitae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione, ei usque legibus, quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap. YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re gulas vellet addiscere, ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente legen da foret, eaque in syccuin et sanguinem vertenda. Interim ad auditorum nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus, quo facilius artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi addncemus pulcherrimum. Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus, absque librornm auxilio, sequentem instituens meditationen, haec habibit. §. I. Ex casuum sin vularium observa tione g. 124. seq. ) critor Amici DEFI TIO: Amicus est persona, quae nos amat, f. II. Ad definitionis porro notas atten dens quisque videt, notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc noya definitio eraalur. Sic. amare alierum nihil aliud significat, quam ex alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo, quo diximus, artificio axiomata de dacantur. Et quidem ex prima definitione (1. ) fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum, ad amicitiam ei praestan 116 Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor, ibi nulla omicitia. 5. Quamdiu durat amor, tamdiu durat amicitia. 6. Qui efficit, ut ab alio ametur, eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8. Quid quid amorem impedit, amicitiam tollit. 5. IV. Ex amoris defimtione ori untur sequentia. 1. Qui alinm amat, ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan, obligatur ad alte rum amandum. 3. Qui iubet, ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus, alterum, iubet, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem, ex alterius felicitate capiendain, promovet amo rem. 5. Qui illum impedit, hunc sis tit. V. Collatis inter se duabus illis de. finitionibus, nascitur. THEOREMA. Amicus alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat, alterius felicitate delectatur (s. 1. ): amicus alteruu amat (§. III. cud 1. ); ergo amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI. Ex quo inmediata consequutico ne cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV. De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1. Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus, quum taedii facta sit mentio, perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus, qui, ex alterius felicitate taedium percipit misericors vero, quem alterius infelici. tatis taedet. $. VIII. Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus. DEMONSTR. Invidus enim est, qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur (S. VII. ): Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus. THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR. Taedium enim percipit x personae amatae infelicitate ) $. II. or. 2: ): quod quum dicatur coinmise atio (5. VII. ): amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm. §. IX. Nova rursus inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo nescit Tom. 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius vices, eumque ab infelicitate, dum potest, non vult eri pere, non se dicat amicum. 6. X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo rursus notas voluptatis et felicita tis, maxima enunciationum seges adpare bit. Sint ergo. DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2. For licitas est status durabilis gaudii.. XI. Ex quarum prima oriuntur AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem, earumque repraesentationem. 2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in altero promovendum, obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet primum, praecipit secun dum. §. XII. Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1. Qui alterius felicitate dele ctatur, ex eius statu durabilis gaudii voluptatem capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii promovet, eius felici tatem promovet. 3. Qui illud iubet, hoc quoque iubet. 4 Quicumque obligatur ad primum, obligatur ad secundum. 1. XIII. Conferantur definitiones cum antecedentibus, indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus alterius feli citatem sibi, tamquam bonum, reprae sentat. DEMONSTR. Alterius enim felicita te delectatur ($. V. ): quod quum fie ri nequeat, nisi illam sibi, iamquam bonum, repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam bonum, repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis gaudii. DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero sit status durabilis gaudii (S. X. def. 2. ): ex hoc patet, amicum, quo que va luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi, tamquam bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur (per theor. 2. ), quod fieri non potest, nisi id, tamquam bonum, sibi repraesentet. Ergo amicus alterius gaudiun durabile si bi, tamquambonum, repraesentat. §. XIV. SCHOLION. His praemissio succurrit lex appetitus, qua anima id, quod sibi, tamquam bonum repraesen tal, adpetit, et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici tatem, idest gaudium durabile, adpe tit, et promovere studet. DEMONSTR. Omne, quod nobis, tamqnam bonum, repraesentamus, ad petimus et promovere studemus (XIV. ) amicus sibi alterius felicitatem statum que durabilis gaudii, tamquam bonum, repraeseníat: er go ea omnia adpeiit; et promovere stil det. *. XVI. Ex quo, sponte manant, COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet, quae alterum taedio affi ciunt 2. nec ullam omittit occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem promovere possit. S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret. DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum perfectionum grta. 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius gaudium du rabile promovet, eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius enim gaudium durabile promovet ($. XV. ), quod idem est ac promovere eius perfections.  F. XX. SCHOL. Est autem legis Natu rae iussum: Tuas aliorumque promove to perfectiones. S. XXI. Jude ergo oriuntur. COROLLARIA. 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo obligati sumus ad amicitiam colendam, 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini. micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est, ut aliis simils amici. etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod si modilatio aliquamdiu proferretur, dici non potest, quot novae propositiones exurgerent. Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint, aut nostra nos fallit opivio, aut sine multa lectione, brevi tempore, minimoque la bore Philosophi acutissimi evadent. K 3 2? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit limitibus circumscrip tus, atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione eruendis incapax:facile est and intelligendnm, cur aliorum scripta le genda sint, ut quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non omnia ab omnibus adcurate scri pta, plerique etiam intellectus voluntatis vitio laborant, ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis eorum libris, ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere, quibns in jis ad examen revocandis, dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis mens dirigatur: id quod in praesenti se ctione docendum. 175. LIBER est aut HISTORICVS, aut ŚCIENTIFICVS.Ille, in quo facta, seu enunciationes singulares; hic, in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam, Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 223 nihil, nisi duorum, quae enunciavimus, ar gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio, cur libros omnes in histo ricos, et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA, quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio (S. 147. ), facta vero vel Naturae opera, vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam, vel deniqne litterariam Rempublicain spectent, esse potest NATVRALIS, ClVILIS, ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA. * Rursus quoniam omnium, aut quo rumdam, vel alicuius ex quatuor illis, fa cta refert, dividitnr in UNIVERSALEM, PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat, altera hominum vices et facta commemorat, iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat, po strema vel disciplinarum et librorum, vel eru ditorum vitas et fata omnia refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS, si omnia in ea Naturae opera eno dentur; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno vegetabili, fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae, lapidis, metalli, aut viventis inventio, usus, incrementum etc, narrentur. K 4 224 Logica Pars II. civili, ecclesiastica, et litteraria, de quibus plura coram 177. Quia libri vel scripta ideo. legun tur ut veritates ab aliis inventae et dete ctae discántur (5. 274. ); ea vero verbis referta sunt, ut auctoris sensus intelliga. tur (§. 160. ), idest eaedem ideae ver bis adsignentur, quas Auctor cum iis con iunxit (S. eod. ): per se patet genera lis in legendo servandus. CΑΝΟΝ. IMN legendis, aliorum scriptis curato, uit easdem notiones cum verbis con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima consequutione na scitur i. in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad definitiones, quibus sin gularum significatio determinatur, vel and conceptum ab usu loquendi tributum 11s, quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus (9. 19. ): se quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio, crebriorque repetitio, in libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria potis simum spectantur, nempe veritas, ordo ac finis, facile patet 3. in libris histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem, ad eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis regulae traditae sunt($.152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum, tuna in temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca suppeditat GEO GRAPHIA, circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum ex üsdem scriptis abunde patebit, adeoque, an ei res pondeant, ex eorum lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra adcurate describere, phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna, partiunqne nexum di stincte exponere; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas exemplis et factis con firmare; Ecclesiasticae scopus est, statum Ecciesiae, incrementin, in file costantiain, in profligandis erroribus - prudentiam Su premi item Numinis, in ea conservanda au gondaque Providentiam, 2 gelis, ostendere; Litteraria? tandeſ, inveniendi arlena, quam EVRISTICAM vocant, aptis aliaque id K 5 226 Logica Pars II: subsidiis, et veritatum a veteribus invenla rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo, restat ut attente legatur (S. 178. ) statimque innotescet, utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum scientificorum lectio ne sat erit, si pauca degustemus. Quo niam in scriptis didacticis methodus reqni rit, ut nullus adsumatur terminus, nisi notionem habeat sibi adiunctam, atque ut ea praemittantur, per quae sequentia in telliguntur: consequens est 4. ut in iis legendis singulae veritates prius in classes dispescantur, ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu de deductis pertincant; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore ad fixas attendatur; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi reddat familiares, nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat, in quibus vi. deat, si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum, de quibus sequenti capite age. mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri absolụtam et continuatam libri lectionem, Cap. VII. De l'erit. comm. 227 attenta mque veritatum earumque nexus con templationem: * quae omnia si desint, le ctio dicetur SUPERFICIARIA. * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati, qui in dijudicandis per tabernas comoe diis scurrilibus, aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt; vel adolescentuli vo culis tantum, phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti, qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem laboris patientia, attentio, mens methodo ac meditationi adsuefacta, non vero in expen ex. dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare, non est no bis solum nati sumus, adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus: veritates a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt, aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum cognitionem perducit, is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium. Vid. Cic. de Fin. Lib. II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum, qu am a Cicerone de Offic. Prooem. usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono, ut aiunt, alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus: vulgari namque ser mone tritum est, Magistrorum alios esse vi VOS, alios mortuos, qui Scriptorum vel Auctorum nomine distinguuntur, ita ut libros melonymicę magistros mortuos vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur, vel scripto exaranțur (S. 42. ): patet, duplicem esse docendi modum, vo ce scilicet, atque scriptis; adeoque MA GISTRUM dici debere, tam eum qui li þros in lucem edit, quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus eum, qui scripta didactica (de quibus hic tantum ser mo est ) conficit, SCRIPTOREM vel AU. CTOREM; eum vero, qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM, DOCTOREM, MAGISTRVM dicemus: idque ad evitan dam confusionem, atque inutilem verborum repetitionem. Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus sectiones, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun. 229 se esse usque virtutibus ac vitiis aliqua dicere posse mus: nunc, quae utrique communia sunt, dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est, alios ad ignotaruin veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de veritatibus certi reddendi sint, adeoque 2, indiciis sufficientibus at que inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ($. 1: 4. ). quod ut fiat, 0 portet 5. ut docens ab iis intelligatur, ideoque 4. sit perspicuus, ad quod requiritur 5. ut artein, in qua versatur, distincte intelligat * ($. 24 ) 6. bonam methodum rigide servet (. 138. seqq. ), 7. et si quid implicatum confu suinque occurrat, distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae est, si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta artis suae docens cognitione gaudeat, fieri non potest, ut eius praecepta perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio, qua al terum de veritate certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope (. 133. ) quisque videt, convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios de veritate, quam docet, debere convincere, ** ac proinde 9. pro babilibus argumentis uti ei non licere: *** nisi res talis sit, ut sola probabilita te cognosci possit. * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur demonstratio vero est vel directa vel indirecta, (132. ), vel a priori vel a poste riori ($. 131. ): non abs re convictioni ea dem nomina, prout veritates demonstrantur, a Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in convincendo ani mum sese insinuet, oportet, ut iHe sit atten tus, in demonstrationibus versatus, et talis; qui rationum momenta perpendere possit. Quapropter solidis demonstrationibus, non conviciis, irrisionibus, dictisque iniuriam in ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt, et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO, quae quum sit rationibus insufficientibus innixa, convi ctio dici nequit, quippe quae a convictione longe multumque distat. " Hinc vides, convictio sit Philosophcrum propria, perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero Oratorum, qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur, quan tum sufficiat ad caussam probabilem redden dam, de quo conferendus est Cicero de In vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur, methodique cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse soliditatem, adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque, ac docendum ineptos. * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De Librorum dotibus. IBER, in quo veritates continen tur, SCIENTIFICVS dicitur, alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM. Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS, et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate, ac deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate. Solidus ergo dicitur liber 1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ($. 150. ), 3. si propositiones singulae rig de sini demonstratae, si bona me thodus in demonstrando adbibita  pec in demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle ctae, tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca rere litterariam, foret maguopere optandum. 189. PERSPICVITAS in verborum pro prietate, iustaque eorum cum ideis pro portione sita est. Verborum PROPRIETAS es'git, ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit, ut liber non sit prolixior, nec brevior, quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit: ita et nimia brevi tas Auctoris sensum occultat, adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam. Stili culiior. Part. S. cap. 2 §. 50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex veritatibus et principiata, ut aiunt, ex principiis legitimo et continuo sint deducta, nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur; denique si ea praecesserint, per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat Auctoris fin i suf ficientes: qui namque finem non ahso lvit, INCOMPLETVS adpellatur. * Longum valde foret, si sufficientiae particu lares characteres, hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen generales eiusdem notas evolvisse: id enim ex attenta cuinsque libri lectione quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se connexurum, et a prin cipiis suis legitime deductarum. Et quia id quatuor, quas recensuimus, dotibus absolvitur: hinc est, ut Logici dicant, librum quemcumque scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros scribunt systema conficere possunt; sed ii tantum qui veritates a se detectas, et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt. Eorum autem, qui alienis laboribus insudant, alii sunt COMPILATORES, qui aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt, mulla ordinis habita ratione; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt. Et hi qui dem reprehensionem numquam, quandoque vero laudem (illi praecipue ) ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam, qui aliorum scripta suffurantes ea typis man dant, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt, iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum, sit, omnes no runt. SECTIO II. De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur, qui alios voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus, qnas tradit, certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu, par tim a natura, partim a voluntate penden tes, sunt quatuor: ab intellectu SOLIDITAS, et in doendo PRUDENTIA; a na tura DOCENDI DONUM; a volnntate ve ro AMOR. De singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is, qui doctoris munere fungi vult; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret, at que propositionum omnium sive a se, si ve ab aliis enunciataruin analysin instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur, aegre ab auditoribus au dietur, quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est, vel laboriosa: adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores suos de veritate cerlos reddere debet (S. 184. ); ad certitudinem autem ducit demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in fructus ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat. Et quia au ditores convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6. Doctorem DOCENDI DONO in. signitum esse debere, idest dicendi promti tudine et suavitate, quo deficiente, ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II. parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus, cavere debet qui eum docet, ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit, si verborum inopia, dicendi infelici tate, animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi suavitate ac promtitudine senserit destitutum, ei auctores fuerimus, ut cendi munere se abstineat, si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non eadein omni bus est adolescentibus perspicacia, que non tam voce, quam exemplo erudiuntur: liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad discentium captum ge niumgne adcommodandi. ac media ad fi nem rite disponendi, nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque iis pracheat antecessorem: praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur institutic, animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. * Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent, nequicquam laborum suorum fru ctum exspectabit, et adolescentes exemplum potius malum, quam bonam vocem sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil, praeter praeceptoris imitationem, prae se ferent: quum bene monuerit Iuvenalis: Omnes duciles sumus pravis ac turpibus imi tandis suos.Postrema doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate inserviendi promtitudine, patientia patientia, et labore haec auien omma nisi ab iis, qui nos amant, sperare non possumus: recte infertur 10. doctorem sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11. et studio; 7 commoda promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore virtus, ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat, et studium deerit disceniium utilitati inserviendi: ac proinde pro doctore exsurget mercenarius vel utilitati, vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec morun ratio umquam habebitur, et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si haec omnia ponantor, habebimns magistrum, vel leo poribus inservientem, in muneris exercitio ne gligentem, timidum, sui dumtaxat studio abreptum, et ad vilissima quaeqne facilem; vel inaccessibilem, clatum, ' omnia sibi per mitientem, quandoque etiam garrulum, ét e cathedra, tamquam e suggestu, aliorum no mina lacerantem, quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si virtutum quas recensuimus opposita evolvautur, illico doctorum vi tia ad parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA, idest artis methodique-igno. ratio. Huius effectus sunt 1. obscuritas, qua fit, ut talis doctor terminis inanibus, vagis obscuris, nec recte definitis sit con tentus, resque difficiles exemplis illustrare nequeat: 2. confusio quae methodi negli gentiam, analyseos ignorantiam, ac con vincendi impoientiam parit: 3. docendi ineptitudo; quum enim ars ignoratur et methodus, deficit prompitudo et suavitas, quibus ducendi donum absolvitur * (S. 95.): 4. molesta prolixilas, aut obscurabre vitas; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur, quo fit, ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum omissio, quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea (S. 103. * ): 6. ser monis barbarics, cui proxima est obscuri. tas et taediuin, adeoque ad minuendam ten dit attentionem. Cap. VII. De verit. commun. 239 * Non desunt equidem, qui naturali quodam suavitatis defectu laborantes nec genio, nec captui auditorum se accommodare sciunt, li cet doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit: me diorum tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo caussa non alia adsignari debet, quam impe ritia, scilicet soliditatis absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est IMPRVDENTIA in do cendo, quae in caussa est, ut auditorum Caplui genioque se adcommodare, atque media ad finem ducentia excogitare, ac proinde animis morbo aliquo laborantibus mederi nesciat. * Quae enim prudentia in imperito? Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas, qua inter se invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes, vel aliis invidentes discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones dicacitatesque concitant: quo fit, ut ipsi in spretum et abietionem incidant, adolescentes contra pessimos, audaces, ridiculosque mo res induant. 240 Logica Pars II. 200. Ad voluntatis vitia, quae amorem excludunt, referuntur: AMBITIO, si ve nimia gloriae laudisque cupiditas, qua fit, ut vana eruditionis, autº eloquentiae ostentatione, nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non explicentur, sed implicentur, propriaeque existimationi potius, quam discentium utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA, quae omnia trabit commodum efficitque, ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi: VOLVPTATIS CONSECTATIO, quae ignaviam, laboris im pa tientiam oilierique neglectum parit, atque soliditatis defecium arguit, quum bene monterit Genuensis.noster: difficile esse reperire hominem vere doctum simul autem et mollem, ad suum > * * * * Inde quoque fluxit Cynicus iile mos, et ef fraenis alios lacerandi consuetndo, quae in caussa fuit, ut de quorumdam adolescentum petnlantia ad satyras proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint: videbant enim pravam consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam paullatim ac cor ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa docentium praesumtio, qui, ne discipulus supra magistrum esse vie deatur, vel aliquot sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun. 241 bi solis reservant, vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit, eosque opinionum singularium et ab surdarum, saepe etiam impietatis studiosos efficit: id quod maximo adolescentihus detri mento est, praecipue quum auctoritatis prae indicium altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae studet, non aliorum, sed sua tantum commoda promovet, idque per fas an nefas, nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes, vel praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum instruunt, ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque praedilectione prosequuntur, ut se aliorum odio, invidiae vero illos expo nant, adeoque nihil neque hi pro. ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati nanque dediti plerumque sunt ignavi, desides, et laboris impatientes; atque inde fit, ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis, ut Servator ait, os loquitur, bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat etiam meticulosi, adeoque veritatem, quam alias intrepido vultu, si ri te munere suo fungi vellent, dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom. I. L neque illi reni, ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant, aut tegunt, aut (quod val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula quaedam et thrasonica reperitur ambitio, scilicet paedan tismus', quo furentes nusquam, nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum, que risui se exponunt. 201 • Superest, ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus, ut si qui munus hoc inire cupiunt, bene incipere, feliciusque prosequi possini. Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis, hos diligenter observato: CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius, ac vitia, quibus eos laborare per cipis, prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus, nisi solida artis methodique cognitione imbutus, ne te mere suscipito: idque summa fidelitate, prucuttia, ac sincero erga discentes amore absolvito. 3. Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm. 243 busque disciplinis non tam voce, quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que, teste Augustino, docendi genus est subiectio exemplorum. 4. Religionis amorem, morumque in tegritatem in discentibus foveto, neque te illis familiarem nimis reddito, ne, excusso subiectionis fraeno, doctores parvipendentes nihil proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. ", SECTIO III. De Discentium dotibus ac naevisn's 202, Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi; solidache imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a praeiudiciis: Quidquid ergo attentionem tur bat, vel praeiudicia fovet, ab iis abesse debet. 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA NENS, DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR,  LABORIS PATIENTIA et otii fuga, + 6. de. nique ANIMI SOLITUDO. It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem ingenii perspicaciam, cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem, verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem: quum Divino oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini.  Hoc est libertas a praeiudiciis,ut supra di clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda, et ad pra xin adplicanda. ID adeo * Si namque Doctores et studia amemus, his sedulam navamus operam, illosque atter te auscultamus: si vero amor hinc absit, taedium supervenit., attentio minuitur, que aut parum aut nihil in studiis profie mus. | Laboris enim impatientia ignorantiae cause est, ut dixiinus; quoniam veri tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero perinde ac lectio laborem cai gunt, ut ex superioribus abunde constat. De verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit: adeoque solum oportet esse, qui sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia, qualia sunt 1. Religionis spretus, quem conse quitur voluntaria praeiudiciis adhaesio, 2. mentis hebetudo, 3. attentionis distra ctio, 4. otium et laboris impatientia a dolescenlibus familiarissima, 4. aversio a studiis vel doctoribus, 6. denique spe ctaculorum, multitudinis, et sodalita tum amor, quo fit, ut attentio distraha tur ($. 40. Schol. Can. 5. ), et ad voluptatem inde ac perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur. Hae disceptationes similiter vel scriptis, vel vo. ce liont: et quidem SCRIPTO, vel alio rum errores confutamus, vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus: VOCE autem rationes utrinque conficiuntur, et ad examen revocantur. Si ergo alterius errores scripto detegantur, actio haec dicilnr CONFITATIO; si pro positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem propositionis, quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a posteriori, directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse simul vera et falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est. propositio nem legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam vero confutatio instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur, cuius veritas, licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur, adeoquc insurgit quaestio de verbis. Vid. Weienfelsium de logomachiis eruditorum. Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia probabilia et precaria, tunc non con L'utilis, sed IMPVGNATIO dicetur. Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici, ut eius veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio, id quod infra in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein requirit, ut con vincendus sit attentus, nec adfectus in eo attentionem turbantes exciteptur: liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in altero per turbant, atque adfectus excitant, vitare debere; consequenter 6. a conviciis, ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi famam laetlunt, abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE, quae non quidem ex genui no Auctoris sensi, sed ex confutantis opi nione eruuntur, quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur, sed ut adver sarii fama in discrimen vocetur, isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. 208. Qaum ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient ($. 207. *, ) eique invidiam creent: non abs re a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt. cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA ductum in confutando sollicite esse vitandum; a deoque 8.non abs re consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari. * Logic. Lat. pag. 752. Idque iure merito. Nam confutator vere dicitur, qui veritatem ab al terius paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem, sed adversarii famam perse quitur, nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id non rationis auxilio, sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in confutante solius veritatis amor exigitur: ut in con futatione nihil vel minimum peccetur, hos qui sequuntur, servare curato. CAN ONE S. I. A, D confutandum solo veritatis a more, non odio adversus alte rum ductus accedito. Adversarium soli dis rationibus non conviciis, dictisve famae nocentibus de errore et falsitate convincito. 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius scripsit, ut dictionem corriagat, seque intelligendum praestet, ad wertito. Si quid ab altero in demonstran do peccatum, sive principia falsa sint, sive connexio illegitima, cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis rigidus custos principiorum diligens investigator esto, ne tibi ab adversario nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI, QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio. Ex eadem ergo definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit, ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide demonstrare, aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit, eos adcuratis definitio nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus, vel Cap. ult. De litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus. Pri mae classis seripla dicuntur APOLOGE TICA; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin, * Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam que nec veritas invenitur, nec ratio perfici tur, sed contentiones animique perturbatio nes aluntur, nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis, ac iuventutis studiosae malo.? 211. Defendenti ergo, ne a recto. aber ret, Sequentes proponimus., C ANONES. 1. PhoRopositionem a te légitime demon Stratam, aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito?? 2. Eius, qui te maledictis conviciis que laesit, scriptis modesto respondeto silentio. * la cedendo victor abibis. * Si namque simili stilo, respondeas, nullum operae pretium facies, adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis, inque idem vitium incides, quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis, in eo tua versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris, sat est eius malitiam et nocendi studium ostendere teque commiseratione potius, quam ira per citum perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit, eum te explicasse sufficiet: si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet: si in demonstrationibus te ar guere velit, earuin legitimam connexiouem prae oculis ponere; si vero aliqua consequen tia absurda tibi impPombaur, aut ipsius conse quentiae veritatem, aut eam ab adversario non recte deductam, demonstrare debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit, te tacente veritas ipsa loqietur, tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet. SECTIO III. 7 212., 18. De Disputatione. A D veritatis tandem disquisitionem acMilanius, quae non scripto, sed voce fit, quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO -aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur, quarum una propositionem'impugnat, altera eamdem defendit, tertia vero huic suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat, OPPONENS; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat, DEFENDENS, vel RESPONDENS; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert, PRAESES aupellatur. 1213. Ex qua definitione liquet 1. di-, sputationem esse impugnationem proposi tionis veraen eiusque. defensionem; ideo que 2., utramque demonstratione absol vi, ut disputantium alteruter de veri tate convincatur; quare 3. quidquid ge neratim de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur, prae cipue vero 4. status quaestionis formandus  et 5. oportet, ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7 affectibus carcant, odio, praesertim et invidia, Non enim ad rixandum, sed ad disputandum. descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt, quibus attentio turbatur (S. 207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse, ne ira odiove perciti tantum absit ut veritatem inveniant, ut potius.a convicis ad manus transeánt. Ex eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto. riis versari, hoc est ut idein ab uno a d. firmetur, ab altero negetur'. Et quia idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat, eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA est, vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere, haeć syllo gistico more conficitur. In illa opponens disscrtatione quadam propositionis veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit, ihesiique defendit; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem opponens inpugnat, ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit, falsas negat, dubiasque distinguit, eoque progre diuntur, donec ad principia perveniant.Addi potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus, et Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem ab usu recesserit: ab eius explicatione merito ab stinemus: in ipsis tamen praelectionibus, quae de ill a dicenda forent, paucis expe diemus. Vides ergo methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem, quum homini pede stanti in uno ñec eruditio, nec verborum copia praesto esse possit, Dialectica metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit disputantiirin munera paucis expo nére: id quol sequentibus exequemur re gulis. Et primo quidem amborum, dein de opponentis; postremo respondentis mu nia recensebimus. Quisquis ergo ad dis putandum accedis, hos religiose castodito: Phim Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ). Nihil porro, nisi terminis claris fixisque expressum, in e am incidito. Obscura quaeque explica to. 2. Dispu'ans adfectibus vacuus, veria tatis tantum amans, eiusque invenienda cupidus esto. Cuncta modeste, suaviter, amice proferto. Convicia et dicta mor dacia, velut angiem, fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto. 3. Quacunque meihodo thesin aliquam adoriris, syllogisticam artem cuidi ha beto. Argumentu solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito. Conclu sio thesi impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo nitur explicandum, explicato: si vero probandum, tamdiu syllogismorum, au xilio probato, donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et distinctiones attendito. Si illa obscura sint, illi explicanda dato; si vero clara, Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas exceptiones, prout res tulerit, contra formato. Praecipue videto, si ad versarium ex assertis suis convincere et refutare, proprioque, ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est, quod vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de intell. bum. IV. 17., qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus litterariis, quae coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione fusius supra tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum opponentis prius repe tito, deinde sedulo perpendito, num de bila gaudeat soliditate. Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur, probatio nem postulato. 7. Syllogismum in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones falsas negato, veras concedito, dubias vero distinguito: sed de omnibus rationem reddere memento., ne ridiculas, evadas. 258 Logic. Pars. ii. Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega, numquam concede raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis, vel ut ne gationis caussam adferas, vel ut lucem quo que neges meridianam: utrumque homini sen sibili acerbissimum.. 8. Si oppositae propositionis impossi bilitatem demostrare possis; nihil ultra oneris habebis. Si vero in auctoritate probatio ' versetur: sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus re fellere. 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit insidias: ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi regulac usu magis ct exercitio, quam praeceptis, ad discuntur '. Si tamen dicendum quod res est, in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas, sed promtitudo, immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius, quam invenitur: Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru. in Plit. instrum. Pur: III. Cup. 3. g. 11.  AN     OUTLINE     OF     SEMATOLOGY;     OR     AN ESSAY     TOWARDS ESTABLISHING A     NEW THEORY     OP     GRAMMAR, LOGIC, AND RHETORIC,     " Perhaps if words were distinctly weighed and duly considered, they  would afibrd us another sort of Logic and Cretic, than what we have been  hitherto acquainted w4th." — Locke.     LONDON :  JOHN RTCHARDSON, ROYAL EXCHANGE.     1831.     G WOODPALL, AHQEh COUBT, •KllfWl* tTRWT, LOWDOH.      ADVERTISEMENT.     I PUT not my name to these pages, nor shall  I, beyond this notice, speak in the first per-  son singular, but assume the pomp and cir-  cumstance of the editorial "we". Why I  choose for the present to remain unknown, I  leave the reader to settle as his fancy pleases.  He is at liberty to think that, being of no  note or reputation, and fearing for my book  the fate of George Primrose's Paradoxes, I do  not place my name in the title page, because  it would inevitably make that fate more cer-  tain. Or, if he chooses, he may imagine a  better motive. He may suppose me to be  the celebrated author of ***** *, with half  the alphabet in capitals at the end of my  name ; and that I prefer an incogfiito, lest  he, my " cotirteous reader", should relax the  rigour of examination, and receive as true,  on the authority of a name, a theory that  may be false.     OUTLINE OF SEMATOLOGY.     INTRODUCTION.  In the last chapter of Locke's Essay on the  Human Understanding , there is a threefold  division of knowledge into ^uo-t*^, TrpaxriK^,  and trtjfieiaTiK'^. If we might call the whole  body of instruction wliich acquaints ua with  TO. <f>v<TtKa by the name Physicology, and  that which teaches to -irpaKTixa by the name  Practkology, — all instruction for the use of  TO <7?j^aTo, or the signs of our knowledge,  might be called Sematology *.   * Physicology, far more comprehensive than the  sense to wliich Physiology is fixed, would in this case  signify the doctrine of the nature of all things what-  ever which exist independently of the mind's concep-  tion of them, and of the human will ; which things in-  clude all whose nature we grow acquainted with by ex-  perience, and can know in no other way, and therefi>re  include the mind, and God ; since of the mind as well  as of sensible things we know the nature only by ex-  perience, and since, abstracted from Revelation, we  know the existence of a God only by experiencing His  providence, Practicology, the next division, is the  doctrine of human actions determined by the will to s  preconceived end, namely, something beneficial to in-  dividuals, or to communities, or the welfare of the  kJ     INTRODUCTION.     The signs which the mind makes use of  in order to obtain and to communicate know-  ledge, are chiefly words ; and the proper and  skilful use of words is, in different ways, the  object of, 1. Grammar, of 2. Logic, and of  3. Rhetoric. Our outline of Sematology  will therefore be comprised in three chap-  ters, corresponding with these three di-  visions.   species at large. As to Sematology, the third division,  it is the doctrine of signs, showing h ow the mind ope-  rates by their means in obtaining the knowledge com-  prehended in the other divisions. It includes Meta-  physics, when Metaphysics are properly limited to  things TB /*ETa Tct pi/fiKa, i. e. things beyond natural  things — things which exist not independently of the  mind's conception of them ; e. g. a line in the abstract,  or the notion of man generally: for these are merely  signs which the mind invents and uses to carry on a  train of reasoning independently of actual existences ;  e. g. independently of lines in concrete, or of men in-  dividually and particularly. But as to the class of  signs which the former of these instances has in view,  and which are peculiar to Mathematics, there will be  no necessity, in this treatise, to make much allusion to  them: it is to the signs indicated by the other example  that reference will chiefly be made: for these are the  great instruments of human reason, and we believe  they have never yet had their suitable doctrine.     ■■>.l ■■ ■. ■ ■ ■   ■ ■■.■•••1 : ^'. .■   h . CHAPTER I.   ON GRAMMAR.     y- ■' •*     —reveal MEPOnXlN avdf wsrwy. £[oM£E.     T ■     1. To ascertain the true principles of Gram-  mar, the method often pursued will be adopt-  ed here j namely, to imagine the progress of  speech upward as from its first invention. As  to the question, whether speech was or was  not, in the first instance, revealed to man, we  shall not meddle with it : we do not propose  to inquire how the first man came to speak ^^   ^ Beattie and Cowper, poets if not philosophers, ate  among those who insist that speech must have been  revealed. The former thus turns to ridicule the well   L   known passage in the Satires of Horace, Cvm pro-   repseruntf &c. lib. I. Sat 3* v. 99 : —  ^^ When men out of the earth of old  A dumb and beastly vermin crawled.  For acorns, first, and holes of shelter, •  They, tooth and nail, and bdter dceker,   B 2     4 ON CiSAUMAH. [CHAP. I.   but whether language is not a necessary effect  of reason, as well as its necessary instrument,  Fought fist to fist ; then with a club  Each learned hia brother brute to drub ;  Till more experienced grown, these cattle  Forged fit accoutrements for battle.  At last, (Lucretius Bays, and Creech,)  They set their wits to work on speech :  And that their thoughts might all have marks  To make them known, these learned clerks  Left ofi' the trade of cracking crowns,  And manufactured verba and nouns."   Theory of Language, Part I.  Chap 6. (in a note.)  The other poet does not, on this occasion, appear in  metre, but is equally merry.   " I ta';e it for granted that these good men are phi-  Bophically correct in their account of the origin of  language ; and if the Scripture had left us in the dark  upon that article, I should very readily adopt their  hypothesis for want of better information. I should  suppose, for instance, that man made his first effort in  speech in the way of an interjection, and that ah ! or  oh ! being uttered with wonderful gesticulation and  variety of attitude, must have left hia powers of ex-  presdon quite exhausted ; that, in a course of time, he  would invent many names for many things, but first  for the objects of his daily wants. An apple would  consequently be called an apple ; and perhaps not     SECT. 1.] ON GRAMMAR. 5   growing out of those powers originally bestow-  ed on man, and essential to their further deve-  lopment.   many years would elapse before the appellation would  receive the sanction of general use. In this case, atid  upon this supposition, seeing one in the hand of  another man, he would exclaim, with a most moving  pathos, * Oh apple !' Well and good, — ' Oh apple,** is  a very affecting speech, but in the mean time it profits  him nothing. The man that holds it, eats it, and he  goes away with ' Oh apple!** in his mouth, and nothing  better. Reflecting on his disappointment, and that  perhaps it arose from his not being more explicit, he  contrives a term to denote his idea of transfer,, or  gratuitous communication, and the next occasion that  offers of a similar kind, performs his part accordingly.  His speech now stands thus — * Oh give apple ! ** The  apple-holder perceives himself called upon to part with  his fruit, and having satisfied his own hunger, is  perhaps not unwilling to do so. But unfortunately  there is still room for a mistake, and a third person  being present, he gives the apple to him. Again dis-  appointed, and again perceiving that his language has  not all the precision that is requisite, the orator retires  to his study, and there, after much deep thinking,  conceives that the insertion of a pronoun, whose office  shall be to signify, that he not only wants the apple to  be given, but given to himself, will remedy all defects ;     6 ON GRAMMAR. [CHAP. I.   S. Now instead of taking it for granted, as  others have done who have pursued the method  proposed, that men sat down to invent the  parts of speech, because they found they had  ideas which respectively required them, we as-  sert that men have originally no such ideas as  correspond to the parts of speech. The im-  pulse of nature is, to express by some single  sound, or mixture of sounds (not divisible in-  to significant parts) whatever the mind is  conscious of; nor is there any thing in the na-  ture of our thoughts that leads to a different  procedure, till artificial language begins to be   he uses it the next opportunity, succeeds to a wonder,  obtains the apple, and, by his success, such credit to  his invention, that pronouns continue to be in great  repute ever afl^er. Now as my two syllable-mongers,  Bcattie and Bl^r, both agree that language was  originally inspired, and that the great variety of  languages we find on earth at present, took its rise from  the confusion of tongues at Babel, I am not perfectly  convinced, that there is any just occasion to invent  this very ingenious solution of a diiEculty, which  Scripture has solved already."   Letter to the Rev. Wm. Unwin, April 5, \'J8i.     SECT. 2.] ON GRAMMAR. 7   invented or imitated. Let us take, for our first  fact, the cry for food of a new-born infant: that  is an instinctive ciy, wholly unconnected, we  presume, with reason and knowledge. In pro-  portion as the knowledge grows, that the want,  when it occurs, can be supplied, the cry be-  comes rational, and may at last be said to sig-  nify, " Give me food," or more at full," I want  you to give me food." In what does the ra-  tional cry, (rational when compared with the  instinctive cry,) differ from the still more ra-  tional sentence? Notin its nieaning,but simply  thus, that the one is a sign suggested directly  by nature, and the other is a sign aijsing out  of such art, as, in its first acquirement, (we are  about to presume,) nature or necessity gradu-  ally teaches our species. Now, that the arti-  ficial sign is made up of parts, (namely the  words that compose the sentence,) and that  the natural sign is not made up of significant  parts, we affirm to be simply a consequence of  the constitution of artificial speech, and not to  follow from any thing in the nature of the com-     ON GRAMMAR.     [chap. I.     munication which the mind has to make. The  natural cry, if understood, is, for the purpose  in view, quite as good as the sentence, nor  does the sentence, as a whole, signify any thing  more. Taking the words separately, there is  indeed much more contained in the sentence  than in the cry ; namely, the knowledge of  what it is to give under other circumstances  as well as that of giving food ; — oi'Jbod un-  der other circumstances as well as that of be-  ing given to me; — of me under other circumt \  Btances as well as that of wanting food:  but all this knowledge, in this and similar  cases for which a cry might suffice, is un-  necessary, and the indivisible sign, if equally  understood for the actual purpose, is, for  this purpose, quite adequate to the artificially  compounded sign.   S. The truth is this, that every perception  by the senses, and every conception* which     • *' By Conception I mean that power of the mind,  which enables it to fonn a notion of an absent object of  perception ; or of a sensation which it has formerly     SECT. 3.] ON GRAMMAR. 9   follows from such perception, as well as every  desire, emotion, and passion arising out of  them, is individual and particular; and if lan-  guage had continued to be nothing more than  an outward indication of these its passive affec-  tions, it would have consisted of single indivi-  dual signs for single individual occasions, like  those which are originally prompted by na-  ture. But it was impossible to find a new sign  for every new occasion, and therefore an ex-  pedient was of necessity adopted; which ex-  pedient, from its rudest to its most refined ope-  ration, will be found one and the same, — an  expedient of reason, and that through which  all the improvements of reason are derived.  The expedient is nothing more than this : —  when a new expression is wanted, two or more  signs, each of which has served a particular  purpose, are put together in such a manner as  to modify each other, and thus, in their united     fclt." — Dugald Stewart : I'hilos. of the Human Mind,  Vol. I. Chap. 3.     10     ON GRAMMAR.     [chap. I.     capacity, to answer the new particular purpose  in view. In this manner, words, individually,  cease to be signs of our perceptions or con-  ceptions, and stand (individually) for what are  properly called notions', that is, for what the  mind knows ; — collectivelif, that is, in sen-  tences, they can signify any perception by the  senses, or conception arising from such per-  ception, any desire, emotion, or passion — in  short, any impression which nature would  have prompted us to signify by an indivisible  sign, if such a sign could have been found : —  but individually, (we repeat,) each word be-  longing to such sentence, or to any sentence,  is not the sign of any idea whatever which the  mind passively receives, but of an abstractiont   • Notio or notitia from «o«co, I knov. (It is a pity  we cannot trace the word to ado instead of noac.->.)  Note, Locke will be mucli more intelligible, if, in the  majority of places, we substitute " tlie knowledge of"  for what he calls " the idea of" His wide use of the  word idea has been a cause of the widest con&slon in  other writers.   t Home Tooke's doctrine is very different from     SECT. 3.] ON GRAMMAR. 11   wliich reason obtains by acts of comparison and  judgment upon its passively-received ideas.   tbis. He says (Diversions of Purley [2d edit. 1798]  Vol. I. page 51,) " That the business of the mind, as  far as regards language, extends no further than to re-  ceive impressions, that is, to have sensations or feel-  ings"; — he affirms (pa££^im) that what iscalled abstrac-  tion has no existence in the mind, but belongs to lan-  guage only, and that " the very term metapht/sic is  nonsense "' {page 399). It is hoped that what follows in  the test will prove these opinions to be erroneous.  Could the proper name John, or any word being an ar-  tificial part of speech, have been invented, if the mind  had not exerte  d its active powers upon its passively r&-  ceived ideas ? For whatever ideas of this last kind we  have of John must be ideas arising out of particular  perceptions ; and ve must irame him to our minds  standing, or sitting, or walking; talking, or silent;  dressed or undressed, with other circumstances which  imagination can vary, but cannot set aside. It is only  by comparison that we know John to be independent  of all these, and the name is the effect of this know-  ledge, not the cause of it. The abstraction is not in  the word only ; for till we know that Jolm is separate  (abstract) from whatever circumstance the perception  of him includes, how can his name exclude it ? Neither  is the terra iiietaphysic nonsense when applied to this     ON GRAMMAlt.     [chap.     The sentence " John walks " may express  what is actually perceived by the senses ;     or any other abstraction. For John separate from cir-  cumBtancea that must enter into an actual perception,  ifithe nameof anotion /iCTa^ua-ixii, i.e.outof nature, or of  which we have no example in external nature, though  it may esist in our minds, like a line in mathematics,  which is deifined as that which has length without  breadth, and which is therefore, for the same reason,  properly called a metaphysical notion, and pure  mathematics are justly considered a part of metaphysics.  It was because H. Tooke set out with these principles  thus fiindamentally erroneous, that he could not com-  plete his system when he had brought it to ail but a  close. With admirable acuteness of inquiry, he had  tracedup every part of speech till he found it, originally,  either a noun or a verb, and he then left his book im-  perfect, because he could not, on the principles he had  started with, explain the difference bet ween these : — he  promised indeed to return to the inquiry, but he never  fiiliilled his promise for the best of reasons, that there  was no pushing it further in the way he had gone ; he  must have contradicted all his early premises to have  reached a true conclusion. The whole cause of his  error seems to havebeen a too unqualified understanding  of Locke's doctrine, that the mind has no innate ideas.     SECT. 3.3     ON GRAMMAR.     but neither word, separately, can be said to  express a part of that perception, since the  perception is of John walkmg, and if we per-  ceive John separate from walking, then he is  not walking, and consequently it is another  perception ; and so if we perceive walking se-  parately from John, it must be that we per-  ceive somebody else walking, and not him.  The separate words, then, do not stand for  passively received ideas, but for abstract no-  tions ; — so far as they express what is pec- ij  ceived by the senses, they have no separate  meaning ; it is only with reference to the un-  derstanding that each has a separate meaning.  The separate meaning of the word John is a  knowledge (and therefore properly called a I  notion not an idea*) that John has existed and ]   Hence, Tooke acknowledges nothing originally but ]  the senseB, and the experience of those senses, calling ■  reason " the effect and result of those senses and that  experience." See Vol, II. page 16.   " If indeed the word idea were uniformly employed  to signify what is here meant by notion, and nothing  else, little objection could be made : such use would     14     fCHAP. r.     will exist, independently of the present per-  ception, and the separate meaning of the word  •walks, is a linowledge that another may waik as  well as John. This is not an idea of John or an  idea of walking such as the senses give, or such  as memory revives : for the senses present no  such object as John in the abstract, that is,  neither walking, nor not walking ; nor do they  furnish any such idea as that of •walking inde-  pendently of one who walks. There is then  a double force in these words, — their separate  force, which is derived from the understanding,  and their united force, by which, in this in-  stance, they signify a perception by the senses.   nearly correspond in effect though not in theory, with  the old Platonic Bcnse, and in the Platonic sense  Lord Mooboddo constantly employs it in his work on  the " Origin and Progress of Language." But as Dr.  Reid observes, ** in popular language idea signifies  the same thing as conception, apprehension. To have  KD idea of a thing is to conceive it." This sense of  the word Dugald Stewart adopts. (Philos. of the  Human Mind, Vol. L Chap. 4. Sect. 2.) Locke, as  already intimated, uses the word in all the senses it  will bear.     SECT. 4.3 ON GRAMMAR. 15   4. In otlier instances, the united significa-  tion of words may not be a perception of the  senses j but whatever may be their united  meaning, they will separately include know-  ledge not expressed by the whole sentence,  though, if the meaning of the sentence be ab-  stract, the knowledge included in the separate  words will be necessary to the knowledge ex-  pressed by the sentence. " Pride offends,"  is a sentence whose whole meaning is abstract;  but pride separately, and offends separately,  are still more abstract, and in using them to  form the sentence, we refer to knowledge be-  yond the meaning of the sentence as a whole,  namely, to pride under other circumstances  than that of offending, and to offending under  other circumstances than that of pride offend-  ing ; and here, tlie knowledge referred to  seems necessary, in order to come at the know-  ledge expressed by the sentence. " John  walks," (or, according to our English idiom,  " John is walking,") is a perception by the  senses, and does not therefore depend on a     16     01^ GRAMMAR.     [chap.     knowledge of John, and of walking in the ab-  stract ; (though to express the perception in  this way requires it;) but " Pride offends,"  does not express an individual perception, nor  would many individual perceptions of pride  offending give the knowledge which the sen-  tence expresses : we must have obser\'ed  what pride is, separately from its offending,  and we must have observed what offending is,  separately from pride offending, before we  can rationally understand, or try to make  known to others, that Pride offends. In this  DOUBLE force of words, by which they signify  at the same time the actual thought, and re-  fer to knowledge necessary perhaps to come  at it, we shall find, as we proceed, the ele-  ments, the true principles of Logic and of  Rhetoric; while in tracingthe necessity which  obliged men to signiiy in this manner even  tliose individual perceptions which nature  would have prompted them to make known  by a single sign, (if such sign could have been  found,) we shall ascertain the true principles     SECT. 5.j     ON GRAMMAR.     17     of Gkammau. The last mentioned subject  must occupy our first attention.   5. To get at the parts of speech on our hy-  pothesis, we must consider them to be evolved  from a cry or natural word. Not that this  is the present principle on which words are  invented ; for art having furnished the pattern,  we now invent upon that pattern j but our  purpose is to consider how the pattern itself  is produced by the workings of the human  mind on its first ideas. Those ideas can be  none other than the mind passively receives  through the senses ; and perhaps the first ac-  tive operation of the mind is to abstract (sepa-  rate) the subjects or exterior causes of sensa-  tion from the sensations themselves. When  we see, we find we can touch, or taste, or  smell, or hear ; and when the perception  through one of these senses is different, we  find a difference in one or more of the others.  We also recollect (conceive) our former per-  ceptions, and finding the actual sensations  not recoverable by an effort of the mind alone,     18     ON GBAWMAR.     [chap. I.     we recognize the separate existence of the ma-  terial world. All this is Knowledge, ac-  quired indeed so early in life, that its com-  mencing and progressing steps are forgotten ;  but we are nevertheless warranted in affirm-  ing that not the least part of it, is an original  gift of nature. Along with this knowledge  we acquire emotions and passions ; for to knoia  material objects, is to know them as causes of  pleasurable or painful sensation, and hence to  feel for them, in various degrees, and with  various modifications, desire and aversion, joy  and grief, hope and fear. And here, as the  same object does not always produce the same  emotion, or the same emotion arise from the  same object, we begin a new class of abstrac-  tions : we separate, mentally, the object from  the emotion or the emotion from the object :  we are enabled in consequence to abstract and  consider those differences in the objects, from  which the different effects arise, and to ascer-  tain, by trial, how far they yield to volition ope-  rating by the exterior bodily members, which     SECT. 6.3     ON GRAMMAR.     19     we have previously discovered to be subservient  to the will. In this new class of abstractions,  and the consequences which arise from them,  we shall find the beginning of that knowledge  which human reason is privileged to obtain,  compared with that which the higher orders  of the brute creation in common with man,  are able to reach j and from this point we  shall be able to trace how man becomes /ie'poyjr,  or divider of a natural word into parts of  speech *, while other animals retain unaltered  the cries by which their desires and passions  are first expressed.   6. As we are able to separate, mentally,  the object from the emotion, and to remem-  ber the natural cry after the occasion that  produced it ceases, the natural cry might re-  main as a sign either of the object or of the  emotiont. But this does not carry us beyond   • Thia is the sense in which we choose to under-  stand the word, and not merely voice-dividing or ar-  ticulating.   ■f For instance, as, in the present state of language,  the exclamation of surprise ha-ha '. is either an inter-     to     ON GRAMMAR.     the mind which forms the abstraction, and  has the power to establish a sign (wliether  audible or not) to fix and remember it: — our  inquiry is, how a communication can be made  from mind to mind, when the signs which na-  ture furnishes are inadequate to the occasion.  And first be it observed, that only such occa-  sions must, at the outset, be imagined as do  but just rise above those for which the cries  of nature are sufficient: — we must not sup-  pose a necessity for communicating those ab-  stract truths which grow out of an improved  use of language, and which could not there-  fore yet have existence in the mind. And  we have further to observe that no com-  munication can be made from one mind to  another, but by means of knowledge which  the other mind possesses; — the cries of na-  ture can find their way only into a conscious  breast, — that is to say, a breast that has known,     jection eignifyiDg that emotiou, or the n  so placed ae to give occasion to it.     SECT. 6.3 ON GRAMMAR. 91   or at least can know, the feelings which are  to be communicated, and is capable, therefore,  of sympathy or antipathy ; and knowledge  of whatever kind can be conveyed to another  mind only by appealing to knowledge which is  already there. To suppose otherwise, would  be to attribute to human minds what has been  imagined of pure spirits, — the power of so  mingling essences that the two have at once  a common intelligence. To human minds It  is certain that this way of communicating is  not given, but each mind can gain knowledge  only by comparing and judging for itself, and  to communicate it, is only to suggest the sub-  jects for comparison. Let us suppose that a  communication is to be made for which a na-  tural cry is not sufficient, — the difficulty, then,  can be met only by appealing to the know-  ledge which the mind to be informed already  possesses. The occasion will create some cry  or tone of emotion ; but this we presuppose  to be insufficient. It will however be under-  stood as far as the hearer's knowledge may     02 ON GRAMMAR, [CIIAP. 1.   enable him to interpret it — that is, he will  know it to be the sign of an emotion which  himself has felt, and he will think perhaps of  some occasion on which himself used it. But  the cry is to be taken from any former par-  ticular occasion, and applied to another; and  he who has the communication to make, will  try to give it this new application by joining  another sign, such as he thinks the hearer is  hkewise acquainted with. The natural cry  thus taking to its assistance the other sign, and  each limiting the other to the purpose in hand,  they will, in their united capacity, be an ex-  pression for the exigence, and will, to all in-  tents and purposes, be a sentence.   7. In some cases, nature seems to furnish  an instinctive pattern for the process here de-  scribed : —a man cries out or groans with pain ;  he puts his hand to the part affected, and we  at once interpret his cry more particularly  than we could have done without the latter  sign. In other cases, we are driven to the  same process not by an instinct, but by the      SECT, 7*3     ON GEAMMAH.     ingenuity of reason seeking to provide that  which nature has not furnished. If a man  unskilled in language, or not using that which  his hearers understand, should try to make  known what art expresses by a sentence such  as " I am in fear from a serpent hidden there,"  his first effort would be the instinctive cry of  fear ; but aware that this could be particularly  interpreted only of a known, and not of an un-  known occasion, he would, by an easy effiirt of  ingenuity, fix it for the present purpose by add-  ing a sign or name of the reptile, (for mimick-  ing the hiss of the reptile would obviously be  a name,) and by joining to both these a ges-  ticulative indication of place. The instinctive  cry thus newly determined and appUed, is a  sentence ; and however clumsy it may seem  when compared with the more complicated  one previously given, yet the art employed is  of the same kind in both. We leave the read-  er to smile at the example as he pleases, and  will join in his smile while he compares it with  that in the epistle of the poet in the note at     ^     ON GRAMMAR.     I^CHAP. I.     Sect. 1.; and, if he is disposed to smile again,  we will suppose another example : — Two men  going in the same direction, are stopped by  an unexpected ditch, and ejaculate the na-  tural cry of surprise ha-ha/ This is remem-  bered as the expression suited for that par-  ticular occasion; and the mind, the human  mind, seems to have the power of generalizing  it for every similar object. Suppose one of  these men finding another ditch very offensive  to his nose, signifies this sensation by screwing  up the part offended, an d uttering the nasal  interjection proper for the case ; — the inter-  jection may not be sufficient j for the other  man may remain to  be informed of what his  companion knows, namely that the offence  proceeds from the ditch. To fix the mean-  ing, therefore, o f the interjection to the case  in hand, the communicator adds the former  natural cry in order to signify the ditch, and  the two signs qualifying each other, are a  sentence.   8. An artificial instrument as language is,     SECT. S.J     ON GRAMMAR.     25     growing (as we suppoaej out of necessity, and  adapted at first to the rudest occasions ; per-  fected by degrees, and becoming more com-  plicated in proportion as the occasions grow  numerous and refined ; — such an instrument,  when we compare its earliest conceivable state  with that in which it  has received its iiighest  improvement, must appear clumsy and awk-  ward in the extreme. But in the very rude  state in which we here suppose it, the art em-  ployed is essentially the same as afterwards :  — two or more signs are joined together, each "  sign referring separately to presupposed know-  ledge, but in their united capacity communi- i  eating what is supposed to be unknown. Of  the signs used, that must be considered the ,  principal by which the speaker intimates the ,  actual emotion j the other signs, which do but j  fix its meaning, are secondary. Thereforej ;  though the appellation word (that is p^/io, i  dictum, or communication,) strictly belongs  to the whole expression or sentence, we may  reasonably give that appellation to the prin-     Sfi ON GRAMMAR. [CHAP. I.   cipal sign. According to this supposition,  the original verb was an expression equiva-  lent to what we now signify by I hunger, I  thirst, I am warm, I am cold, I see, I hear,  IJeel, &c., / am in pain, I am delighted, I am  angry, 1 love, I hate, I fear, I assent, I dis-  sent, I command, I obey, &c. Whether this  a priori conjecture has any facts in its favour,  is an inquiry suitable to the etymologist, but  fo reign to our purpose, because, whether true  or not, the general argument by which we in-  tend to prove the nature of the parts of speech,  will remain the same*.     " Vet it may be worth while to quote the coinci-  dent opinion of another writer. " It may be asked "  says Lord Monboddo, " what words were (irst invented.  My answer is, that if by words are meant what are  commonly called parts of speech, no words at all were  first invented ; but the first articulate sounds that were  formed denoted whole sentences ; and those sentences  expressed some appetite, desire, or inclination, relating  either to the individual, or to the common business  which I suppose must have been carrying on by a herd  of savages before language was invented. And in this     SECT. 9.3     GHAMMAR.     S7     9. We have next to imagine the use of  any of the foregoing verbs in the third per-  son ; for that, it should seem, would be the  next step. In communicating that anothet-  hungers or thirsts, or sees or hears, or is angry  or pleased, &c., the difficulty would be to give  the word this new application, and a limiting  sign would, as usual, be necessary. A proper  name would be the sign required ; and if not  too great a tax upon fancy, we may conceive  the invention of these from the mimicking of a  man's characteristic tone, or his most frequent  cry ; not to mention the assistance of gesticu-  lative indication. But when verbs had thus  lost the reference which, at first we presume,  they always bore to the speaker, a sign,  whether a change of form, or a separate word,  would be wanted to bring them back to their  early meaning as often as occas ion required.  A gesticulative indication of the speaker and     way I believe language continued, perhaps for many  ages, before names were invented." — Origin and Pro-  grese of Language. Vol. I. Book 3. Chap. 1 1-     28 ON GRAMMAR. [CHAP. I.   of the person spoken to, can easily be con-  ceived : how soon tliese would give place to  equivalent audible signs, the reader is left to  calculate j and as to the pronoun of the third  person, he may allow a longer time for its in-  vention, especially as even in the finest of lan-  guages, tliere is no word exactly answering to  ille in Latin and he in English.   10. We have suggested a clew to the in-  -yention of proper names, and (for the reader  jnust allow us much) we will suppose these,  L ^ far as need requires, to be invented. But  r piost of these, from the difficulty of inventing  a new name for every individual, would gra-  dually become common. If a man has called  I the animal he rides on by a proper appellation  I corresponding to horse, what shall he call  t Other animals that he knows are not the same;   and yet resemble? Because he is unprovided ..  r jwith a name for each individual, he will call'  I each of them horse*, and the name will then   " Compare Adam Smith, " Considerations con-  cerning the First Formation of Languages," appended     SECT. 10.] ON GRAMMAR.   no longer be proper but common. But the  same powers of observation which acquaint  us with the points of resemblance, likewise  show the points of difference, and when we  wish to distinguish the animals from each  other, how is this to be done ? The question  is easily answered when we have a perfect lan-  guage to refer to, but it was a real difficulty  when the expedient was first to he sought.  Yet the difficulty not unfrequently occurs  even in a mature state of language, and the  manner in which it is overcome, will enable  us to conceive how, in the rude state of Ian-  guage we are supposing, itwas universally met,  till the noun-adjective became a part of  speech*. Of two horses, we observe that one   to his work on the Theory of Moral Sentiments. As a  proof how prone we are to extend the appellation of  an individual to others, he remarks that " A child just  learning to speak, calls every person who comes to the  house its papa or its mamma ; and thus bestows upon  the whole species those names which it had been taught  to apply to two individuals."   ' The Mohegans " (an American tribe) " have     so ■ ON GRAMMAR. [cHAP. I.   has the colour of a chestnut, and the other is  variegated hke a pie ; and we call the former  a cfieslnut horse, and the other a pied or piebald  horse. Here we perceive are two nouns-sub-  stantive joined together to signify an indivi-  dual object, and employed, Ui their united ca-  pacity, to signify what would otherwise have  been denoted by an individual or proper name.  This, then, is their meaning, respectively,  as a single expression. In their abstract or  separate capacity, the one word denotes either  one or the other of the two animals without  reference to the difference between them : the  other word denotes, not a chestnut or a pi^  but that colour in a chestnut, and those varie-  gated colours in a pie, by which one of the  animals is distinguished from the other, and  these words are no longer nouns-substantive  DO adjectives in all their language. Although it may  at first seem not only singular and ciuious, but im-  possible that a language should exist without adjectives,  yet it is an indubitable fact," — Dr. Jonathan Edwards  — quoted by H. Tooke, Diversions of Purley, Vol. II.  p. 463.     SECT. 10.]     ON GBAMMAR.     but nouns-adjective *. And here the ques-  tion will naturally occur, how would a hearer  know when a noun was used substantively,  and when adjectively ? As this would often  be attended with doubt and ambiguity, the  necessity of the case would soon suggest  some slight alteration in the word as ofi;en as  it was used adjectively ; and the same all-  powerful cause would likewise, in time, dia-  tinguish adverbs from adjectives : for at first  an adjective would be used without scruple to  limit the verb, as to limit the substantive j since     • " The invention of the simplest nouns-adjective,*'  says Adam Smith, " must have required more meta-  physics than we are apt to be aware of." But the dif-  ficulty he imagines is done away by the hypothesis  suggested above ; and how near it is to the truth, will  fae conceived by calling to mind the ready use of al-  most any substantive as an adjective, as often as need  requires : e. g. a chestnut horse, a horse chestnut ; a  grammar school, a school grammar ; a man child, a  cock sparrow, an earth worm, an air hole, a (ireking,  a water lily ; not to mention the innumerable com-  pounds that are considered single words ; as, seaman^  Iiorsenian, footman, inkstand, coalhole, bookcase, Sic.     «t     ON GRAMMAR.     [chap. 1     this is often done even in the present state of  language j but the doubt whether it was to be  taken with the substantive or the verb* would  soon produce some general difference of form ;  and thus the adverb would be brought into  being as a distinct part of speech.   11. Still it would often happen, that in  endeavouring to limit a verb to the particular  communication in view, no substantive or pro-  noun joined to it, not even with the further  aid of an adjective or adverb joined to the  substantive or verb, would suffice ; and failing,  therefore, to convey the communication by  one sentence, it would become necessary to  add another to limit or determine the significa-  tion of the first. Now a qualifying sentence  thus joined, when completely understood in  connexion with that it was meant to qualify,  would be esteemed as a part of the same sen-  tence, and the verb, in the added sentence,     • E. g. whether " I love much society " is to be  understood / much-li/ve suciety, or, / Iwe 7iutch-  society.     SECT. 11.] ON GRAMMAR. 38   would possibly then lose its force as the sign   of a distinct communication. This again, will  easily be understood by a reference to what  occurs in the present state of language. Look-  ing at the sentence, " In making up your par--  ty, except me," no one hesitates to call concept  a verb ; but in this sentence, *^ All were there,  except me," although the word except has pre^^  cisely the same meaning, yet, as we do not con^  sider the clause except TTie to be a distinct com-  munication, but only a qualification to suit the  whole sentence to the purpose in view, we call  except a preposition *, that is, a word put be^     * This solution of the difficulty in the invention  of prepositions, which seems so considerable to Adam  Smith, is suggested, as the reader will perceive, by  the etymological discoveries of Home Tooke, and will  receive complete confirmation by the study of his ad-  mirable work. Let it not be supposed, however, that  we have nothing to object to in the Diversions of  Purley : some ftmdamental principles we have already  marked for inquiry ; and on the point before us, we  have to observe on that curious way of thinking, which  leads him, because a word was once a verb or a noun.     Olf GRAMMAR.     j^CHAP. I.     fore another to join it to the sentence that  goes before.   12. But in thus qualifying sentence by sen-  tence, it may sometimes be necessary to use  three verbs, one of them being merely the sin-  gle verb that joins the two sentences together ;  as, " I was at the party, and (i. e. add, or join  this further communication) I was much de-  lighted." Sometimes a noun will be used in  this way ; as, " I esteemed him, because (i. e.  this the cause) I knew his worth." Any par-  ticular form of verb or noun used frequently  in this manner to join sentence to sentence,  will cease at last to be considered any thing  more than a conjunction *.   IS. As to the article, we have only to sup-  to esteem it always so ; on the same principle, no doubt,  that, because the word truth comes from he trou-eth or  thinkelh, a.aA a man's thoughts are always changing,  he denies that there is any such thing as eternal, im-  mutable truth.   * Again the reader is referred to the Diversions of  Purley, for a confirniation of this account of the birth  of conjuncticms.     SECT. 14,] ON GRAMMAR. 85   pose some adjective used in a particular limit-  ing sense so frequently, that we at last regard  it as nothing more than a common prefix to  substantives : — as to a participle^ it is confess-  edly, when in actual use, either a part of the  verb, or a substantive, or an adjective : — and  as to an interjection^ this we have supposed to  be the parent word of the whole progeny ; and  if it is sometimes used among the parts of  an artificial sentence, it is only as a vibration  of the general tone of feeling that belongs to  the whole.   14. In this manner, or in a manner like  this in principle and procedure, would lan-  guage grow out of those powers bestowed on  man by his Creator, even though it had not  been directly communicated from heaven :-—  in this manner is the progress from natural  cries to artificial signs contemplated and pro-  vided for by the constitution of the human  mind; — in this manner would the parts of  speech be developed j and men placed in so-  ciety, and endowed with powers for observa-   D S     36 ON GRAMMAR. [CHAP. I.   tion, reflexion, comparison, judgment, would,  in time, become fiepoire^f or dividers of a na-  tural word into significant parts, with the  same kind of certainty that they become bipeds  or walkers on two legs* ; being bom neither  one nor the other.   * And according to Monboddo, with the same  certainty that they lose their tails; for when they  were mutu/m, et turpe pecus^ he appears to think  they might have been so appendaged ; nay, he knew a  Scotchman that had a tail, though he always took care  to hide it : (his lordship was surely in luck^s way to  find it out.) After all, it would be difficult to prove,  notwithstanding the authorities Monboddo quotes, that  herds of men were ever found destitute of language.  Leaving, therefore, the origin of the first language,  and the subsequent confiision or division of it precisely  as those two &ct8 stand in Genesis, all we mean to  assert in the text is this, — that if a number of children  having their natural faculties perfect, were suffered to  grow up together without hearing a language spoken,  they would invent a language for themselves : though,  for a long time, it might remain nothing better than  that of the Hurons described by Monboddo, (Origin  and Progress of Lang. VoL I. Book 3. Chap. 9.) in  which the parts of speech are scarcely evolved, from  the original elements, but what in a formed language     SECT. 15.] ON GRAMMAR. S^   15. But the object of the foregoing at-  tempt, was not so much to trace the origin     is expressed by several words, is expressed by a sign  not divisible into significant parts. Thus, he says,  there is no word which signifies simply to cut, but many  that denote cuttingjish^ cutting wood^ cutting chaths,  cutting the heady the arm^ &c. And so of the language  throughout. More than one generation would be re-  quired, and very favourable stimulating circumstances,  to bring such a chaos of a language into form ; but  that the human mind has within itself the powers for  accomplishing it sooner or later, we see no cause to  doubt — These words, and the whole of the hypothesis  in the text above, were written before the third Volume  of Dugald Stewart's Philosophy of the Human Mind  had been seen. From that part which treats on Lan-  guage we quote the following passages :   ^^ That the human faculties are competent to the  formation of language, I hold to be certain.*"   ^^ Language in its rudest state would consist partly  of natural, partly of artificial signs ; substantives being  denoted by the latter, verbs by the former.*"   These are among the many passages which coincide  with the views opened in the previous hypothesis. It  is to be added, that D. Stewart considers the imperative  mood to be the first form in which the artificial verb  would be displayed.     ON GRAMMAR.     [chap. 1.     and first progress of language, as to get at  the real ground of diflference among the se-  veral parts of speech. On this subject, there  prevails a universal misconception. Prom the  definitions and general reasoning in Gram-  mar ; — from the theories laid down in Logic ;  — and the basis on which the rules and prac-  tice of Rhetoric are presumed to stand, this  principle seems to be taken for granted, that  the parts of speech have their origin in the mind  independently of the outward signs, when, in  truth, they are uothing more than parts in the  structure of language ; contrivances adopted  at first on the spur of theoccasion, the shifts  and expedients to which a person is driven,  ■when not being able to lay bare his mind at  once according to his consciousness, he tries,  by putting such signs together as were used  for former occasions and therefore known as  regards them, to form an expression, which, as  a whole, will he a new one, and meet the pur-  pose in hand. True indeed it is, that these  very contrivances become, in their more re-     SECT. 15.2 ON GRAMMAR. 39   fined use, the great instruments of hmnan rea-  son by which all improvement, all extensive  knowledge, is obtained; but we are not to  confound the instrument with the intelli-  gence that uses it/ nor to suppose that the  parts of which it is composed, have, of ne-  cessity, any parts corresponding with them in  the thought itself. It is not what a word signi-  fies that determines it to be this or that part  of speech, but how it assists other words in ma-  king up the sentence. If it is commissioned to  unite the whole by the reference immediate  or mediate which all the other words are to  bear to it, and to signify that they are a sen-  tence, that is, the sign of a purposed commu-  nication, then it is the verb : — if it has not  this power, (namely, of uniting the other words  into a sentence,) and yet is capable, in all other  respects, of standing as an independent sign,  (this sign not being the sign of a purposed  communication) then it is a substantive .-—if it  is the implied adjunct of a substantive, it is an  adjective or an article^ — if of a verb^ an ad-     40 ON GRAMMAR. [CHAP. I.   verb : — if we know it to be a word, which, in  a sentence, is fitted to precede a substantive,  (or words taken substantively) in order to con-  nect such substantive with -what goes before,  then it is a preposition : — and if it goes before,  or mingles in a sentence, in order to connect  it with another sentence, then it is a conjunc-  tion. These are the only real differences of  the parts of speech : — as to the meaning, that  does not of necessity differ because a word is  a different part of speech ; — the following  words, for instance, all express the same no-  tion :   Add   Addition   Additional   Additionally   With*   Andt   * The imperative of the Saxon verb Jpi^an to join.   -|- The imperative of the Saxon verb ananab to add.   The place and ofHce of these six words in a sentence  would of course differ, and the sentences in which they  were respectively used would require a various arrange-     SECT. 15.] ON GRAMMAR. 41   Our definitions reach the real differences  among these words, and they will be found  adequate to all differences, when, by the ob^  servation hereafter to be made, we are quali-  fied to make due allowance for the licences  assumed by the practical grammarian *• In   ment to meet the same purpose, but as to the meaning  of the words, it would be the same in whatever  sentence : e. g.   Add something to our bounty.   Make an addition to our bounty.   Give an additional something to our bounty.   Give additionally to our bounty.   Increase o ur bounty with the gift of something.   Consider our bounty and give likewise.  * To suit our definitions to an elementary grammar,  they must be quaUfied and circumstanced: — a verb,  for instance, must be shewn to be a word that is by  itself a sentence, as esurio ; or which signifies a  sentence, as I am hungry ; or which is fitted to sig-  nify a sentence, as am, lovest. A verb in the infinitive  mood, is a verb named but not used ; a8 to be, to love ;  or if used in a sentence, it is not the verb. A noun-  substantive is a name capable of standing independently,  but it cannot enter into a sentence except by being  connected directly or indirectly with a verb. The in-  flexion of a noun-substantive, as Mard, Mark'' 8^ is     ON GRAMMAS.     [chap. I,     the mean time, in order to throw as much  light as possible on the nature of the con-  nexion between thought and language, let us  look back a little on foregoing statements,  and partially anticipate those which are to be  opened more at full under the heads of Logic  and Rhetoric.   called a substantive, bnt in so calling it, we must say  a Bubstantive in the genitive, or other case. A noun-  adjective is a name not fitted to stand independently,  but to be joined to a noun-substantive, and so to form  with it one compound name. An adverb is a word not  fitted to stand independently, but to be joined to a verb,  and to form with it one compound verb, A preposition  ig a word governing as its object a substantive or pro-  noun in the manner of a verb, but not an obvious part  of a verb, nor capable, like a verb, of signifying a  sentence. The article, pronoun, participle, conjunc-  tion, and interjection, may be defined as usual. We  would suggest moreoverthat in an elementary grammar,  no definition, and no part of a definition, should  be brought forward, till absolutely required by the  examples that are immediately to follow it. In  teaching a child, it is the greatest absurdity in the  world to set out with general principles, when the  business is, to reach those principles by the eiiamina-  tion of particulars.     SECT. 1(3-3 '^^ GRAMMAB. 43   1 6. It may be that the organs of sensation  are not all fully developed in a new-born in-  fant ; but if, for the sake of our argument, we  allow that they are so, this is as much as to  say, that our earliest sensations from the ob-  jects of the material world, are the same that  they are afterwards. But there must be this  most important difference, — that the early  sensations are -wilkoui knowledge, and the lat-  ter, with it. I know that the object which now  affects my sense of vision, is a being like my-  self, — I know him to be one of a great many  similar beings ; — I know him to be older or  younger than many of them, — to be taller or  shorter; — I know pretty nearly the distance  he is from me ; — 1 know that the particular  circumstances under which he is now seen,  are not essential to him, but that he may be  seen under other circumstances : — I know that  what now affects my sense of hearing, is the  cry or bark of a dog j — I know, although my  eyes are shut, that there are roses near me,  or something obtained from roses j — I knoie     u     ON GRAMMAR.     [CUAP. ]     that sometliing hard has been put into my  mouth ; — and now I know it to be part of an  apple. All the sensations by which the  various knowledge here spoken of is brought  before the mind, the new-born infant may  possibly be capable of; but as to the know-  ledge, there is no reason to believe he lias the  least portion of it. For the knowledge is  gained by experience, requiring and com-  prising many individual acts of observation,  comparison, and judgment j all which we  suppose yet to take place in the new-born  infant. Now, in looking back to what has  been said on the acquirement of language, we  find the effect of our progressing knowledge  to be this, that every sign arising out of a par-  ticular occasion, will lose that particular re-  ference in proportion as we find it can be used  on other occasions j and so all words will, at  last, in their individual capacity, become ab-  stract or general. This is as true of such  words as yellow, white, heat, cold, soft, hard, .  bitter, sweet, and the like signs of what Locke     SECT. 16.] ON GRAMMAR. 45   calls simple ideas as of any other * : for we  can evidently use these words on an infinity  of different occasions j and the power of so  using them is an effect and a proof of our  knowing that the different occasions on which  we use the same word, have a something in  common, or in some way resemble. But  while all words thus acquire an abstract or  general meanipg, every communication which  we purpose to make by their means, must, in  comparison with their separate signification,  be particular ; and our putting them together  in order to form a sign for the more particular  thought, will be to deprive them of the abstract  or general meaning which they had indi-  vidually. If this is the real nature of the  process, we are completely mistaken if we  suppose that every word in a sentence sig-  nifies a part of the whole thought, and that  the progression of the words is in corre-  spondence with a progression of ideas which  the mind first puts togetlier within, and then  * Vide Locke, Book II. Chap. 1. Sect. 3.     46 ON GRAMMAR. j^CHAP. I.   signifies without What deceives us into this  impression, is, that on considering each word  separately, each is found to have .1 meaning.  Let us try, however, whether the joining of  words into a sentence, does not take from them  the meaning they have separately. Put to-  gether the three words " My head aches,"  and we have an expression, namely the whole  sentence, which signifies what, from a want  of clearness in our remarks, may possibly be  the reader's present particular sensation: hut  my, separately, signifies the general knowledge  I have attained of what belongs to ine as dis-  tinguished from what belongs to another j a  knowledge which is not at all necessary (that  is, the ^'•CTJcra/ knowledge) to the sensation it-  self, nor even to the expression ofit, if we could  find any single sign in lieu of the three which  we have put together. Accordingly, the  word my, as soon as it is joined to the other  words, drops that meaning which it had  separately, and receives a particular limitation  from the word head, which word head is like-     SECT. 17.3 OM GRAMMAR.     47     wise limited by the word rrof ; and the more  particular meaning which both these receive  by each other, is limited to the particular oc-  casion by the word aches. Yet, it may perhaps  be thought, that in this, and in every other  sentence, each word, as the mind suggests it  to the lips, is accompanied by the knowledge  of its separate meaning, and that, in this  manner, if we use the word idea in the un-  restricted sense familiar to the readers of  Locke, each word may be said to represent an  idea. Without entirely denying the justice  of this view of the matter, we offer in its place  the following statement :   17. In forming a sentence for its proper  occasion, the knowledge of which each sepa-  rate word is fitted to be the sign, may, or  may not be in the mind of the speaker: it  may be entirely there, or only in part, or not  at all there ; that is to say, the speaker may  not know the separate meaning of a word,  but only the meaning it is to have in union  with the other words. And even if the     48 ON GRAMMAR. [CHAP. I.   speaker does know the full separate meaning  of each word, yet he is not under the neces-  sity of thinking of that separate meaning  every time he uses it : nor does he, in fact,  think of the separate meaning of words while,  in putting them together, his purpose is to ex.  press what has been often expressed before, but  only (and even then but partially and occa*  tonally) when he uses words to work out some  conclusion not yet established in his own mind,  or when a train of argument is required to  convince or persuade other minds. This  statement will of course require some con-  siderations in proof.   18. And first, as to the knowledge of  which each separate word is fitted to the sign,  it is to be observed that our knowledge grows  with the use of words, and therefore our firet  use of them is unaccompanied by that know-  ledge which we gain by subsequent use.  This is true, whether we invent words, or  adopt those already invented. In the rude  beginning of language, the first use of a word     SECT. IS.J ON GRAMMAH.     4.9     for head, would be a use of it for a particular  occasion, and the word would be particular or  proper. If the speaker used it with reference  to himself, it would signify what we now sig-  nify fay the two words my head ". By observ-  ation and comparison, he would find he could  extend the meaning of the word, and apply it  with reference to his neighbours as well as  himself, and it would then no longer be proper  but common ; that is to say, it would signify  a human head, and not mj/ head. Extending  his observations still more widely, he would ap-  ply it with reference to every other living crea-  ture, and it would accordingly then signify a /(u-  ing creature's head. Looking and comparing  still further, he would apply it with referenceto  every object, in which he discovered a part  having the same relation to the whole as the  head of a living creature has to its remaining  parts ; and the word would then, and not till  then, have its present meaning ; that is to   " Compare the characteristics of the Huron lan-  guage referred to in the note appended to Sect. 14.     ON GRAMMAR.     [chap.     say, in a separate unlimited state it would  signify neither my head, nor a human head,  nor a living creature's head, but the top,  chief part, beginning, supremacy of any  thing whatever. Nor is the process essentially  different in acquiring the use of words already  invented. A child does not at first put words  together, but, if his head aches, he will say  perhaps "head! head!" using the single  word in place of a sentence. At length he  will say mi/ head, and brother's liead, and  horse's head, and cradle's head. Still there  are other applications of the word to be  learned by use ; and it surely will not be  contended that any one knows the meaning  of a word beyond the cases to which he can  apply it. The knowledge which a separate  word is fitted to signify, may then be wholly  or may be partly in the mind of him who  uses it in a sentence ; and it is very possible  not to be there at all. A foreigner, for in-  stance, who had beard the phrase the head of  the army applied to the general-in-chief,     SECT. 19.3 ON GRAMMAR. 51   would know the meaning of the phrase, but  might be quite ignorant of the meaning of  the separate words, or even that it was com-  posed of separable words : and probably most  people can look back to a time in early life,  when they were in the habit of using many a  phrase with a just application as a whole,  without being aware that it was reducible  into parts in any other way than as a poly-  syllabic word is reducible.   ig. But even when the speaker, in form-  ing a sentence, has previous possession of all  the knowledge of which each word is sepa-  rately fitted to be the sign, yet he does not in  general think of their separate meaning while  he is putting them together, but only of the  meaning he intends to express by the whole  sentence. For through the frequent use of  phrases and sentences whose forms are hence  become familiar, there is scarcely any senti-  ment, feehng, or thought, that suddenly arises  in the mind, that does not as suddenly sug-  gest an appropriate form of expression. This     [chap.   is manifestly the case with such sentences as  arc in constant use for common occasions :  these the speaker cannot be said to make,  they occur ready-made, and he pronounces  the words that compose them with as little  thought of their separate meaning as if he  had never known them separate. Even when  sentences ready-made do not occur, yet the  forms of sentences will occur, and the speaker  will, in general, do nothing more than insert  new words here and there till the sentence  suits his purpose. Thus he who had said  " My head aches," will recollect the form of  sentence when his shoulder aches, and in  using the sentence, will only displace head  for shoulder: or if his head " is giddy," he  will only displace aches for the two words  quoted, in order to say what he feels.   20. When indeed we use language for  higher occasions than the most ordinary in-  tercourse of life ; when by its means we pro-  secute our inquiries after truth, or use it dis-  cursively as an instrument of persuasion, then     5ECT. 20.] ON GRAMMAR. 63   the operation itself is carried on by dwell-  ing on and enforcing the abstract mean-  ing of some of the words and some of the  phrases whUe in their progress towards form-  ing sentences, as of the sentences while in  their progress toward forming the whole ora-  tion or book. But in such cases, language  may more properly be said to help others to  come at our thoughts , than to represent our  thoughts : although it is likewise true, that  we could not ourselves have come at them  but by similar means. Independently of the  words, therefore, the thoughts would have  had no existence j neither should we have  proposed the inquiry after the truths we seek,  nor have imagined any thing in other minds,  by addressing which they could be influenced.  Still, however, in these higher uses of lan-  guage, (uses which are to be dwelt on more  at full in the chapters on Logic and Rhe-  toric,) there is the same difference between  words separately, and the meaning they re-  ceive by mutual qualification and restriction ;     «*     ON GRAMMAR.     [chap. I.     that is to say, in these higher uses of lan-  guage, 83 well as in those already remarked  upon, the parts that make up the whole ex-  pression, are parts of the expression in the  same manner as syllables are parts of a word,  but are 7tol parts of the one whole meaning in  any other way than as the instrumental means  for reaching and for communicating that  meaning. And suppose the communication  cannot be made but by more signs than use  will allow to a sentence, — suppose many sen-  tences are required — many sections, chapters,  books, — we affirm that, as the communica-  tion is not made till all the words, sentences,  sections, &c. are enounced, no part is to be  considered as having its meaning separately,  but each word is to its sentence what each  syllable is to its word ; each sentence to its  section, what each word is to its sentence ;  each section to its chapter what each sen-  tence is to its section, &c. Thus does our  theory apply to all the larger portions of dis-  course, and to the discourse itself, Aristotle's     SECT, 20%]] ON GRAMMAR* 55   definition of a word, namely, ** a sound sig.  niiicant. of which no part is by itself signi^  ficant ;" * for if our theory- is true, the words  of a sentence, understood in their separate  ^rapacity, do not constitute the meaning of the  whole sentence, (i. e. are not parts of its  whole meaning,) and therefore, as parts of  that sentence, they are not by themselves  significant ; neither do the sentences of the  discourse, understood abstractedly, constitute  the meaning of the whole discourse, and  therefore, as parts of that discourse, they are  not by themselves significant : they are sig-  nificant only as the instrumental means for  getting at the meaning of the whole sentepce  or the whole discourse. Till that sentence  m oration is completed, the Word t is unsaid  which represents the speaker's thought- If   ♦ 4^6jvii (ni/xAVrixiii vi'; A*sf oj oOih B<rri xalP abrh arif/iotv-i   rikiv. De Poetic c. 20.   f In this wide sense of the expression is the Bible  called the Word of God. We shall distinguish the  term by capitals, as often as we have occasion to use it  with simitat comprehensiveness erf meaning.        '$^ ON GRAMMAR. [ CHAP. I.   it be asserted that the parallel does not hold  good with regard to such words as Aristotle  has in view, because, of words ordinarily so  called, the parts, namely the syllables, are not  significant at all, while words and sentences  which are parts of larger portions of dis-  course, are admitted to be abstractedly sig-  nificant, however it may be that their abstract  meaning is distinct from the meaning they re-  ceive by mutual limitation, — we deny the  fact which is thus advanced to disprove the  parallel : we affirm that syllables are signifi-  cant which are common to many words ; for  instance, common prefixes, as wn, mis, corif  dis, bi, tri, &c.; and common terminations,  as nesSjJul, hood, tion, fy, &c. j and so would  every syllable be separately significant, if it  occurred frequently in different combinations,  and we could abstract out of such combina-  tions the least shade of something common in  their application : nor is it peculiar to syllables  to be without signification individually; the  same thing happens to words when they are     \     SECT. 21.] ON GRAMMAR. 57   always combined in one and the same way in  sentences *. Conceiving, then, that we are  fully warranted in the foregoing statement, we  affirm it to be the true basis of Grammar, Lo-  gic, and Rhetoric. Leaving the latter two  subjects for their respective chapters, we pro-  ceed, in this chapter, with such further proofs  as may be necessary to confirm our position  as far as Grammar is concerned.   21. We have imagined the gradual de-  velopment of all the parts of speech recog-  nized by grammarians ; but no reference has  yet been made to the inflexions which some  of them undergo; nor to the diflference of  meaning they receive in consequence of such  inflexion ; nor to interchanges of duty among  the several parts of speech ; nor to pecu-  liarities of use, which so oflen take from them  their characteristic differences; nor to va-   " What separate meaning, for instance, is there,  now, in the words which compose such phrases as, by-  and'bij, goodJi'ye, ftatc-du-you-do, 8cc.     I ON GEAMMAB. t^CHAP. I.   riety of phrase in expressing the same mean-  ing j nor to the power which we frequently  exercise of making the same communication  by one or by several sentences ; nor, in  short, to the multitude of refinements which  grow out of an improving use of language,  many of which seem to confound and destroy  the definitions we obtain from the first and  simplest forms of speech. All these seeming  irregularities will, however, find a ready key  in the general principles we have ascertained.  For our general principles are these : i. That  two or more words joined together in order  to receive, by means of each other, a more  particular meaning, are, with respect to that  meaning, inseparable j since, if separated,  they severally express a general meaning not  included in the more particular one. Hence  it follows, that words may as easdy receive a  more particular meaning by some change of  form, as by having other words added to  them : nay, it seems more natural, when the  principle is considered, to give them a more     SECT. 21.]     ON GRAMMAR.     59     particular meaninjj by a change of form than  fay any other way. — ii. That a word is tliis or  that part of speech only from the. office it  fulfils in making up a sentence. From this  principle it follows, that a word is liable to  lose its characteristic difference as often as it  changes the nature of its relation to other  words in a sentence ; and it also follows, that  every now and then a word may be used ia   L8ome capacity wliich makes it difficult to be  assigned to any of the received classes of  words. — iii. That since the parts of which a  sentence is composed denote general know-  ledge, distinct from the more particular mean-  ing of the whole sentence, it may be possible i  to work our way to a particular conclusion,  either in reasoning for ourselves or in per- j  auading others, by putting such words to-  gether as form a sentence, that, as a whole,  expresses the particular conclusion; but that  when, from the length of the process, this  cannot be accomplished in a single sentence,  we shall be obliged to work our way by many     ON GRAMMAR.     [chap. I,     sentences, whicli will bear the same relation  to the conclusion implied by them as a whole,  as the parts of each sentence bear to what  the sentence expresses. From this principle  it follows, that using many or fewer sentences  to arrive at the same result, will frequently  be optional. The examination of these se-  veral consequences a Httle more in detail  with reference to the principles from which, i  they flow, will complete the chapter.   22. It is well known, that the inflexions  which nouns, verba, and kindred words are  liable to in many languages, are comparatively  unknown in English, the end being for the  most part attained by additions in the shape  of distinct words. Thusthe particular re-  lation of the word Marcus to the other words  in the sentence, which in Latin is made  known by altering the word into Marco, is  signified in English by the word io ; and to  MarcuSy esteeming the two words as one ex-  pression, is the same as Marco. So likewise  the word amo, which in English signifies /     SECT. 23.] ON GEAMMAR.     Gl     l&ve, is adapted to a different meaning by  being changed into amabit, which in English  is to be signified by he mil love, the three  words, taken as a whole, being the same as  the single Latin word. Shall we call to Mar-  cus the dative case of Afarcus, and he will ,  love, the third person singular of the future  tense of / love, as Marco and amabit are re-  spectively called with reference to Marcus  and amo? or shall we parse (resolve into  grammatical parts) those English sentences,  and so deny, in our language, a dative case and '  a future tense ? It is evident that this is a  question which only the elementary grammar-  writer is concerned with : he may suit his own  convenience, and contend the point as he -I  pleases. Thus much is certain, and is quite  sufficient for our purpose, — that to Marcus ,  cannot be considered a dative case, nor he wiU ]  love a future tense, on any other principle than  the one it is stated to flow from, namely;  that marked i. in Sect. 21.   23. To the practical grammarian we may     64     ON GnAMMAR.     [[chap. I.     likewise frequently allow, for the sake of con-  venience, the continuing a word under its  usual denomination, when its office, and con-  sequently its character, are essentially changed.  He will love, taking the three words as one  expression, are a verb both on the principles  we have ascertained, and in the practice of  the elementary grammarian : but in parsing  tliis verb — this p^iio, dictum, communication,  01 sentence, — only one of the three words  can properly retain the denomination of verb,  viz. that word to which the others have a re-  ference, by which they hang together, and  are signified to be a sentence, namely, ■will.  As to the word love, which the practical  grammarian will tell us is a verb in the infi-  nitive mood, it does not in fact fulfil the  office of a verb, but of a substantive. But if,  by calling it a verb in the infinitive mood, its  character for practical purposes is con-  veniently marked, we may fairly leave the  matter as it stands. All we insist upon is,  that the doubtful character of the word is a     SECT. 23.] ON GBAMMAB. 63   consequence of the principle marked ii. in  Sect 21."     I • Strictly, there is no verb but when a c  cation ib actually made ; and that word is then the  verb, which expreaseB the communicatioti, or which,  when several words are necessary, ie the sign of union  among the whole of them. A verb not actually in  use is acaptain out of commission, and if we still call  it a verb, it is by courtesy. Home Tooke never an-  swered his own question, " What is that peculiar dif-  ferential circumstance, which added to the definition  of a noun, constitutes a verb ?" (Diversions of Purley,  Vol. II. p. 514),) because he bad previously blinded  himself to the perception of what it is, by laying down  the principle already animadverted upon in a note ap^  ponded to Sect. 3., namely, that the business of the  mind, as far as regards language, extends no fiirther  than to receive impressions: the consequence of which  priuciple would be, (if it could have any consequence  at all,) that the first invented elements of speech were  nouns, or names for those impressions ; which accord-  ingly seems to be his notion, and that verba afterwards  arose from nouns, by assuming the difierential some^  thing that was found to be wanting. Our doctrine is,  that the original element of speech contained both the  artificial noun and the artiiicial verb ; that the mind  exerted its active powers in order to evolve the artir  ficial parts ; that the act of joining them together     M ON GRAMMAR. [CHAP. I.   S't. It might also perhaps admit of dis-  pute, whether substantives in what are called  their oblique cases, do not, by being the ad-  juncts to other words, and taking a change  of form to signify their servitude, cease in  fact to be substantives, and merit no higher  name than adjectives or adverbs. But here  again we consult convenience by using the  descriptive title, a substantive in the geni-  tive, dative, accusative, or ablative case. We  only need insist, as philosophical inquirers,  that the definition of a substantive in Sect.  15., is not less correct, because it does not in-  clude a substantive in these oblique cases*.   i^ain, made them a verb ; but if the title was given to  one more than to the other, it was given to that which  arose most immediately from the occasion, and took  the other to fis or determine it ; and that subsequently  that word in a sentence came to be coneidcred the  verb, which joined the parts K^ether, and signified  them to be a sentence.   * The only oblique case in English substantives,  is the genitive terminating in 'fi or having only the  apostrophe, the s being elided. Grammarians, in-  deed, have found it necessary to allow an accusative.     SECT. 25.] ON GRAMMAR. G5   25. The very doubt itself which so often  arises, whether a word is this or that part of  speech, — the varying classification of the parts  of speech by different grammarians, — are cir-  cumstances entirely favourable to the theory  advanced, and adverse to any theory which  attempts to explain the parts of speech by a  reference to the nature of our thoughts in-  dependently of language. For if the parts of  speech had taken their origin from this cause*   because pronouns have it : for if  in the sentence Cas-  s-iua loved him, we put the noun where the pronoun  stands, and say, Casmus loved Brutus, it seems con-  venient to consider the noun to be in the same case  that the pronoun was in. On the same principle, the  substantives which, in the classical languages, have no  accusative distinct from the nominative, are neverthe-  less considered to have an accusative, because, lite  other substantives, they can be used objectively with  regard to verbs active and certain prepositions. On  the score of convenienee this must be allowed. But  when words are taken separately, (and this, by  the very delinttion of the word, is the business of  parsing,) it is evident that only those substantives  are, strictly speaking, in the accusative case, which,  when uaed as just staled, have a form to signify it.     ON GRAMMAR.     [chap.     surely we could never have been in doubt  either as to vskat, or koio many, they were.  But our theory accounts at once for the in-  certitude on these, and many other points.  We admit no original element of speech but  the VERB, or that one sign which denotes what  the speaker wishes to communicate. If no  one sign can be found adequate to the occa-  sion, then we must make up a sign out of two  or more. Now the division of a verb into  these parts of speech, is necessarily attended  by the consequence, that each part is insigni-  ficant of a communication by itself, and that  they signify it only by being joined together.  Supposing a sentence never consisted but of  two parts, the mere act of joining them to-  gether, would be sufficient to signify that  they were a sentence or verb. But the ne-  cessity or usage of speech being such, that  the hearer knows a sentence may consist of  two or of many words, how is he to be warned  that a sentence is formed, unless to certain  words is given the power of signifying a sen-     SECT. 25.] ON GRAMMAR. G?   tence, while to other words this power is de-  nied until associated with a word of the for-  mer class? Hence the distinction between  noun and verb ; a distinction arising out of  the necessities of speech, and not out of the  nature of our thoughts. The noun and the  verb, then, are the original parts of speech, the  verb beingthepreviouselementof both. But  as each derives its office and character solely  from an understanding between the speaker  and the hearer, a change of understanding  may make them change their offices, and so  the verb shall sometimes be a noun, and the  noun a verb. These changes occur in fact  so frequently, as to require no example.  Then, as we have seen, a noun will frequently  be used as the adjunct of another noun, and  so become an adjective j an adjective or other  word may be joined to a verb, and so become  an adverb j and any of these, by frequent use  in particular combinations, may acquire, or  seem to acquire, a new and peculiar office,  and so become articles, prepositions, and con-     ON GRAMMAR.     [chap. I.     junctions. But who can ascertain that de-  gree of use, which, to the satisfaction of every  grammarian, shall fix them in their acquired  character • ? Nay, must not every such word,  of necessity, while in transitu, be at one period  quite uncertain in its character ? In this man-  ner do the effects arising out of such a theory of  the parts of speech as we have supposed, agree  with actual effects, and fully explain them.  26. Again, on any other hypothesis than  the one before us, what are we to think of  compounded nouns, adjectives, verbs, adverbs,  &c., of which all languages are full ? With-  out adverting to established compounds, such  as (to take the first that occur) husbandman.     * What, for instance, shnll we call the word fi/ce in  such phrases as like him, like me? Originally theword  unto intervening between it and the pronoun, govern-  ed the latter ; but unio cannot now be aid to govern  the pronoun, since it has been so long disused, as to be  no longer mtderstood. We miglit therefore say, that  like is a preposition governing the pronoun : — the  point perhaps is disputed ; — be it so : for this fact jugt  serves our argument.     :6.]     ON ORAMMAK.     m     worJcmanlike, waylay, browbeat, nevertheless ;  without bringing words from the ilUmitably  compounded Greek language, — we may refer  to such as are not established, but compounded  ibr the particular purpose ; as when Locke  speaksof '* Mr. 'Nev/ton'sjiever-enough-io be ad-  mired book," where the words in italic are an  adjective; and when some old lady pettishly  says to her grandchild " Don't dear Grand'  mother me i" v/here the whole sentence, ex-  cept the pronoun governed in the accusative,  is a verb. So in the phrases to fiAxov <rvvoia-eiv  7^ iroXei the being-about-to-be'prqfitable-to-t/ie-   Ci'/y,— and, TO Tct Tou iroXefiov raj^ii xal Kara   Kaipov Trpa.TTea$at, the completing-spcedili/'and-  seasonablif-the'lhings-for-the-war, we are war-  ranted in considering the whole of the words  following the article, to be, in each instance,  a noun-substantive. For these, and for every  other species of compound, the theory before  US at once accounts. For it shows that the  use of many words to form one sentence, arises  out of the necessities of language only, the na-     w     ON GRAUMAR.     [^CHAP. I     tiira] impulse of the mind being tomake its com-  munication by a single expression. Having  complied, then, with the necessities of lan-  guage, and rendered it capable of serving as  the interpreter of much more knowledge than  we could have attained without its help ; we  then return on our steps, and give a unity to  our expressions in every possible way.   27. The corruption of early phrases, by  which, in so many instances, they come under  the denomination of adverb, will be found  another obvious consequence of the present  theory, while they abundantly perplex the  grammarian who attempts to reconcile them to  any other system. "Omnis pars orationis"  says Servius, "quando desinit esse quod est,  migrat in adverbium." " I think" says Home  Tooke, " I can translate this intelligibly —  Every word, quando desinit esse quod est,  when a grammarian knows not what to make  of it, migrat in adverbium, he calls an ad-  verb."* What indeed can be made of such     ' Divctsioiia vi Puiky, Vol. I.     SECT. 270 Of* GRAMMAR.     71     expressions as at all, by and by, to be sure, for  ever, long ago, no, yes. They are adverbs,  say the grammarians. But (to take the  phrases first) what are the words, individually,  of which the adverbs are composed? The  answer will be, they are prepositions, adjec-  tives, &c., which remain from the corruption  of regular phrases once in use. This is a true ,  account of the matter : — yet it leaves us still  to ask, what ai'e these single words, now that  the phrases which produced them exist no  longer in their original state. Let any gram-  marian, if he can, prove their right to the  name of any of the received parts of speech.  Our system, if it does not make a provision  tor them by a name for a new class of words,  at least shows the cause and the nature of their  difference. For according to our principles,  words have both a separate and a, joint signifi-  cation. But if words should be constantly     another place, he says " that this class of words, (ad-  verb,) is the common sink and repository of all hetero-  geneous, unknown corruptions."     w     ON GRAMMAR.     [chap, r.     occurring in particular combination, this ef-  fect will enaue, — that their separate significa-  tion in such hackneyed phrase, will at last be  quite unattended to, and their joint significa-  tion alone regarded ; — and such phrases will  then be as liable to be clipped in the currency  of speech, as any long word which is trouble-  some to be uttered at full : — thus will the re-  maining parts of the phrase be fixed for ever  in their joint, and lose for ever their separate  signification*. So much for the words com-  posing adverbial phrases. But what are we  to say for no, yes, which probably had the  same origin as the phrases ? These have not,  Hke the phrases, a compound form, nor do  they, like the phrases, always assist in making  up a sentence, but are frequently and proper-  ly pointed oft' by the full stop. Are we, un-  der such circumstances, to call them adverbs P  •• Yes." This is the answer our grammarians  make. But is there, in these words, any     • Thcwordtoas asignofthcinfiiiitivL'moodcumcs  onilcr this doicnption.     SECT. 28.] ON GRAMMAR.     73     thing which gives them a just claim to be  ranked with any of the received classes of  words? " No." This is an assertion it would  be difficult to gainsay. For consider them  well, and we shall find, that, in their present  use, they are not j3ar/s of speech at all, except  with reference to the larger portions of dis-  course of which all the sentences are parts :  they are sentences ; and they afford a striking  example of what was intimated in the prece-  ding section, namely the tendency oflanguage,  in a mature state, to return on its early steps  as far as can be done without losing the ad-  vantages gained : for not only do we, when-  ever we can, bring the smaller parts of speech  into such union as to form larger parts, but  in some instances, (as in these last,) we come  round again to the simpHcity of natural signs.  28. This union of the smaller into larger  parts of speech, and the power we have to dis-  pose the same materials into more or fewer  sentences, will furnish further proofs, that the  present theory of language can alone be the     74     ON GRAMMAR.     [chap.     true one. A proper examination of compound  sentences will show, that the grammatical  parts into which they are first resolvable, are  not the single words, but the clauses which  are formed by those words ; which clauses are  substantives, and verbs, and adjectives, and  adverbs, with respect to the whole sentence,  however they may, in their turn, be resolva-  ble into subordinate parts of speech bearing  the same or other names. To take the fol-  lowing as an example : " The sun which set  this evening in the west, will rise tomorrow  morning in the east." The two parts into  which this sentence is resolvable, are, to all  intents and purposes, a noun-substantive and  a verb, if considered with respect to the whole  sentence*. This is the first, or broadest ana-   * And HO may the two parts (technically called the  protasis and apodosis) of every periodic sentence be  considered : for every period, (TEfi'ofos, a circle,) is re-  solvable into two chief parts, the one assimilated to  the semicircle tending out, the other to the rendering-  in, or completing semicircle. These answering parts  ate commonly indicated in Greek by iJth — ft; in En-     *■]     ON CRAMMAlt.     75     lysis. Then taking the former of these two  chief constructive parts, we shall find it re-  solvable into these two subordinate parts, viz.  the sun, a noun substantive, and w?iick set this  evening in the west, its adjunct or adjective : —  the latter chief constructive part being in the  same way resolvable into will rise, a verb, —  and, tomorrow morning in the east, its ad-  junct or adverb. Returning to the adjective  of the former chief constructive part, we shall   gUsh very frequently by as — so; though — yet, &c.  There may exist a doubt in most sentences so construct-  ed, whether the one part has a claim to be considered  tlie verb more than the other : each part is meant to be  insignificant by itself, and, {as was lately supposed of  the parts of speech in their early institution, before a  sentence was composed of more than two words,) they  Bifrnify a communication by the very act of being join-  ed together. Yet as the protasis is a clause in sus-  pense, and so resembles a substantive in the nomina-  tive case before the verb is enounced ; — as the apodo-  618 removes the suspense, and so resembles the verb in  its effect on tlie substantive ; — it seems that in con-  Hidering the protasis as a nominative case and the apo-  dosis aa its verb, we shall not be far from taking a ,  right view of the principle and procedure.     76     ON GRAMMAR.     [chap.     find it, if separately viewed, to be a sentence  having its nominative which, its verb set, and  the latter having its adverb tins evening in the  ivest ; which adverb is resolvable into two  clauses of which the former consists of the de-  monstrative adjective this, and evening, a sub-  stantive used objectively with relation to the  preposition on understood •• The latter clause  in the west is nearly similar in its grammatical  parts ; but the preposition it depends upon, is  not understood. This subordinate or adjec-  tived sentence which we have thus taken to  pieces, (viz. which set this evening in the west,')  is however no sentence when considered with   " Or more properly this eeening is an adverb ; for a  word cannot justly be called understood, when its ab-  sence is not suspected till the grammarian informg us of  it : — on before euch phrases when the custom to omit  it had just begun, was indeed understood; it is now  understood no longer, and what remains of any such  phrase is an adverb. As the next clauses, in the tceat,  retains its preposition, we are at liberty to parse the  clause, instead of considering it, in the whole, as an  adverb attcndijig the verb set, though we are also ab  liberty to consider it in the latter way.      *■]     ON GilAMMAR.     77     reference to the larger sentence of which it is  a grammatical part : but it might, if the  speaker had pleased, have been kept distinct,  and the same meaning have been conveyed by  two simple sentences, as by the one com-  pound one : e. g. " The sun set this evening  in the west : — It will rise tomorrow morning  in the east." Here, we have two sentences or  commuuications. But this is nothing more  than a difference in the manner of conveying  the thought, precisely analogous to the using  of two words that restrict each other, in place  of a single appropriate sign. In the instance  before us, the thought, whether expressed by  the one sentence or the two, is the same ; and  it is one and entire, whatever the expression  may be. For we must not confound the two  facts referred to in the sentences, with what  the mind thinks of the facts : — it is the con-  nexion of the facts that the speaker seeks to  make known. Yet he may imagine he can  best make it known by using the two sen-  tences ; for though, it is true, that while they     78     ON GRAMMAR.     [chap. I.     are in progress, they will be understood se-  parately, yet no sooner will they be com.  pleted, than the hearer will understand them  limited and determined the one by the other,  and no longer abstractedly as while they were  in progress. In this manner, in correspond-  ence with the principle stated Sect. 21 . iii., will  the same result be obtained by the two, as by  tlie one sentence.   29. This power, which exists in all lan-  guages, of expressing the same thought in a  variety of different ways, is, one would think,  a suiEcient proof, by itself; that thoughts and  words have not the kind of correspondence  whicli is commonly imagined : for if such cor-  respondence had existed, the same thoughts  would always have been expressed, if not by  the same words, yet by words of similar mean-  ing in the same order. Let us suppose that  tlie expressing a thought by several words,'  I had been, (which it is not,) a process analo-  gous to that of expressing the combined sounds  of a single word by several letters. There is     SECT. 29.] ON GRAMMAR.     79     the more propriety in instituting tlie compa-  rison, because men were driven to the latter  expedient by a necessity similar to that which  drove them to the former. For, no doubt,  the first idea of the inventors of writing was,  to appropriate a character for every word ; and  we are told that, to this day, a practice near  to this prevails in China, But it was soon  found that the immense number of characters  this would require, must make the completion  of the design next to impracticable ; and the  expedient was at length adopted of spelling  words. By this expedient, twenty four cha-  racters, by their endless varieties of position  with each other, are capable of signifying the  multitude of words, and the innumerable sen-  tences, which constitute speech. The parts  of speech were set on foot by a similar urgency,  and in tlie same way. At first, every sound  was a sentence. But the communications  which the business of life required, far, far  outnumbered every possible variety of sound.  It was fortunate, therefore, when a necessity     eo     ON CnAMMAR.     [chap. I,     arose to give to some of the sounds a less par-  ticular application ; for then the requisite sign  was formed out of two or more sounds already  in use, and no new sound was required. So  far the parallel holds ; but it will go no further.  In the spelling of words by letters, the same  letters must always be used, — if not the same  characters, yet characters of the same power.  And it would have been the same in spelling  a thought by words, if the process had been  what it is commonly supposed to be :— that is  to say, the same thought would always have  been expressed by the same words, or if  the words had been changed, the change  must have been word for word, as in a  completely literal translation from one lan-  guage to another. How different this is  from fact, hardly needs further examples in  proof. Mr. Harris attempts to shew *, that     • Hermes, Book I. Chap. 8. We cordially agree  in Home Tooke's opinion of thia well-known work,  that it is " an improved compilation of almost all the  enors which grammarians liave been accumulating     SECT. 290 *^^ GRAMMAR.     81     tlic different forms or modes of sentences,  depend on the nature of our thoughts. That  the character of a thought has an influence in  determming our preference of this or that  mode of speech, needs not be questioned; but  all the modes of speech, are interchangeable  at pleasure, and therefore they cannot aub-  stantiallydepend on thenature of our thoughts.  An affirmative sentence, " 1 am going out of  town," ma be made imperative, " know,  that I am going out of town ;" or interrogative,  *' Is it necessary to say, that I am going out  of town ?" A negative sentence, " No man is  immortal," maybe made affirmative, "Every  man is mortal." It would waste time and  patience to multiply examples. The con-  clusion, then, is, that the parts of speech and   from the time of Aristotle, to our present days." Di-  versions of Furley, Vol. I. page 120. Vet occasionally,  when our etymologist runs a little bard on this Com-  piler of errors, the theory we advance, opposite as it ib  in its general tenor to all that the Hermes conttuns,  will be found to lend its author a lift. See the section  ensuing in the text.     ON CnAMMA     [chap.     the forms of sentences, are alike attributable  to the necessities and conveniences of lan-  guage, and not to the nature of our thoughts  independently of language. Perhaps by this  time it may almost seem that an opinion con-  trary to this has no defined existence, and that  the combat has been against a shadow. But  this is not true. If the opinion opposed to the  principles contended for, is seldom ^rwio%  expressed, it is nevertheless universally under-  stood — it is at the bottom of all the systems  of grammar, of logic, and of rhetoric, which  we study in our youth, and which we after-  wards make our children study ; and as it is  an opinion radically, essentially wrong, the  pains employed to overthrow it, cannot, if  successful, have been supeiHuous. In no  other way was a preparation to be made for  an outline of the higher departments of Sema-  tology.   30. New, however, as we believe our  theory to be, yet it is not without authorities in  its favour ; and with these we shall conclude     SECT. 30.]     ON GRAMMAR.     the chapter. Harris, the author of" Hermes,"  in treating of connectives, stumbles unawares  on the fact, that a word which is significant  when alone, may he no significant part of  what is meant hy the expression it helps to  form. He makes nothing indeed of the fact,  further than to lay himself open to the ridicule  of Home Tooke for tKe inconsistent assertions  in which it involves him. " Having " says  Tooke *, " defined a word to he a sound sig-  nificant, he (viz. Harris) now defines a pre-  position to be a word devoid of signification ;  and a few pages after, he says, ' prepositions  commonly transfuse something of their own  meaning into the words with which they are  compounded.' Now if I agree with him,"  continues Tooke, " that words ai'e sounds  significant, how can I agree that there are  sorts of words devoid of signification ? And if  I could suppose that prepositions are devoid  of signification, how could I afterwards allow,     ' Diversions of Purley, Vol. I. Cliap. 9.     9»     ON GRAMMAR.     [chap. T.     that they transfuse something of their own  meaning?" Yet with all this, Harris is right,  only that he is not aware of the principle,  which lies at the bottom of his own doctriue.  A preposition, as well as every other word,  is a sound significant j — it has an independent  abstract signification : but being joined into a  sentence, it is devoid of that signification it  had when alone : it has then transfused its  own meaning into the word with which It is  compounded, as that word has transfused its  meaning into the preposition — that is to say,  they have but one meaning between them.   31. But Dugaid Stewart, in his Philoso-  phical Essays, furnishes a direct, and a more  satisfactory authority in favour of the theory  we have advanced. " In reading " says he •,  " the enunciation of a preposition, we are apt  to fancy, that for every word contained in it,  there is an idea presented to the understand-  ing ; from the combination and comparison of  which ideas, results that act of the mind  • Philosophical Essays, Essay 5. Chap. I.     SECT. 31.] ON GRAMMAR, 85   called judgment. So different is all this from  fact, that our words, when examined sepa-  rately, are often as completely insignificant aa  the letters of which they are composed, de-  riving their meaning solely from the connexion  or relation in which they stand to others." —  Again : " When we listen to a language which  admits of such transpositions in the arrange-  ment of words as are familiar to us in Latin,  the artificial structure of the discourse  suspends, in a great measure, our conjectures  about the sense, till, at the close of the  period, the verb, in the very instant of its  utterance, unriddles the jenigma. Previous  to this, the former words and phrases resemble  those detached and unmeaning patches of  different colours, which compose what op-  ticians call an anamorphosis ; while the effect  of the verb, at the end, may be compared to  that of the mirror, by which the anamorphosis  is reformed, and which combines these appa-  rently fortuitous materials, into a beautiful  portrait or landscape. In instances of this     k      86 ON GRAMMAR. j^CHAP. I.   sort, it will generally be found, upon an  accurate examination, that the intellectual  act, as far as we are able to trace it, is  altogether simple, and incapable of analysis ;  and that the elements into which we flatter  ourselves we have resolved it, are nothing  more than the grammatical elements of  speech j — the logical doctrine about the com-  parison of ideas, bearing a much closer  affinity to the task of a school-boy in parsing  his lesson, than to the researches of philoso-  phers able to form a just conception of the  mystery to be explained." — Had this acute  philosopher brought these views of language  to the elucidation of Grammar, Logic, and  Rhetoric, and so have cleared them from the  incrusted errors of immemorial antiquity,  the reader's patience would not have been  tried by the chapter now finished and those  which are to follow.      CHAPTER 11.     ON LOGIC.     Say, first, of God above, or man below.   What can we reason, but from what we know.   POPE.   1. In commencing this branch of Semato-  logy, it may be as well to define not only this  but the other branches, that their presumed  relation and difference may at once appear :   i. Grammar, then, is the right use of  words with a view to their several functions  and inflexions in forming them into sentences ;   ii. Logic is the right use of words with a  view to the investigation of truth ; and   iii. Rhetoric is the right use of words with  a view to inform, convince, or persuade *.   * This definition includes the poet^s use of words  as well as that of every other person, who, having one  or more of the purposes mentioned in view, speaks or     fts     ON LOGIC.     [chap. II.     2, The object of the present chapter  will be, to show that there is no art of Logic  (except sucli as is an imposition on the un-  derstanding but that which arises out of the  principles ascertained in the previous chap-  ter ; — that tliis, which is the Logic every man  uses, agrees with the definition in the previ-  ous section; —and that we cannot carry the  definition further, without transgressing a  clearly marked line which will usefidly distin-  guish between Logic and Rhetoric.   3. In affirming that there is no art of Lo-  gic but that which arises out of the use of  signs, we do not mean that reason itself is de-  writes skilfully. Should it be said, that the poet's end  is to delight, — we answer that he gains this end by in-  forming, convincing, or persuading. The true dis-  tinction between the poet and any other speaker or wri-  ter, lies iu the different nature of their thoughts, In  communicating his thoughts, the poet, like others who  are skilful in the use of words to inform, convince, or  persuade, is a rhetorician ; although, with reference to  the creative genius displayed, {iroix^n a jrcn'm,) and al-  so with reference to the added ornament of metre or  rhyme, we chU the result, a poem.     SECT. 4.3     89     pendent on language. Reason must exist pri-  or to language, or language could not be in-  Vented or adopted. What we affirm is, that  prior to the use of words or equivalent signs,  »o art exists : the mind then perceives, as far  fts its powers extend, intuitively; and thus  working without media, it can no morye ope-  rate otherwise than as at first, than the eye  can see otherwise than nature enables it. The  mind can, however, invent the means to assist  its operations, as it has invented the telescope  to assist the eye ; the difference being, that  the telescope is not such an instrument as all  minds would invent, but the use of signs to  assist its operations, grows out of the human  mind by its very constitution, and the influ-  ence of society upon that constitution.   4. That writers on Logic do not in gene- '  ral view the matter in this light, is evident  from this, that they devote, or at least they  persuade themselves and their readers that  they devote, a great pait of their considera-  tion to the operations of the mind indepeud-     90     ON LOGIC.     [chap. II.     entlyof language, which, for any practical end,  must evidently be nugatory on the supposi-  tion stated above ; since, if the mind, without  the aid of signs, can but operate as nature en-  ables it, all instruction concerning what the  mind does by itself*, will but be an attempt   * WattB Bays t&at " the design of Logic, b to  teaeli us the right use of our reason." Recurring to   our comparisDU in the previous section, this is as if any  one had proposed to teach the right use of the eye. It  is true indeed, a man may be taught a right use of the  eye, — that is, he may be taught to observe proper ob-  jects by its means ; and so may he be taught a right  use of reason by applying it to those things which are  conducive to his improvement and happiness. But all  this belongs to Morals not to Logic ; nor was this  Watts's meaning. He imagined a man could be tattght  how to use his reason independently of any considera-  tion of an instrument to work with ; as if any one had  offered to teach mankind how to sec with their eyes.  Now, there is nothing preposterous in offering to show  how a telescope is to be used in order to assist the  eye ; nor any thing preposterous in trying to show  how words may be used in a better manner than com-  mon custom instructs us, in order to assist the  mind. — Be it observed that the objection here made,  is to what was proposed to be done by Watts, and not     SECT. 4.] ON LOGIC. 91   to teach us that which every one does with-  out teaching, and which no teaching can  make us do better : but if, by the use of signs,  the mind can carry its natural operations to  things which it could not reach without signs,  the instruction of the logician should at once  begin by pointing out the use and the abuse  of signs. Now this is in fact the point at  which every teacher of logic does begin, how-  ever he may disguise the real proceeding from  himself, and whatever confusion he may throw  over his subject, by not knowing in what way  he is concerned with it. In pretending to  teach us the nature of ideas j logicians do no-  thing but teach us what knowledge we attain   to what he actually does, except so far as he has done  it amiss from setting out badly. What follows in the  text will explain this last observation.   Our illustration must not lead the reader to think  we are ignorant of the fact that men do learn to see,  that is, to correct, by experience and judgment, the im-  pression of objects on the retina. We take the matter  as commonly understood, namely, that men see correct-  ly by nature, which is near enough to the truth for our  present purpose.     IB ON LOGIC. QCHAP. II.   by means of words-, and when Home Tooke  says of Locke's great work, that it is " merely  a grammatical Essay or Treatise on words," *  be comes so near the truth, that it is wonder-  ful he should have so wrongly interpreted  other parts of that philosopher's doctrine.  Putting a wrong construction on Locke's just  fundamental principle, that the mind has no  innate ideas, Tooke affirms that '* the busi-  ness of the mind, as far as it regards language,  extends no further than to receive impres-  sions, that is, to have sensations or feelings.  What are called its operations are merely the  operations of language." t This is palpably  absurd ; ftx how can language operate of it-     • Diversions of I'utley, Vol. I. page 31, note.   -j- Diversions of Purley, Vol. I. page 51. We have  already quoted this passage ; and perhaps more than  ontc : but it is hoped we need not apologise for the re-  petitions whicli may be found in this and the next  chapter. Our purpose is to trace Grammar, Logic, and  Rhetoric, to a common source, and in doing so, if they  really have an origin in common, we must necesEarily  traverse the same ground repeatedly to come at it     SECT. 4.]     93     aelf? The mind must observe, compare, and  judge *, before it can invent or adopt the lan-  guage of art ; and having adopted it, every  use of it is an exercise of the reasoning facul-  ty, excepting only that kind of instinctive use,  in which some short sentence takes the place  of a natural ejaculation. Feelings or sensa-  tions we cannot help having ; but these do not  help us to language. This requires the ac-  tive powers of the mind ; and every word, in-  dividually, will accordingly be found the sign  of something we kno-w, obtained, as every  thing we know must be obtained, by previous  acts of comparison and judgment, involving,   * These powers of the mind are innate, — that is  to e&y, they belong to tlie mind by its constitution, al-  though sensation is the appointed means for first call-  ing them forth. It should seem as if Tooke thought  nothing was bom with man except the power to receive  senEStionB or feelings, and that reason comes from Un-  guage ; an opinion so preposterous that we can hardly  think him capable of it ; and yet, from what he says,  no other can be understood : — " Jleason,"" he says, " ia  the result of the senses, and of experience." Diver-  sions of Purley, Vol. 11, p^e 16.     J^     ON LOGIC.     [CilAP. II,     in every instance beyond that which sets the  sign on foot, an inference gained by the  use of a medium. And such, as we have seen,  are the necessities of speech, that tliey lead  us constantly to extend the application of  words ; which extension requires new acts of  comparison and judgment; and thus, by  means of words, (or signs equivalent to words,)  we are constantly adding to our knowledge,  still carrying the signs with us, to mark and  contain it, and to serve afterwards as the media  for reaching new conclusions. It is only ne-  cessary to read Locke's Essay with this ac-  count of the matter in view, to prove that it  is the true account j so readily will all that he  has said on ideas, yield to this simple inter-  pretation *, He who first made use of words     * " Read," saya Home Tookc, " the Essay on the  Underslnnding over with attention, and see whether  all that its immortal author has justly concluded, will  not hold equally true and clear, if we substitute the  composition, &c. of lerraa, wherever he has supposed a  composition, Sec. of ideas. And if that, upon strict  examination, appear to you to be the case, you will     SECT. 4.]     95     equivalent to yellow, white, heat, cold, soft,  hard, bitter, sweet*, used them, respectivelyy  to signify the individual sensation he was con-  scious of, and in that first use, the expression  must have been a sentence, or tantamount to  a sentence. By experience, he came to know  the exterior cause of that sensation, and after-  wards, by the same means, to know that other  need no other argument against the composition of  ideas : it being exactly similar to that unanswerable one  which Mr. Locke himself declares to be sufficient  against their being innate. For the supposition is un-  necessary : every purpose for which the composition  of ideas was imagined being more easily and naturally  answered by the composition of terms, whilst at the  same time it does likewise clear up many difficulties in  which the supposed composition of ideas necessarily in-  volves us." Diversions of Purley, Vol, I. page 38.  In this, and other passages, H. Tooke is very near  the trutli ; but he nevertheless misses it. " The com-  position, Sic. of terms "' in lieu of " the composition, &c.  of ideas," does not describe the actual process. But  Tooke, who discovers that Locke has started at a  wrong place, begins his own theory from a false found-4  ation.   • yide Locke, B. 2. ad initium : we have used  the examples before. Chap. I, Sect. 16.     ».     ON LOGIC.     [chap. It,     ol^ects produced the same sensation. To  these several objects he would naturally apply  the expression (originally tantamount to a sen-  tence) by which he first signified the sensa-  tion ; and suppose those objects already pro-  vided with namesj the expression would, in  such pew application, be tantamount to a  name or noun-adjective. Thus in the several  instances, he would use two names for one  thing, in correspondence with our present  practice when we say, yclhw flower, yellow  sky, yellow earth, yellow skin. Such a proce-  dure is an effect and a proof of what the speak-  er has observed in common, and of what he  observes to be different, in the several ob-  jects; and this is a knowledge evidently ob-  tained from comparison and judgment exer-  cised on many particulars. The same know-  ledge enables us, when we please, to drop the  words which name the objects accojding to  their differences, and to retain only that which  signifies their similarity, and the name-adjec-  tiv e then becomes a name-substantive stand-     gECT, 5.3 ON LOGIC. 97   ing for the sensation itself whenever or how4  ever produced, and not standing for it in amy  particular case, until limited to do so by the  assistance of other words. Individually and  separately, then, these words^ viz. yellow;  white, heat, cold, soft, &c. are, to him who  has properly used them in particulars, tiie  eigns of the knowledge he ha^ gained by com^  paring those particulars :«^hey denote con-  clusions arising out of a rational process which  has been carried on by their means ; which  conclusion, as to the word^elloWf for instaop^  is this, — ^that there are » great mwy Qbjepte  which produce the same sensation, or a sensar  tion very nearly the same j*— ^(very nearly the  same, since yeU&w^ by all who have acquired  a full use of the word, is applied to different  shades of yellow j — ) and to understand the  word, is to have arrived at, or kno^ this cof^-  elusion.   5. The words so far referred to, are those  which denote what Locke calls simple ide^js.  Now, we may reasonably doubt wheth^ the   H     98 ON LOGIC. ^CHAP. II.   mind could have obtained the knowledge,  which, as we have seen, is included even in  a word of this kind, if it had not been gifted  with the power of inventing a sign to assist  itself in the operation. That sign needs not  be a word, though words are the signs com-  monly used. He who remembers the sensa-  tion of colour produced by a crocus, is re-  minded of the crocus the next time he has  the same sensation from a different thing ;  and the crocus may become the sign of that  sensation arising from the new object, and  from every future one. And this is the way  in which the mind probably assists itself an-  tecedently to the use of language, or where,  (as in the case of the totally deaf *,) the use of     * Though long for a quotation, yet we cannot re-  sist transcribing, from a work by Dr. Watson, master  of the Deaf and Dumb Asylum, Kent Road, near  London, the following able remarks : — they will help  to shew how for superior are audible signs to every  other kind, and place in its proper light the misfor-  tune of being naturally incapable of them. He is  speaking of the comparative importance of the two     SECT. 5.3     99     it, by the ordinary means of attainment, is  precluded. But for this power of the mind,   senBES, hearing and seeing. " Were the point," he  says, " to be determined by the value of the direct  sensations transmitted to the sensorium through each  of them, merely as direct sensations, there could not  be any ground for a moment's hesitation in pro. ,  nouncing the almost infinite superiority of the ej/e to ]  the ear. For what is the sum of that which we derive I  from the car as direct sensation P It is sound ; and  sound indeed admits of infinite variety ; but strip it of j  the value it derives Irom arbitrary associations, and it  is but a titillation of the organ of sense, painful or  pleasurable according as it is shrilly soft, rough, dis-  cordant, or harmonious, Sec. Should one, on tlic con-  trary, attempt to set forth the sum of the information we  derive from the eye " — independently of the aid derived  from arbitrary means — " it is so immense, that volumes  could not contain a full description of it ; so precious,  ' that no words short of those we apply to the mind itself,  can adequately express its value. Indeed, all lan-  guages bear witness to this, by figuratively adopting  visible imagery to signify the highest operations of in-  tellect. Expunge such imagery from any language,  and what will be left ! What, in this case, must be-  come of the most admired productions of human ge-  nius P Whence then (and the question is often asked) 1  does it arise, that those bom blind have such su-  h2     100 ON LOGIC. [chap. 11.   which seems pecuHai* to man, and is the  cause of language, (not the effect of it, as     perlority of imelligence over those bom deaf? Take,  it miglit be said, ii boy nine or ten years of age who  has never seen the light, and you will find him con-  versable, and ready to give long narratives of past oc-  currenceH, &c. Place by his side a boy of the same  age who baa had the misfortune to be bom deaf, and  observe the contrast. The latter is insensible to all  you say : he smiles, perhaps, and his countenance ie  brightened by tlie beams of ' holy light;' he enjoys  the face of nature; nay, reads with attention your  features ; and, by sympathy, reflects your smile or  your frown. But he remains mute : he gives no ac-  count of past experience or of future hopes. You at-  tempt to draw something of this sort from him : he  tries to understand, and to make himself understood ;  but he cannot. He becomes embarrassed : you feci  for him, and turn away from a scene so trying,  under an impression that, of these two children of mi^  fortune, the com])ari8on is greatly in favour of the  blind, who appears, by his language, to enter into all  your feelings and conceptions, while the unfortunate  deaf mute can hardly be regarded as a rational  being ; yet he possesses all the advantages of vi-  sual information. All this is true. But the cause  of this apparent superiority of intelligence in the blind,  is seldom properly understood. It is not that those     SECT. 5.3 ON LOGIC. 10]   H. Tooke seems to tliiak,) we never should  have been able to arrange olyects in classes,   who are blind possess a greater, or anything like an  equai stock of materiak for mental op^adons, but bs-  cause they possess an invaluable etigine for forward-  ing those operotioiis, however scanty the materials to  operate upon — artificial language. Language is de-  fined to be the expression of thought ; so it is : but it  is, moreover, the medium of thinking. Its value U>  man is nearly equivalent to that of his reasoning fa-  culties: without it, he would hardly be rational. It  is the want of language, and not the want of hearing,  (unless as being the cause of the wont of language,)  that occasions that deficiency of intelligence or ine&.  pansion of the reasoning faculty, so observable in the  naturally deaf and dumb. Give them but language,  by which they may designate, compare, classiiy, an4  consequently remember, excite, and express their sen^  sations and ideas, — then they must surpass the origin<  ally and permanently blind in intellectual perspicuity  and correctness of comprehension, (as far as having  kctual ideas afiixed to words and phrases is concerned,)  by as much as the sense of seeing, furnishes matter for  mental operations beyond the sense of hearing, con-  Eidered as direct sensation. It is one thing to have a^  fluency of words, and quite another to have correct no-  tions or precise ideas annexed to them. But though  the car furnishes us only with the sensation of sound,     t^ ON LOGIC. [chap. II.   and reason on them when so arranged ; nor to  consider some common quality in many ob-  jects, separately from the objects themselves.  Every object might have produced the same  individual effect by the senses, which it now  produces, and have been recognized as the  same object when it produced the effect  again ; for all this happens to other animals,  as to man ; but to know a something in each  which is common to many, implies a remem-  brance of that something in the rest at the  time of perceiving each individually j and  how can this remembrance, (a remembrance   and sound, merely as such, can stand no comparlEOD  with the multiform, delightful, and important informa-  tion derived from visual imprestiioDS ; yet as sound  admits of such astonishing variety, (above all when  articulated,) and is associablc, at pleasure, in the mind  with our other sensations, and with our ideas," (notions,)  " it becomes the ready exponent or nomenclature of  thought ; and in this view is important indeed. It is  on thie account, chiefly, that the want of hearing is to  be deplored as a melancholy chasm in the human  frame.'" Instruction of the Deaf and Dumb, in 3 Vols.  Edit. 1809. Vol. I. p. 49.      SECT. 6.]     ON LOGIC.     103     not of the objects, but of a common some-  thing in all of them,) how can it be kept up,  but by a sign fitted to this duty ; which sign,  as just observed, may be either a word, or  one of the objects set up to denote the com-  mon characteristic, and retained in mind  Bolely for this purpose, in this representative  capacity ?   6. In proceeding from what are called by  Locke simple ideas to those he denominates [  complex, we shall find the account just given  equally applicable. The words he refers to .  under the threefold division of Modes, Sub-  stances, Relations, are, as our last examples,  signs of certain conclusions obtained from s  comparison of particulars. This is true even \  of a proper name ; for a proper name, as was '  shewn Chap. I. Sect. 3., does not denote an  individual as we actually perceive him, or as. J  we remember him at any one time ; but it J  denotes a notion, that is, a knowledge of him I  drawn out of, or separated from all our par- '     I04f oNr Lo&ic. [cHap. ii.   ticular perceptions *• For such an effect of  reason^ we have however nb certainty that  the superior powers of the huknan mind ar«  indispensable; nor is it eiisy to ascertaiq  any peculiar privilege it enjoys till we find  it rising from individuals to classes. As  soon as it sets up a sign to represent some  property, whether pure or mixed, which has  been observed iA many individuals,— or to re-   * It id aft efifect of reaisoiiing to know that a pa]>>  ticular act or situation, which enters into our percep-  tion or conception of an object, is not essential — to  know, for instance, tliat the act of walkiAg is ftot es-  iBentiAl to John. The reasoning by which «uch k^w-  ledge is acquired, occurs indeed so early, that the  operation is forgotten ; but there was a time when our  perceptions were without the knowledge, because they  had not been repeated i^ isu^ti^t hUtiibet to leHkbl^  the mind to make the BCcessary ootaipluidcms^ Th^  natives of the South Sea Islands^ when Cttptaia Cook  <8nd his companions first made their appearance among  them, took every sailor and his garments to be one  creature, and did not arrive at a different condhision,  but by o{>portuiiitte6 fdr comparicon.     5-]     ON LOGIC.     105     present the whole class of individuals, so  classed because of the common property, — ^it  displays a power of assisting itself which we  have no cause to think any of the inferior  animals enjoy. To ahew how this takes place  in producing what Locke calls complex ideas,  and which he subdivides into Modes, Sub-  stances, Relations, would only carry us onc^  more over the ground we have so often cur-   Lsorily traversed. We should have to shew,  for instance, how some word, at first equiva-  lent to a sentence, by which a man expressed  his delight at a particular visible object, came  to be a name for the object ; how this name  beauly, came to be applied as a noun-adjec-  tive to the nouns-subatantive of other objects  producing the same or a similar emotion j  how, by the continued application of this  noun-adjective, we kept on comparing innu?  merable particulars, till our knowledge (no-  tion) included a very wide class of things  very different indeed in other respects, — nay^  including objects of other senses than sight—     106     [chap. II.     but still, agreeing with each other in a certain  effect produced on the mind : and that then,  dropping the nouns-substantive of the nu-  merous individuals, we retained solely in con-  templation the noun beautiful or beauty, the  sign of the knowledge we had gained from  this extensive comparison— of the induction  derived from these numerous particulars *.   • Very few persons reach so wide a knowledge of  the subject as we here refer to, and books may be, and  have been written, to teach us how to apply the word  beautiful with taste, and critical — nay, moral pro-  priety. Having attained so far, we are not to suppose that  beautiful or beauty is a real existence independently  of the classification of objects we have thus established.  All we have learned is, to know the objects which pro-  duce a certain elfect ; to know why they produce it ; to  enjoy, it is probable, the pleasure of that effect with  higher relish ; and to be prepared, by means of the  classiUcation we have formed, to lise, in our reasonings  on the objects it contains, to higher truths, and still  more important conclusions. Now, if the reader would  see how a business so plain and simple, may appear  very complex and mysterious, let him consult  Plato  on the beautiful or t'o xayjtv, as he will find it treated,  for instance, in the dialogue called STMHOSION :  Let him admire as he will, (for who can help it.     SECT. 6-3 ON LOGIC. 107   We should again have to shew, (to take  another instance,) how a word once expres-  sive of some sentiment or recognition of  which a horse was the subject, came to be  used as a name for that particular horse i  that the name came afterwards to be given to  another resembling creature, — thence to  another, — and to others, till the points of re-  semblance which led to this extension of the  word, could be found no longer *. We should   especially in company with Cicero, — witness his Errare  tnekercule malo cum Plaione, quam cum istia vere  sentire?) let him admire the sublimity which the  amiable and highly-gifted Athenian throws over his  doctrine ; but let him not be betrayed into an opinion,  that a speculation which is in the most exalted etriun  liipoeh'y, belongs to the sober, the undazzled, and tin-  dazzling views of philosophy.   • Compare Chap. I.Sect, 10. We may be per-  mitted once more to observe, that, with regard to sab-  stances at least, the sign of the class needs not be a  word : one individual set up for all, will equally serve  the purpose. Not that the boundaries of a class are  plain, till an accurate logic determines them ; but the  general differences (as of the horse, for instance) are  sufficiently obvious to prevent a person from being     JflB     [chap. II.     likewise have toshew, (totake a third instance,)  how some word,-^originally equivalent, like  the others, to a sentence, — by which a man  expressed his gratitude for kind offices, might  come to be a name for every one to whom  gratitude for similar offices was due; and  how this ua.me,Jriend, applied at first only to     misled, who carries one individual in his mind ae the  eign of all he has seen, and all he calculates on seeing,  and reasonB on this one, with a conviction that the  reasoning includes all the others. The idea of an in-  dividual thing which is thus set up as the represent-  ative of a class, may perhaps, without impropriety, be  called a general idea ; and if Locke had never used  the expression but in subservience to such an cxplana-  uon, little or no exception could have been taken to  it. There is a passage (Essay on the Understanding,  Book III., Chap. 3. Sect. Jl.) which perfectly ac-  cords with the doctrine in the text, and proves that  though Locke had misled himself by setting out with  an opinion that the operations of the human under-  standing could be treated of independently of words,  he had more correct thoughts on the subject as he  proceeded. Another passage, giving a correct account  of abstraction with reference to language as the instru-  ment, will be found Book IL Chap. II- Sect. 9-     SKCT. 7.]     109     one who stood in this ration to the speaker,  came at last, by observing and comparing  other cases, to be applied to all who stood in  the same relation to any other person. We  should, in short, have to shew the same pro-  cess with regard to all the examples of modes,  substances, and relations, which Locke's Es-  say supplies; but with these brief hints to  guide him, the reader may be left, in other  instances, to trace the process for himsdf.  It will now be time, — still witii reference to  the principles ascertained in the last chapter,  —to examine some other points of doctrine in-  sisted upon by writers on Logic.   7. The operations of the mind necessary  in Logic are said to be three, viz. Percep-  tion or Simple Apprehension ; Judgment ;  and Reasoning. Under the first of these di-  visions, writers on Logic treat of ideas, or  the notions denoted by separate words, that  is, words not joined into sentences ; — under  the second, they give us separate sentences,  technically called propositions j — ^and under     110     ON LOGIC.     [chap. ir.     the third, they shew how two propositions  may of necessity produce another, so that the  three shall express one act of reasoning. Now,  that perception, judgment, and reasoning,  are all essential to Logic, needs not be called  in question ; but if the theory we have before  us in this treatise be true, the common doc-  trine will appear, by the manner in which it ex-  emplifies these acts of the mind, to have com-  pletely confounded what really takes place, in  the preparation for, and in the exercise of this  art. What, in the first place, is perception but a  sensation or sensations from exterior objects  accompanied by a judgment ? Our earliest  sensations are unaccompanied by any judg-  ment upon them ; for we must have ma-  terials to compare in order to judge ; and  these materials, in the earliest period of our  existence, are yet to be collected. At length,  we can compare j and because we can com-  pare, we judge, and hence we come to know :  — " I know that the object which now affects  my sense of vision is a being like myself; I     SECT. ?•] ON LOGIC. Ill   know him to be one of a great many similar  beings j I know him to be older or younger,  &c. ; I know that what now affects my sense of =  hearing, is the cry or bark of a dog" •, &c.j  I could not know all this, if I had had no  means of judging ; and I can have no means  of judging which the senses do not originally  furnish or give rise to. Perceptiouj then,  (which in every case is more than mere sen-  sation,) always includes an act of judgment ;  and to treat of Perception and Judgment  under different divisions of Logic, must pre-  vent the proper understanding of both. In-  stead, however, of the term Perception, some  writers t use that of Simple Apprehension.  *' Simple apprehension," says Dr. "Wliately,  *' is the notion (or conception) of any object  in the mind, analogous to the perception of  the senses." t The examples appended to     • See Chap. I. Sect. 16.  ■f- Viz. Professor Duncan and Dr. Whately.  J Elements of Logic by Dr. Whately, Chap. II.  Part I. Sect. 1.     [|CHAP. II.     this definition, are, *'inan;" "horse;"  •'cards ;" " a man on horseback ;" " a pack  of cards." Now, if the notion or conception  of tliese, 13 analogous to the perception of  them by the senses, — then, as the perception  includes an act of judgment, so Ukewise  does the conception. But, in truth, the no-  tion corresponding to any of these expressions,  is very different from the perception of a  man, a horse, a man on horseback, &c. ;  and the word or phrase in a detached state  does not stand for a perception or concep-  tion inclusive only of an act of judgment,  but signifies an inference obtained by the use  of a medium, — in other words, a rational  conclusion. For in all cases, what gives the  name and character of rational to a proceed-  ing, is the use of means to gain the end in  view. When we perceive intuitively of two  men, that one is taller than the other, al-  though the judgment we form may be an  e0ect of reason, yet we do not describe it as  a rational process ; but if the investigator,     SECT. 7-] ON LOGIC. 113   not being able to make a direct comparison  between them, introduces a medium, and by  its means infers that one is taller than the  other, then we say the conclusion has been  obtained by a process of reason *. So, in  applying a common name to two individuals  that are intuitively perceived to resemble,  we may be said to exert the judgment, and  nothing more ; but if we apply it to a third,  and a fourth, and a fifth, it is a proof that we  measure each by the common qualities ob-  served in the first two, and that we carry in  the mind a sign of those common qualities  (whether the name, or one of the former in-  dividuals) for the purpose of carrying on the  process. In this way, an abstract word or  phrase, let it signify what it will, provided it  be but abstract, is both the sign of some ra-     • Reasnn is the capacity for using mpdia of any  kind, and it consequent capacity for language : — the  term reasoning has reference to tlie act of thinking,  with the aid of media in order to reach a couclu-     114     [chap. II.     tional conclusion the mind has already come  to, and the means of reaching other conclu-  sions : which statement is true even of a  proper name. For the name John, for in-  stance, underetood abstractedly, does not sig-  nify John as we now perceive him, or as we  have perceived him at any one time ; but it  signifies our knowledge of him separately  from any of those perceptions. But we could  not know of him separately from our percep-  tions, unless we had the power of setting up  some sign (whether the name or aught else)  of what was common to all those perceptions,  and comparing them all with that sign *.   • It is not meant that we could not know him  every time we perceived him, but that we could not  know of him separately from our perceptiong, if we bad  not the power spoken of in the text. It might be  curious to trace this distinction in the case of a dog.  A dog knowE his master every time he perceives him :  — when he does not perceive him, he is reminded of  his absence by some change in his sensations, — (smcU,  for instance, as well as sight, and perhaps some  others ;) he therefore seeks him, and irets if he cannot  find him. But abstracted from all perception, and     SECT. 8.J ON LOGIC. 115   8. It appears, then, from what precedes,  that words and phrases which writers on  Logic give as examples of Perception or  Simple Apprehension distinct from Judg-  ment and from Reasoning, are no examples  at all of the first distinct i'rom the latter two ;  and equally groundless will appear that dis-  tinction which refers a proposition to an act  of judgment separate from reasoning. Not  that an act of reasoning takes place whenever  a proposition or sentence is uttered. For, as  we have seen in the previous chapter, (Sect.  19.) a speaker does not always think of the  separate meaning of the words when he utters  a sentence ; and if a sentence denotes, as a  whole, some sensation or emotion not de-  pendent on reason, (for instance, " My head  aches;" •' My eyes are delighted,") the ut-  tering of it as a whole, without attending to  the sqiarate words, will no moj'e express aa     from all notice by change of sensation, it will scarcely  be contended that a dog knows of his master, as a ra-  tionsl being knows of his absent friend.     116     ON LOGIC.     [chap. II.     act of reasoning, or even of judgment, than  would a natural ejaculation arising out of the  occasion, and used in place of the sentence.  But the following propositions, " Plato was a  philosopher;" "No man is innocent ;" which  are given in Watts's Logic as examples of the  act of the mind called Judgment, stand on a  different footing ; and we affirm that, being  used Logically, they involve not an act of  judgment merely, but express a conclusion  drawn from acts of reasoning.   9- Previously to shewing what has just  been asserted, let us distinguish a grammati-  cal, and an historical understanding of these  sentences ; for a mere grammatical under-  standing of them must be, and an historical  may be, essentially different from the logical  understanding of them. A grammatical un-  derstanding, for example, of the sentence,  Plato was a philosopher, is merely a recog-  nition of its correctness as a form of speech  without considering whether it conveys any  meaning or not ; and it would be grammati-     SECT. 9.3     117     cally understood if any words whatever were  substituted for those that compose the sen-  tence, provided they had a proper syntactical  agreement. An historical understanding im-  plies some concern with the meaning of the  sentence ; but this may be very different in  kind and degree, as depending on the know-  ledge whicli the mind is previously possessed  of. If the hearer did not know what Plato waa  previously to the communication, but knew the  meaning of the word philosopher, he would,  by the sentence, be informed what he was, If  he previously knew, from history, how Plato  lived, thought, and acted, but did not know  the meaning of the term philosopher, the ad-  ditional information conveyed to him by the  sentence, would be but little : he would be in-  formed. Indeed, that he was called a philoso-  pher, but why or wherefore, he could, for the  present, only guess. Let us suppose, however,  that before he comes to calculate why Plato is  called a philosopher, he had heard the word  plied to others : if he bad heard Socrates     m     [chap. II.     called a philosopher, and Confucius a philo-  sopher, he would, on hearing Plato so called,  compafe the individuals in order to ascertain  some common qualities in all, of which the  word might be the sign, and getting these,  he would know or have a notion of the word  philosopher ; though the notion would pro-  bably undergo many modifications as otlier  individuals, Solomon, Seneca, Locke, Rous-  seau, Newton, were successively subjected to  the common sign : — for if the hearer fixes his  notion at once, many individuals will perhaps  be excluded from his class of philosophers,  which other people include under that term ;  and perhaps he will include many, which the  usage of the term excludes. In this way,  then, while our knowledge of what is included  in separate words or phrases is imperfect, we  may nevertheless have some understanding of  the sentences we hear or read ; and this his-  torical understanding suggests the reasoning  process just described, by which we get a  logical understanding of the separate words.     SECT. 10.]     119     10. But now to make a logical use of  tfaem in framing a proposition. We suppose  the preliminary steps, namely the knowledge  included in the separate words ; we suppose  it to be known, from history, how Plato lived,  thought, and acted ; we suppose it to be  known what is meant by philosopfier, by  having heard the word applied to many indi-  viduals i but we have not yet applied it to '  Plato ; in other words, we have yet to ascer-  tain whether Plato belongs to the class of in-  dividuals denominated philosophers. Writers  on Logic talk of a comparison of ideas for  this purpose, and of an intuition or judgment ;  but this, to say the best of it, is an imperfect  and bungled account of the matter. If, in-  deed, to know how Plato lived and acted can  be called an idea, it is necessary to have this  idea ; it is further necessary to have a clear  notion of the term philosopher, — if this again  can be called an idea: — and it is true enough  that in comparing Plato with this sign, we  judge or know their agreement intuitively.     am     ON LOGIC.     [chap.     But out of this intuitive judgment an infer-  ence arises, and the sentence expresses that  inference : a comparison has been instituted  through the intervention of a medium, in  order to ascertain whether Plato is to be as-  signed to a certain class of individuals ; we  intuitively perceive his agreement with the  medium, and draw or pronounce our infer-  ence accordingly, — " Plato was a philoso-  pher." Nor is this the splitting of a hair,  but a real distinction, marked and determined  by that difference in the words so often  pointed out, when understood detachedly,  and when understood as a sentence. The  proposition, Plalu was a pJiilosopher, may be  understood as a whole, without making the  comparison in the mind between what Plato,  and what philosopher, abstractedly signify j  but this, with a full understanding of the  whole sentence, can be done only after the  comparison has once at least been effectually  made : — then indeed, when the comparison  has been made, and the inference drawn, the     8ECT. 11.]     121     sentence which expresses that inference, be-  comes, like any single word, the sign of  ■knowledge deposited in the mind, and, like  such single term, it is fitted to be an instru-  ment of new comparisons, and further con-  clusions.   11. Let us now take another proposition :  *' A philosopher, or every philosopher," (for  the meaning is the same,) " is deserving of  respect." This, hke the other, is an infer-  ence from a comparison which took place in  the mind ; previously to which comparison,  the notion or knowledge included in the word I  philosopher was obtained in the manner lately  described (Sect. 9.) : and the notion included  in the phrase to be deserving of respect was  similarly obtained, but independently of the  knowledge denoted by the other expression ;  — that is to say, the phrase deserving of re-  spect, was originally, we suppose, a sentence  applied to some one thing deserving of re-  spect J whence it was successively applied to  other things till a class was formed — in other     B ON LOGIC. [chap. U.   words, till a notion (knowledge) was esta-  blished in the mind of what things are de-  serving of respect. Now, the present ques-  tion is, whether a philosopher is deserving of  respect ? To determine this, we consider  what a philosopher is, (it is presupposed tliat  we have this knowledge,) and we then niea-  Bure our notion of a philosopher with our no-  tion of what is deserving of respect, and thus  £nd that a philosopher is to be admitted  among the things to which we had been ac-  customed to apply the designation deserving  qf respect : that is to say, we come to the  conclusion, that a philosopher is deserving of  respect. Here, therefore, as before, there has  been a reasoning process previously to the  proposition, and the proposition expresses the  inference from it. And the comparison  having once been made in this instance as in  the other, the sentence becomes, like any  single term, the sign of knowledge deposited  in the mind, and like such single term, is  fitted to be an instrument of new compsrisons,     SECT. 11.] ON LOGIC.   and further conclusions. Well then, we know  from reasoning these two things, that " Plato  IB a philosopher," and that " a philosopher is  deserving of respect." These are detached  WORDS* or sentences : but the mind, in com-  paring them, at once comes to the inference  that Plato is deserving of respect: and the  whole may be expressed in one sentence ;  thus ; " Plato, who is a philosopher, is deserv-  ing of respect j" where Plato-who-is-a-pJiiio-  sopher, is equivalent to a noun-substantive in  the construction of the whole sentence ; and,  deserving-qf-respect is equivalent to another ;  and thus the two, with the assistance of the  verb which signifies them to be a sentence,  are but one proposition. Here, as in the  former cases, a comparison has been made \ij.  means of the signs of deposited knowledge ^  for we knew that Plato was a phUosopher;  we knew a class of things or persons deserv-  ing of respect: — comparing our knowledge by   • See the second note (Aristotle's definition of a'  vord bcuig the first) appmded to Sect. 20. Chap. I.     324 ON LOGIC. [chap. ir.   means of the sign deserving-of-respect, the in-  ference follows, that " Plato, who is a philo-  sopher, is deserving of respect." And the  comparison having once been made in this  instance as in the others, the sentence be-  comes, like any single terra , the sign of know-  ledge deposited in the mind, and either in  this or any other equivalent form, is fitted to  be an instrument of new comparisons and  further conclusions. And in this manner are  we able, ad infinitum, to investigate new  truths by means of those already ascertained,  always making use of former words or their  equivalents, as the means of operation.   12. Now, so far as Logic is the art of in-  vestigating truth, (and we intend to show that  its office ought not to be considered of further  extent,) this is the whole of its theory. We  have defined it as the right use of words with  a view to the investigation of truth ; and the  way in which words are used for the purpose,  is that which has been described : — in brief,  they are used by the mind in making such     SECT. 19,] o^f LOGIC. 125   comparisons as it cannot make intuitively. Of  two objects, or of a sensation or emotion  twcie experienced, we can intuitively judge  what there is in common between them;,  l< suppose a third object, or a sensation, &c«  thrice experienced, an intuitive judgment can  still be applied only to two at a time, and wei  can but know in this way what there is  common to every two. But if we set up tf  sign of what is common to two, we can compare  with the sign a third, and a fourth, and a  fifth, and judging intuitively how far it agrees  with the sign, we infer its agreement in thq  same proportion with the things signified,  In Logic, the sign used is always presumed  to be a word. Now, in our theory of Ian-  guage, every word was once a sentence ; and  every sentence which does not express the  full communication intended, but is qualified  by another sentence, or becomes a clause of a  larger sentence, is precisely of the nature of  any single word making part of a sentence *.  • See Chap. I. Sect. 28.     IM     I^CMAP. 11,     From the first moment, then, of converting  the expression used for a particular communi.  cation, into an abstract sign of the sentiment  or truth which that communication conveyed,  the mind came into possession of the instru-  mental means for furthering its knowledge :  and this means always remains the same in  kind, and is always used in the same way.  The word which once signified a present par-  ticular perception, ceased, through the ne-  cessities of language, to signify that percep-  tion in particular, and came to signify, in the  abstract, any perception of the same kind, or  the object of any such perception. In this  state, it no longer communicated what the  mind felt, thought, or discovered at the  moment, but was a sign of knowledge gather-  ed by comparisons on the past. By u«ng this  Bign, the mind was able to pursue its inves>  tigations, and every new discovery was de-  noted by a sentence which the sign helped to  form, its general application being limited to  the particular purpose by other signs. But if     SECT. 13.]     ON LOGIC.     137     one WORD"     ' may lose its particular pnrpose,  and become an abstract sign, so may another,  and be the means, in its turn, of prosecuting  further truths, and entering into the com-  position of new WORDS. Thus will the procesa  which constitutes Logic, be aiways found one  and the same in kind, having for its basis the  constitution of artificial language, such as it  was ascertained to be in the previous chapter.   H 13. Now of this Lc^ic, — the Logic, uni-   H versally, of ntpotres, or woKD-dividing men, —   H let the characteristics be well observed, in order   H to keep it clear from any other mode of using   H signs for the purpose of reasoning, to which   H the name of Logic is attributed. The Logic   H here described, is a use of words to regista-   H our knowledge as fast as we can add to it, by   H new examinations, and new comparisons of   I things } each new esamination, each new   H sen!     • The reader will bear in mind the comprehenBive  sense of the term which we have in view, when it is  printed in capitate.     US*' ON LOGIC. [chap. II.   comparison, being made with the help and  the advantage of our previous knowledge.  The reasoning takes place in the mind in such  a manner that it is not a comparison of terms,  but a comparison of what we newly observe,  with what we previously knew. Words indeed  are used, because without signs of one kind  or of another to keep before the mind the  knowledge already gained, we could compare  only individuals j but however words may in-  tervene, it is always understood that the mind,  at bottom, compares the things, A man  may be informed, that, " Plato who is a phi-  losopher, is deserving of respect;" that,  " William who is recommended to his service,  is an honest man ;" that, *• A particular tree  in his garden, is a mulberry tree ;" that,  " Stealing is a vice, and temperance is a  virtue ;" that, " Throughout the Universe, all  greater bodies attract the smaller ;" that, " A  triangle described within two circles in such  a manner that one of its sides is a radius of  both, and the others, radii of each circle     SECT. 13.]     129     respectively, is an equilateral triangle;" — a  man may be informed of these and similar  ^'things, and may entirely believe the inform-  ation; nay, hemayjustifiably believe it J for he  may know of those who give it, that their ho-  nesty is such, that they would not wilfully de-  ceive him ; that their intelligence and inform-  ation are such, that they are not likely to say  what they do not know to be true : but a man  can be said to know these things of his own  knowledge, and in this way to be convinced  of their truth, only by a process of reasoning  that musl take place within his own mind ; a  process which can take place only in a mind  by nature competent to it, and which requires,  in every case, its proper data or facts, aided,  it is true, by language, or by signs such as Ian-  guage consists of, to register each inference *,  • The necessity of language, as a means of in-  vestigation, applies not to our last example. The mincl  may investigate (though no one can demonstrate)  mathematical truths, with no other aid than visible  diagrams ; or even diagrams that are seen only by  " the mind's eye."     130 ON LOGIC. [chap. II.   and so to get from one inference to another,  and thus, ad infinitum^ toward truth. Be-  cause the several steps, leach of which is a  conclusion so far attained, cannot take place,  without the instrumentality of signs to assist  the mind, we consider the process an art ; and  if the signs used are words, the art is pro-  perly called Logic. But whatever aid the  reasoner may borrow from words, the only  true grounds of his knowledge are the facts  about which the reasoning is employed.  Without them, no comparison of the terms  can force any conviction further than that  the terms agree or disagree. He may be told  that — " Every philosopher is deserving of  respect,*' and that, — " Plato is a philosopher :**  but if he knows not what a philosopher is, or  what it is to be deserving of respect, the  comparison of the terms in order to draw a  conclusion from them, will be a mockery of  reason : — it will be reasoning indeed, but  reasoning without a rational end. And suppose  the knowledge to have been acquired of what  a philosopher is by the application of the word     SECT. 13.] ON LOGia 131   to many particulars, and by a consequent  classification of them in the mind, — supposing  the knowledge of what is deserving of respect  to have been acquired in the same way, —  supposing the inquirer has learned from history  what Plato was in his opinions and manner of  life, — the conclusion takes place by a com-  parison of the thingSj by means indeed of  words, but not by any comparison of the terms  independently of the things ; nor is the con-  viction in the least fortified, or the process ex-  plained, bya demonstration that in reasoning  with the terms alone, independently of their  meaning, we get at the conclusion ; — by  shewing, for instance, that the terms which  include the facts, may be forced into cor-  respondence with the following ^nwwfa;  Every B is A :  C is B :  Therefore C is A.  Every philosopher — is— deserving of respect :   Plato — is— a philosopher :  Therefore Plato — ^is — deserving of respect.   K 2     .18«     ON LOGIC.     [chap.     This way of drawing a conclusion from a  comparison of terms, is. properly speaking, to  reason or argue with words ; but in the Lo-  gic we have ascertained, every conclusion is  required to be drawn from a comparison of  the facts which the case furnishes ; and words  being used only for the purpose of registering  our conclusions, such Logic is properly de-  fined the art of reasoning by means of words.  The inquirer who seeks to know, of his own  knowledge—" Whether William who is re-  commended to his service, is an honest man",  — will gather facts of William's conduct by  his own observation ; and these he will com-  pare by the light of his previous notion (i. e.  knowledge) of what an honest man is : but  then he must have that previous notion, or he  cannot make the comparison ; and the notion  will have been gained by a process just like  that he is pursuing : and so downwards to the  original comparison of individiial tJujigs, from  which all knowledge begins. So again, if an  inquirer seeks to know that " a particular tree     SECT. 13.] ON LOGIC. 133   is a mulberry tree", — he must first know  what a mulberry tree is; and how can he  know this but by a comparison of different  trees? There must be some art employed to  classify the individual trees, otherwisehe could  never know more than the difference between  every two trees. By setting up one tree, or  some equivalent sign, as a word, to denote  the common qualities observed in many, he  comes to know what a mulberry tree is ; and  looking at the particular tree in question, he  sees that it has the common qualities indica-  ted by the sign, and infers that it is a mul-  berry tree. So likewise, if an inquirer seeks  to be convinced that " SteaUng is a vice",  or that "Temperance is a virtue", — he  must have such facts before him as will  enable him to come to a clear conclusion as  to what is vice, and what is virtue : and  this conclusion will either include or ex-  clude stealing with respect to his notion  of vice, and temperance with respect to his  notion of virtue, and he will consequently be     134     [chap. [I.     convinceti or not convinced of tlie proposition  in question. So, once more, if an inquirer  desires to know, of his own knowledge,  *' Whether, throughout the universe, all  greater bodies attract the smaller", — he must  first observe certain facts from which the ge-  neral law may be assumed hypothetical ly : —  he must then ascertain what, according to  other notions gained from experience, would  be the effect throughout the universe of the  general law which he has so assumed ; and if  the effects arising out of the hypothesis cor-  respond with actual effects, and no other by-  pothesis to account for them can be framed,  he will have all the proof the subject permits,  and know of his own knowledge, as far as can  be known, the conclusion asserted. So, lastly,  if an inquirer seeks to be convinced that "a  triangle described within two circles in such  a manner that one of its sides is a radius of  both, and the others radii of each circle re-  spectively, is an equilateral triangle", — he  must first form within his mind the notions of     SECT. 13.] ON LOGICi tS5^   a triangle, and of a circle, the latter of which he  will find can be conceived perfect in no other  way than in correspondence with this definition :  — "a plane figure bounded by one line called-  the circumference ; and is such that all straight  lines, (called radii,) drawn from a certain  point within it to the circumference, are equal  to one another. " Having formed this notionr^  he will find, by certain acts of comparison^  (which must take place within the mind, al-  though they may be attsisted by a* visible sign-J^  that the previous proposition is an inevitable  consequence of the notfon so formed, and his'  conviction: wiU be comffiete. If the convic-  tion, in the previous ifrstances, has not the  same force as iiti the last^ — ^if, in those instances,  the force may be diffident m. degree, while in  the last there can be no coD^victioa short of  lliat which iS' absolute an4- entire, the cause^  in not that the reasoning process^ is different  in kind, but that the facts or data about which"  it is' employed are dii&re»t. In the last in^  stance^ the reasoning is employed about no-     136     ON LOGIC.     [chap. II.     tions, which admit uf being so defined, that  every mind capable of the reasoning at  once assumes them before the reasoning pro-  cess begins ; but in the other instances, the  facts or the notions may be attended by cause  for doubt. A man, if he have any notion of  a philosopher at all, cannot indeed but be  quite sure (consciously sure) of his own no-  tion of a philosopher j but how can he be sure  that others have the same notion, or even  quite sure that Plato had the qualities that  conform to his own notion ? In the same  way, he will be quite sure (consciously sure)  of his own notion of an honest man ; but he  may be deceived as to the facts which bring  William within that notion. He will be quite  sure (consciously sure) of the notion he has  in naming a tree a mulberry tree ; but that  notion may be totally unlike the notion which  other people entertain ; or if the general no-  tion agrees, he may mistake the characteristics  in the particular instance. He will be quite  sure (consciously sure) of his own notion of     SECT. 13.]     137     vice or of virtue, and whether it includes or  excludes this or that conduct, action, habit,  or quahtjr ; and in this case the conviction is  absolute and entire while the reasoner confines  himself to his own notion ; but the moment  he steps out of this, and begins to inquire  whether it agrees with that of others, he finds  cause to doubt. He must be quite sure (sen-  sibly sure) that bodies near above the earth's  surface have a tendency towards it ; and by  proper experiments he may convince himself  that all bodies without exception which are  so situated, have the same tendency. In sup- ,  posing the fact universal of the tendency of  smaller bodies to the greater, his conviction  of the consequences involved in that hypo-  thesis, must, as soon as he has mentally traced  them, be absolute and entire ; but he has yet to  find whether reality corresponds with the hy-  pothesis. The strongest proof of this will  be, the correspondence of the consequences of  the hypothesis with the phenomena of na-  ture, joined to the impossibility of forming     138 ON LOGIC. [chap. II.   another hypothesis which shall account for  these phenomena; and the doubt, if any,  will attach to that impossibility, and to the  accuracy of bis observatioda of the pheno*  rneoa* I^ then, there is roonr for doubt, and  cocise^aently for various degrees of assent, in  all the instances except m that whose facts or  data are notions which the mind is bound to  tstke up according to the definitions before it  enters on the argument, we are not to con-  clude that the reasoning process is different in  kind iti any of them ; since the difl^ence in  the facts or data about which the reasoning  process i& employed, fully accounts for the ab-  solute and entire conviction which takes place  in one instance, and the degrees of convictioti  which are liable to happen in such cases as^  the others.   14. But what IB a process or act of rea^  soning? Is it, abstractedly from the means'  u£^d to register its conclusions, and so pro-  ceed to new acts of the same kind, — ^is it aa  act which rules can teach, or any generalbsau-     SECT. I4.j     139     tion make clearer, or more satisfactory than it  is originally ? We shall find, upon examina-  tioH, that any such pretence resolves itself in- i  to a mere verbal generalization, or the appli-  cation of the same act to itself; and that this  does in no way assist the act of reasoning, or  explain, or account for, or confirm it. A man  requires not to be told — *' It is impossible for  the same thing to be and not to be," in order  to know that himself exists ; he requires not  the previous axiom, " The whole is greater  than its part, or contains its part, " in order to  know that, reckoning his nose a part of his  head, his head is greater than his nose, or his  nose belongs to his head ; neither is the previous  axiom, " Things equal to the same, are equal  to one another", necessary to be enounced,  before he can understand, that if he is as tall  as his father, and his father as his friend, he  is as tall as his friend *. Whatever neatness of  arrangement a system may derive from being   • Compare Lofku's Essay, Book IV. ChajHeis 7  and 12.     140     ON LOGIC.     [chap. II.     headed with such verbal generalizations, it is  manifest that they neither assist the reasoning  nor explain it : nor must a generalization of   , this kind be confounded with the enunciation  of what is called a law of nature*, — (the law  of attraction and gravitation for instance, — )  since this last is a discovery by a process of  experiment and reasoning, but a verbal gene-  ralization is no discovery at all ; — it is merely  a mode of expressing what is known by every   " rational mind at the very first opportunity for  exercising its powers. Or more properly  speaking, the laws of reasoning, which are  gratuitously expressed by what are called  axioms, are nothing else than a mode of de-   * See Whately's Logic, Chap. I. Sect. 4, where he  attempts to evade Dugald Stewart's oh^ection to the  Ariatotelian syllogism, that it is a demonstration of b  demoiigtration, by comparing the Dictum de omni et  de nullo to the enimciation of a law of nature. — It is  rather pleasant, in the first note of the Chapter referred  to, to hear the doctor running riot upon Locke's con-  fuinon of thought and common place declamation, be-  cause the latter had the sense to sec the futility and  puerility of the syllogism.     SECT. 14.] ON LOGIC. 141   scribing the constitution of a rational mind.;—*  they are identical with the capacity itself for  reasoning: to view them in any other light is  to mistake a circumlocution for the discovery  of a principle. And this kind of mistake  every one labours under who supposes that,  by any means whatever, an act of reasoning  is assisted or explained, accounted for, or con-  firmed. Nothing is more certain, than that if  two terijns agree with a third, they agree with  each other, — if one agrees and the other dis-  agrees, they disagree with each other: but  every other act of reasoning has a conclusion  equally certain (the facts or data about which  an act of reasoning is conversant being the  sole cause of any doubt in the conclusion*,)  and this or any other attempt at explaining or  accounting for the act, will therefore only   . * And note, that when people are said to draw a  wrong conclusion from facts, the correct account would  be, that they do not reason from them, but from some-  thing which they mistake for them, through their ina-  ability to understand, or their carelessness to the na-  ture of, the facts given.     I4!l     [chap. ir.     amount to the placing of one such act by the  side of another; as if any one should set a  pair of legs in motion by the side of another  pair, and call it an explanation of the act of  walking. Such would at once appear to be  the character of the Aristotelian Syllogism,  were it not for the complicated apparatus ac-  companying it ; an apparatus of distinctions  and rules rendered necessary by the nature of  the terms compared. For these terms being  obtained by the division of a sentence, are  such that they agree or disagree with each  other only in the sense they bore before the  division took place. Our theory makes this  plain; for it shows that words which form a  sentence limit and determine each other, and  thus have a different meaning from tliat which  belongs to them when understood abstracted-  ly. Therefore, though it may be true that  " Plato is a man deserving of respect, '  does not follow that " Plato " and " A maai  deserving of respect " shall agree togetiier as  abstract terms : accordingly the latter term     SECT. I'i.]     143     understood abstractedly, signifies any or every  man desei-ving of respect, and does not agree  with Plato. It must be obvious, then, that  terms obtained iirthis way, can be compared  with other terms similarly obtained, only un-  der the safeguard of certain rules. Such rules  are accordingly provided ; and tliat they may  not want the appearance of scientific general-  ization and simplicity, they are all referred to  one common principle, — the celebrated dic-  tum de omni et de nullo ; whose purport is,  that what is affirmed or denied of the whole  genus, may be affirmed or denied of every  species or individual under it ; — which indeed  is nothing more than a verbal generalization  of such a fact as this, that what is true of every  philosopher, is true of any one philosopher.  All tliese pretences to the discovery of a uni-  versal principle, do but leave us just where we  were, a few high-sounding empty words ex-  cepted; and this must ever be the case when  we seek to account for that which is, by the  constitution of things as far aa we can ascer-     ON LOCTC.     [CHA     tain them, an ultimalefact. An act of reason-  ing is the natural working of a rational mind  upon the objects, whatever they may be, which  are placed before it, when, having formed one  judgment intuitively, it makes use of the re-  sult as the medium for reaching another: and  the pretence to assist or explain this operation  by the introduction of such an instrument as  the syllogism, is an imposition on the under-  standing.   15. This will more plainly appear when we  examine the real use, (if use it can be called,)  of the Aristotelian art of reasoning. It may  be described as the art of arguing unreason-  ably, or of gaining a victory in argument  without convincing the understanding. As  it reasons "with words, and not merely by  means of words, it fixes on expressions not on  things, and is satisfied with proving a conse-  quence, or exposing a non-sequitur in those,  without inquiring into the actual notions of  the speaker. " Do you admit " says a syllogi-  zer, " that every philosopher is deserving of     SECT. 15.] ON LOGIC. 14.5   respect? " " I do;" says the non-syllogi-  zing respondent. " And you admit, (for I  have heard you call him by the name,) that  Voltaire is a philosopher : you admit, there-  fore, that Voltaire is deserving of respect. "  Now, if the notion of the respondent is, that  Voltaire is not deserving of respect, here is a  victory gained over him in spite of his con-  viction. Arguing from the words, and allow-  ing no appeal from them when once conceded,  the conclusion is decisive*. But in looking  beyond the words to the things intended, we  shall find that the respondent either did not  mean every philosoplier, as a metaphysical,  but only as a moral universal, or else (and the  supposition is the more likely of the two) that  in calling Voltaire a philosopher, he called   • " If," says a. doughty Aristotelian doctor, " a  imiyeraity is charged with cultivating only the mere  elements of mathematics, and in reply a list of the  hooks studied there is produced, ^should even any one  of those books be not elementary," [" / day here on  my biynd,''] " the charge is in fiiirncss refuted."  Whately's Logic, Chap III. Sect. 18.     146 ON LOGIC. [chap. II.   him so according to the custom of others, and  not according to his own notion. In a Logic  whose object is truth and not victory, the  business would not therefore end here. An  attempt would be made to change the notion  of the respondent (supposing it to be wrong)  by an appeal to things. His mind might in-  deed be so choked with prejudice as to be in-  capable of the truth ; but at least would the  only way have been taken to remove the one  and procure admission for the other. — To the  foregoing, let another kind of example be add-  ed : " Every rational agent is accountable ;  brutes are not rational agents ; therefore, they  are not accountable." * " Non sequitur*^  cries the Aristotelian respondent. The other  man, who reasons by means of words and not  merely mth words, is certain that the internal  process by which he reached the conclusion is  correct ; nor is he persuaded to the contrary,  or at all enlightened as to his fault, when he  is told that he has been guilty of an illicit pro-   ♦ From Whately's Logic, Chap. I. Sect. 3.     SECT. 15.] ON LOGIC. 147   cess of the major. He is informed, however,  that his mode of reasoning finds a parallel in  the following example : " Every horse is an  animal ; sheep are not horses ; therefore they  are not animals.'* * But this he denies ; be-  <:ause he is sure that his mode of reasoning  would never bring him to such a conclusion  as the last. All this time, while the Aristo-  telian has the triumph of having at least  puzzled his uninitiated opponent, the real  cause of diflference is kept out of sight, name-  ly, that the one refers to that reasoning which  is conducted merely with words, and not by  means of words only, while the other refers to  that reasoning which looks to things, inatten-  tive perhaps, as in this instance, to the expres-  sions. If the latter had used no other ex-  pression than " Brutes are not rational agents ;  therefore they are not accountable ;•" — the as-  sertion and the reason for it, must have been  suffered to pass; but because another sen-  tence is prefixed to these two, and the whole   * Whately'*s Logic, Chap. I. Sect. 3.   l2     F   1     148 ON LOGIC. [^CHAP. II.   of them happen to make a violated syllogism,  the speaker is charged with having been guilty  of that violation, when in fact he has not at-  tempted to reason syllogistically at all ; i. e. to  draw his conclusion from a comparison of the  extremes with the middle, but from a judg-  ment on the facts of the case. In a Logic  which gets at its conclusions by jneans of  words, and not by the artifice we have just  referred to, an expression which does not  reach the full facts reasoned from, (every  rational agent, for instance, where it should  have been said none but a rational agent,J  would not be deemed an error of the rea-  soning, but a defect in the expression of the  reasoning.   ] 6. These examples will, it is hoped, be  sufficient to show the real worth of the Aris-  totelian syllogism, ft is indeed, as its advo-  cates assert, an admirable instrument of ar-  gumentation ; but of argumentation distinct  from the fair exercise of reason. It is a pro-  per appendage to the doctrine of ReaUsm,      SECT. 16.]]     149     and with that exploded doctrine it should long  ago have been suffered to sink. While ge-  nera and species were deemed real independ-  ent essences, to argue from words was con-  sistently supposed to be arguing from things :  but now that words are allowed to be only  counters in the hands of wise men, the Logic  of Aristotle, which takes them for money,  should surely be esteemed the Logic of fools".  The claim for its conclusions of demonstrative  certainty, rests solely on the condition that  words are so taken. Every conclusion from  an act of reasoning, would have that charac-  ter, if the notions about which it was employ-  ed were notions universally fixed and agreed  upon. In mathematics, this circumstance is  the sole ground of the peculiar certainty at-  tained. All men agree in the metaphysical  notion of a point, of a line, a superficies, a  circle, and so forth t : if all men necessarily     * " Words are the counters of wise men, but the  money of fools," — Hobbes.   f According tu Sugald Stewart, mathematical     IW ON LOGIC. [chap. il.   agreed in the notion of who is a philosopher  and who is not, of what is vice and what is  virtuBj and so forth ; our conclusions on these  and similar subjects, would, as in mathematics,  be demonstrative : but till definitions can be  framed for Ethics in which men must agree,  there is little chance of erecting this branch  of learning, with any praciical benefit, into a  science, according to the notion insisted on  with some earnestness in Locke's Essay*,  lu Physics we can do more ; for men agree  pretty well as to what is a mulberry tree, and  what is a pear tree ; what is a beast, and what  is a bird ;— by experiment they can be shewn  what are the component parts of this sub-  stance, what the qualities of the other j and  so forth : so that here, our conclusions need   definitions are mci-e hypotheses. Do they not rather  describe notions of and relating to quantity, which, by  the congtitution of the mind, it must reach, if, setting  aside the sensible instances of a point, a line, a circle,  &c., it tries to conceive them perfect ?   * Book IV. Chap. III. Sect. 18,: and the same  book Chap. XII. Sect. 8.     SECT. 17.] ON LOGIC. 151   not be wanting in all necessary certainty;  although, as that certainty depends on the  conformity between our notions, and the out*  ward or sensible objects of them, it will be of  a different kind from the certainty obtained  in meta-Phi/sicSj and therefore not called de-  monstrative. In the latter department, (Me-  taphysics,) the chain of evidence has its first  hold, as well as every subsequent link, in the  mind, and the mind cannot therefore but be  sure of the whole.   17. As we propose to limit the province  of Logic to the investigation of truth, the re-  marks and examples in the section preceding  the last (15.), might have been spared till we  come to consider Rhetoric, to which we in-  tend to assign, among its other ofiices, that  of proving truth. How far the form of ex-  pression which corresponds to the syllogism,  is calculated to be useful to a speaker or wri-  ter, may at that time draw forth another ob-  servation on the subject. Meanwhile we pro-  pose to exclude it entirely from Logic; and     U3     ON LOGIC.     [chap, II,     in truth the common practice of manlcind out  of the schools, has never admitted it as an in-  strument either for the one purpose or the  other. Common sense has always been op-  posed to it ; and Logic is a word of bad reputa-  tion, because it is supposed to mean the art  of arguing for the sake of victory, and not for  the sake of truth. In vain have Locke,  Campbell, Reid, Stewart, and other sound  thinkers, endeavoured to clear the art from its  reproach by detaching the cause : the Aristo-  telian Syllogism has been repeatedly over-  thrown ; yet some one is ever at hand to set it  on its three legs again, and argue in defence  of the instrument of arguing : — some per-  tinacious schoolmaster may always be found  Who e'en though vanquished yet will ahgue still;  While words oflearncd length and thundering sound*.  Amaze the gazing rustics ranged around.     * Videlicet, Terms middle and extreme ; premiss  major and minor ,- quantity and quality of propositions ;  Universal affirmative ; Universal negative ; Particular  affirmative ; Particular negative ; Distribution and non-  distribution of terms; Undistributed middle; Illicit pro-     SECT. 18.]     ON LOGIC.     So much — (till, in the next chapter we come  to a parting word — ) so much for the Aris-  totelian Syllogism.   18. As to the Logic which we have en-  deavoured to ascertain, it is, we repeat it, the  Logic which all men learn, and all men ope-  rate with in gathering knowledge ; and the  only inquiries which remain are, i. Whether,  so far as we have gone, there is ground or ne-  cessity for principles and rules in the exercise  of Logic, as there is for grammar in speaking  a language; and ii. Whether we ought to  consider its limits as extending beyond the     cBss of the major ; Illicit piocese of the Tninor ; Mood  itnd figure— Barbsrs, Celarent, Darii, Ferio, Cesare,  CameBtres, Festino, Baroko, Darapti, Disamis, Datisi,  Felapton, Bokardo, Feriso, Bramantip, Camenes, BU  maris, Fesapo, FrcBison ; Categoricals, Modals, Hypo-  theticals. Conditionals, Constructive form. Destructive  form, Oatcnsive reduction, Illatire conversion, &c. kc  &c. Well may we join with Mons. Jourdain —  " Voila dee mots qui sont trop rebarbatifs. Cette  logique ]& ne me rcvient point. Apprcnons autre chose  qui soit plus joli.'*     lAt ON LOGIC. [chap. II.   bounds proposed at tlie commencement ot*  this Chapter.   19. Though few persons would be dis-  posed to answer the former question in the  negative, yet an analogous case may induce a  moment's pause in our reply. At the conclu-  sion of the first note appended to Sect. 4.,  allusion was made to the fact, that men do  not see truly by nature, but acquire, through  judgment and experience, the power of know-  ing by sight the tangible qualities of objects  and their relative distances. Now, the in-  terference of rules, supposing them possible,  to assist this early discipline of the eye, would  be useless — perhaps raiscliievous : — why are  we to think differently of the discipline of the  mind, as regards the use of those signs which,  if our theory is true, are forced upon us at  first by an inevitable necessity ? Because the  art of seeing truly is necessary to the preserva-  tion of the individual ; and nature takes care,  therefore, that we do not teach ourselves im-  pertectly or erroneously ; but the conducting     SECT, ly.] ON X-OGIC. 155   of a train of reasoning with accuracy and pre-  cision into remote consequences, is unne-  cessary in a rude state of society j and man,  who is left to improve his physical and moral  condition, has the instrument of that improve-  ment confided to his own care, that he may  add to its powers, and form for himself rules  for using it with much more precision and  much more effect, than any random use of it  can be attended with. Accordingly, if we  look to that department of knowledge which  Locke calls ipvaiK^ * , we shall find that it owes  its existence to the accurate Logic by which  inquirers registered all their observations and  all their experiments, and by which they as-  cended from individuals to classes, till each  had comprehended in his scheme all he de-  sired to consider. Here then begins the pro-  per business of Logic as a system of instruc-  tion : it ought to lay open all the various me-  thods of arrangement and classification by     ' Vide the lutrixluction to this Treatise.     XISS ON LOGIC. [^CHAP. 11.   which science is acquired and enlarged ; and  if something may yet be done toward im-  proving these methods, it should open the  way to such improvement. The Aristotelian  rules for definition, which are a sound part of  Logic, should be explained and illustrated ;  and the nomenclatures invented by various  philosophers, particularly that which is used  in modern chemistry, should be detailed and  investigated.   SO. But if, by the application of a more  accurate Logic than belongs to a random use  of language, men have been able to accom-  plish so much in ^uo-ik^, it does not appear  that they have great cause to boast of their  success in the other department, namely  ■n-paKTiK-^. Do they act, whether as com-  munities or individuals, muck better with a  view to their real interests, than they did two  thousand years ago ? If improvement here,  as in the other department, is possible, how  is it to be accomplished ? We live in an at-  mosphere of passions, prejudices, opinions,     SECT, go.] ON LOGIC. 157   which mould our thoughts, and give a cer-  tain character and hue to all the objects of  them ; — these we do not examine, but take  them as they appear to us, and our reasonings  too often start from them as from first facts.  As to the process itself, — a process which  every individual conducts ■within his avra  mind according to the power which nature  gives him, — we affirm that it cannot be other  than it is, and that, provided it starts from  true data, it can never lead us wrong : but if  that is false which at the outset we take for  true, then indeed our conclusions may be  perniciously, ruinously erroneous. It is ac-  cordingly the business of the moralist to re-  move the false hue which habit, opinion, and  passion, cast over the surface of things ; and  it should be the business of the politician to  examine the principles on which the general  affairs of the world are conducted, and open  the eyes of mankind to their pernicious ten-  dency, if in the whole or in part they are per-  nicious. But neither the moralist nor the     158 ON LOGIC^ []CHAP. II.   politician can come at the necessary truthis  intvitiveljf : they must use the mediaj and the  media consist in that use of words which con-  stitutes Logic, as we have described it. We  do not intend to say that language affords  the means of reaching equal results to every  person who makes the right logical use of it ;  for men's minds are very different in natural  capacity; and some are able to perceive  truths intuitively, which others attain only by  a slow process; as tall men can reach at  once, what short men must mount a ladder  to : but we do intend to say, that, let the  natural powers of any human mind be what  they will, there is no chance for it of any ex-  tensive knowledge, but through the employ-  ment of media to assist its natural operations ;  <and, we repeat it, the media which nature  suggests, and leaves for our industry to im-  prove, is language *. Well then, if our im-   * The reader does not understand us, if he  deems it an objection to our reasoning, that many  highly gifted men in point of understanding, do not     SECT. 20.] ON LOGIC. 159   provement in ntpaKrucrfj is, at this time of ^ay,  less than we might expect, is it not reason-  able to think that, with regard to this depart-  ment, we do not quite understand the instru-  mental means, and consequently do not ap-  ply them with complete effect ? Surely there  is some ground for such a suspicion, when we  find a doctor (of some repute we presume) in  one of our two great places of learning, de-  claring that '^ the rules of Logic have nothing  to do with the truth or falsity of the premises,  but merely teach us to decide (not whether  the premises are fairly laid down, but)   appear to have a skilful use of language. A man may  be rhetorically unskilful in language without being  logically so ; — he may be imable to convey to others  how and what he thinks ; but he may make use of  media in the most skilful manner to assist his own  thoughts. And if his capacity is such that he seei  many truths intuitively for which others require  media^ it is evident that he cannot convey those  truths to them till he has searched out the means.  The nature and the principle of such an operation be-  longs to our next chapter on Rhetoric.     fim     ON LOGIC.     [chap. 1     whether the conclusion fairly follows from  the premises." * We acknowledge that the  Logic to which this description applies, has  never been the Logic of mankind at large,  however it may have been the baby-game of  men in colleges ; but that the office of Logic  should be described so completely opposite  to what it really is, at a time when its proper  office and character ought to have been long  ago thoroughly understood, is not a little  surprising, and may reasonably warrant the  suspicion stated above. We have no doubt  our reader is by this time convinced, that  men who reason at all, do not want rules for  drawing their conclusions fairly, if we could  but get them to draw those conclusions from  right premises ; and that to get at right pre-  mises is every thing in Logic. For this end,  it is our business to set all notions aside that  have not been cautiously acquired ; and to  begin the formation of new ones at the point   * Whateiy'a Logic. Provinceof Reasoning, Cliap-  I. Sect. 1.     sf;ct. 20.]     IGI     where all genuine knowledge commences, —  the intuitive comparison of particulars or  single facts ; to make use of the knowledge  (notions) hence obtained as media for new  comparisons or judgments; and so on ad in-  Jinitum. Alas! it is but too certain, that  though we draw our conclusions faiily enough,  our premises, in a vast proportion of cases,  are laid down most foully, because they are  laid down by our ignorance, our passions,  and our prejudices ; and because language  itself, when its use is not guarded, is a means  of deception*.   • We arc somewhat backward in offering examples  of general remarks, such as is this last ; because it is  scarcely possible to be particular without touching on  questions in religion or politics that carry with them,  either way, a taint of parti zanshi p ; and we hold it to  be very impertinent in a writer on Logic, to turn  those general precepts for the discovery of truth  which he is bound to ascertain, into a particular chan-  nel in order to serve his own sect or party. What  business had Watts to exempliiy so many of hU  cautionary rules by the errors of Papistical doctrine,  at a time when its doctrine was a subordinate and     '16S ON LOGIC. [^CHAP, II.   21. But can the assistance which lan-  guage is intended to furnish, be rendered such   party queBtioit, and be himself was a sectarian opposed  to it ? We trust that no exception of the same kind  can be taken {particularly as we give them only in a.  note) to two examples we are about to submit of  the remark in the text, that language itself may lie  the means of deceiving us into wrong premiseB : — they  are by no means singular, hut Guch as may he met  with every hour on almost every question. The  ph rase natural state is, as we all know, a very com-  mon expression, which we are much in the habit of  applying to things that have not been abused or per-  verted from the form or condition in which nature  first placed them. Now, because the same phrase  happens to be frequently applied to man in a rude  state of society, we start, in many of our reasonings,  with the notion, that in proportion as we have depart-  ed from such a state, we have perverted and abused  the purposes of nature ; when, in truth, it seems wiser  to inquire, whether we have yet reached the state  which nature means for creatures such as we are, and  whether she is not constantly urging us on to such an  unattained state. Our other example is of narrower in-  terest, and belongs to politics, or rather to what is  called political economy. The word price, in general  loose speaking, means that which is given (be it what  it may) to obtain some other thing ; but in a strict     SECT. 21.] ON LOGIC. 163   as to lead us to truth in spite of ignorance,  passion, and prejudice, and in spite of the  delusions of which it is itself the cause? Why  not, if the guarded and careful use of it, is  fitted to diminish these obstacles, and if we  do not look for the ultimate effects -faster  than, by the use of the means, the obstruc-  tions ^ive way ? Nor are mankind inattentive  to improve the means, nor are the means     and mercantile Bense, it has a uniform reference, direct  or indirect, to the quantity of precious metal given for  commodity ; inasmuch as gold and silver are the sole  universal medium of barter throughout the world, and  every promise to pay has reference to a certain quan-  tity of one or the other of these metals. These things  premised, it must be obvious that the phrase price of  gold, using price in a strict sense, is an abeurdity, and  could arise only from confounding the meaning which  prevails in ordinary speech with the meaning in which  the merchant uses it. What, then, are we to think of  an English House of Commons, which, some twenty  years ago, deputed to a committee the task of in-  quiring into the causes of the high price of bullion ?  Might not the committee, with as much reason, have  been deputed to inquire, why the foot rule was more  or less than a foot ?     164 ON LOGIC. [chap. II.   without effect : for when we ask, whether their  moral and political condition is much ad-  vanced beyond what it was in the most pro-  mising state of the world in past days *, we do  not mean to deny what every one of common  knowledge and observation is aware of, that  it has advanced : all we urge is, that a sys-  tematic attention to the means of investigating  truth, might, peradventure, in politics and  morals, as it has in physics, have been at-  tended with effects more widely beneficial.  Neither do we afSrm that existing works on  Logic are destitute of many admirable pre-  cepts for investigating truth, although we  assert that the precepts are referred either   * Note, that it is unfair to fix on a particular part  of the world in proof of what it was in the whole. States  and cities may advance themselves for a time by a  partial policy which keeps others backward : but the  policy will fail in the end. By a natural course of  things the advanced state will merge in the mass and  improve it : and thus the world will keep on advancing,  although the spectator, who contemplates only the  particular state, will think it is retrograding.     SECT, iil.]     165     to a false principle, or to no principle at all  fitted to unite them into one body of sys-  tematic instruction. The work lately referred  to *, fnrnishes, for instance, many excellent  precepts for avoiding errors in the use of  words, and for guarding against the snares of  sophistry; and if such precepts and such ex-  amples as it offers, distinct from the doctrine  of the syllogism, were industriously collected,  and brought forward in aid of the Logic  which all men learn and all men use, they  would be of inestimable value. A useful  system of Logic will guard our notions from  error not only while we think, but while we  are reasoned witht: for one chief way by  which truth enters the mind, is through the     * Viz, Whately's Logic.   + Our meaning will be understood ; but wc express  it by ii distinction which is grounded on no real dif-  ference. He who is reasoned with, if he understands  the ai^ument, is set a thinking ; and his agreeing or  disagreeing with the argument is the effect of his own  thoughts, however these may be set in motion, and  perhaps unreasonably influenced, by what he hears.     1S6.     QCHAP. II.     medium of language as employed by others :  and Logic should therefore arm us with all  possible means for coming at truth so offered,  through the various entanglements by which  the medium may be accompanied. Hence,  the various sophisms of speech accompanied  by their appropriate names, would still occupy  a place in such a Logic ; nay, for this purpose,  and for this alone, would the Aristotelian  doctrine of the syllogism deserve explanation ;  namely to understand how a conclusion drawn  from mere terms, may, as a conclusion from  them, be perfectly true and perfectly useless,  and thus to induce us to bottom all our  reasoning on things. — Having thus offered,  on the first of the questions proposed in Sect.  18, such observations in the affirmative as we  thought it required, we now proceed to the  second question.   22. That question was. Whether we ought  to consider the limits of Logic as extending  beyond the bounds proposed at the com-  mencement of this chapter : towards answering     SECT. 22.] ON LOGIC.     1G7     which, we may first inquire how far other  views of it extend. By the Scotch metaphy-  sicians, and generally in the schools of North  Britain, the word Logic seems to be so used  as to imply the cultivation of the powers of  the mind generally, correspondently with  M'atts's definition of tlie purpose of Logic,  namely, " the right use of reason." " I  have always been convinced," says DugaJd  Stewart*, " that it was a fundamental error  of Aristotle, to confine his views to reasoning  or the discursive faculty, instead of aiming at  the improvement of our nature in all its parts."  And he then goes on to mention the following  as among the subjects that ought to be con-  sidered in a just and comprehensive system  of Logic. " Association of ideas ; Imagina-  tion ; Imitation j the use of language as the   GREAT INSTRUMENT OP THOUGHT ; and the   artificial habits of judging imposed by the  principles and manners in whicli we have     * Fhilotiuphical Essays.  Chap. II.     Preliminary Disscrtatio     16s ON LOGIC. [|CHAP. 11.   been educated." * Now if the threeibld di-  vision of human knowledge is a just one,  which, in the Introduction of this work, was     his     * io the same purpose,  Philosophy of the Humat     n the second volume of  Mind, (Chap. III. Sect.     S.) he speaks thu^     ' The following, (which     mention by way of specimen,) seem to be among the  most powerful of the causes of our felse judgments.  1. The imperfections of language both as an instru-  ment of thought, and as a medium of philosophical  communication. 2. The difficulty in many of our  most important inquiries of ascertaining the facts on  which our reasonings are to proceed. 3. The partial  and narrow views, which, from want of information,  or some defect in our intellectual comprehension,  we are apt to take of subjects which are peculiarly  complicated in their details, or which are connected  by numerous relations with other questions equally  problematical. And lastly, (which is of all perhaps  the most copious source of speculative error) the pre-  judices which authority and fashion fortified by early  impressions and associations, create to warp our  opinions. To illustrate these and other circumstances  by which the judgment is apt to be misled in the  search of truth, and to point out the most effectual  means of guarding against them, would form a very  important article in a philosophical system of Logic,"     SECT. S2.]     169     borrowed from Locke,— namely into, it., the  knowledge of things tiiat are, — ii., of things  fitting to be rfonc, — and, Hi., of the means of  acquiring and improving both these branches  of knowledge;— it wUl at once appear that  all the subjects referred to in this enumeration  of Stewart's, except the fourth, which we print  in capitals, come under the denomination of  physica : — they are energies or tendencies of  the mind derived from nature, or habits  arising out of natural causes ; and they come  accordingly under the division of things ex-  isting in nature, which things, as they all  concern the mind, it is the business of the  Pliilosophy of the human mind to explortf:  but the fourth of the subjects mentioned in  the quotation from Stewart, viz •* the use of   LANGUAGE AS THE GREAT INSTRUMENT OF   THOUGHT," comes under the third of the  divisions laid down by Locke, and ought cer-  tainly to be distinguished from the other  subjects, because it is the means of becoming  acquainted with them : it is the instrument.     m     ON LOGIC.     [chap. II.     and they are among its objects. True, we  discover, as we proceed in the use of it, and  we are properly warned by those who have  used it before, that its efficacy is assisted or  impeded by extraneous causes, as well as by  defects in the instrument itself: similar dis-  coveries will be made, and similar warnings  must be given, in the practice of almost every  art: but these ought not to enter into the de-  finition of the art, although it will be proper  to bring them forward, incidentally, as we  open its rules. " A method of invigorating  and properly directing all the powers of the  mind is indeed," says Dr, Whately, " a most  magnificent object, but one which not only  does not fall under the province of Logic, but  cannot be accomplished by anyone science or  system that can even be conceived to exist.  The attempt to comprehend so wide a field is  no extension of science, but a mere verbal ge-  neralization, which leads only to vague and  barren declamation. In every pursuit, the  more precise aud definite our object, the more     SECT. 22.]     ON LOGIC.     171     likely we ai'e to obtain some valuable result j  if, like the Platonists, who sought after the  avTodyaSov, — the abstract idea of good, —  we pursue some specious but ill-defined  scheme of universal knowledge, we shall lose  the substance while grasping at a shadow, and  bewilder ourselves in empty generalities." *■  To these just remarks, we may add our ex-  pression of regret that Dugald Stewart never  had opportunity to do more than speak pro-  ^'^ectively of *' a just and comprehensive  system of Logic ;" " to prepare the way for  which, was," he says, " one of the main  objects he had in view when he first entered  upon his inquiries into the human mind."t  Had he himself completed such a design in-  stead of leaving it for others, we doubt not he  would have found the necessity of circura-  scribing Logic within the bounds we have  proposed, in order to give it existence as an     • Whately's Logic ; Introduction,  t Pliilos. Essays. Prelim. Diss. Chap. II.: in the  paragraph immediately following the last quotation.     fjtt ON LOGIC. [chap. U.   art distinct from the wide ocean of intellectual  philosophy.   23. But Dr. Whateiy, who deems, with  us, that every consideration of the mind con-  ducted without reference to its making use of  language as its instrument, lies out of the de-  partment of the teacher of Logic*, com-  pletely differs from us, as to the province of  the art. Of the question, " whether it is by  a process of reasoning that new truths are  brought to light," he maintains the negative t,  and consequently denies that investigation be-  longs to Logic. Afler what has been ad-  vanced in the former sections of this chapter,  we think it quite unnecessary to combat this  opinion here ; and as Dr. Whateiy concedes,  that " if a system could be devised to direct     • Dr. Whateiy defines Logic (Chap. II. Part I.  Sect. 2.) " the art of employing language properly for  the purpose of reasoning." But with him, reasoning  B argumentation.   t Whateiy "s Logic, Province of llcasoning, Chap.  II. Sect. 1.     ^     SECT. 23.] ON LOGIC. 173   the. mind in the progress of inveBtigation ", it  might be " allowed to bear the name of Lo-  gic, since it would not be worth while to con-  tend about a name " *; — as, moreover, we  propose to comprehend under Rhetoric all  that belongs to the proving of truth — that is,  convincing others of it after we have found it  ourselves ; — we might be satisfied with stating  that this is the distribution we choose to  adopt, and there let the matter end. Be-  lieving, however, that our reasons will shew  this distribution to be not only useful, but al-  most indispensable, we proceed to offer them.  24, And first, that, so far as we have  gone, the art we have described ought to be  called Logic, we think will hardly now be de-  nied: — for we have proved that from be-'  ginning to end, it is a process of reason, that  is to say, a process to reach an end by mediae  and we have shown that the media are     • Whalely't* Logic, Province of Jteasoiiing, Chap.  II. Sect. 4.     Wi     ON LOGIC.     [chap. II.     words, (Xo'yoi.) If the term Logic is not pro-  perly applied to such an art as this, we know  not where an instance can be found of pro-  priety in a name. But shall we include the of-  fice of proving truth under this name, as well  as that of investigating it ? We answer, no, for  these two reasons : first that the things them-  selves are difierent, and ought therefore to be  assigned to different departments ; since it is  one thing to find out a truth, and another to  put a different mind in a posture for finding it  out likewise : And, second, that persuasion by  means of language, which is the recognized  office of Rhetoric, is not so distinct from con-  viction by means of language, as to admit of  our saying, precisely, where one ends, and the  other begins. That common situation in life.  Video meUora proboque, deteriora sequor,  proves indeed there are degrees of conviction  which yield to persuasion, as thei'e are other  degrees which no persuasion can subdue : yet  perhaps we shall hereafter be able to show,  that such junctures do but exhibit one set of     SECT. 24.]     175     motives outweighing anol^ier, and that the ap-  plication of the term persuasion to the one set,  and of conviction to the other, is in many cases  arbitrary, rather than dictated by a corre-  spondent difference in the things. If, then, the  finding a truth, and the proving it to others,  ought to be assigned to different departments  of Sematology, why not, leaving the former to  Logic, consider the latter as appertaining to  Rhetoric, seeing that convincing is not always,  and on every subject, clearly distinguishable  from persuading, which latter is the acknow-  ledged province of Rhetoric ? Thus will ana-  ^5ii' uniformly belong to Logic, and synthesis  to Rhetoric. While we use language as the  medium for reaching further knowledge than  the notions (knowledge) we have already  gained, we shall be using it logically : when,  knowing all we intend to make known, we  employ it to put others in possession of the  same knowledge, we shall be using it rhe-  torically. As learners we are, according to  this distribution, to be deemed logicians }— .as     176     [chap, II.     teachers, rhetoricians. The two purposes are  quite distinct, though they are often con-  founded under the same name, reasoning ;  which sometimes means investigation, and  sometimes argumentation*, or a process with   • 111 spite of all we have said against taking up no-  tions from mere terms, (for " what's in a name ?") we  confeES a strong antipathy to the word argumentatmi.  It no sooner meets our eyes, than, fearing the approach  of some Docteur Pancrace, we instinctively put our  hands to our ears. " Voub voulez peut-etre savoir, si  la substance et Vaceident sont termes synonymes on  equivoques k I'egard de Tetre? Sganarelle. Point  du tout. Je... Pancrace. Si la lo^ que est un art, ou  une science.^ Sgan. Ce n'est pas cela. Je... Pancr.  Si elle a pour objet les trois operations de I'esprit, ou  la troieieme seulement ? Sgan. Non. Je... Poner. S'il  y a dix categories, ou s'il n'y en a qu'une ? Sgan.  Point. Je... Pancr. Si la conclusion est Vessence  du sylle^sme ? Sgan. Nenni. Je... Pancr. Si  fessence du bien est mise dans I'appetibilite, ou dans  la convenancc? Sgan. Non. Je... Pancr. Si le  bien se rcciproque avec la fin ? Sgan. He, non! Je...  Pancr. Si la fin nous pent emouvoir par son etre reel,  ou par son Stre intentionel ? Sgnn. Non, non, non,  non, non, dc par tons lea diables, non. (Moli&re's  Mariage Force.) We join in our friend Sganarelle'g     SECT. 24.] ON LOGIC. 177   a view to proof: and the confusion is pro-  moted by the circumstance, that the two pro-  cesses are often used in subservience to each  other. Thus, when a writer sits down to a  work of philosophical investigation, it is to be  expected that the general truths he designs to  prove, are already in his possession ; but he  has to seek the means of proving them. Now  in searching for these, it is not unlikely, that,  with regard to the detail, he will frequently  come to conclusions different from those he  was inclined to entertain, though the final re-  sult he had entertained may remain un-  changed. At one moment, therefore, he is a  logician, at another, a rhetorician. His reader,  on the other hand, is a logician throughout :  in following and weighing the arguments offer-  ed, he is an investigator of the truths which   deprecation, wishing to shun all argumentation, except  of that quiet kind which takes place when the talkers  on both sides are disposed to truth, ilot victory. If  the word conveyed to us the notion of so peaceable a  meeting, we should have no objection to it ; but we  have confessed our prejudice.   N     178 ON LOGIC. I^CHAP. II.   the other undertakes to prove. In this man-  ner may the same composition, accordingly  as it exercises the inquiring or the demon-  strating mind, be considered at one time with  reference to Logic, at another with reference  to Rhetoric. Still must it be admitted, that  to investigate and to prove are different  things ; and conceiving there is sufficient  ground for confining Logic to the former  office, we shall conclude our chapter as we  began it, by defining Logic to be the right  use of WORDS with a view to the investiga-  tion of truth.     CHAPTER III.  ON RHETORIC.     Non posse Oratorem esse nisi viriim bonum.   AKG, CAP. I. LIB. XII. QtriN. 1N3.     1. In the chapter just finished, it was shown  that the use of language as a Logical instru-  ment, entirely agrees with the theory of Gram-  mar we ascertained in the first chapter, and  that, on no other principles than those which  arise from that theory, can Logic be pro-  fitably studied. We have now to show that  the use of language as a Rhetorical instrument  agrees with the same theory, and that the  view of the art hence obtained, lays open its  true nature, and the proper basis for its rules.  2. The language of cries or ejaculations,  which in the first chapter we started with,  may be called the Rhetoric of nature. To  this succeeds the learning of artificial lan-  guage ; and the process, whether of invention  N 2     180 ON RHETORIC. [CHAP. III.   or of imitation, brings into being the Logic  described in the preceding chapter. For  whether we invent a language, or learn a lan-  guage already invented, (presuming it to be  the first language we learn,) we must learn,  (if we do not learn like parrots,) the things of  which language is significant. All words  whatever, not excepting even proper names *,  express notions (knowledge) obtained from  the observation and comparison of many par-  ticulars ; and singly and separately, each word  has reference to the particulars from which  the knowledge has been gained. But it is by  degrees we reach the knowledge of which  each single word is fitted to be the sign. We  begin by understanding those sentences, or  single words understood as sentences>, that  signify our most obvious affections and wants,  and which, taking the place of our natural  cries, retain the tone of those cries as far as  the articulate sounds they are united with  permit. In all cases, as a sentence expresses   * Vide Chap. II. Sect. 7- ad fincm.     SECT. 2.] ON RHETORIC. 181   a particular meaning in comparison with the  general terms of which it is composed^ the  hearer may be competent to the meaning of  the sentence, who is not competent to the  full meaning of the separate words. A cry,  a gesture, may deprecate evil, or supplicate  good ; and a sentence which takes the place  of, or accompanies that cry or gesture, will,  as a whole, be quickly interpreted. But the  speaker and the hearer must have made con-  siderable progress in the acquirement of know-  ledge by means of language, before the one  can put together, and the other can separate^  understand, such words as, ^^ A fellow  creature implores"; "A friend entreats *\   It is by frequently hearing the same word in  context with others, that a full knowledge of  its meaning is at length obtained * ; but this  implies that the several occasions on which it   * Consult, on this subject, Chapter 4th of Du-  gald Stewart's Essay " on the Tendency of some late  Philological Speculations,^ being the fifkh of bis " Phi-  losophical Essays^.     182 ON RHETOnic. [chap. hi.   is used, are observed and comjiared; it im-  plies, in short, a constant enlargement of our  knowledge by the use of language as an in-  strument to attain it.   3. But he who uses language as a logical,  will also use it, when need requires, as a rhe-  torical instrument. The Rhetoric of nature,  the inarticulate cries of the mere animal, he  will lay aside ; or at least he will employ them  (and he will then do so instinctively) only on  tliose occasions for which they are still best  suited, — for the expression of feelings re-  quiring immediate sympathy. On all other  occasions, he will use the Rhetoric by which  a mind endowed with knowledge, may expect  to influence minds that are similarly endowed ;  and our inquiry now is, how the effect is pro-  duced;— how, by means of words, (taking  words to be nothing else than our theory of  language has ascertained them to be,) — how,  by such means, we inform, convince, and  persuade.   4. According to our theory, wobds are to     SECT. 4.] ON RHETORIC. 183   be considered as having a double capacity ;  in the first, as expressing the speaker's actual  thought ; — ^in the second, as being the signs  of knowledge obtained by antecedent acts of  judgment, and deposited in the mind ; which  signs are fitted to be the means of reaching  further knowledge. Now, when we use lan-  guage as a rhetorical instrument, we use it,  or at least pretend to use it, in order to make  known our actual thought, — in order that  other minds should have that information, or  be enlightened by that conviction, which we  have reached. Could this be done by a single  indivisible word — could we realize the wish  of the poet —   Could I embody and unbosom now   That which is most within me ; could I wreak   My thoughts upon expression, and thus throw   Soul, heart, mind, passions, feelings, strong or weak.   All that I would have sought, and all I seek,   Bear, know, feel, and yet breathe, into One Word*   Were this instantaneous communication with-  ♦ Byron's Childe Harold, Canto III. Stanza 97-     184 ON RHETORIC. £CHAP. III.   in our power. Rhetoric would be a natural  faculty, not an art, and our inquiry into  its means of operation would be idle. But  getting beyond the occasions for which the  Rhetoric of nature is sufficient, and for which  those sentences are sufficient that serve the  most ordinary purposes of life, an instan-  taneous communication from mind to mind, is  impossible. The information, the conviction,  or the sensitive associations, which we have  wrought out by the exercise of our observing  and reasoning powers, can be given to another  mind only by giving it the means to work out  the same results for itself ; and, as a rhetorical  instrument, language is, in truth, much more  used to explore the minds of those who are  addressed, than to represent, by an expression  of correspondent unity, the thought of the  speaker ; — rather to put other minds into a  certain posture or train of thinking, than pre-  tending to convey at once what the speaker  thinks. Contrary as this doctrine will ap-  pe$ir to common opinion on the subject, a very     6ECT. 4.] ON RHETORIC. 185   little reflection will show that it must be true.  For a word can communicate to another mind  what is in the speaker's, only by having the  same meaning in the hearer^s : but if it have  the same meaning, then it signifies no more  than what the hearer knows already, or what  he has previously experienced. And this is  plainly the case with sentences (words) in  familiar use, which signify what all have at  times occasion to express, which are used  over and over again for their respective pur-  poses, and of which, while uttering or hearing  them, we do not attend to the meaning of the  separate words, but only to the meaning of  the whole expression *. Here, it is confessed,  the communication is made at once ; but then  it is a communication which the hearer is pre-  pared to receive, because he has himself used  the same expression for the same purpose.  What is to be done when the information or  the conviction is altogether strange to the  mind which is to receive it ? In this case the   ♦ Refer to Chap. I. Sect 19.     ON RHETOKIC. QCHAP. HI.     speaker will seek in vain, as in the first case,  for an expression previously familiar to the  hearer; and he will have to form an expres-  sion. But how shall he form it? As words  have the power of representing only what is  known on both sides, he must form it not  with signs of what is to be made known, but  of what is already known. In this way, he  may produce an expression — whether that  expression take the name of sentence, oration,  treatise, poem, &c. * — which, as a whole, de-  notes that which his mind has been labouring  to communicate — the information, the con-  viction, or the sensitive associations he is de-  sirous that others should entertain in common  with himself. The necessity of so protracted,  so artful a process, must be set down to the  hearer's account, not to the speaker's. The  latter is (or ought to be) in previous possession  of what he seeks to communicate — he has  been through the process, and reached the  result : but that result he cannot give at once  ' Compiirc Chap. I. Sect. 20.     SECT. 5.] ON RHETORIC. 187   and gratuitously to others : he can but lead  them to it, as he himself was led, by address-  ing what they already know or feel ; and his  skill in rhetoric will be the skill with which,  for this purpose, he explores their minds. It  will be a process of synthesis on his part, and  of analysis on theirs. He will form an ex-  pression out of WORDS which signify what  they already know, or what they have already  felt : and the separate understanding of these  on their part, will enable them to understand  his expression as a whole. This being the  theory of Rhetoric which grows out of our  theory of language, we now proceed to show  that the actual practice of every speaker, and  of every writer, is in accordance with it.   5. To begin with Description and Narra-  tion : — Is it not obvious, that, to procure in  another mind the idea of things unknown, we  proceed by raising the conception of those  that are known ? An object of sight which  the party addressed has never seen, we give  an idea of by allusions made iu various ways     188 ON RHETORIC. [CHAP. III.   to objects he has seen :— or if, being new as a  whole, it is made up of parts not new, we give  the idea of the whole by naming the parts,  and their manner of union. An unknown  sound, or combination of sounds, an unknown  taste, smell, or feel, is suggested to another  mind by a comparison, direct or indirect,  with a known sound, taste, smell, &c. As to  conceptions purely intellectual, it is a proof  how little one mind can directly represent or  open, itself to another, that, in the first in-  stance, such conceptions can be made known  not by words that directly stand for them, not  by comparisons with things of their own  nature, but only by comparisons with affec-  tions and effects outwardly perceptible; as  would at once be obvious in tracing to their  origin all words that relate to the faculties and  operations of the mind *'y although it is true   * Thus afdrnvs^ amma^ +*'%»», originally signify  wind or breath : ^vfiog /Mevog^ mens^ impetuosity ; in-  tellect is from inter and lego, I collect from among ;  perception and oonceptUm are from capio I take, — a     SECT. 5.] ON RHETORIC. 189   that these words at last become well under-  stood names, that at once suggest their re«  spective objects, without bringing up the ideas  of the objects of comparison that once in-  tervened. In narration we proceed by similar  means. We presume the hearer to be ac-  quainted with facts or events of the same  kind as that which is to be made known,  though not with the particular event ; for we  \x%Q generalievmSy i. e. terms expressing kinds  or sorts, in order to form every more par-  ticular expression. If the hearer should be  unacquainted with facts or events of die same  kind, the communicator then has recourse to   use of the verb still common in such phrases as ^^ I  take in with my eye,'' and, " I take your meaning ;''  judgment is from jus dicere ; understanding suggests  its own etymology ; refleadon implies a casting or  throwing back again; imagination is from imago^  an image or representation; to thinks according to  Home Tooke, is from thing ; — " Res-^k thing (he says)  gives us refyr I am thinged,'' i. e. operated upon by  things. These are etymologies suggested by authori-  ties universally accessible ; — the curious in this depart-  ment of learning would be able to add much more.     IdO ON RHETORIC. [CHAP. III.   circuitous comparisons. If nothing is pre-  viously known to wliich the action or event  can, however remotely, be compared, the  attempt to make it known must be as fruitless  as that of giving an idea of colours to one  bom blind, or of sounds to one born deaf*.   * Not without reason does the angel thus speak to  Adam in the Paradise Lost :  High matter thou enjoin'st me, O prime of men,   — and hard : for how shall I relate  To human sense the invisible exploits  Of warring spirits ?  And he proposes to overcome the difficulty in the only  way in which it can be concaved possible to be over-   — what surmounts the reach  Of human sense, I shall delineate so  By likening spiritual to corporal forms,  As may express them best.   Far. Lost. Book 5. 1. 5G3.  Still must the discourse of the Angel have been unin-  telli^ble to Adam : for the latter must be supposed  ignorant not only of the things to be illustrated, but  of far the greater part of the illustrations. There  was no keeping clear of this defect in the philosophy  of die jwem, if, in a poem, we arc to look for philoso-  phy. The discourse even of Adam and Eve, though     SECT. 6.]     ON RHETORIC.     191     6. Thus, then, when we make use of  words in order to inform, we produce the  effect by adapting them to what the hearer  already knows. In using words in order to  convince and persuade, we produce the effect  in the same way. But to convince, it is ne-  cessary to inform — to acquaint the hearer  either with something he did not know before,  or with something he did not attend to ; and  the information is called the argument * or  proof. Thus the information that "Plato was  a philosopher," is an argument or proof that  he is deserving of respect: and the clear  testimony that " a man has killed another  maliciously," proves that the perpetrator is  guilty of murder. But why do we account  the information in the respective instances an  argument or proof of the conclusion ? For   Iieautifully fiimple, is tilled with alluaions to things  which the least philosophy will teach us they could not  be acquainted with.   * The word argument is commonly used iii the  sense we here assign to it ; though it is likewise often  used with » more coniprelicnBivc meaning.     192 ON RHETORIC. [^CUAP. III.   no Other reason than this, that it is addressed  to a notion (knowledge) previously acquired  of what persons are deserving of respect, (in  the first instance,) and of what constitutes the  crime of murder, (in the second instance.)  Take away this previous knowledge, and the  information remains indeed, and may perhaps  be clearly understood, but in neither instance  can it lead the hearer to the conclusion, —  that is to say, it will not then be an argument  for the end in view : it will communicate,  perhaps, what it professes to make known, but  there the matter will end. In every process,  then, by which we propose to convince others  of a truth, there are three things implied or  expressed : i. that which we intend to prove  true, and which, if stated first, is called the  proposition, if last, the conclusion : ii. the in-  formation by which we try to prove it, and  which is accordingly called the argument or  pro of; iii. the previous notion (knowledge) to  which the information is addressed, and  which is frequently called the datum ; being     SECT. 6.] ON RHETORIC. 193   that which is presumed to be already known,  and therefore conceded or given by the person  reasoned with ; on account of which, and  solely on this account, the information is  offered in the capacity of an argument or  proof. Now, here we have the parts of a  syllogism, (though in reversed order, viz. the  conclusion, the minor, the major,) and this  may serve to show, without having recourse  to the Aristotelian doctrine of the comparison  of a middle with extremes, why the form of a  syllogism, where necessary, must always be a  forcible way of stating an argument. For  first we state that which our hearer cannot  but. concede j (major ;) then we state that  which he did not know or attend to, in such  a way that he must receive it on our testi-  mony, or admit as evident as soon as it is  attended toj (minor;) and these two being  admitted, they are found to contain what we  proposed to prove: which we then draw  from them without the possibility of a rational  contradiction; (conclusion.) For example;   o     194 ON RHETORIC. [CHAP, III.   our hearer knows by experience what persons  are deserving of respect: he knows, then,  that   ** Every philosopher is deserving of respect.^   We then remind him of the fact which he has  learned from history, that   " Plato is a philosopher :''   Hence on his own knowledge we advance  the undeniable conclusion,   " Plato is deserving of respect''   Is this conclusion at all fortified — is the  process which led to it explained — by shew-  ing that a comparison of the terms independ-  ently of the things, produces the proposition  which expresses it ? Both the hearer and the  speaker must have the kno'wledgevfYiicYi the first  two propositions refer to, or the conclusion can-  not be drawn for any rational end : and if they  have the knowledge, they have the conclusion  in that knowledge. In convincing the hearer,  the speaker does nothing but remind him  that he (the hearer) has the necessary know-     SECT. 6.] ON RHETORIC. 195   ledge ; and the syllogism, we admit, puts the  matter home in a very forcible way : but that  is all : another form of speaking will oflen do  equally well : for instance, " Plato who is a  philosopher is deserving of respect." Whether  the truth is stated in this way, or in the for-  mer way, or in any other way, the extract-  ing of a middle and extremes out of the ex*  pression, and demonstrating that these agree  or disagree, is, we repeat it, a puerile addition  to the process that has previously taken place.  Again, with regard to the other example at  the beginning of the section: — Our hearer  knows, (suppose him to be a juryman,) either  of his own knowledge, or by the definition  laid down by the judge, that   ^^ Maliciously killing a man is murder.''^   This is the datum, or major. He receives in  charge, i. e. he is informed that A. B. killed a  man maliciously, which is tantamount to  saying that   " What A. B. did, is killing a man maliciously.*"   o 2     196 ON RHETORIC. [CHAP. Ill,   This information is to be the argument or  minor by which the conclusion is to be esta-  blished; but the juryman must be made sure  of its truth, — he must know it, — before he  can receive it in this capacity : — well, he is  made sure of its truth : — must he then go to  Aristotle, and be taught to compare the  middle with the extremes, in order to pro-  nounce his verdict that   " What A. B. did, is murder:''   that is, he is guilty of murder? Will he be  MORE satisfied with his own verdict, if he is  able to do so ? Common sense pronounces,  no. Let us, then, for ever have done with  the Aristotelian Syllogism ; admitting, how-  ever, in favour of the form of expression, that  to express (i.) the datum, — (ii.) the inform-  ation which, because it is addressed to the da-  tum, is an argument,— and (iii.) the conclusion  from them — in three distinct propositions, is a  very forcible way of stating a truth which we  have reason to believe our hearer is prepared     SECT. 7-] ON RHETORIC. 197   to admit the moment it is so stated. But  the syllogism thus detached from the artifice  of comparing a middle with extremes, is only  one among the innumerable ways of express-  ing a truth, which the custom of language  permits, and is no more the invention of  Aristotle in particular, than any of those  other forms that might be used instead  of it *.   7. This brief notice of the syllogism in  addition to what was advanced in the last  chapter, occurs by the way : — ^the point we  had in hand, was, to show that in convincing  others by means of words, we adapt our words  to what they already know. And this must  be evident from what has preceded. For we  previously proved, that, in order to inform,   * Our observations on the syllogism are not meant  to call in question the intellectual capacity of the in-  ventor. For what we conceive to be a just estimate  of his merits, we refer to Dugald Stewart'^s Second  Vol. of the Philos. of the Human Mind, Chap. III.  Sect. 3., near the middle of the section.     198     ON RHETORIC. [CHAP. III.     we adapt our words to what our hearers al-  ready know ; and we have just shown that the  process of convincing them, is a process in  which we address some information to a pre-  existing notion. Let us now see how this  doctrine tallies with the terras of art which  are already in recognised use ; and, as occa-  sion may offer, let us inquire if there be any  difference, and what, between conviction and  persuasion.   8. That every argument used to influence  others, is considered to derive its efficacy  from some pre-existing notion, opinion, or rul-  ing motive, whether permanent or transitory,  in the hearer, is evident from the following  and similar expressions : argumentum ad Judi-  cium, by which we signify that our inform-  ation is addressed to such general principles of  judgment as mankind at large are guided by :  argumentum ad hominem, by which we imply  that we address those peculiar principles by  which the individual man is actuated. Again ;  argumentum ad vtrvcundiam, argumentum ad     SECT. 8.3     ON RHETORIC.     ignorantiam, argumentum ad Jidem, argumcn-  tum ad passiones, all imply arguments (infoim-  ation) addressed to some partial motives of  judgment and action ; and in all these, the  conclusion arising out of the reasoning has  the same validity, as far as regards the mere  act of reasoning : it is the difference of the  data that makes it of very different value. A  conclusion from an argument addressed to  principles which all men recognise, is obvious-  ly a conclusion of universal force; but one  which arises from an argument addressed to  peculiar principles, can of course be convinc-  ing only to such as admit those principles.  So likewise a conclusion which arises from the  reverence entertained for the author of the  principles professed ; — or which follows in the  hearer's mind from his limited notions, and  would not follow if he were better inlorra-  ed ;— or which follows because of his faith,  and would not follow, if he had not that  iaith J— or because his passions are previously  disposed, and would not follow, if they were     «00     ON RHETORIC.     [chap.     otherwise disposed: — in these and in similar  cases, the argument is valid, and therefore ef-  fective with respect to the minds for which it  is adapted, but addressed to other and more  general motives or knowledge, it may be no  argument at all *. Here, then, we may  perhaps see how the difference arises between  conviction and persuasion ; — mere persuasion  is conviction as far as it goes ; but it is con-  viction arising out of partial data : the person  persuaded is conscious that the reasoning  process itself is right, but he suspects —  perhaps more than suspects — tliat the data  which he has permitted his inclinations to lay   • Hence, what is Rhetoric at one tune and to one  set of auditors, may be none whatever at another time.  Who has not admired tlie Rhetoric of Marc Antony,  (the Hpeecb over Ciesar's body,) in Shakspeare's play  of Jnhua Caesar ? But why do we admire it F Is it  such Rhetoric as would persuade all people under the  circumstances supposed ? No. But it is just such  Rhetoiic as was fitted for the multitude under those  circumstances; and we admire the dramatist who so  completely suits the oration to the art of the speaker,  und the minds of those whom be has to operate upon.     SECT. 8.] ON RHETORIC. 201   down, are wrong: he perceives another con-  clusion from other and less suspicious data,  though he has not resolution enough to em-  brace it : so that the case we referred to in  the last chapter* as being so common in life,  Video meliora proboque^ deteriora sequor,  amounts to this, — that we are divided between  two conclusions, the one drawn from data  which we know to have the sanction of uni-  versal consent, the other from data supplied  by private motives. Thus, when Macbeth is  bunging in doubt between the suggestions of  duty and ambition t, the conclusion from each  source is reasonably drawn : but he is not  ignorant of the different value of the respec-  tive sources. He has nearly determined in  favour of the conclusion drawn from duty,  when his wife enters, who, by addressing con-  siderations (information, arguments,) to his  known sentiments of greatness and courageous   * Chap. II. Sect. 2+.   f Shakspcare's Macbetb, Act I. Scene 7-      JBOS ON RHETORIC. [^CHAP. 111.   daring, persuades him to murder Duncan and  seize the crown.   9. So much for the terms of art by which  we signify the quaUty of the arguments we  use, as depending on the known motives, or  information, or disposition, of the persons  addressed : which terms suit our theory so  well, that they seem to be invented for it.  Nest, for the terms by which the arguments  themselves are technically distinguished.  First, we have a distinction of them into Ex-  ternal and Internal. Now, according to our  theory, every argument consists of some in-  formation which we communicate to the per-  son reasoned with : — but this information  may be something that he could not possibly  have discovered by any consideration of the  subject itself J or it may be something that he  might have so discovered ; in which latter  case, our information will amount to nothing  more than making him aware of what he had  overlooked. The former, then, will be an ex-     »■]     ON RHETORIC.     temal argument or proof; the latter, an in-  temal argument. Of the former, the evidence  in a court of justice is an example ; as are al-  so proofs from history and other writings, and  irom the testimony of the senses. Of the lat-  ter kind, are all arguments from what are call-  ed the topica or loci communes : — for instance,  from the definition or conditions of a thing j  as when certain lines are inferred to be equal  to each other from their nature or conditions  as being radii of the same circle : — from  enumeration ; as when we prove that a whole  nation hates a man, by enumerating the  several ranks in it, who all do so : — from nota~  tion or etymology ; as when we infer that Lo-  gic has reference to the use of words in  reasoning, from its connexion with the Greek  Xt'yw I speak, and \6yoi a word :— from genus f  as when we prove that Plato is deserving of ■  respect, by showing that he is one of a getius  or kind that is deserving of respect : — from  species ; as when we infer the excellence of ^  virtue in general from that which we observe      eo*     ON RHETORIC.     [chap. lit.     in some particular act of virtue : — anil so like-  wise of the same kind, namely internal, are  aiguments from the other well known topics ;  (not to prolong the instances, which are easily  imagined ;) from cause, whether efficient, JiJial,  Jbrmal, or material; from adjuncts, antecedents,  consequences, contraries, opposiles, similitudeSy  dissimilitudes, things greater, less, or equal:  &c. The deriving of arguments from these  internal topics*, is nothing more, on the part  of the speaker, than turning a subject into  every point of view that may suggest a some-  thing relating to it, overlooked perhaps by  the hearer, and which, by being brought to  his notice, and addressed to his pre-existing  notions, may prove, or render probable, the  proposition in hand ; and according to the de-  gree of force which the argument carries, it is   • The reader needs not be reminded how largely  this subject of topics, (or places for finding the internal  or artiiicial proofs in contradiGtinction to the external or  artificial,) ia treated by the ancients : for instance, by  Aristotle, by Cicero, (vide the book called Topu-a,)  and by Quinctilian.     SECT, y.]     ON RHETORIC.     205     deemed an instrument of conviction or of  persuasion. An argument from defimlion ; — -  (for instance from the conditions of a problem  or theorem j as where lines are required to he  drawn which are to be radii of the same cir-  cle J ) which argument is addressed to a notion  assumed among the general conditions of the I  reasoning ; (for instance, that " a circle is suct]^ ]  a figure that all lines, (called radii,) drawn, j  from a certain point within it to the circum-  ference are equal " ;) — an argument so derived  and so addressed, is demonstrative of the pro-  position which it is brought to prove : (e. g^  that the lines are equal.) An argument froni[1  enumeration, — (for instance, from a statement 1  of the several ranks that are found in a n&- ]  tion,) addressed to a notion that the parta J  enumerated are all the parts, (for instance^ j  that the several ranks of people that hate A. j  B. comprise the whole nation,) is also de-  monstrative with respect to that notion ; but  if the enumeration should not comprehend all  the parts in the hearer's notion of the whole,      90Si ON RHETORIC. [CHAP. III.   or if the hearer should doubt whether his own  notion is sufficiently comprehensive, no ab-  solute conviction takes place. Still, the enu-  meration may induce belief, and will in such  case be said to persuade, though not to con-  vince. The same might be shown of the ar-  guments derived from all the other topics.  Entire conviction would follow from any of  them, if the hearer were fully satisfied both of  the truth of what is offered in the way of ar-  gument, and of the correctness of his own no-  tion to which the argument is addressed : but  greater or less degrees of doubt may accom-  pany each of these, and greater or less de-  grees of doubt will therefore attach to the  conclusions which flow from them. We may  moreover observe, that the truths a speaker  has in view, do not always stand in need of  demonstration : they are perhaps admitted al-  ready, but it may be that they do not suffici-  ently influence the hearer's sensibilities. The  object of an argument will then be, to awaken  those sensibilities, and with this effect its pur-     SECT. 9.] ON RHETORIC. 20?   pose wiU stop : as, for instance, when in or-  der to awaken sensibility to the frail nature  of man's existence, (not to demonstrate it,)  the speaker draws his argument from simili-  tude :   Ah ! few and full of sorrows are the days  Of mieerable man ! his life decays  Like that fair flower that with the sun's uprise  Its bud unfolds, and with the evening dies.   Here, the argument is obviously meant for  persuasion. There may, at the same time, be  an ultimate truth in view, which the speaker  designs to enforce when he has prepared the  mind for receiving it; and he will then employ  arguments of a different kind, and address  them to notions of universal dominion. — But  with regard to any of the arguments which,  in this brief review we have glanced at —  whether external or internal, whether demon-  strative, or only inducing belief, whether de-  signed to convince, or fitted but to per-  suade, — the process accords with the theory  assumed: — the speaker adapts words to know-     208 OM RHETOftlC. [chap. IU.   ledge the hearers have already attained, or  to feeliugs they have already experienced, in  order to conduct them to some discovery he  wishes them to make, or to some unexperienc-  ed train of thought conducive to such dis-  covery.   10. The assumption of this as the great  principle of the art, will, in the next place,  enable us to clear it from certain misdirected  charges to which it has always been liable.  The expedients which the orator employs,  the various tropes and figures of which his  discourse is made up, are apt to be looked  upon as means to dissemble and put a  gloss upon, rather than to discover his real  sentiments*. That, like all other useful   * We refer more especially to the following pas-  sage with which Locke concludes his Chapter ^^ on the  Abuse of Words ;^ being the 10th of his 3d book.  ^^ Since wit and &ncy find easier entertainment in the  world than dry truth and real knowledge, figurative  speeches and allusion in language will hardly be ad-  mitted as an imperfection or abuse of it. I confess  in discourses where we seek rather pleasure and de-     SECT. 10.] ON RHETORIC. 209   things, they ^re sometimes abused*, nobody   • E/ 3f, ort /jieyaKa jSxa\J/£(£v av b xi^f^^^°^ d^Uag  Tn roKzuTn ^uvifAEi tcHv Aoywv, touto re Jtoivov eo'ti Kara  ^ivruv Tuv ayaOav* Arist. Rhet. I. 1.     light than information and improvement, such orna-  ments as are borrowed from them can scarce pass for  faults. But yet if we would speak of things as they  are, we must allow that all the art of rhetoric, besides  order and clearness, all the artificial and figurative ap-  plication of words eloquence hath invented, are for  nothing else but to insinuate wrong ideas, move the  passions, and thereby mislead the judgment, and so  indeed are perfect cheats : and therefore however  laudable or allowable oratory may rehder them in ha-  rangues and popular addresses, they are certainly, in  all discourses that pretend to inform or instruct, wholly  to be avoided ; and where truth and knowledge are con-  cerned, cannot but be thought a great fault either of  the language or the person that makes use of them.  What, and how various they are, will be superfluous  here to notice ; the books of rhetoric which abound in  the world, will instruct those who want to be informed :  only I cannot but observe how little the preservation  and improvement of truth and knowledge is the care  and concern of mankind ; since the arts of fallacy are  endowed and preferred. It is evident how much men     210 ON RHETORIC. [CHAP. III.   will deny : but to consider them by their very  nature as instruments of deception, only  proves that the objector utterly misconceives  the relation between thought and language.  These expedients are, in fact, essential parts  of the original structure of language ; and  however they may sometimes serve the pur-  poses of falsehood, they are, on most occa-  sions, indispensable to the effective communi-  cation of truth. It is only by expedients  that mind can unfold itself to mind;— lan-  guage is made up of them ; there is no such  thing as an express and direct image of  thought. Let a man's mind be penetrated   love to deceive and be deceived, since rhetoric, that  powerftil instrument of error and deceit, has its esta-  blished professors, is publicly taught, and has always  been had in great reputation : and I doubt not but  it will be thought great boldness, if not brutality in me,  to have said thus much against it. Eloquence, like  the fair sex, has too prevailing beauties in it, to suf-  fer itself ever to be spoken against. And it is in vain  to find fault with those arts of deceiving, wherein men  find pleasure to be deceived.'*'     SECT. 10.3 ON RHETORIC. 211   with the clearest truth — let him burn to com-  luunicate the blessing to others ; — ^yet can he,  in no way, at once lay bare, nor can their  minds at once receive, the truth as he is con-  scious of it. He therefore makes use of ex-  pedients : — he conceals, perhaps, his final pur-  pose ; for the mind which is to be informed,  may not yet be ripe for it :— ^he has recourse  to every form of comparison, (allegory, simile,  metaphor*,) by which he may awaken pre-  disposing associations : — he changes one name  for another, (metonymy,) connected with  more agreeable, or more favourable associa-  tions : — he pretends to conceal what in fact  he declares ; — (apophasis ; — ) to pass by what   * In referring to these and other figures of speech,  it is impossible not to be reminded of Butler'^s distich,  that   All a rhetorician'^s rules   Teach nothing but to name his tools.   The fact is as the satirist states it. But then it is  something to a workman to have a name for his tools ;  for this implies that he can find them handily. — May  we add to our remark, that the world is scarcely yet   p2     212 ON RHETORIC. [CHAP. III.   in truth he reveals ; — (paraleipsis : — ) he in-  terrogates when he wants no answer ;— (ero-  tesis ; — ) exclaims, when to himself there can  be no sudden surprise;— (ecphonesis; — ) he  corrects an expression he designedly uttered ;  — (epanorthosis ; — ) he exaggerates ;— (hy-  perbole ; — ) he gathers a number of particu-  lars into one heap; — (synathroesmus ; — ) he  ascends step by step to his strongest position ;  — (climax; — ) he uses terms of praise in a  sense quite opposite to their meaning ; — (iro-  nia ; — ) he personifies that which has no life,  perhaps no sensible existence ; — (prosopo-  poeia ; — ) he imagines he sees what is not actu-  ally present ;— (hypotyposis ; — ) he calls upon   aware how much it owes to such men as Butler, Moliere,  Shakspeare, Pppe ;r-^men who joined to other rich gifts  of intellect, that of plain sound sense, which enabled  them at once to see, in their true light, the vanities and  absurdities of (misqalled) learningp But for the histo-  rian of Martinus Scriblerus, his predecessors and suc-  cessors, the world might still be under the dominion of  a set of solemn coxcombs, whose whole merit consisted  in making small matters seem big ones, and themselves  to appear wiser than their neighbours.     SECT. 10.] ON RHETORIC. 213   the living and the dead ; — (apostrophe : — ) all  these, and many more than these, are the ar-  tifices which the orator* employs ; but they  are artifices which belong essentially to lan-  guage ; nor are there other means, taking  them in their kind and not individually, by  which men can be effectually informedy or  perstuidedj or convinced. Could the prophet  at once have made the royal seducer of  Uriah's wife fully conscious of the sin he had  committed, he would not have approached  him with a parable t : that parable was the  means of opening his heart and understanding  to the true nature of his crime ; and it is a  proper instance of the principle on which all  eloquence proceeds. It is true, we do not   * We trust the reader scarcely needs to be remind-  ed, that the word Orator isused throughout this treatise,  in the comprehensive sense which includes all who  wield the implements of Eloquence. In modem times,  the influential orator is read not heard ; or if heard,  his hearers are few in number compared with his  readers.   t 2 Sam. 12.     214 ON RHETORIC. [CHAP. III.   now make use of parables fully drawn out ;  but all metaphorical expressions, all compa-  risons direct or indirect, are to the same pur-  pose ; namely, that of bringing the mind of  the hearer into a state or temper fitted for the  apprehension of truth. Nor, (we repeat,)  must it be thought that the means referred  to, (excepting some instances in bad taste,)  are ornaments superinduced on the plain mat-  ter of language, and capable of being detached  from it : they are the original texture of Ian-  guage, and that from which whatever is now  plain at first arose. All words are originally  tropes ; that is, expressions turned (for such is  the meaning of trope) from their first pur-  pose, and extended to others. Thus, when a  particular name is enlarged to a general one,  as our theory shows to have happened with  all words now general, the change in the first  instance was a trope. A trope ceases how-  ever to be one, when a word is fixed and re-  membered only in its acquired meaning ; and  in this way it is that all plain expressions have     SECT. 11.]     ON RHETORIC.     originated. In a mature language, a speaker  or writer may, therefore, if he pleases, avoid  figurative expressions. But the same neces-  sity, the same strong feelings, which originally  gave birth to language, will still produce new  figures, or lead the speaker to prefer those  already in use to plain expressions, if, by  the former, he can touch the chords, or awaken  the associations, that are linked with the truths  iie seeks to establish.   11. Our theory of language, and conse-  quent theory of Rhetoric, will, in the next  place, no longer leave us to wonder at an ef-  fect, which Dr. Campbell has laboured to  account for with much ingenuity; namely,  that nonsense so often escapes being detect-  ed both by the writer and the reader*. For  according to our theory, words have a sepa-  rate and a connected meaning, each of which  is distinct from the other. Now, suppose a  succession of words to have no connected     Chap. VII.      See Philosophy of Rhetoric, Vol. II. Book II.     216 ON RHETORIC. [CHAP, III.   meaning, which is as much as to say, suppose  them to be nonsense ; yet, in their separate  capacity, they will nevertheless stand for  things that have been known and felt ; and  if both the speaker and the hearer shbuld be  satisfied with the vague revival of this know-  ledge and of these feelings, they will neither  of them seek for, and consequently will not  detect the absence of an ulterior purpose.  The effect which is produced by words thus  used, (or rather misused,) extends no further  than that produced by instrumental music,  and is of the same kind. For no one will  pretend that a piece of niusic expresses, or can  express, independently of words, a series of ra-  tional propositions ; yet it awakens some sen-  timents or feelings of a suflSciently definite cha-  racter to occupy the mind agreeably. Now  perhaps it is not an unwarrantable libel on  one half of the reading world, if we affirm,  that they read poetry and other amusing  composition for no further end, and with no  further effect, than the pleasure of such vague     SECT. 11.] ON RHETORIC. 217   Sentiments or feelings as spring from music :  and to such readers it is of little moment  whether the words make sense or not. Ac-  cordingly, when composition like the follow-  ing is put before them^ which presents striking  though incongruous notions, in words gram-  matically united, agreeably jingled, and having  a connexion, probably, with certain sensitive  associations, they are liable to read on, not  only without feeling their taste shocked, but  perhaps with some pleasure.   Hark ! I hear the strain erratic  Dimly glance from pole to pole ;   Raptures sweet and dreams ecstatic,  Fire my everlasting soul.   Where is Cupid's crimson motion,   Billowy ecstasy of wo ?  Bear me straight, meandering ocean,   Where the stagnant torrents flow.   Blood in every vein is gushing,  Vixen vengeance lulls my heart ;   See, the Gorgon gang is rushing !  Never, never let us part *.   * " Rejected Addresses ;^ the particular example     S18     ON HHETORIC. [CHflP. III.     Nor is it in (pretended) poetry alone, that the  eflFect here alluded to tahes place. Bring to-  gether the rabble of a political party, and  place before them a favourite haranguer: — it  13 not by any means necessary that he should  make a speech which they understand, or even  himself: he has only to string, in plausible  order, the accustomed slang words of the  party, and to utter them with the usual fer-  vour ; the wonted huzzas will follow as a  matter of course, and fill each pause that the  speaker's art or necessity prescribes. And  BO likewise in an assembly of a different de-  scription, — the piously disposed congregation     above being in ridicule of Rosa Matilda's style. See  also Pope's " Song by a Person of Quality." The  reader whose taste is gratified by such composition as  is here caricatured, stands at the other extreme from  that mathematical reader, who returned Thomson's  Seasons to the lender with an expression of disgust,  that he had not been able to find a single thing proved  from the beginning to the end of the book. The  reader for whom the genuine poet writes, is equally  removed from each extreme.     SECT. 12.] ON RHETORIC. 219   of a conventicle : the good man whom they  are accustomed to hear has but to put to-  gether the words of familiar sound and evan-  gelical association — grace, and spirit, and  new light, regeneration and sanctification,  edification and glorification ; an inward call,  a wrestling with Satan, experience, new birth,  and the glory of the elect ; interweaving the  whole with unceasing repetitions of the sa-  cred name, accompanied by varied epithets of,  blessed, holy, and divine : and with no further  assistance than the appropriated tone and  frequent upturned eye, he will throw them  into a holy transport, and dismiss them, as  they will declare, comforted and edified.  This effect, which is apt to be attributed to  hypocrisy because the ordinary notions of  language suggest no cause for it, our theory  explains with no heavy scandal to the parties.   12. Concerning the elements of Rhetoric  ranged under the divisions of Invention and  Elocution, we have now made what remarks     220 ON RHETORIC. []CHAP. III.   our object required. There yet remains one  division, namely, Pronunciation *; which will,  however, scarcely furnish occasion for extend-  ing our observations ; since our theory is not  in any peculiar manner concerned with it.  As we started with the Rhetoric of nature,  namely, tone, looks, and gesture, so we are at   * Disposition and Memory are in general adde4  to these three. " Omnis oratoris vis ac facnltas,'*^  says Cicero, ^^ in quinque partes est distributa ; ut  deberet reperire primum, quid diceret; deinde in-  venta non solum ordire, sed etiam momento quodam  atque judicio dispensare atque componere ; tiun ea de-  nique vestire, atque omare oratione ; post, memoria  sepire; ad extremum, agere cum dignitate et venustate.^  De Orat. 1. 31. As to two of these divisions, we have  no occasion to notice them, because there is nothing  in our theory of language which requires them to be  viewed in a new or peculiar light : — We may take oc-  casion to observe, before' concluding the note, that the  modem use of the term Elocution, assigns it to sig-  nify what the ancients denoted by Pronunciation or  Action : and Dr. Whately sanctions this modem sense  by adopting it in his Rhetoric. We have used it  in the foregoing page in the ancient sense : ^^ quam  Graeci f^aa-iv vocant,^ says Quinctilian, ^^ Latine  dicimus Elocutionem.'*'* Ins. viii. 1.     SECT. 12,] ON RHETORIC. 221   once ready to admit that these may, and  ought to accompany the language of art ; —  that they ought not to be absent even from  the recollection of him who writes, lest  his style be deficient in vivacity. In union  with these parts of Pronunciation, is that ele-  ment of artificial oral speech called Empha-  sis ; and it will be to our purpose to observe,  how very inadequate are the common notions  of language to account for the actual practice  of emphasis, as it may be observed in English  speech. The common view of words that  make up a sentence, is, that they respectively  correspond to ideas that make up the thought :  and therefore, in a written sentence, if we  would know the emphatic word, we are de-  sired to consider which word expresses the  most important idea*. Thus, when Dr.   * To this end some teacher of elocution (elocution  in the modem sense) somewhere says : ^^ If, in every  assemblage of objects, some appear more worthy of no-  tice than others ; if, in every assemblage of ideas,  which arc pictures of those objects, the same difference     222 ON RHETORIC. [CHAP. III.   Johnson was asked how we ought to pro-  nounce the commandment, ** Thou shalt not  bear false witness against thy neighbour/* he  gave as his opinion that not should have the  emphasis, because it seemed the most im-  portant word to the whole sense. But Garrick  influenced by no assumed theory, pronounced  according to the practice of English speech,  ** Thou shalt-not bear," * &c. There is in fact  no other rule than custom in English speech  for the accenting of words in a sentence, any  more than there is for accenting syllables in a  word. A peculiar or referential meaning  may indeed disturb the usual accent of a   prevail, — it consequently must follow, that in every  assemblage of words, which are pictures of these ideas,  there must be some that claim the distinction called  emphasis.^ All this ingenious parallel, with Aristotle^s  authority to back it, we affirm to be purely visionary,  and we hope the reader by this time thinks as^ we do.  Yet is the passage in entire accordance with the no-  tions of language that commonly — nay, it should  seem, universally prevail.   * The story is somewhere related by BoswelL     SECT. 12.3 ON nHETOrtic. 223   word : for instance, the common accent of  the word for^ve, will be displaced if the  word is pronounced referentially to a word  that has a syllable in common ; as in saying  to give and loj'drgive. And just so will it be  in a sentence which is pronounced refer-  entially to an antecedent or a subsequent  sentence, either expressed or understood :  which would be the case, if we pronounced tie  ninth commandment in contradiction to one  who had said "Thou shaltbear false witness,"  &C., for then we should accent it in Johnson's  way, and say " Thou shalt n6t bear," &c.  Now this is what is properly called emphasis,  namely, some peculiar way of accenting a  sentence in order to give it a referential mean-  ing. A sentence pronounced to have a plain  meaning has its customary accents, but no  emphasis. The commonest example will be  the best ; and therefore we will quote one  that may be found in every book in which  emphasis is treated of: " Do you ride to  town to-day ?" If this is pronounced with-      •294 ON RHETORIC. [CHAP. HI.   out allusive meaning, ride, town, and day,  are equally accented by the custom of the  language, and there Is no emphasis properly  so called : which, by the way, is a pronun-  ciation of the sentence that teachers of read-  ing, in their search after its possible oblique  meanings, forget to tell us of. Suppose we  give an emphasis to ride, then lide-to-toivn-to  day will be allusive to ■wdlk-to-town-to-day, as  we might accent the word intrinsical in the  mauner marked with a reference to the word  Extrinsical, although the plain accentuation is  intrinsical. So again to-loTvn-lo-day is allusive  to the-country-to-day, and to-town-to-ddy is al-  lusive to to-town-to-m6rrow ; as the word  powerless might be accented on the last syl-  lable with a view to poweiiful. That the ac-  tual practice of emphasis corresponds with  this account, the reader may satisfy himself  by observing the conversation of the well-  bred, — not their reading, for that is oflen  conducted on mistaken principles : — and we  scarcely need point out how completely this     SECT. 12.] ON RHETOIUC. 2@5   practice accords with our theory of language.  For with us, a sentence is a word, not more  resolvabie into parts that constitute its whole  meaning, than a word made up of syllables ;  and as with regard to a word of the latter de-  scription, the accent is determined to one syl-  lable by custom, but is disturbed and placed  on another syllable in making allusion to  another word having syllables in common ;  so with regard to a sentence (word) made up  of words, the accents are likewise determined  to certain words that usually bear Ihem, but  these accents are disturbed and placed on  other words in making allusion to a meaning  which has, orwhich, if expressed, would have,  words in common. And here, with this new  kind of proof in favour of our theory, and  with the last subject usually treated of in  Rhetoric, we might stop the hand that has  traced this OutHne. But there remain a few  remarks that could not be introduced earlier,  for which the patience of the reader is en-  treated a little longer.      226 ON RHETORIC. [CHAP. III.   13. We may take the liberty in the first  place to observe, that, with regard to the  materials of Sematology which have been con-  sidered, our theory leaves them what they  were : it pretends only to show the true basis  on which they stand, and that the learned  distribution of them, is not that which accords  with the actual practice of mankind. Suppose  then, (if we may suppose so much,) that our  Grammars, our Books of Logic, and our In-  stitutes of Rhetoric, are to be altered in con-  formity with the views which have been  opened, the changes will not affect the detail,  but the general preliminary doctrine, and the  subsequent arrangement. As to doctrine,  the changes will mostly consist of omissions.  In Grammar, if we omit the common de-  finitions of the parts of speech *, and allow   * God help the poor children that are set to learn  these, and other of the definitions in elementary  grammars, particularly English grammars; for the  Latin ones are a little more sensible. That jumble of  a grammar that has the name of a Lindley Mturay in  the title page, after defining a verb to be ^^ a wend     I     SF.CT. 13.J     ON RHETORIC.     227     the tyro to learn what they are by the parsing  of sentences — that is, to ascend from par-   ihat Bignifiea to be, to do, or to suffer," {as if no other  part of speech signified to be, to do, or to suffer,) —  after saying what is true enough, but cannot be under-  stood by a child till he has practically discovered it,  that " common names stand for kinds containing many  sorts, or for sorts containing many individuals under  them;" — with many like things, picked up from  Lowth and others, equally fitted for the instruction of  young minds; condescends to give a few plain di-  rections for knowing the parts of speech, such as the  tyro is likely to understand: but the author, as if  ashamed of having been intelligible, remarks that  " the observations wliich have been made to aid  learners in distinguishing the parts of speech from one  another, may afford them some small assistance ; but  it will certainly be mucli more instructive to distinguish  them by the definitions, and an accurate knowledge of  their nature" Now the observations referred to, are,  in fact, the only passages calculated to give a just un-  derstanding of the parts of speech ; the definitions  wliich the writer enhances, being founded in an es-  sentially wrong notion of the nature of grammar. It  is speaking to the purpose to tell the tyro that " a  substantive may be distinguished by its taking an  article before it, or by its making sense of itself;"^ that,  " an adjective may be known by its making sense with  q2     gSS ON RHETORIC. [CHAP. III.   ticulars to generals instead of descending  from generals to particulars, — there la nothing   the wortl thing, or any particular Gubstantive ;" that,  " a verb may be diBtinguishcd by its making sense  with any of the personal pronoiuiB ;" that, " a preposi-  tion may be known by its admitting after it a personal  pronoun in the objective case ;" and so forth. These  are not only plain directions for the purpose professed,  but they suggest the real differences among the parts  of speech; and if the compiler had condescended  throughout his book (or books, for there are appen-  dages) to adapt his explanations, in the same manner,  to the minds of those who were to be taught, he would  have avoided the errors of doctrine which he always  runs into when be attempts to give, what as the author  of an elementary grammar he has never any buaiiiesa  to give, namely a philosophical or general principle.  Moreover, in the arrangement of his materials, he  seems incapable of, ot at least is inattentive to, the  clearest and most necessary distinctions. Thus, (to  take at random two examples from liis book of ex-  ercises,) he gives the following as instances of bad  grammar : " Ambition is so insatiable, that it will  make any sacrifices to attain its objects." (12mo. edit,  p. 128.) " When so good a man as Socrates fell a  victim to the madness of the people, truth, virtue, re-  ligion, fell with him." (Ibid 116.) The former of  these sentences exemplifies the Logical fault, non-     SECT. 13.] ON RHETORIC. 229   in what remains that can be objected to : the  declining of nouns, the conjugatiiig of verbs,   scquitur, and the latter will advantageouBly receive  the Rheimcal ornament polysyndeton : but to give  them as instanccB of defective Grammar, b to blind  the learner to the nature of the art he is studying. —  The grammatical works wc are referring to, seem,  from the number of editions they have gone through,  to be in very general iise, or we should not have  deemed them worth so long a note. \Ve pass to a  remark on another grammatical work of very different  character and value, the Greek grammar of Matthise.  This work has justly won the approbation of the  learned throughout the world; but we conceive the  praise belongs to its elaborate detail, and not to such  principles as the following. " Every proposition, even  the simplest, must contain two principal ideas, namely  that of the Subject a thing or person, of which any  thing is asserted in the proposition, and that of the  I'redicate, that which is asserted of that person or  thing." (Matth. Gr. § 293.) To state our objections  to tliis passage is difficult, because we do not know how  the author or translator may define a propositic»i, or  what they may mean by the principal ideas in it.  Perhaps they may consider no expression a proposition  which does not consist of a subject and predicate. Wc  deny that, from the nature of the thought, any commu*  nication requires these grammatical parts, {they are     A     380 ON RHETOKIC. [CIIAP. III.   and the other business of the grammar-scliool,  we deem, as it has always been deemed, in-  dispensable. In Logic, if we omit ail that is  taught concerning ideas independently of  words ; if we omit what ia taught concerning  the two operations of the mind, Perception  and Judgment distinct from Reasoning, not  because those operations do not take place,  but because every single abstract word fully  understood, (and Logic begins with words,)  expresses a conclusion from a rational process  as efTectually as a syllogism ; and if we further  omit (and the omission is important) whatever  is peculiar to Aristotelian Logic ; — all that  remains will, on the principles we have had  before us, be essentially useful to the learner ;  namely, the precepts for accurate definition ;  the precepts against the assumption of un-  warranted premises j the precepts for guarding  against the false conclusions to which we are     merely g^rammalical,) though the necessities of lan-  guage in general prescribe them. See Chap. I. SecL  25. ; about the middle of the Section.     SECT. 13.]     ON RHETORIC.     231     liable when we reason tvith words, and not  merely by means of words; the precepts for  guarding against being led away by true con-  clusions, when there may be conclusions like-  wise true and more important from other  data ; which data, with their conclusions, are,  kept out of sight by the art of the speaker, or .  the blindness of the inquirer*. In Rhetoric,  there is less to be omitted than in the other  branches ; but in this department, the general  views we have opened are important, because  they exhibit the art in connexion with a great  and worthy end; an end which, it should seem>  has not always been thought essential to it.     * We mean to say, that the7na(e)'taZsof acomplete  budy of ioEtructioD ia Logic already exist in Literature ;  but tliey esisE not in any one system. They are more-  over BO mingled with what is erroneous hi doctrine, that  the good is difficult to reach, without imbibing a great  many wrong notions that frustrate the practical benefit  How can it be otherwise, if what we have endeavoured  to prove, is true, that the principle of the Logic which  all men use and all men operate witli, has never yet  been cxpIaiRvd ?      j^P£ ON RHETORIC. [CHAP. III.   For as Rhetoric is an instrumental art, we  are told that it ought to be considered ab-  stractedly from the ends which the speaker  or writer may propose in using it j and  Quinctilian who insists that the Orator, (that  is, of course, the consummate orator,) must be  a virtuous man, lias been classed with those  whom atraihevffla, and aXai^ovela have betrayed  ioto a wrong estimate of the art*. As we  think the good old Roman schoolmaster is  not quite beside the mark in his notion on  this point, we propose to inquire wliether  the placing of Rhetoric on the basis we have  ascertained, does not lead to the position he  so stoutly maintains. Now, the immediate  basis of Rhetoric is Logic ; and our remarks  will therefore begin with the latter.   14. Logic as well as Rhetoric is an in-  strumental art ; but if our definition is correct,  it is an instrument for the discovery of truth,  and it is then only perfect as an instrument  when it is completely adapted to that end.  • See Whately's Rhetoric : Introductiun.     SECT. 14.] ON RHETORIC.     233      A great and worthy end is therefore essential  to Logic ; and a correspondent effect will  appear in those who have made a skilful use  of it. But the Logic we speak of, is that  which is applied to things, namely to Physicot  and Practica *; that is to say, which is em-  ployed to ascertain the constitution of the  world in which we Uve, and of ourselves who  live in it, and thence to deduce what we  ought to do: — but the examination of the  world, and of ourselves, and of our duties, is  the examination of particulars ; and our Logic  has recourse to universals for no other purpose  than to understand particulars the better. If  there is a Logic, which, resting in universals,  confers the power of talking learnedly and  wisely, yet leaves a man to act the part of an  Ignoramus and a fool in the commonest  concerns of life, this is not the Logic we have  had in view. There is indeed a learned ig-  norance, aa there is an ignorance from want  of learning ; there is also an ignorance from  * Cumparc ihc Intioduction.     m»     ON RHETORIC.     [chap. hi.     natural incapacity, and an ignorance from  superinduced insanity ; by any one of wliich  tbe mind may be prevented from reaching  truth. Not that in any case whatever the  reasoning process is wrong ; but if the  reasoning proceeds on wrong or insufficient  premises, which it will in any of these cases,  the conclusion will of course be wrong. Some  one has said that " the difference between a  madman and a fool is, that the former reasons  justly from false data, and the latter erro-  neously from just data." This is incorrectly  said : — the idiot who walks into the water  because he knows no better, is incapable of  the just datum, and therefore cannot be said  to reason from it : if he knew the datum,  namely that the water would drown him, he  would not walk into it ; but he does not  know this, and therefore he walks into it : in  doing which, he reasons, so far as his know-  ledge goes, as justly as the madman, who  walks into it because his disturbed fancy  makes him take it for a garden. Wlien the     SECT. 14.] ON RHETORIC. 235   road to truth is blocked up by either of these  two causes, namely irabeciUty or insanity.  Logic can do nothing ; but ignorance whether  from wrong learning or from want of learning,  is to be removed by the appUcation of ge-  nuine Logic to P/it/ska and Praclica. Still,  independently of tlie toil to be encountered,  there are obstructions and delusions which  are liable to turn the most ardent inquirer out  of the path. There may not be natural im-  becility, nor permanent insanity ; yet there  may be an habitual incapacity of judgment  from the influence of prejudice, and aa  occasional insanity of judgment from the in-  fluence of passion. But among other things  we learn in Pki/sica, these facts are to be  reckoned ; and the precepts which warn us of  them, are among the most important of those  which belong to Praclica. In the mean  time, that we may be induced to persevere in  the search after truth, till our real interests  become so plain that we cannot but embrace  them, we are not permitted to feel at ease     ^6 ON HHETOItlC. [CHAP. III.   under the mists which passion and prejudice  create. The fool and the madman to whom  mists are reaUties, are satisfied in their judg-  ments; but it is not so with those who see  dimly through the fog, and suspect there may  be better paths than those they are pursuing.  This suspicion, as light breaks in, may at last  become conviction, strong enough to subdue  even the habit or inclination by which a  wrong path is made easy, and a departure  from it difficult. True, indeed, such over-  powering conviction may not reacii the ma-  jority of mankind at present: they may be  compelled, as heretofore, to wear out life in  struggles between right and wrong, between  inclination and duty, between future good  and present solicitation : but are we forbidden  to hope, for future generations, a gradual  alleviation of so painful a conflict, in propor-  tion as what is good and what is evil shall be  made plainer to the eye of reason • P At least   > * All vice is ignorance or habit. Who would not  take the best way of being happy, if he knew it — that     SECT. H.] ON HHETORIC.     S37     may we affirm, that all learniag has, or ought  to have, this consummation in view.   is, knev it to conviction — and his habits did not prevent  him ? But he may discover the best way when hia  bahitE are fixed; as a miEerable dnmkard, who drinks  on to escape from utter dcepair, sees with bitter regrel  the happiness of a sober life. With a common notion  of learning and ignorance, an objector will demur to  our statement ; but such an objectot should be told,  that a man may have run the circle of the sciences aa  they are commonly taught, and yet remain in ignorance  of what is most important to be known. This is s  truth which not only Christian teachers, but the wise  among the heathen inculcate. In that admirable relic  of Socratic philosophy, £;EBHT02 niNAH, there  are, among the personifications, two that bear the  names of naiitia and "Htuimaihla, (Learning and  Counterfeit-learning,) by the latter of which is ligured  all that, independently of the knowledge which makes I  men permanently happy, passes under the name of I  learning. Now, in that knowledge which alone ia |  valuable, a man cannot be called learned, whose coik  viction is not strong enough to determine his practice.  The thirsty wight Tiho, in a state of profuse perspira*  tion, calls for a glass of iced-water, may know there is  danger in the draught : but if his knowledge is not  strong enough to prevent the act, what is its value ?—  at the moment, it is even worse than useless ; since      JiJ     SS8 ON RHETOIIIC. [chap. III.   15. Such then is the aim and scope of Lo-  gic in relation to Physica and Pracika : it is   may be sufficient to disquiet the luxury of the draught,  though not sufficient to subdue the desire for it.  When Macbeth, (for the case is not dissimilar,)  resolves to gratify his ambition, he is not ignorant of  the danger he runs, and the secure happiness he leaves  behind him ; but he is so far ignorant as to prefer the  phantom of happiness to the reality. Yet he is not so  ignorant as his wife, and he reaps, in consequence, less  immediate gratification. Having once held the balance,  with some impartiality, between right and wrong, he is  incapable, even for a moment, of being a triumphant  villain. The crooked-baek Richard, (for having begun  our examples with Shakspeare, we will continue with  him,) is not so distracted by divided data. " Securely  privileged," says Mr. Foster, " from all interference of  doubt that can linger, or hiunanity that can soften, or  timidity that can shrink, he advances with a grim con-  centrated constancy through scene after scene of  atrocity, still fiilfilling his vow to ' cut his way through  with a bloody ase.' He does not waver while he  pursues his object, nor relent when he seizes it."  (Essays on Decision of Character, &c.) Yet both he  and Macbeth's wife at length get nervous in their  sleep : for so it is, that if one scruple of conscience lurk  in the soul, it will produce its effect sooner or later;  and tliat effect will begin when the bodily powers are     F     SECT. 15.] ON RHETORIC. ^Q   the means of discovering truth in botli these  departments. Now we assume, that the pro-  weakest; and as body and mind have a mutual in-  fluence, the former -will sicken and perpetuate the  horrors of the latter, unless, as with Richard, a violent  death intervene. The three wretches vc have thus  far referred to, have this in common, that they do not  embrace vice for its own sake, but as a means of reaching  the phantom of happiness that dances before them.  But there is a state of vice brought on by habit, in  which a man finds a pleasure in doing evil, and is in-  capable of any other pleasure. lago is our example —  a character which, it is to be feared, is by no means  out of life. Imagine a shrewd and selfish child per-  mitted from infancy to create for himself a satis-  faction in the disquietude of others — a little worrier of  defenceless creatures— a petty tyrant indulged in his  worst caprices ; — imagine such a one, as he grows up,  placed where his habits cannot be indulged but in  secret, and where those around him are such, that he  must, in his own mind, either hate them, or hate  himself: imagine all this, and lago will appear too  possible a character. Some critics have objected, that  there is no sufficient motive for the mischief he brings  on Othello, Desdemona, and Cassio. Can there be, to  Aim, a stronger motive, than that they arc noble-  minded, benevolent, and happy, and tacitly remind  him, at every instant, that he is in all respects a      J     240 ON RHETORIC. [cHAP. IIF.   per business of Rhetoric is to make truth  known when found j which assumption, if ad-  mitted, would at once establish our position ;  for to suppose a consummate orator would, in  such case, be to suppose one who is too fully  possessed of truth not to be led by it himself,  while acting as a guide to others. After ad-  mitting the assumption, it would signify little   ■wretch? He knows and bitterly feels, tliat each  " hath a daily beauty in his life that makes him ugly-"  The only pleasure which habit has given him, in lieu  of those of which it has made him incapable, is, to  torture the beings that wound his self-love to the quick,  and to destroy the happiness he cannot partake in.  Such is the power of habit. Though the means, when  properly applied, of putting a human being in train to  become an angel, yet added to, and encouraging the  tendencies of his uninstructed nature, it will render him,  prematurely, a fiend. lago is utterly depraved — a be-  ing incapable of Paradise if placed in it — more odious  tlian Milton has been able to depict even Satan him-  self; for that majestic bdng, (the hero of the poem as  Drydeu truly says he is,) never appears " less than  arcliangel ruined. " The " demi-devil " of the dra-  matist, excels, in mental deformity, what the epic muse  has been able to conceive of " the author of all evil. "     SECT. 15.] ON RHETORIC.     241     to object the actual characters of those who  speak and write ; for they may be pretenders  in Rhetoric j or their advance in it, though  real, may be very inconsiderable toward the  perfection we are supposing. But it may be  said that the assumption begs the question,  and leaves us still to show that the office of ■  leading men to truth is essential to Rhetoric,  in contradiction to those who view it as a mere  instrument equally fitted for the purposes of  truth and falsehood. Now, it must be con-  fessed, with regard to the means employed in  Rhetoric, that they frequently seem adapted  to the prejudices of men, — to meet rather than  to oppose their ignorance and their passions.  And if there were any way of conveying truth  at once into minds unfitted to receive it *, the     * It is a comiuoii thing to say of a person, that he  vtiU not be convinced. The fact generally stands  thus : we use arguments that convince ourselves, and  presume they are fitted to convince him, not knowing  or not observing, that all argument derives its force  &om the previous knowledge in the mind to which it  is addressed ; and that our hearer may have been so        343 ON RHETORIC. [CMAP. III.   use of such means would be conclusive against  an honest purpose in the speaker. But the  instantaneous communication of truth, is, un-  der most circumstances, impossible ; and there-  fore we may next ask, what interest a writer  or speaker can have in an ultimate purpose to  deceive. The answer will be, — to serve one  or other of those partial purposes, of which  the common business of life, whether we look  into its private circles, or into the forum or  senate house, furnishes hourly examples. But  may we not describe all this as a conflict, in   educated as to render convicUon impoBsible by iuch  arguments as we offer him. Suppose, however, it be  true, that our hearer mill not be convinced, — thai is  to say, does not wish to be convinced, because his par-  ty perhaps, or his profession, or the career (be it what  it may) into which he has entered, does not agree witli  what is sought to be established : let us in candour  consider in such a case what a vantage ground we oc-  cupy, inasmuch as we see our own interest, temporal  or eterual, coupled with the proposition in view ; and  let us condescend, by the argumeittum ad homhiem,  to give him a similar advant^e, before we expect his  conviction from the argumentum ad judicium.     aECT. 16.] ON RHETORIC. 243   which each is eager to show just so much  truth as suits the present purpose, and to veil  the rest? And will not the whole of truth be  shown in this manner, as far at least as men  have discovered it, although not shown at  once ? Of these skirmishers that use the arms  ufiensive and defensive of the art, each takes  credit for a certain degree of skill j but among  them all, which is thg Orator? Is it not he  who soars above partial views and partial pur-  poses, who unites into one comprehensive  whole what others advocate in parts, who  teaches men to postpone petty for greater ad-  vantages, and to seek the welfare of the indi-  vidual in the happiness of the kind ? If, then,  the palm of eloquence is permanently his alone,  who contends for it in this manner, our chain  of argument will not want many links before  we reach the conclusion, that to undertake  the art on a valid principle, we must con-  sider its purpose to be that of leading men  to truth.   16. A Rhetoric growing out of the Logic     i     344 ON HHETOltrC. [^CH AP. HI   of Aristotle *, which, as we have seen, is the  art of reasoning mlh words, and not merely  by means of words, may indeed well be sus-  pected as a specious and delusive art. Aim-  ing at plausibility alone, it gives the power of  talking largely without requiring the know-  ledge which grows up Irom experience in  particulars ; and thus we have statesmen,  who, if we listen to them, are capable of setting  the world in order, but know not how to re-  gulate their households ; we have financiers  ready to accept the control of a nation's     • Aristotle's own treatise on Rhetoric is a work  completely to its purpose ; that is to say, fitted to make  men prevailing speakers at the time in wliich he wrote,  by exhibiting comprehensively the bearings of the ques-  tions they would have to discuss, and the various kinds  of persons they would have to influence. It is indeed  remarkable how little Aristotle's other works are of a  piece with his Logic ; nor is it without some show of  reason that Dugald Stewart supposes he was aware of  its empty pretensions, and was too wise to be deceived  by it himself, though lie chose to impose it on others.  Sec Vol. II. of the Philosophy of the Human Mind,  Chap, III. Sect. 3.     SECT. 16.] ON RHETOUIC.     245     wealth, that have never learaed to manage  their own estates; we have lawyers, whom  the simplest questions of right and wrong  would be sufficient to pei-ples * ; and priests  who, once a week, discourse " in good set  terms " to well dressed congregations, of vir-  tue and of vice, of this world and the next j but  who would be incapable of oifering, from their  own stores, a single argument fitted to deter  a plain thinking, ignorant man from vice, or  to stop the commission of a specific offence  by remonstrance adapted to the case. This  specious eloquence, however, like the Logic  from which it springs, has almost lost its re-  putation and influence: we now require from  speakers and writers more substantial recom-  mendations than the power of dwelling on  vague generalities ; and in proportion as   • But perhaps, with regard to lawyers, we are  requiring knowledge, which, as matters stand, would  be an incumbrance to them. A special pleader may  Bay, " what have I to do with simple right and wrong ?  My business is to see how the letter of the law can be  applied or evaded."     Mfi     ON RHETORIC. [CHAP. III.     genuine Logic enlarges the empire of truth,  will the necessity appear of seeking in an en-  lightened mind, and a heart kindled by active  philanthropy, for the true springs of elo-  quence. Thus will ambition be brought to  side with virtue} because there will be no  way of winning distinction, but by cultivating  the powers of language in subservience to  that knowledge, which gives a man the de-  sire and the faculty of beiug useful to others,  and governing himself.   17. To conclude ; — the theory which, in  this treatise, we have endeavoured to establiah  is this, — that we come at all our knowledge  by the use of media, which media are, chiefly,  words; and that, as the words procure the  notions, the notions exist not antecedently to  language : —that when, by these means, we  have gained knowledge, and try, by similar  means, to communicate it to others, we do  not, while the process is going on, represent  our own thoughts, but we set their minds a  thinking iu a particular train ; that our own     SECT. 17>3 ON RHETORIC.     247     thought 13 represented by nothing short of  the completely formed word, whose parts, if  any or all of them are separately dwelt upon,  are not parts of our thought, but signs of  knowledge which we and our hearers possess  in common, and which, by bringing their  minds into a particular attitude, enables them  to conceive our thought, when the whde  WORD that expresses it, is formed : — that i§  before this word is formed, there are parts by  which something is Communicated not known  before, yet, being communicated, it is still  but a part of the means toward knowing  something not yet communicated, and stiU,  therefore, the principle holds good, that we  are adding part to part of the whole word  which is to express something not yet com-  municated ; which word, even though it ex-  tend to an oration, a treatise, a poem, &c., is  as completely indivisible with respect to the  meaning conveyed by it as a whole, as is a  word which consists only of a single syllable,  or a single sound. If this doctrine truly de-  scribes the nature of the connexion between     248 ON RHETORIC. [^CHAP. III.   thought and language, we claim for it the  merit of a discovery, because the common  theory, that is, the theory which men are  presumed to act upon, and to which all pre-  ceptive works are adapted, — not the theory  which, unawares, they really act upon, — ex-  hibits that connexion in a very different light.  And, as a discovery, we are the more dis-  posed to urge attention to it, because our  soundest metaphysicians have expressed them-  selves as if there 'ooas something to be dis-  covered as regards the connexion we speak of,  before a system of Logic could be establisiied  on a just foundation. Locke says that when  he first began his discourse on the Under-  standing, and a good while after, he thought  that no consideration of language was at all  necessary to it. At the end of his second  book, he discovers, however, so close a con-  nexion between words and knowledge, that  he is obliged to alter his first plan ; and having  reached his concluding chapter, he speaks as  if he still felt that he had not yet ascertained  the full extent to which language is an instru-     SECT. 170 ^^ RHETORIC.     249     raent of reason. Dugald Stewart, too, from  whom, in the conclusion of our first chapter,  we quoted a passage which entirely agrees, so  far as it goes, with the views we have opened,   ' has the following remark in his last work, the  third volume of the Philosophy of the Human   ' Mind : " If a system of rational Logic should  ever be executed by a competent hand, this **  (viz. language as an instrument of thought)  '* will form the most important chapter."  Our doctrine is, that this will not merely form  the most important chapter, but that it wtU  be the only chapter strictly belonging to Jjo^ I  ^c ; and yet the theory we offer keeps deaf  of the extreme which betrayed Home Tooke,  who appears to consider reason as the result  of language. We pretend, then, to have inade  the discovery which Locke felt to be necessary,  and the nature of which Stewart more than i  conjectured j but oura is only " «?i Outline ; '*  and the system of rational Logic which the  Scotch metaphysician speaks of, yet remains to  be "executed by a competent hand:" — we     ON RHETORIC. [CHAP. III.   pretend but to have ascertained for it the  true foundation. — Something might be add-  ed on the importance which the subject de-  rives from the aspect of the times : for the  most careless observer cannot but remark,  how the rapid communication of knowledge  from mind to mind moulds and forms public  opinion ; and how the opinion of the many, ac-  quiring, day by day, a character and a weight  that never distinguished it before, threatens to  become the law to which not only individuals,  but governments, and eventually the common-  wealth of nations, must conform ; and hence we  might be led to urge that Philosophy cannot  be employed more opportunely, than in a new  examination of the instrument by which so  much has been, and so much more is likely  to he effected. The consideration is, how-  ever, too obvious not to have occurred to the  reader, and we therefore close our remarks.     CORRIGENDA ET ADDENDA.     At page 55, the assertione, that the words of a sen-  tence, " as parts of that sentence'''', and the sentences  of a discourse, " na parts of that discourse"", are not  by themselves significant, would perhaps sound a little  less paradoxical, if, instead of each of the phrases quo-  ted, the reader were to substitute " as parts of that  completed expression ".   At page 88, supply the other parenthetical mark  after " imderstanding" in line 4.   At page 196, line 6, the question is asked, whether  the juryman must go to Aristotle, and be taught to  compare the middle with the extremes ? The reader  will observe that the example is already farced into a  form, namely that of a syllogism in barbara, which a  juryman untaught by Aristotle would probably never  think of giving it, the other way of speaking being by  far the more obvious, viz. To kill a man maliciously  is murder ; A. B. killed a man maliciously ; therefore  A. B. is guilty of murder. Here, instead of the Aria-  totclian names major and minor, we prefer calling the  first proposition the datum, and the second, with re-  ference to the datum it is addressed to, the argument ;  and the truth of the argument having been proved by  testimony, we atfirm that the conclusion is as evident  as a conclusion can be, and that the Aristotelian  formula is a needless and puerile addition to a process  already complete — a proof of what is proved : — it is a  use of language for the purpose of reasoning which  does not identify with, but goes beyond, and childishly     252     CORRIGENDA ET ADDENDA.     refines upon that use of language in which the logic  of mankind at large consiets.   The doctrine of the whole work may receive some  light from the following way of stating it : — Man, in  common with other animals, derives immediately from  nature the power to express hie immediate, or, as they  are commonly called, his natural wants and feelings.  But he also possesses the power of inventing or learn-  ing a language which nature does not teach ; and it is  solely by the exertion of this power, which we call  reason, that he raises himself above the level of other  animals. By media such as artificial language consists  of, and only by such media, he acquires the knowledge  which distinguishes him from other creatures ; and  each advance being but the step to another, he is a  being indefinitely improveable. But if words are the  means of knowledge, it is an error to describe or con-  sider them in any other light ; and we accordingly  deem them not as, strictly speaking, the signs of  thought, but as the means by which we think, and set  others a thinking. This principle being admitted, ren-  ders unnecessary Locke's doctrine of ideas ; and Se-  MATOLOGY Stands opposed to, and takes the place of,  what the French call Iuealogy,   With respect to these addenda, should the reader  ask, whether they are to be esteemed a part of our  WORD, we answer in the affirmative. We imagined  our woED complete ;- — if, on fiirther consideration, we  had supposed so, we should not have added another  SYLLABLE : {^uT^Qh a ffvMMiiSavuv.)   G. WoedbUi Frlnlei, Angd Courl, SkJnnsi Street, Londoo.  Giuseppe Capocasale. Keywords: sematologia, la sematologia di Vico, dialettica, assoc: ‘a tear’ may be a sign of sadness – or love – (‘una furtiva lagrima – ‘m’ama’) but the kind of sign that an idea or conception of the soul, or ‘rivelazione’ of the animus -- are related with are arbitrario – ad placitum -- arbitrary, not necessarily a natural causal sign or nature. The correlation between the segnans and the segnato may be ‘imitativa’ or iconic, arbitrary, arbitraria, associative, associative, etc. A sign is not essentially connected with the purpose of communication (smoke means fire, spots mean measles, a tear means love). Grice is into ‘communication,’ not sign as such – a theory of communication, not a semeiotic. Capocasale does not expand on the intricacies of the cocodrile’s tears (fake tears – or Grice’s frown), because he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on ‘lacrima’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocasale” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Capocci – significare e santificare – il sacramento evangelico significa grazia e sanctifica grazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Viterbo). Filosofo. Grice: “I like Capocci; he was a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus – surely they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’ as the Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”. Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce i temi della teocrazia, e del potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae de praedicamentis in divinis”. “Summa de peccatorum distinctione” – “there are surely more than seven sins – Multiply sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and Biblioteca di Montecassino, cod. 743, both of which ascribe the work to James. Ypma does not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae Theologiae Professoris, Fratrum Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi Neapolitani.  D. AMBRASI, La Summa de peccatorum distinctione del b. Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101... D. GUTIERREZ, De vita et scriptis Beati Iacobi de Viterbo, “ Analecta Augstiniana ”, XVI, 1937 Lectura super IV libros Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De episcopali officio Like many of his contemporaries, James devotes serious attention to determining the status of theology as a science and to specifying its object, or rather, as the scholastics say, its subject. In Quodlibet III, q. 1, he asks whether theology is principally a practical or a speculative science. Unsurprisingly, perhaps, for an Augustinian, James responds that the end of theology resides principally not in knowledge but in the love of God. The love of God, informed by grace, is what distinguishes the way in which Christians worship God from the way in which pagans worship their deities. For philosophers—James has Cicero in mind—religion is a species of justice; worship is owed to God as a sign of submission. For the Christian, by contrast, there can be no worship without an internal affection of the soul, i.e., without love. James allows that there is some recognition of this fact in Book X of the Nicomachean Ethics, for the happy man would not be “most beloved of God,” as Aristotle claims he is, if he did not love God by making him the object of his theorizing. In this sense, it can be said that philosophy as well sees its end as the love of God as its principal subject. But there is a difference, James contends, in the way in which a science based on natural reason aims for the love of God and the way in which sacred science does so: sacred science tends to the love of God in a more perfect way. One way in which James illustrates the difference between both approaches is by contrasting the ways in which God is the “highest” object for metaphysics and for theology. The proper subject of metaphysics is being, not God, although God is the highest being. Theology, on the other hand, views God as its subject and considers being in relation to God. Thus, James concludes, “theology is called divine or of God in a much more excellent and principal way than metaphysics, for metaphysics considers God only in relation to common being, whereas theology considers common being in relation to God” (Quodl. III, q. 1, p. 20, 370–374). Another way in which James illustrates the difference between natural theology and sacred science is by using St. Anselm's distinction between the love of desire (amor concupiscientiae) and the love of friendship (amor amicitiae). The love of desire is the love by which we desire an end; the love of friendship is the love by which we wish someone well. The love of God philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a “community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century, James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and will” (Quodl. I, q. 2, p. 17, 35–37) and his absolute power, according to which he can do whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James considers several questions: can God add an infinite number of created species to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make matter exist without form (Quodl. IV, q. 1)? Can he make an accident subsist without a substrate (Quodl. II, q. 1)? Can he create the seminal reason of a rational soul in matter (Quodl. III, q. 10)? In response to the first question, James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an infinite number of created species ad superius, in the ascending order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot, however, add even one additional species of reality ad inferius, between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak, no room for God to exercise his power (Côté 2009). James is more hesitant about the second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction, they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist without form is among those things exceeding human comprehension that God can make come to pass.Another question James considers is whether God can make an accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God clearly cannot make relational accidents exist without a subject in which they inhere, for this would entail a contradiction. This is so because relations for James, as we will see in section 3.3 below, are modes, not things. What about absolute accidents? As a Catholic theologian, James is committed to the view that some quantities and qualities can subsist without a subject, for instance extension and color, a view for which he attempts to provide a philosophical justification. His position, in a nutshell, is that accidents are capable of existing independently if they are thing-like (dicunt rem). Numbers, place (locus), and time are not thing-like and are thus not capable of independent existence; extension, however, is and so can be made to exist without a subject. The same reasoning applies to quality. This is somewhat surprising, for according to the traditional account of the Eucharist, whereas extension may exist without a subject, the qualities, color, odor, texture, necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however, holds that just as God can make thing-like quantities to exist without a subject, so too must he be able to make a thing-like quality exist without the subject in which it inheres. Just which qualities are capable of existing without a subject is determined by whether or not they are “modes of being,” i.e., by whether or not they are relational. This seems to be the case with health and shape: health is a proportion of the humors, and so, relational; likewise, shape is related to parts of quantity, without which, therefore, it cannot exist. Colors and weight, by contrast, are non-relational, according to James, and are thus in principle capable of being made to exist without a subject.The fourth question James considers in relation to God's omnipotence raises the interesting problem of whether the rational soul can come from matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a definitive solution but merely to investigate the issue (non determinando sed investigando). The upshot of the investigation is that although there are many good reasons (the soul's immortality, its spirituality and its per se existence) to say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in matter, in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a possibility must be open to God. Thus, it is true that in the order which God has de facto instituted, the soul's incorruptibility is repugnant to matter, but this is not so in absolute terms: if God can miraculously cause something to come to existence through generation and confer immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of Christ), then he can make it come to pass that souls are produced through generation without being subject to corruption. Likewise, although it appears inconceivable that something material could generate something endowed with per se existence, it is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul, although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not subject to change, the ideas must be eternally present in him, although creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas with God's unity: since there are many species of being, there must be a corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct from the essences of the things God creates (De veritate, q. 2, a. 3). One can discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in Sententiarum Aegidii Romani­—assuming one accepts, as seems reasonable, the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani 1979). In his Quodlibeta, however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the following I will sketch James' position in the Quodlibeta as it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God. James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and, secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67), “if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing cannot be understood.”  But James also thinks that the necessity of positing distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a thing's cause. That means that God knows things through his own essence. However, he does so by knowing his essence as a cause, and that is possible only by knowing “something (aliquid) through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”. Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note, as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res), is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,” viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus, divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The concept of being, all the medievals agreed, is common. What was debated was the nature of the commonness. According to James of Viterbo, all commonness is founded on some agreement, and this agreement can be either merely nominal or grounded in reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of wholly different things, without there being any objective basis for the application of the common name; such is the case -of equivocal names. Agreement is real in the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance between the many things to which a particular concept applies, in which case the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many things of which it is said, although it is not said of them relative to the same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others, insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of attribution (convenientia attributionis). James believes that it is according to this sense of analogy that being is said of God and creatures, and of substance and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p. 25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense of creatures by virtue of a certain relation between the two; likewise, being is said first of substance and secondarily of accidents, on account of the relation of posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only being through something added to it. From this first difference follows a second, namely, that created being is being by virtue of being related to an agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be summarized by saying that divine being is being through itself (per se), whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of God and creature, but according to a different ratio: it is said of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the distinction between being and essence occurs in the context of a question that asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds it difficult to see how one could account for creation if being and essence were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is only intentionally different from essence, a distinction that is less than a real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of Rome, for whom esse is one thing (res), and essence another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey, that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that the substantive lux (light), the infinitive lucere (to emit light), and the present participle lucens (emitting light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to be), and ens (being). The relation of lucere to lux, he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one. To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel 1981). Esse and essence thus signify the same thing principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of essence: what properly exists is that which has essence, viz., the supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles. The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999). Because identity or difference between things is determined to a greater degree by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and existence are primarily and absolutely the same (idem) and conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental reality or solely through the operation of the intellect, like second intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of each position, as Simplicius had already shown in his commentary on Aristotle's Categories—a work that would have a decisive influence on James' thought. For instance, in support of the view that relations are not real, one may point out that the intellect is able to apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation between a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in the relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so, then the same must be true of all relations, as the intellectual operation involved is the same in all cases. Another argument concerns the way in which relations come to be and cease to be. This appears to happen without any change taking place in the subject which the relation is said to affect. For instance, a child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred: “the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot consist solely of the perfection of the individual things of which it is made; it is also determined by the relations those things have to each other; hence, those relations must be real.The correct solution to the question of whether relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on arguments such as the first two above to infer that relations are entirely devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to which James adds some others of his own. However, showing that they are not things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing, the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that they are modes of being of their foundations. “The mode of being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33, 745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality, as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being equal to another is clearly something distinct from the number itself. The number and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they are not, however, two things; they are two in the sense that one is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In making relations modes of being of the foundation, James was clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry and James, relations are real in the sense that they are distinct from their foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being, James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I, q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1, despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a man would be numerically the same as he was before. In order to answer that question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous answers to that question and James provides a short account of each. Some philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity; others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions; finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to James, each of these answers is part of the correct explanation though it is insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that form and matter taken together are the principal causes of numerical identity in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.” Form and matter, however, are principal causes in different ways; more precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by ‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact of something's being singular, or we can point to a thing qua “something complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21, 227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the “substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II, q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II, q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the belief that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates), all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his doctrine of propensities in the will in Section 6. In this section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne important reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that the doctrine enjoys the support of Augustine.  Although James is sometimes quite critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor Giles of Rome, he is an unreserved follower of Augustine, especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge and natural causation. However, what is particularly interesting about James is the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle, Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons in Quodl. II, q. 5.   The question he raises there is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5, p. 59, 16), but rather, how one is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has two characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5 is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation, eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras' “hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in potency, according to James, entails that the potency of matter is something distinct from matter itself. One argument in favor of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the contrary: potency is the potency of matter. However, potency adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter toward the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude to take it on, so that four properties are included in the concept of potency, namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II, q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way in which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James is aware of the several objections that may be leveled against his conception of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge that their existence makes generation, i.e., the production of new beings, impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q. 14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject, for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter: the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to attain its completion.  Generation thus requires two things (besides God's general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause and the intrinsic agency of the formae inchoativum which inclines the potency to attain its completion. James' doctrine of seminal reasons would elicit considerable criticism in the early fourteenth century and beyond (Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e., attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who argued against James' distinction between the potency of matter and potency. But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must also be understood in the context of his thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the late thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's form or essential information from the image or representation of that thing. The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species, which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the information coming in through the senses is related to a thing's accidental properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and believed that the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the intellect which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that there is a real distinction between the agent intellect (which abstracts the species) and the possible intellect (which receives it). If it were truly the case, he reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because phantasms are only potentially intelligible, then, by the same token, one would have to posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I, q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of abstraction admits an agent sense, one should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were an agent intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural power of the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles, not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would be required not only in the present life but also in the afterlife. But of course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi, is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by denying the distinction between the two intellects, he was opposing the consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter to the De anima itself, though, as he would mischievously point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170, 439). He replied that what he was denying was not the existence of a “difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The intellect, he held, was both in act and in potency, active and passive, but one could account for its having these contrary properties without resorting to the two intellect model. This is because intellection is not a transient action (like hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive recipient; rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in other words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as essentially dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause, spontaneously tending toward its completion, much in the way seminal reasons tend toward their completing forms—indeed both discussions drew their inspiration from the same source: Simplicius' commentary on Aristotle's analysis of the second species of quality. The intellect was described as a general (innate) propensity made up of a series of more specific (equally innate) propensities, the number of which was a function of the number of different things the intellect is able to know: “The intellective power is a general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII, q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection without some input from the senses. However, the type of causality the senses were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory” (Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3) the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have just seen, James rejected the distinction between the agent and possible intellects, there was another, equally widely-held distinction in the area of psychology that he did maintain, namely the distinction between the soul and its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the debate regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at least in part by the need to provide a coherent understanding of the soul's structure and operations in view of two inconsistent but equally authoritative accounts of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one in substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul was identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed in a certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis) as belonging to the second species of quality, in Categories c. 8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers. Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the majority view was very much that there was a real distinction. It was the view held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully, namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James, however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II, q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63). His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be committed to the existence of a real distinction between the power in act (e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is, the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct from the soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing that the will is free is tantamount to showing that its act falls outside the natural nexus of cause and effect, showing that the will is free, for medieval thinkers, usually involved showing that its act is independent of the apprehension and judgment of the intellect. Although the scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17), so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the will is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the will only metaphorically. His main challenge is to show is that this position is compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by another. As we saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an “incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul], and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state, sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92, 419–24). In order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved, James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e., the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion, James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their completion and are prevented from reaching it only by the presence of an external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis, is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy object is that whereas the object moves upon the removal of an obstacle, the will requires the presence of an object; it requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct it to a particular object. However, once again, the intellect's action is viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral, partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17 James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it, Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence, prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl. II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued further that to deny man the natural capacity to love God more than himself, while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II, q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne 1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and, hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the same form. But the being something has by virtue of numerical identity is “greater” than the being it has by reason of something it shares with another. And given that the species of natural love follows the mode of being, it follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl. II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This is true both of the love of desire and the love of friendship. In the case of love of desire, grace elevates by acting on the character of love: by natural love of desire we love God as the universal good. Through grace God is loved as the beatifying good. Regarding love of friendship, James explains that God's charity can only elevate nature with respect to its “mode,” that is, with respect to the object loved, by making God, not the self, the object of love. In other words, James is telling us that if we are to take seriously the claim that grace elevates nature, there is only one way in which this can occur, namely by making God, not the self, the object of greatest love, which implies that in his natural state man loves himself more than God. James' opposition to the consensus position on the issue of the love of self vs. the love of God would not go unnoticed. In the years following his death, such authors as Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and attempted to refute his position (Jeschke 2009). Although James touches briefly on political issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté, 2012), his most extensive discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De regimine christiano is often compared in aim and content with Giles of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized, James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does institute temporal power, but notes that there have been two views in this regard. Some, e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as John Quidort of Paris, hold that the temporal power derives directly from God and thus in no way needs to be instituted by the spiritual, while others, such as Giles of Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the temporal derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever “unless it is united with spiritual power in the same person or instituted by the spiritual power” (De regimine christiano: 211). James is dissatisfied with both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way” between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a material and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is “perfected and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by rooting the temporal power in man's natural inclination, albeit in the imperfect sense just mentioned, James was acknowledging the legitimacy of temporal rule independently of its connection to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand, making the natural origins of temporal power merely the incomplete matter of its being was a way of stressing its subordination and inferiority to the spiritual order, in keeping with his papalist convictions. Still, James' very choice of analogies to illustrate the relationship between the spiritual and temporal realms showed that his solution lay much closer to the theocratic position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a “middle way” would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's relation to the temporal in terms of the relation of light to color, he explains that although “color has something of the nature of light, (…) it has such a feeble light that, unless there is present a more excellent light by which it may be formed, not in its own nature but in its power, it cannot move the vision” (De regimine christiano: 211). In other words, James is telling us that although temporal power does originate in man's natural inclinations, it is ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works Abbreviatio in I Sententiarum Aegidii Romani, dist. 36. Edited by P. Giustiniani, Analecta Augustiniana, 42 (1979): 325–338. De regimine christiano. A Critical Edition and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill, 2009. 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Giacomo da Viterbo.  L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente  ARTE L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente di Federico Nozza|Pubblicato  02/07/2021|1 commento Nell’arte cristiana occidentale, ma anche in quella orientale, l’elemento dell’aureola costituisce sicuramente uno degli attributi iconografici più riconoscibili.  La sua immagine identifica subito la rappresentazione di un Santo, di Cristo stesso, ma anche della Madonna. Può essere crocesegnata(ossia dotata di croce), per esempio nelle rappresentazioni di Cristo, oppure semplice, come nei santi. Come elemento figurativo, la sua origine è stata codificata iconograficamente fin dagli albori della figuratività cristiana, ovvero nel IV secolo.   Gli esempi del Mausoleo di Sant’Elena a Roma e della Chiesa di San Vitale a Ravenna (IV e VI sec.) Testimonianza preziosa e paradigmatica sono, ad esempio, i due mosaici delle calotte absidali del Mausoleo di Santa Costanza a Roma. Si tratta di un cimelio architettonico costruito attorno alla metà del IV secolo per la sepoltura della figlia di Costantino. Nei due mosaici, parzialmente restaurati e tra i pochi ad essersi conservati delle volte, si trovano due rappresentazioni di Cristo. La prima lo vede seduto sul Globo, mentre consegna le chiavi del Regno dei Cieli a Pietro (traditio clavium).  La seconda, invece, lo identifica giovane e apollineo mentre si erge sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi dell’Eden, consegnando a Paolo la parola/legge della Nuova Alleanza (traditio legis). In entrambe le rappresentazioni musive, che costituiscono alcuni dei primi esempi di iconografia cristiana a Roma, il volto di Cristo è circonfuso da un’aureola blu-azzurra. Quest’ultima conferisce e immediatamente attribuisce alla figura un alone di divinità, disancorandolo dalla contingenza terrena e proiettandolo nella dimensione del trascendente.  Traditio clavium (a dx) e traditio legis (a sx) in due calotte del deambulatorio del Mausoleo di Santa Costanza a Roma (IV secolo) L’aureola è anche regale Talvolta, poi, sono i sovrani-imperatori stessi ad auto-rappresentarsi col capo circonfuso da aureola, come negli straordinari mosaici che arricchiscono il presbiterio della chiesa di San Vitale a Ravenna.Quest’ultimo, databile al secondo quarto del VI secolo, raffigura, tra gli altri, anche i ritratti degli imperatori Giustiniano e della moglie Teodora,entrambi corredati da aureola dorata.    L’imperatrice Teodora (a sx), moglie dell’imperatore Giustiniano (a dx), in due mosaici del presbiterio della Chiesa di San Vitale a Ravenna (VI secolo) Entrambi gli esempi, sebbene distanziati da ben due secoli, testimoniano alle origini del Cristianesimo ufficiale (ossia istituzionalizzato in una ecclesiae) un’iconografia dell’aureola già compiutamente codificata diffusa.   I primi esempi figurativi di aureole Sebbene, come detto, l’aureola costituisca un inconfondibile attributo iconografico cristiano, non è però nel Cristianesimo (che del resto si istituzionalizza nei primi secoli d.C.) che affondano le radici della sua nascita. Queste infatti, come del resto molti altri aspetti della liturgia e religione cristiana, devono essere rintracciate ben prima della nascita del Cristianesimo stesso.   Tale scelta figurativa risale a diversi secoli, se non millenni prima di Cristo.  Consiste nel rappresentare divinità (qualora queste potessero essere rappresentate) inscritte, totalmente o parzialmente, in aloni di luce funzionali a proiettare le figure in dimensioni ultraterrene ed evocarne la natura divina.  Per esempio, nella pittura parietale egizia, il dio Ra è quasi sempre rappresentato con un disco solare situato sopra il suo capo e inglobato da un cobra. In questo caso dunque, nelle rappresentazioni di Ra, il disco solare  ha soprattutto la funzione di rappresentare l’attributo del sole, di cui Ra, secondo la cosmologia egizia, era il dio referente.    Rappresentazione di Ra e Imentet (a sx.) sulle pareti della tomba di Nefertari nella Valle delle Regine a Luxor (Egitto) Quando l’aureola era ancora una corona raggiante Tuttavia, per poter conoscere i primi veri esempi di aureole, occorre risalire alle prime rappresentazioni della divinità di Mitra. Questa è nata in origine dallo Zoroastrismo (dal profeta Zarathustra, o Zoroastro) e successivamente, soprattutto presso l’Impero Romano, si è costituita come divinità indipendente e inscritta in uno specifico culto (quasi monoteista), detto appunto Mitraismo.  Nella fase imperiale soprattutto, il Mitraismodivenne la religione dominante dell’ecumene (sebbene non la sola) e poi concorrente al Cristianesimo delle origini. Quello che interessa rilevare però è che, in quanto dio solare e dunque simbolo di vita, anche nelle rappresentazioni di Mitra, la divinità venne ben presto corredata con attributi iconografici quali, per esempio, una “corona” raggiante.    Rappresentazione di Mitra come Sol Invictus su un disco argenteo romano Un simbolo trasversale della divinità tra Occidente e Oriente  Possono forse essere questi i primi significativi antecedenti dell’iconografia dell’aureola? Ben presto questa divenne un vero e proprio simbolo trasversale adottato in molte altre religioni di origine orientale. Forse la sua adozione è legata all’efficacia visiva con cui riesce a restituire allo sguardo un immediato riferimento alla dimensione trascendente e/o spirituale. Dapprima adottato nel Cristianesimo, questo riferimento venne poi, attraverso scambi culturali, trasmesso anche ad altre religioni orientali, tra le quali il Buddismo.   Sotto questo profilo appare infatti singolare che proprio negli stessi secoli in cui l’iconografia cristiana si codifica (tra il IV e il VI secolo), l’adozione dell’aureola come attributo iconografico si manifesta anche in diverse rappresentazioni buddiste in area cinese. Come si spiega questo utilizzo pressoché contemporaneo dell’aureola come attributo figurativo del divino, in due religioni così distanti e appartenenti a mondi diversi?  La chiave di volta è costituita ancora dal Mitraismo.    Reliquiario di Bimaran, I sec. d.C. circa Il Mitraismo è la chiave di lettura Per comprendere infatti la trasmissione di tali scelte figurative tra la cultura latina e quella asiatica, occorre risalire al primo secolo d.C. Per precisione quando gli Indo-sciti (popolazioni nomadi originarie dell’attuale Iran, dove lo zoroastrismo e con lui il Dio Mitra ebbero origine) e alcune popolazioni dell’Impero Kusana (originario dell’attuale Afghanistan), invasero e conquistarono alcuni territori degli attuali Pakistan e India. Portarono dunque  con sé e trasferirono alle popolazioni conquistate alcuni tratti della loro cultura e della loro religione, tra cui anche il Mitraismo con i rispettivi attributi iconografico-rappresentativi.  Nella latinità mediterranea, dunque, l’iconografia di Mitra avrebbe influenzato parzialmente quella cristiana. Parallelamente, attraverso un processo di osmosi culturale, la medesima iconografia veniva trasmessa anche alle culture e alle religioni orientali (Pakistan, India meridionale e, attraverso questa, la Cina), tra le quali anche il Buddismo. Questo processo pare avvenne precocemente, come testimonia il celebre reliquiario di Bimaran (città al confine con il Pakistan), databile al primo secolo d.C.   Dipinto cinese raffigurante Buddha (al centro) Ci sono poi altre importanti manifestazioni figurative del Buddismo, quali ad esempio alcune statue di Buddha risalenti al II sec. d.C. e oggi conservate al Tokyo National Museum. Oppure ancora diverse pitture cinesi raffiguranti Buddha sempre con il capo circonfuso da aureola.  Insomma, dalla pur brevissima disamina effettuata, ci si rende conto di quanto la cultura occidentale e quella orientale, dopo tutto, non siano poi così distanti. In questo senso, le testimonianze figurative nate dalle rispettive pratiche cultuali e religiose ne costituiscono un memorandum preziosissimo. Capocci. Keywords: peccatum – sin – holiness – aureola segno naturale della santita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690793992/in/photolist-2mKJQb5-2mKTt9f

 

Grice e Capodilista --  in principio era la conversazione – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Battaglia Terme). Grice: “I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione – metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“  “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da esso.»  (Quaderni). Appartenente ad una famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger.  Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita, universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza.  I etruschi sono nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione originaria.  Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono orgogliose delle due nudità che  socializzanoa. È quindi con la libertà degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta espressione del "singolare duale".  Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico” (Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci, Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori.  Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.  La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.  È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.  Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.  La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé.  L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto. (Q. 331, 1970)  L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? (Q. 336, 1970)  Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. (Q. 336, 1970)  L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. (Q. 340, 1971)  Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. (Q. 244, 1971)  Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. (Q. 347, 1972)  Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? (Q. 347, 1972)  La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. (Q. 355, 1973)  …Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. (Q. 359, 1973)  L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. (Q. 370, 1975)  Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione… (Q. 372, 1975)  La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? (Q. 372, 1975)  … Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio… (Q. 372, 1975)  L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile… (Q. 381, 1977)  Parola  L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte… (Q. 9, 1921)  Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929)  La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932).   Il caso della vendita della Palladiana Villa Emo a un magnate straniero    By Redazione - 6 febbraio 2019 SEMBRA CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO DURANTE IL QUALE LA BANCA DI CREDITO TREVIGIANO HA CONCRETIZZATO L’INTENZIONE (SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE AMMESSA) DI ALIENARE IL BENE.    La vendita della Palladiana Villa Emo a Fanzolo di Vedelago è stata ufficializzata lunedì 28 gennaio. Il consiglio di amministrazione di Banca di Credito Trevigiano, che ne detiene la proprietà dal 2004 (da quando per 15 milioni di euro la acquistò dall’ultimo erede, il conte Leonardo Marco Emo Capodilista) ha messo ai voti il suo destino e ha deciso: accetterà l’offerta di uno sconosciuto magante straniero.  IL PERCORSO Sembra chiudersi così un lungo minuetto durante il quale l’istituto di credito ha concretizzato l’intenzione (sino ad ora mai ufficialmente ammessa) di alienare il bene. Il 9 gennaio la prima avvisaglia attraverso un comunicato stampa che parlava di un’offerta d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un privato appassionato del Palladio, e desideroso di riportare la Villa (Patrimonio Unesco dal 1996) al suo originario splendore”. Ora la conferma di cedere “il solo edificio storico e non gli adiacenti cespiti occupati dalla banca. L’immobile oggetto della trattativa -specifica l’ultima comunicazione- non rappresenta un asset strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di amministrazione (…) ha deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche alla due diligence di tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della transazione entro l’anno 2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto dal D.lgs. 42/2004 a favore del Ministero dei Beni culturali e delle altre competenti autorità”. Nota, quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’ come una beffa: se lo stesso ente di credito ad oggi dimostra di non poter investire nel mantenimento del bene (ordinario e straordinario inclusi i restauri di cui gli affreschi dello Zelotti avrebbero urgenza), ancor più lontana appare l’ipotesi che possa farsene carico un ente pubblico.  LA STORIA La storia recente del resto lo conferma: dopo il commissariamento (seppur temporaneo) da parte di Bankitalia nel 2014, la fondazione appositamente creata per la gestione della villa ha dovuto dire addio ai 325mila euro annui che Credito Trevigiano versava. Insufficienti i proventi derivanti da bigliettazione e affitto degli spazi. Così i bilanci in perdita, primi licenziamenti per il personale della fondazione, le dimissioni, nell’ottobre scorso del presidente Armando Cremasco. Poi, reciproche accuse tra parti, la preoccupazione del sindaco, la petizione “No alla vendita di Villa Emo a Fanzolo di Vedelago” su change.org che raggiunge in pochi giorni quota 975 firme. Tentativo inutile ma che tocca, negli intenti, un nodo fondamentale della vicenda: i firmatari sono soci, clienti della banca e semplici cittadini che riconoscono in Villa Emo il bene più rappresentativo della loro comunità. Un bene acquisito da una banca strettamente legata al territorio e che su di esso ha come stesso suo mandato quello di reinvestire. Una banca della comunità in cui però la comunità, a seguito di questo atto, non si riconosce più.  IL CASO DI VILLA EMO Il caso di Villa Emo, generalizzando, appare uno fra molti nell’inarrestabile processo di alienazione del nostro patrimonio storico. Perché agitarsi tanto se, solo per citare i casi territorialmente più prossimi, la magnate cinese Ada Koon Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a Piombino Dese (Padova) e il veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande? Perché forse, per fare un po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe d’un corretto approccio, di una corretta lettura, esercitando invece proprio il diritto a una non generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel nostro paese sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione, gestione strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare sistema”. Anche il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla cronaca locale) si presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni filologiche in rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora accessibile?) agli immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia spesso apparentemente inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener desta per un po’ l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra solamente una sola, nuda verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a proporre a parole soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo stati capaci di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto qualcosa che appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il nuovo proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo risolvere il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per nulla”.  – Veronica Rodenigo Wikipedia article Villa Emo is one of the many cre­ations con­ceived by Ital­ian Re­nais­sance ar­chi­tect Andrea Palladio. It is a pa­tri­cian villa lo­cated in the Veneto re­gion of north­ern Italy, near the vil­lage of Fan­zolo di Vedelago, in the Province of Tre­viso. The pa­tron of this villa was Leonardo Emo and re­mained in the hands of the Emo fam­ily until it was sold in 2004. Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«.[1]  History Andrea Palladio's ar­chi­tec­tural fame is con­sid­ered to have come from the many vil­las he de­signed. The build­ing of Villa Emo was the cul­mi­na­tion of a long-lasting pro­ject of the pa­tri­cian Emo fam­ily of the Re­pub­lic of Venice to de­velop its es­tates at Fan­zolo. In 1509, which saw the de­feat of Venice in the War of the League of Cam­brai, the es­tate on which the villa was to be built was bought from the Bar­barigo fam­ily.[2] Leonardo di Gio­van­nia Emo was a well-known Venet­ian aris­to­crat. He was born in 1538 and in­her­ited the Fan­zolo es­tate in 1549. This prop­erty was ded­i­cated to the agri­cul­tural ac­tiv­i­ties that the fam­ily pros­pered from. The Emo family's cen­tral in­ter­est was at first in the cul­ti­va­tion of their newly ac­quired land. Not until two gen­er­a­tions had passed did Leonardo Emo com­mis­sion Pal­la­dio to build a new villa in Fan­zolo.  Historians un­for­tu­nately do not have firm chronol­ogy of dates on the de­sign, con­struc­tion, or the com­mence­ment of the new build­ing: the years 1555 or 1558 is es­ti­mated to have been when the build­ing was de­signed, while the con­struc­tion was thought to have been un­der­taken be­tween 1558 and 1561. There is no ev­i­dence show­ing that the villa was built by 1549: how­ever, it has been doc­u­mented to have been built by 1561. The 1560s saw the in­te­rior dec­o­ra­tion added and the con­se­cra­tion of the chapel in the west barchesse in 1567.[1] The date of com­ple­tion is put at 1565; a doc­u­ment which at­tests to the mar­riage of Leonardo di Alvise with Cor­nelia Gri­mani has lasted from that year.[3] Par­tial al­ter­ations were made to the Villa Emo in 1744 by Francesco Muttoni. Arches within both wings that were close to the cen­tral build were sealed off and ad­di­tional res­i­den­tial areas were cre­ated. The ceil­ings were al­tered in 1937–1940. The villa and its sur­round­ing es­tate were pur­chased in 2004 by an in­sti­tu­tion and fur­ther restora­tions were made.  Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«.[1]  The villa is at the cen­tre of an ex­ten­sive area that bears cen­turi­a­tion, or land di­vi­sions, and ex­tends north­ward. The land­scape of Fan­zolo has a con­tin­u­ous his­tory since Roman times and it has been sug­gested that the lay­out of the villa re­flects the straight lines of the Roman roads.[2]  Architecture Marcok / it.wikipedia.org [CC BY-SA 3.0] The main building (casa dominicale). Villa Emo was a prod­uct of Palladio's later pe­riod of ar­chi­tec­ture. It is one of the most ac­com­plished of the Pal­la­dian Vil­las, show­ing the ben­e­fit of 20 years of Palladio's ex­pe­ri­ence in do­mes­tic ar­chi­tec­ture. It has been praised for the sim­ple math­e­mat­i­cal re­la­tion­ships ex­pressed in its pro­por­tions, both in the el­e­va­tion and the di­men­sions of the rooms. Pal­la­dio used math­e­mat­ics to cre­ate the ideal villa. These «harmonic pro­por­tions» were a for­mu­la­tion of Palladio's de­sign the­ory. He thought that the beauty of ar­chi­tec­ture was not in the use of or­ders and or­na­men­ta­tion, but in ar­chi­tec­ture de­void of or­na­men­ta­tion, which could still be a de­light to the eye if aes­thet­i­cally pleas­ing por­tions were in­cor­po­rated. In 1570, Pal­la­dio pub­lished a plan of the villa in his trea­tise I quat­tro libri dell'architettura. Un­like some of the other plans he in­cluded in this work, the one of Villa Emo cor­re­sponds nearly ex­actly to what was built. His clas­si­cal ar­chi­tec­ture has stood the test of time and de­sign­ers still look to Pal­la­dio for in­spi­ra­tion.[1]    Renato Vecchiato [CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of the villa and its es­tate is strate­gi­cally placed along the pre-existing Roman grid plan. There is a long rec­tan­gu­lar axis that runs across the es­tate in a north-south di­rec­tion. The agri­cul­tural crop fields and tree groves were laid out and arranged along the long axis, as was the villa it­self.[1]  The outer ap­pear­ance of the Villa Emo is marked by a sim­ple treat­ment of the en­tire body of the build­ing, whose struc­ture is de­ter­mined by a geo­met­ri­cal rhythm. The con­struc­tion con­sists of brick-work with a plas­ter fin­ish, vis­i­ble wooden beams seen in the spaces of the piano no­bile, and coffered ceil­ings like that within the log­gia. The cen­tral struc­ture is an al­most square res­i­den­tial area.[4] The liv­ing quar­ters are raised above ground-level, as are all of Palladio's other vil­las. In­stead of the usual stair­case going up to the main front door, the build­ing has a ramp with a gen­tle slope that is as wide as the pronaos. This re­veals the agri­cul­tural tra­di­tion of this com­plex. The ramp, an in­no­va­tion in the Pal­la­dian vil­las, was nec­es­sary for trans­porta­tion to the gra­naries by wheel­bar­rows loaded with food prod­ucts and other goods. The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a col­umn por­tico crowned by a gable – a tem­ple front which Pal­la­dio ap­plied to sec­u­lar build­ings. As in the case with the Villa Badoer, the log­gia does not stand out from the core of the build­ing as an en­trance hall, but is re­tracted into it. The em­pha­sis of sim­plic­ity ex­tends to the col­umn order of the log­gia, for which Pal­la­dio chose the ex­tremely plain Tuscan order.[2] Plain win­dows em­bell­ish the piano no­bile as well as the attic.  The cen­tral build­ing of the villa is framed by two sym­met­ri­cal long, lower colon­naded wings, or barchesses, which orig­i­nally housed agri­cul­tural fa­cil­i­ties, like gra­naries, cel­lars, and other ser­vice areas. This was a work­ing villa like Villa Ba­doer and a num­ber of the other de­signs by Pal­la­dio. Both wings end with tall dove­cotes which are struc­tures that house nest­ing holes for do­mes­ti­cated pi­geons. An ar­cade on the wings face the gar­den, con­sist­ing of columns that have rec­tan­gu­lar blocks for the bases and capi­tols. The west barchesse also con­tains a chapel. The barchesses merge with the cen­tral res­i­dence, form­ing one ar­chi­tec­tural unit. This ty­po­log­i­cal for­mat of a villa-farm was in­vented by Pal­la­dio and can be found at Villa Bar­baro and Villa Baroer.[1]  Andrea Pal­la­dio em­pha­sises the use­ful­ness of the lay-out in his trea­tise. He points out that the grain stores and work areas could be reached under cover, which was par­tic­u­larly im­por­tant. Also, it was nec­es­sary for the Villa Emo's size to cor­re­spond to the re­turns ob­tained by good man­age­ment. These re­turns must in fact have been con­sid­er­able, for the side-wings of the build­ing are un­usu­ally long, a vis­i­ble sym­bol of pros­per­ity. The Emo fam­ily in­tro­duced the cul­ti­va­tion of maize on their es­tate (and the plant, still new in Eu­rope, is de­picted in one of Zelotti's fres­coes). In con­trast to the tra­di­tional cul­ti­va­tion of mil­let, con­sid­er­ably higher re­turns could be ob­tained from the maize.[5] It is not clear if the long walk, made of large square paving-stones, which leads to the front of the house, served a prac­ti­cal pur­pose. It seems to be a fifteenth-century thresh­ing floor.[6] How­ever, Pal­la­dio ad­vised that thresh­ing should not be car­ried out near a house.  Hans A. Rosbach [CC BY-SA 3.0] Frescoes by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall Frescoes Hans A. Rosbach [CC BY-SA 3.0] Hall West The ex­te­rior is sim­ple, bare of any dec­o­ra­tion. In con­trast, the in­te­rior is richly dec­o­rated with fres­coes by the Veronese painter Gio­vanni Bat­tista Zelotti, who also worked on Villa Foscari and other Pal­la­dian vil­las. The main se­ries of fres­coes in the villa is grouped in an area with scenes fea­tur­ing Venus, the god­dess of love. Zelotti ap­pears to have com­pleted the work on the fres­coes by 1566.[1]  In the log­gia, the fres­coes have rep­re­sen­ta­tions of Cal­listo, Jupiter, Jupiter in the Guise of Diana, and Cal­isto trans­formed into a Bear by June. The Great Room is filled with fres­coes that were placed be­tween Corinthian columns that rise from high pedestals. The events in the fres­coes con­cen­trate on hu­man­is­tic ideals and Roman his­tory al­lud­ing to mar­i­tal virtues. Ex­em­plary scenes in­clude Virtue por­trayed in a scene from the life of Sci­pio Africanus. On the left wall is the scene of Scio­pio re­turns the girl be­trothed to Al­lu­cius and the right wall a scene show­ing The Killing of Vir­ginia. The sides  of these fres­coes have false niches that con­sist of mono­chrome fig­ures: Jupiter hold­ing a torch, Juno and the Pea­cock, Nep­tune with the Dol­phin, and Cy­bele with the Li­oness. These fig­ures al­lude to the four nat­ural el­e­ments (fire, air, water, earth). Side pan­els con­tain enor­mous pris­on­ers emerg­ing from the false ar­chi­tec­tural frame­work. On the south wall of the great hall to­ward the vestibule is a false bro­ken ped­i­ment that ap­pears above a real en­trance arch. A fresco of two fe­male fig­ures, Pru­dence with the Mir­ror and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at the cen­ter of the upper part of the build­ing con­tains the crest of the Emo Fam­ily. It is carved and gilt wood, sur­rounded by trompe-l'œil cor­nices and festoons.[1]  To the left of the cen­tral cham­ber is the Hall of Her­cules. It con­tains episodes re­fer­ring mainly to the mytho­log­i­cal hero. The in­tent was to em­pha­size the vic­tory of virtue and rea­son over vice. The fres­coes are in­serted in a frame­work of false ionic columns. The east wall con­tains scenes of Her­cules em­brac­ing De­janira, Her­cules throw­ing Lica into the sea, and The Fame of Her­cules at the cen­ter. The west wall is Her­cules at the Stake, placed within false arches. On the south wall is a panel above the door­way that de­picts a Noli me Tan­gere («Touch Me Not») scene.[1]  To the right of the cen­tral cham­ber is the Hall of Venus. This hall con­tains episodes that refer to the God­dess of Love. On the west wall within false arches are the scenes of Venus de­ters Ado­nis from Hunt­ing and Venus aids the Wounded Ado­nis. The east wall fresco shows Venus wounded by Love. On the south wall is a panel above the door­way that shows Pen­i­tent St. Jerome.[1]  The Ab­sti­nence of Scipio ap­pears fre­quently in cy­cles of fres­coes for Venet­ian vil­las. For ex­am­ple, the Villa la Porto Colleoni in Thiene and Villa Cordel­lina in Mon­tec­chio Mag­giore, built nearly 200 years later, also use this image, fos­ter­ing ideals which, had in the 15th and 16th cen­turies, re­sulted from the re­newed dis­cus­sion of the de­prav­ity of town life, in con­trast to the tran­quil­ity, abun­dance, and free­dom of artis­tic thought as­so­ci­ated with rural ex­is­tence. Hence, an­other room in the villa is called the Room of the Arts, fea­tur­ing fres­coes with al­le­gories of in­di­vid­ual arts, such as as­tron­omy, po­etry or music.[7]Within the many fres­coes are de­pic­tions of dif­fer­ent flow­ers and fruit, in­clud­ing corn, only re­cently in­tro­duced into the Po Val­ley. Many of the frescoes are pre­sented within false ar­chi­tec­ture, like columns, arches and ar­chi­tec­tural frame­work.[1]  Media Markhole [CC BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org [CC BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was fea­tured in Guide to His­toric Homes: In Search of Palladio,[8]Bob Vila's three-part six-hour pro­duc­tion for A&E Net­work.  The 2002 movie Ripley's Game used the Villa Emo as a lo­ca­tion.[9]  References ^ a b c d e f g h i j kThe City of Vicenza and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and Activities. 2009. pp. 186–191. ^ a b c Wundram (1993), p. 164 ^ Wundram (1993), p. 165 ^ Beltramini, Guido (2009). Palladio. Italy. pp. 256–322. ISBN 978-1-905711-24-6. ^ Wundram (1993), p. 169 ^ Andrea Palladio Centre ArchivedJune 10, 2008, at the Wayback Machine (in English and Italian)Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, accessed September 2008 ^ Wundram (1993), p. 173 ^ BobVila.com. »Bob Vila's Guide to Historic Homes: In Search of Palladio«. ^ »Ripley's Game News« ArchivedJune 9, 2008, at the Wayback Machine Retrieved on 2008 05 31 Sources The City of Vicena and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the Unesco Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of the City of Vicenza. 2009. pp. 186–191. Wassell, Stephen R. (Fall 2018). »Andrea Palladio (1508-1580)«. Nexus Network Journal: 213–222. Beltramini, Guido (2008). Palladio. Italy. pp. 100–108, 258–322. ISBN 978-1-905711-24-6. Boucher, Bruce (1998) [1994]. Andrea Palladio: The Architect in his Time (revised ed.). New York: Abbeville Press. Rybczynski, Witold (2002). 'The Perfect House: A Journey with Renaissance Master Andrea Palladio. New York: Scribner. Wundram, Manfred (1993). Andrea Palladio 1508-1580, Architect between the Renaissance and Baroque, Cologne, Taschen.  Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: in principio era la conversazione, filosofia fascista, I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51777342436/in/dateposted-public/

 

Grice e Capograssi – gl’eroi di Vico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer, but the Italians call him a philosopher! My favourite of his tracts is his attempts – linked as he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he stresses the ‘Catholic,’ or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen, pagan, side, of this illustrious philosopher who Strawson – as along indeed with Speranza -- think as the greatest Italian philosopher that ever lived – I mean, what can be more Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da un'antica famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia di Salerno nel 1319, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato e la storia", in cui già affiorano le problematiche connesse alle interrelazioni fra individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta la sua filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli.  La sua filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è rivolta alla centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime nell'azione stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia dovrebbe quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua speculazione la "persona".  Il suo pensiero si ricollega al personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio.  Fede e scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè).  “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il personalismo.  Il positivismo giurdico in Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo.  I sentieri dell'uomo comune. Dizionario biografico degli italiani. Kelsen avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una Norma Fondamentale come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio perché essa è tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come, invece, pensa Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma Fondamentale che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la costruzione kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti, e che questi presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla ricerca, ma si fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che questa concezione è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio, rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde «il criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste (indipendentemente dal fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è anche efficace (il cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai trarre dalla concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», (1954), 8 pp. 356-377, poi ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e potere, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima edizione. La citazione è alla p. 39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen, «Sociologia del diritto», (1981) 8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere, cit., pp. 159-177. 52 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4, pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, pp. 311-356. 53 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto, cit., pp. 25-26. 88 ADELINA BISIGNANI conseguenza che la stessa funzione costituente della Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come ideologia (come idea di una fondazione del diritto su valori assoluti e trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle ragioni etiche e sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e dopo l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI, KELSEN E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” di Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo la traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e Treves, edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa, andante come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella “pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere.  Il diritto come concepito e teorizzato dal Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure  Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato. E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale, fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano. Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come, in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci, collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere, perché questo dovere  non ha nulla del dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto, da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale»[23]. L’«identificazione perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza», come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di «norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle norme».[26] Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza»[27]. La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro»[28]. Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». 2. – La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla concezione del “diritto come esperienza” La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà»[30]. Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera»[31]. Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente, perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma»[32]. E «l’idea viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali determinazioni»[33]. Capograssi, inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34]; richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»[35]. E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge»[36]. In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma»[37]. La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di Hans Kelsen[39]. E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, del 1953 [41], si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo»[42]. Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti[44] ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà[45]. Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” (più precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità[48], risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo Emanale Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente»[50]. Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»[52]. Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55]. L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto Croce già tracciava negli anni trenta[56]. Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità»[57]. Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58], i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile[59]. Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Emanuele Severino[60], secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61]. Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento»[62], è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia contemporanea”[63], individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti[64]. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza società”, come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67]. Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche»)[69]. Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi sociali del diritto”?[72] La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»[73]; anche perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi ne “L’ambiguità del diritto”[75] propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino ne “La filosofia futura”[76], che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il diritto”[77]. [1] Il presente testo riprende, nelle linee essenziali, la relazione presentata al Convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi a Sassari tra il 16 ed il 18 novembre 2006, i cui atti sono in corso di pubblicazione con la casa editrice “Il Mulino”. V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in ID., Opere, Milano, 1959, V, 313-356. [2] V. H.KELSEN, General theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI, Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, VIII. [4] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER, Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 = http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, 2008. [6] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399. [7] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317. [11] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss. [13] V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formaleCostituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S. Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 165 ss. [16] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320. [19] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1. [20] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [21] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322. [22] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328. [23] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [27] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p. 333). Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica»(p. 335). [28] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347. [29] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353. [32] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro Piovani), 181. [33] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto, op.cit., 181. [34] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del dirittv btg55zo, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [37] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354. [38] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [39] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, 2003. [44] V. N. IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; ID., Il salvagente della forma, Bari, 2007. [45] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO, Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss. [47] V. M. BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss. [48] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari, 1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, op. cit., 7. [53] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 8. [54] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 27. [55] V. E. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata, 2008, 337-374. [57] V. N. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N. IRTI, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss. [59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg. [61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 45-46. [62] V. N. IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE, Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100. [64] V. N. ABBAGNANO, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835. [65] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66] V. P. BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione». [67] V. P. BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss. [68] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36. [69] V. S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37. [70] Su cui v. in generale le classiche pagine di RUDOLF VON JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di G. BIANCO, Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss. [72] Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss., 1629; ID., Il giurista Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968, 433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711. [75] V. G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op. cit., 415. [76] V. E. SEVERINO, La filosofia futura, op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la possibilità del proprio annientamento»). [77] V. R. VON JHERING, La lotta per il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseppe Capograssi. The Antiquity of the Italian NationThe Cultural Origins of a Political Myth in Modern Italy, 1796-1943 Antonino De Francesco Print publication date: 2014 ISBN: 9780199662319 Publisher: Oxford University Press Google Preview Abstract At the beginning of the 19th century, with Italy under Napoleon, the antiquarian topic of anti-Romanism was turned against the dominant French culture and became a pillar of the nation-building process. The antiquity of the Italian nation—prior to the Roman dominion—was evoked in order to support an inveterate Italian cultural primacy and proved very useful for creating Italian nationalism. However, this topic is completely forgotten today because, at the end of the 19th century, Italian studies of Roman history, following the example of Mommsen, would drape a long veil over the period of earliest Italy, while, subsequently, Fascism openly claimed the legacy of the Roman Empire. Italic antiquity would, however, remain alive throughout those years and it often returned as a theme, intersecting deeply with the political and cultural life of modern Italy. This book examines the constantly reasserted antiquity of the Italian nation and its different uses in history, archaeology, palaeoethnology, and anthropology, from the Napoleonic period to the collapse of Fascism. Examining the fortunes and misfortunes of this subject, it challenges the view of 19th-century Italian nationalism as an ethnical movement, suggesting how deeply the image of pre-Roman Italy forged the political and cultural sensibility of modern Italy. Page of  IntroductionIntroduction Chapter: (p.1) Introduction Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0001 The resumption of studies on Italian nationalism focuses upon the aggressive forms that Fascism would later come to represent. The introduction discusses the easy notions of ethnic or racial nationalism, questioning these categories and suggesting how complex Italian nationalism really was. Regarding this, the theme of the antiquity of the Italian nation—that is, the myth of a perpetual presence in the country substantiating a cultural primacy—represents an important example. An examination of the earliest Italy, as it was proposed in 19th-century Italian culture, suggests how it did not have a racial or ethnic basis, its main feature being cultural. This peculiar aspect of early Italian nationalism is outlined in its historical perspective, and the structure of the book is described, indicating how the topic will be followed from its birth during the Napoleonic years to its final demise shortly after the fall of Fascism.  Keywords:   Italian nationalism, Fascism, earliest Italy  Sign In   Page of  The historic past of the nationThe historic past of the nation Chapter: (p.29) The historic past of the nation Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0002 This chapter is devoted to the first explicitly nationalizing reading of the myth of antiquity developed in 1806 by Vincenzo Cuoco, who, in his novel Platone in Italia, recalled the existence at the dawn of humanity of a civilizing people, the Etruscans. In this way, Cuoco, aiming to establish antecedents for the new Italian nation as it measured itself against the French cultural model, could propose the ethnic-cultural unity of the peninsula’s inhabitants since ancient times. At the end of the 19th century, Italian nationalists rediscovered Cuoco’s thesis and saw it as the basis of modern Italian political identity. However, the chapter underlines how this can be regarded as a predatory operation, which overvalued the actual significance of Cuoco’s novel in the cultural context of Italy. It also shows how Cuoco’s novel remained known mainly for emphasizing the cultural primacy of the Italians rather than its assertion of their ethnic uniformity.  Keywords:   Vincenzo Cuoco, Platone in Italia, Etruscans, Italian nationalists  Page of  A plural ItalyA plural Italy Chapter: (p.51) A plural Italy Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0003 This chapter underlines how Vincenzo Cuoco’s interpretation of Italian antiquity did not hold up against Giuseppe Micali’s Italy before the dominion of Rome. Published in 1810, this work responded to Cuoco’s view, suggesting that cultural unity should not lead one to believe that the country’s peoples necessarily shared common origins. The chapter shows how it was Micali’s opus rather than Cuoco’s that came to dominate the patriotic culture of the Italians. The significant impact that the work had is shown by the fact that, in the first half of the 19th century, Micali’s book became a subject of great interest throughout the country, accompanying the national movement (the so-called Risorgimento) on its progress towards the events of the 1848 revolution.  Keywords:   Giuseppe Micali, Italy before the dominion of Rome, Vincenzo Cuoco, Risorgimento, 1848 revolution  Sign In    Page of  Unity in diversityUnity in diversity Chapter: (p.84) (p.85) Unity in diversity Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0004 This chapter attempts to measure the real impact of Giuseppe Micali on the political culture of the Risorgimento, testing the importance of his work Storia degli antichi popoli italiani on the studies of the Italic past published in several areas around the peninsula, especially in Lombardy (which remained the main Italian publishing centre), Naples, and Sicily. The analysis shows the multiple and different nationalizing uses of Micali’s works in tthese regions and confirms how his reading of a cultural, rather than ethnic, uniformity of the Italian people, was overwhelmingly accepted by the patriots on the eve of 1848. Micali’s model appeared, in fact, the only one that could be followed in a country which, though culturally united for centuries, was at the same time deprived of any political cohesion.  Keywords:   Giuseppe Micali, Storia degli antichi popoli italiani, Risorgimento, Naples, Sicily, Lombardy  Sign In Page of  The other ItalyThe other Italy Chapter: (p.113) The other Italy Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0005 This chapter suggests that Giuseppe Micali’s model came under fire when, after the political unification of the Italian peninsula, it became clear that the encounter between the various parts of Italy was not a particularly harmonious one and that the problematic area of southern Italy seemed to obstruct, rather than smooth, the way towards a rapid process of stabilization for the newly unified state. The chapter also casts light on how the southern regions’ difficulty in becoming an integral part of the new unified Italy would determine the reflections on the roots of a diversity which, at the end of the 19th century, would come home to roost in the considerations concerning the Aryan and Mediterranean races which had populated ancient Italy.  Keywords:   unified Italy, southern Italy, Giuseppe Micali, Aryan race, Mediterranean race  Sign In   Page of  The anthropology of the nationThe anthropology of the nation Chapter: (p.133) The anthropology of the nation Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0006 Those who insist on the racist nature of the unified state improperly rely on Giuseppe Sergi’s anthropology as demonstrating firm evidence of his racist tendencies and establishing a connection between liberal Italy and Fascism. This chapter reconstructs Sergi’s career in order to re-situate him in his specific political and cultural context. From this point of view, his theme of racial differences within the nation suggested the existence of two different peoples on the peninsula: one northern and Aryan, the other southern and Mediterranean. This distinction remained popular and rapidly became a political matter, pertaining to the left of the political spectrum rather than the right. It was used to explain the reasons why the modernization of Italy seemed to be grinding to a halt, as well as to help sustain the political struggle that the radical left launched, at the end of the 19th century, against liberal Italy.  Keywords:   Giuseppe Sergi, anthropology, racist tendencies, liberal Italy, fascism  Return to RomeReturn to Rome Chapter: (p.158) (p.159) Return to Rome Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0007 At the end of the 19th century, the Italian state seemed to be heading for an irreversible crisis. Faced with this challenge, many academics were quick to reaffirm the value of the unified state and rejected every reading of Italian identity which did not sustain the idea of complete uniformity. This area is covered in this chapter, which deals with the renewal of the study of Roman history through the example of the work of Ettore Pais. A keen admirer of Micali, he soon adopted the model suggested by Mommsen, which saw in Roman expansionism a work of political and cultural unification of the whole of Italy. Pais’s main concern, therefore, was the construction of the nation’s common historical identity. That is why he aligned himself with all the political choices of the nationalist movement, from colonialism to the interventionism of the First World War and the acceptance of Fascism.  Keywords:   Ettore Pais, nationalist movement, colonialism, Fascism   The Italian Fascist Empire, racial policy and EtruscologyThe Italian Fascist Empire, racial policy and Etruscology Chapter: (p.181) The Italian Fascist Empire, racial policy and Etruscology Source: The Antiquity of the Italian Nation Author(s): Antonino De Francesco Publisher: Oxford University Press DOI:10.1093/acprof:oso/9780199662319.003.0008 This last chapter shows how Romanism did not eradicate the tradition of Italian plurality, founded on the specific contributions of peoples of different origins. The theme of Italic antiquity was useful during Fascism, because, following the war in Ethiopia and the foundation of the Italian Empire, it was used to reject the mixing of races in the name of a civilizing policy with regard to populations held to be inferior. This theme helped to bring about a significant return of academic interest in relation to the origins of the ancient civilization. Basing his ideas on the example of the ancient Romans in Africa, Massimo Pallottino was able to reread Etruscan origins as the result of the meeting of different peoples through a cultural model that became common property. In this way, the process turned full circle and the work of Giuseppi Micali made a powerful comeback.  Keywords:   Romanism, Massimo Pallottino, Italic antiquity, Etruscan origins, Italian Empire, Giuseppe MicaliKeywords: gl’eroi di Vico, il culto degl’eroi, positivismo, positivismo giuridico, H. L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato italiano, il mito dell’Italia nuova -- stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart – Capograssi e il fascismo – la nazione d'Italia previa all’unificazione -- in concetto di stato come medimen, medimen medimen medimen previous drafts --  il concetto di stato com medimen --– kelsen, positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione, agire, vita etica, intersoggetivita, intersoggetivo, soggeto, individuo, interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi, Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51778199755/in/dateposted-public/

 

Grice e Caporali – Pitagora, l’italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!”   -- Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” --   Enrico Caporali (Como), filosofo. Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica.  Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel 1879. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo.  Dal 1876 a Perugia, e poi come ministro a Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza, uscita in 6 volumi tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò.  Dal 1905 riprese e approfondì le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della coscienza e della volontà umane con i problemi della vita.  Opere principali Geografia enciclopedica rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano 1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi 1914; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi 1916. Note  L'Enciclopedia Italiana, vedi, indica il 1841 come anno di nascita.  V. Vinay, Luigi Desanctis, Claudiana, Torino 1965240.  In tal senso B. Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella.  G.B. Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997,  125–136. R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali  M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore1838 1918 Como TodiScrittori italiani del XX secoloPersonalità del protestantesimo.  LA NUOVA SCIENZA di ENRICO CAPORALI Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali, più di trentacinque anni fa, si ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiani (dal 1° al 12° fascic.) — La Formula Pitagorica della Cosmica Evoluzione;dal 1° al 23°) — L'Evoluzione anticlericale Germanica nella dispera zione (7°) — L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti (10°) — L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione (dal 13° al 18°) — // Monismo Pitagorico antico (21°) — Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti (id.) — La psicogenia pitagorica di M. F. Pauthan (12°) — La sostanza impasticciata del Prof. Dal Pozzo (23°) — // principio Eraclitico con frontato col Pitagorico (22°) — // Pitagorismo di Giordano Bruno (23°) — La formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale (24° e 25°). O. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale *coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914  La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo. Aristotele (Phys. Vili. - 8).  La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 3244 PROPRIETÀ LETTERARIA Tutti i diritti riservati per tutti i paesi compresi la Russia, la Svezia e la Norvegia MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), era figlio di un gioiel- liere etrusco, che mercanteggiava in Oriente, e di una donna greca chiamata Partenide. Nacque venticinque secoli fa, 587 anni avanti Gesù Cristo in Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre Partenide era incinta, aveva detto: « Avrai un figlio che sarà utile a tutti gli uomini, in tutti i tempi». Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, seguì le lezioni di Ermodamate a Samo e quelle di Ferecide a Siro, poi visitò in Mileto Talete, l'iniziatore della filosofia greca, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi, presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, era stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, fu da essi ricevuto nel loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa sua iniziazione, egli potè bene internarsi in esse, e principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formidò in un modo originale. Egli arrivò agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in — 6 — questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, fu condotto, secondo alcuni, insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accrebbe il suo sapere ed ebbe rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritornò alla sua isola, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggiava; e volle subito fuggirne. Venne in Grecia e quindi nella Magna Grecia, ove si stabilì a Cotrone, nel Golfo di Taranto, che era, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che aveva attinto a sì pure fonti di sa- pere e acquistato grande esperienza della vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che veniva a diffondersi, ebbe vi- sione di un rinnovamento da effettuare fra gli uo- mini. Onde stabilì di fondare una scuola di scienza e di vita dalla quale uscissero, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei giovani dall'animo nel vero senso della parola virile, e che dovesse essere il nucleo, come il punto di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico della Città, in cor- rispondenza al suo ideale filosofico, secondo il quale, affinchè lo Stato fosse ordinato armonicamente, do- vevasi conciliare il principio elettivo con un reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pe- dagogico di quei tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione laica che sia stato mai impreso; e in breve ebbe a fiorire in tal modo che, non solo nella Magna Grecia, come — 7 — a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, furono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in Etruria, la sacra terra donde il Maestro era oriundo. Egli si circondò di scelti discepoli, maschi e femmine, e tutti sedusse, poiché avviluppò di grazia Vausterità dei suoi insegnamenti. Essi dovevano le- varsi all'alba, adorare Dio, seguendo una dorica danza, quando il Sole appariva su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccogliesse all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venivano istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la pre ghiera agli Dei, si faceva un pasto frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si andava allo stadio per gli esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, erano tenuti in onore. Poi si discuteva di amministrazione della città, di morale e di 'po- litica generale, e in fine si andava a cena, dove si mangiava anche carne in piccola quantità e si beveva vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di dieci, poiché dieci è il numero perfetto. Durante la cena, uno dei più giovani faceva una lettura ad alta voce, e questa lettura era seguita da libere obie- zioni e discussioni; poi si ricordavano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno alle Muse, si andava a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Le fanciulle con vesti bianche egualmente di bisso, strette leggiadramente al corpo, — 8 — e con la fronte recinta di una bendella di porpora, erano anch'esse con ogni cura istruite, ma non partecipavano alle lezioni del mattino, ne agli esercizi ginnastici con i giovanetti, ne ai dibattiti e alle deliberazioni della sera. Il grande Pitagora a sessantanni si trovava ancora nella pienezza delle sue forze. Fra le fanciulle dell'Istituto ve riera una di meravigliosa bel- lezza, chiamata Teano. Teano fu compresa di grande amore per il Maestro e non volle tener celata a lui la sua passione. Egli che fino a quel giorno, come tutti gli adepti, aveva rinunciato alla donna per darsi tutto all'opera sua, fu singolarmente colpito dalla purezza di lei, e non pose indugio a sposarla, giacche in questo caso l'amore giustificava il matrimonio, com'egli aveva sempre insegnato. La splendida Teano entrò in breve completamente nel pensiero del suo maestro e marito; e divenne abilissima nell' insegnare alle giovinette dell'Istituto. Ella ebbe due figli, Arimneste e Telangete, e una figlia, Damo o Mia. Arimneste fu autore di prose e poesie morali, Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle e a lui trasmise i secreti della dottrina. Mia andò sposa al più celebre degli atleti, Milone di Crotone. Dall'Istituto pitagorico uscirono geometri, medici, artisti, amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portarono, sotto certi aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concedeva di entrare nell' Istituto a giovani di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per avere rifiutato un certo Cilone, giovane ricchissimo, il quale desiderava di far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre stava in casa di Milone e di sua figlia Mia. E, cogliendo — 9 — pretesto dal voto contrario che Pitagora aveva dato sulla distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati avevano conquistate, il suo nemico Olone indusse la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti giovani alunni. Allora Pitagora che aveva già ottani' anni, si rifugiò negli istituti filiali di Locri, di Taramto e di Metaponto, morendo in quest'ultimo nel 497 cioè dieci anni dopo. Pitagora non credeva nella metempsicosi, ma sol- tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri Orfici fosse presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e diceva che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede in Dio, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè Dio solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora scrisse tre libri, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura: ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distinsero Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Hipparco. Quando Platone viaggiò nella Magna Grecia, fu Archita di Taranto che gì' insegnò la dottrina del Numerante: ma Platone la guastò nell' intrecciarla alla sua teoria delle Idee Eterne ossia concetti gè- — 10 — nerali delle cose ch'egli supponeva esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. In una scuola Pitagorica di Agrigento sorse Empedocle, nato quindici anni dopo la morte di Pitagora, il quale abbracciò con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici, ma mentre egli osser- vava da vicino una eruzione del vulcano Etna soc- combette asfissiato nel 425. Nella scuola Pitagorica di Siracusa brillò poi Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scoprì anche la quadratura della parabola, oggi an- cora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere del sapere Pitagorico? Pitagora fu Venciclopedista del suo tempo: fondò la Filosofia Italica, ben diversa dalla Greca. Come fa notare il prof. Zeller (nella sua introduzione ai cinque volumi di Storia della Filosofia Greca) gli errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo greco, troppo idealista e portato a giudicare le cose con la fantasia, ed a studiare poco la Natura. Erano artisti e poeti e non scienziati: appena avevano fatto delle osservazioni superficiali, volavano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora era in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della Natura, sicché potè fondare il Naturalismo Italiano. Diede per primo il nome alla filosofia, come lo diede al mondo, chiamandolo Cosmo, che vuol dire Ordine, vale a dire che porta in se la gran Legge della tendenza di tutti gli elementi a formare più alta Unità: in modo che ogni particella sta in ar- monia col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione della Energia divina, che si contrappone i punti di forza o Atomi, i quali, derivando da una potentis- — 11 — sima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla Unità primitiva, sicché^ tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere neWassurgere a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi: ma è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e vo- lontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gli or- gani ed i nervi. Egli precisò con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni; indovinò per il primo che la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in movimento; scoprì il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo; calcolò la teoria degli iso- perimetri, dimostrando non commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato; in- trodusse nelVaritmetica il sistema decimale, e nella musica l'ottava, la quarta e la quinta. Il filosofo Lucio {in Plutarco Symp. VIII. 7) narra che gli Etruschi, che stimavano Pitagora quanto i Greci, osservavano i simboli di Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non poteva sfuggire la legge di attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la — 12 — causa in pretese pressioni dell'etere cosmico. Più tardi Empedocle di Agrigento la chiamò poeticamente Amore Universale, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensò la Naturaorganica, piante ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione (benché non conoscesse la cellula) e la malattia e la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove (come pretendeva Eraclito d'Efeso che nella Grecia orientale emulava Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo greco che separò lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il Pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa Greca si allontanò dalla Italica. Pitagora fu il genio tutelare del pensiero laico Italiano, e ^diede sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non fu una provincia della filosofia greca. E grazie a Pitagora che un po' alla volta fu sorpassato il Platonismo e fu vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei bar- bari si oscurò ogni luce di pensiero, ma la idea pitagorica tornò a brillare per la prima e a dare — 13 — impulso alla nuova filosofia italiana grazie al car- dinale Nicolò di Cuza, nato a Treviri, ina educato in Italia. Egli nel 1440 scrisse: «Ratio est men- « sura quae omnia in multitudinem, magnitudinem- « que resolvit. Mens est viva mensura quae mensu- « rando alia, sui capacitatem atiingit ». La mente è la unità che si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale delle Scuole Pitagoriche venne pro- mossa dall'Accademia di Cosenza (a 40 miglia da Cotrone) fondata nel 1500 dal Parrasio - dalla quale sorse Bernardino Telesio che scrisse: « Della natura delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova nel 1644 del primo Orto Botanico, dalla Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dalle Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con G. B. Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione delle loro Accademie Maggiori. Giordano Bruno sostenne poi contro gli Aristotelici che gli elementi medesimi della natura si ritro- vano in terra e in cielo, indovinò la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa, notò che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi del- l'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione fu dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich 14 concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali diedero ragione agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Nel libro che segue noi supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti.Noi fondiamo la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. UHegelismo, che, invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. — 18 — Terra, ma in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere. Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. — 19 — fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali.  CAPITOLO I. La prima estrinsecazione dell' Essere Divino (Spazio e Tempo) La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la tartaruga, non la potrà mai raggiungere. — 22 — Ma quando si considera lo spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa (1). Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di- mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che per i bambini non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito, vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata. Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- « cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è « oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in « relazioni spaziali con altri corpi ». Più tardi però Kant concepì spazio e tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A. Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905. La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò che si deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza pa- gina 81 a 84. — 25 — La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti, a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione delle forze; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Giordano Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione; anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di — 26 — sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. (1) Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di — 27 — rato, ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia », 1714, (Def. Vili) Newton scrive: «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli ». Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi, moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva: « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi ». Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum ». La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di materia continua; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe una specie di atmo- — 30 — sfera diffusa allo infinito, con strati concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella « Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi (« Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale: e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si dice che è la me- — 31 — desima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare alla nostra: ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza: le scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi ». Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ, 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè? Unicamente per la forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. — 33 — L'atomo di una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più semplicemente di noi): e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti: mentre sono le vere realtà. La Materia (dice il senatore A. Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907, pag. 234), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo; ma in moltissimi casi non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico: ogni Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal mo- — 35 — vimento dagli atomi complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso (Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze, aggiunge: « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne». Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. (1) Il Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa ». E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva: « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto: « dunque l'Atomo è Energia psichica ». Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che ten- — 37 — dono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità (1) anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. 3 — 38 — tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema: così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann: La costituzione dell'Elettrone, 1906. - Annalen der Physik, quarta serie, voi. 19. - 40 — Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici; ma fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di, una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali. — 43 — piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura. Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio. Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale di azione e sono: Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale (non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia, ha valore per i fatti osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo aspetto: risolvere il mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema conservativo più ampio: ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si converte in calore: bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma opposti: così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui: ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, — 46 — come è sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio: ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua, nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro: anzi in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato. (1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 — Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV), scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a « tutto il sistema solare ». Newton non ammise che la gravitazione fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata impossibile. — 49 — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. — Eichiedono un punto motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. 2. — Esigono che la materia sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. 4. — Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili- — 50 — Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi: ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire: « Sic volo, sic jubeo: sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4. Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti. — 52 — I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani: mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate, come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione, si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali, battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono: quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi; ed è alla solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. — 57 — La tendenza all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi Principia Definitio IIIa: « Materiae « vis insita est potentia resistendi ». Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. E nei seguenti Capitoli lo vedremo ancor meglio. CAPITOLO IV. La solidarietà geometrica cristallina Il materiale dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le pareti; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri e spazzature: le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente; il polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile: però si induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. — 61 — Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio — 62 — della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. — 63 - I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio. lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli: sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. — 66 — Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare 36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta — 68 — la natura. Ma unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d' idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore: meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque: e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. — 72 — La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata »; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, - 73 — i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle — 74 — Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali — 75 — e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non — 76 — si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716 ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. — 78 — Se si raccoglie in uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta cel- lule: è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. — 79 — Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. — 80 — I fermenti aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei bacteri sono anaerobi; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,, (che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole forze chimiche, e tanto meno con le sole forze — 82 — incidenti dell'ambiente, al modo Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha — 83 — una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore — 85 — dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose: oppure 6 — 86 — In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. — 87 — massima della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire », ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti. Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0° gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della peste; riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante: l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli: ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. — 91 — Fin dalle prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il tallo poi fu ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere, nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono relativamente caldi e respirano - 92 — più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine: una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. — Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed è rara la generazione alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti sanno che nelle Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono senza nozze. — 93 — Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice, e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). — 94 — Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63 A2 O 4. Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0. Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. — 97 — Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci fibrosi vascolari arcuati — 98 — sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle basi ed ai sali. — 99 — Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire, desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente, cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta, e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. — 102 — La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene, ma si compiono: e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso: e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso: i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ri- - 105 — tornando più volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che atten- deva ad un determinato progresso morfologico: la coscienza se ne ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni: base psichica, che viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e — 108 — le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi: gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. — 110 — Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E. Ziegler: «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. — 112 — stacci, i Zoofiti, i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che, senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano. Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo; essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli, diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto — 117 — il collo; per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le corna; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente in nove mesi: Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo non cambia mai; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle funzioni, giacche la modificazione degli organi — 118 — per farli servire a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato ». Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del quale è una forma ». «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235.  « La Unità ordinatrice dello Indistinto assoluto fa la Natura », p. 247. « Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma in fondo vi è una razionalità sapientissima », p. 249. « L' Indistinto Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine », p. 250. « L'ordine nel caso, e il caso nell'ordine: ecco la ragione della distinzione o formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad ogni distinto », p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249: « La Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto ». I suoi discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro maestro: Marchesini (« Vita e pensiero di Ardigò », 1907, p. 338), scrive: «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre ». E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli: « La specie della Gallina è un apparato — 120 — « fisiologico riuscito, per aggiunte e modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente ». Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che cosa è ridotto? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto ». È questo il Positivismo radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente Oggetto o Soggetto: nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi, e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero Positivismo armonico, pitagorico, Italico (1). CAPITOLO IX. Come la psiche fa la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e molteplicità della Natura. 254: la realtà «della psiche e della materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296: A sostrato « dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie- « gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo Catechismo). 331: Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione ». Marchesini non ha capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling ed egli non ha — 123 — mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta, non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto, secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa, formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi, dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). (1) Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti: la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. — 126 — Gli animali, mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito: ma se il sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. — 128 — l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie — 129 — parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e il piacere. — 130 — Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina; nelle mammelle butirina e margarina; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando.sono arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. — 132 — Se no, allora l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi — 136 — dei quali ha bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare la salute; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie; alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose: I microbi anaerobi fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso; mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism », ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute; guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli: ma nella metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza fodere; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo: essi compivano gli altri tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in- trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne: due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi, divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. — 148 — Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai: è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria di archi intrecciati; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono; mentre il nervo motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa; e sono quindi elastici, perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo, di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente. Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i prò- — 156 — tagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente, necessariamente; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici: camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea.  In realtà non vi è affatto questa pretesa lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali. Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione, volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando per godere le nozze, le — 163 — fanno. Un siconoforo è una federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie; ma anche fra essi vi è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano, fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe, nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare, portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api, nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes: Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A. Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita, prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore totale. — 165 — L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof. Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper- matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida) l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male. Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone, il testicolo cresce a spese della — 167 — neratrice è affidata a questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera: ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo, intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma. Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè il Mesoderma in- vaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni. L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio. La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati, fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione: è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici) detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità. Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l' intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali. Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra. Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due se- — 170 — condi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze dell'in- dividuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica depuratori del san- gue; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al- largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non danno latte. — 172 — nosciute e già provate: e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate, Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così; se vi sono e vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i delinquenti convicts, deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del « Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli (Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima: ma è l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente: chi è triste rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in giudizio); nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e per conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici, primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani, che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole. Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o illusione del mondo. — 180 — Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito: Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti.  La Unità Numerante nella Volontà Se il Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli. L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale. I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The functions of the Brain, p. 287), vide che i centri inibitori impediscono la distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, (1) La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire, volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere, Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle quali si astrae il concetto di spirito o di anima) (pag. 145). Il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo poco a poco l'abitudine (pag. 149). Dunque non vi sono schemi a priori dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me, prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle forze incidenti {pag. 151). Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero: Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo ». Così l' Italia non si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse: no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio: « Non ci ritiriamo: qui si fa l' Italia o si muore ». E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere: tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle distinction ». Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères », 1894, opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente); quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie ». (1) Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate: assimilando le forze della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso: ma è la volontà che scarica la forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità irresistibile; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili: giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità. INDICE Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola.. Pag. 5 Introduzione » 17 Capitolo I. - La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) » 21 Id. IL - La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV. - La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche combinazioni » 67 Id. VI. - L'Unità assimilatrice cellu- lare » 72- Id. VII. - Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore » -82 Id. Vili. - Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana » 121 — 194 — Capitolo X. - Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » 144 Id. XII. - Come la Psiche fa il Sistema Muscolare » 152 Id. XTTI. - La Psiche generatrice... » 158 Id. XIV. - La Unità intima nel Senti- mento » 169 Id. XV. - La Unità Numerante nella Volontà. » 181 ^  LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- MARCO SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente: Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita pubblica.  ALBERTO GIANOLA     LA   FORTUNA DI PITAGORA   PRESSO I ROMANI   dalle orìgini fino al tempo di Augusto      .>^     CATANIA   FRANCESCO BATTUTO — Editork   1921     PROPRIETÀ LETTERARIA     J^-^  <^^     Catania — Stab. Tip. S. Di Mattai &. C. — 1921.     A   GIORGIO E GUSTAVO DEL VECCHIO   FRATERNAMENTE     PREFA2IONB     La filosofia di Pitagora^ che è generalmente conosciuta  appena in alcuni dei suoi punti fondamentali^ come la  metempsicosi^ Varmonia delle sfere^ la scienza dei nu-  meri^ l'astensione dai cibi carnei e dalle fave^ era in  realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine^  un ve?v e propìzio sistema di speculazione e di morale,  la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in pic-  cola parte^ sì per la scarsità dei documenti scritti ori-  ginali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che  i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì  per le amplificazioni^ le falsificazioni e le invenzioni  che partorirono le fantasie di tardi seguaci^ di pseudo-  eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale filo-  sofia fu non dilettantismo di m istici fanatici^ ma vera  e ragionata speculazione^ a cui si accompagnò^ parallela,  ima conseguente e logica ragione di vita, sì che^ men-  tre da un lato potè attrarre^ seducendole col fascino  delle verità da essa chiarite e con V armonica bellezza  dei suoi insegnamenti.^ le anime di molti cui pungeva  r assillante aculeo della conoscenza., incontrò daW altro     — VI —   ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie interessate  o di volghi ignobili e sciocchi.   Divulgata.^ se non creata interamente ex novo, nel se-  colo sesto a. C. per opera di Pitagora^ del quale ^ come  di Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa^  fu coltivata^ prima che altrove, sulle rive dell' Ionio ^ nella  Magna Grecia e in Sicilia., di dove si diffuse, sebbene  osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca., com'essa  era., di principii che oggi si direbbero idealistici e tra-  sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una  sua particolare armonica concezione della vita indivi-  duale e collettiva^ teorica^ insomma e pratica nello stesso  tempo., essa era ben atta ad informare di se religione  e scienza., politica e morale.^ consuetudini e leggi.   Essa fu da molti connessa non pure con anteriori an-  tichissime dottriìie della Grecia^ deW Egitto^ delV India  e per fin della Cina., dalle quali sarebbe in tutto o in  parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di  somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Pla-  tone, in molte parti ricalcata sulle sue orme. Conservata  poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tra-  mandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto  delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filo-  sofi alessandrini, quando, inalveatesi nel suo letto altre  correditi di pensiero, alimentò le speculazioni della teo-  sofia neoplatonica e ?ieopitagorica di Plotino, di Porfi-  rio e di altri molti, e diede origine a molteplici scrit-  ture, quali più quali meno profonde ed attendibili, in-  torno alla vita ed ai primi insegnamenti delV antico  maestro. Da essa infine tras.sero ispirazione alcuni filo-  sofi della rinascenza, e qualche sua derivazione può  dirsi non del tutto spenta anche oggi.     — VII -   Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque^ massime  per noi Italiani, lo studiare la storia di questa dottri-  na e il ricercarne e ìiarrarne le vicende nei vari tempi  e nei vari paesi: poiché^ sebbene molti abbiano fatto stu-  di e ricerche in proposito — basterà ricordare^ fra tanti,  i lavori del Bitter (1), dello Zeller (2), del Gomperz (3),  dello Chaignet (4) e del Mullach (5), e, in Italia, del Ca-  pellina (6), del Cento fanti (7), del Gognetti De Martiis (8),  del Ferrari (9), del Ferri (10) -- e benché da tutti     (1) Heinrich Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Ham-  burg, 1826.   (2) Eduard Zellbe, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vor-  tràge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts^ Leipzig, 1865 e  Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P pp. 279 e segg.   (3) Theod. Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2*  ed. alleni, par A. Raymond, Paris, Alcan, 1904.   (4) A. E. Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor., Pa-  ris, 1873.   (5) Fr. G. a. Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc-  cessoribus, in Fragmenta philosoph.. graecor. v. II, Paris, 1881,  pp. I-LVII.   (6) Domenico Capellina, Delle dottrine dell'antica scuola pitago-  rica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di  Scienxe di Torino, serie II, t. XVI (Ì857), pp 37-109.   (7) Silvestro Centofanti, Studi sopra Pitagora (1846) nel volu-  me La letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1870 [Opere, voi. I,  5p. 359 e segg).   (8) CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R.  Accad. delle Scienxe di Torino, 24 (1888-89) e nel volume Socia-  lismo antico, Torino, Bocca, 1889, pp. 459-496.   (9) Sante Ferraiu, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivi-  sta ital. di Ulosofia, 1890, I e II.   (10) L. Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni degl'Italiani  intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accademia  dei Lincei, Rendiconti, serie 4, 6, 1890, 1 pp. 532-547.     — VITI —   questi e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte  notizie^ ma si siano anche esaminate e discusse quistio-  ni importaìitissiìne^ pure troppe cose ancora rimangono  da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò  esterna del Pitagorismo; e fors'anche^ riprendendone i?i  esame il contenuto, ossia tenendo V occhio alla sua sto-  ria interna, che è poi, per la filosofia, la sola importan-  te, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata  dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi vali-  damente fondata e tale da poter resistere agli assalti del  nostro più acuto criticismo.   Gli studi raccolti in questo volume furono già da me  in gran parte pubblicati, dal 1904 in poi, o in opuscoli  in Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie  ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali  ero giunto, e nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono  indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecita-  zioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme.   Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia  che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno  a dimostrare che intorìio a queste importantissime dot-  trine non si è detto ancora tutto e che inolio ancora si  può indagare e scoprire.     INTRODUZIONE     Da diverse tradizioni furono connessi i piiì antichi istituti  religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con  il Pitagorismo (1); ne fa meraviglia che alle dottrine di  Pitagora si facessero risalire anche le prime istituzioni e  le più antiche leggi di Roma: Numa, il sacro legislatore  della città capitolin'a, fu ritenuto scolaro di Pitagora, e le  stesse leggi delle dodici tavole, copiate dalle legislazioni  della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta  traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, fu-  rono altresì ricongiunte con questo.   Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter  determinare in che consistessero questi legami di dipen-  denza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi  dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze  e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione     (1) Seneca, per esempio, (Epist. ad Lueilium^ 90) sull'autorità  di Posìdonio, dice, parlando dei grandi legislatori dell'Italia: «Hi  non in foro, nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae ilio  sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti lune Siciliae et  per Italiani Oraeciae ponerent ».   1.     2 —     romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si  sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una deter-  minazione neppure approssimativa.   Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta sol-  tanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita  civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore in-  flusso, determinando nel corso dei secoli, attraverso le  vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente  di pensiero sua propria, continua o interrotta, palese o  recondita?   Di vera e propria tradizione scritta non ci restano trac-  ce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo  invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non  pochi seguaci che la dottrina pitagorica ebbe in Roma.  Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte  le conclusioni di queste nostre ricerche, che questi inna-  morati cultori di una così riposta e difficile sapienza non  furono già uomini oscuri uè poeti o scrittori di second 'or-  dine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati,  pensatori insigni e grandi uomini politici ; cosicché la filo-  sofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegna-  menti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati  famosi, come Appio Claudio e il maggiore Scipione, nelle  fantasie di poeti eccellenti, come Ennio e Virgilio, nei  cuori di cittadini nobilissimi, come Figulo, Yarrone e i  Sestii, accompagnò in certo modo passo per passo il pro-  gredire della potenza e della grandezza di Roma; finché  poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva  prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura e  l'indole dei Romani, era il meno idoneo ad allettarli, e  all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un  lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un Apol-     — 3     Ionio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi elementi ete-  rogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,  essa si ritirò di nuovo nel silenzio e nella segretezza di  qualche scuola, illuminò appena la vita e lo spirito di  qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì  per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle spe-  culazioni di un Macrobio o di un Eulogio.   Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la  maggior diligenza possìbile i ricordi, le testimonianze, le  tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé.  ha lasciato il pensiero pitagorico nella storia e nella let-  teratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e studi  esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di tro-  vare. Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere  dello Zeller, dello Chaignet, del MuUach, nella Storia di  Roma del Pais, e in storie generali e particolari della  letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lun-  ghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse  qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle  mie ricerche non consistono dunque nella novità dei ri-  sultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin  qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella  quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne  ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche que-  stione spero anche di avere maggiormente chiarita, seb-  bene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso co-  struire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni  definitive.     CAPITOLO PRIMO     Inìzi leggendari e storici     1. Il Pitagorismo e le più antiche istituzioni di Roma. — 2. Testi-  monianze G prove. — 3. I carmina convivalia. — 4. Numa e  Pitagora. — 5. Le leggi delle XII tavole nei loro rapporti col  Pitagorismo. — 6. Il carme pitagorico di A. Claudio Cieco.   1. — Che molte delle antiche istituzioni di Roma fossero  derivate dalla filosofia pitagorica fu riconosciuto ed am-  messo esplicitamente da Cicerone, il quale nel principio  del quarto libro delle Tusculane (§§ 2-4) lasciò scritto :  « Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret, pernia-  navisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniec-  tura probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indica-  tur » . A conforto dunque della sua opinione egli addusse  due argomenti, uno congetturale e uno di fatto: « Quis  enim est qui putet, — così egli continua — cum fiorerei in  Italia Graecia potentissimis et maximis urbibus, ea quas  Magna dieta est, in eisque primum ipsius Pythagorae,  deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset, nostro-  rum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas     — 6     fuisee f Quin etiam arhitror propter Pythagoreorum admi'  rationem Niimam quoque regem pytagoreum a posteriori-  bus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et  instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapien-  tìam a maiorihus suis accepisseut^ aetates autem et tem  pora ignorarent propter vetustatenij eum, qui sapientia  excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse » . E  questa è la congettura; la constatazione di fatto poi è,  che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture  vi sono molte non indubbie tracce di Pitagorismo. Quanto  alle istituzioni, egli trova materia di raffronto nell'uso dei  canti e della musica : « Vestigia autem Pythagoreorum,  quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur....  Nam cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta  quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum  intentione eantu fidibusque ad tranquillitatem traducere,  gravissimus auctor in Originibus dixit Caio morem apud  maiores hunc epuìarum fuisse ^ ut deinceps^ qui accubarent,  canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtu-  tes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos  vocum sonls et carmina. Quamquam id quidem etiam XII  tabulae declarant, condi iam tum solltum esse carmen ;  quod ne licer et fieri ad alter ius iniuriam^ lege sanxerunt.  Wec vero illud non eruditorum temporum argumentum est,  quod et deorum puloinaribus et epulis magistratuum fides  praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, di-  sciplinae » . E quanto alle antiche scritture egli ricorda un  carme di Appio Cieco, che a lui pare pitagoreo: « Mihi  quidem etiam A.ppii Cacci carmen, quod valde Panaetius  laudat epistula quadam, quae est ad Q. Tuberonem, Py-  thagoreum videtur^?. E finalmente conclude: <^ Multa etiam  sunt in nostris institutis ducta ab illis ; quae praetereo,     7 —     ne ea, quae repperisse ipsi putamur^ aliunde didicisse vi-  deamur». È davvero un peccato che Cicerone, per senti-  mento diorgoglio nazionale — che non doveva peraltro  essere soltanto suo — e forse anche . per ragioni, se non  di Stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di  utilità pubblica, abbia creduto necessario di tacere intorno  a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal Pita-  gorismo, alle quali, come si è visto^ accenna per ben due  volte; tanto piii che egli^ e per le cariche da lui coperte,  e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e  sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda  cultura storica, letteraria e filosofica, era bene in grado  di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo  assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di que-  sta sua affermazione categorica, per quanto generica, e  vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano va-  lidi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò  contro la sua tesi.   2. - Che in verità i] Pitagorismo importato nella Magna  Grecia nel sesto secolo avanti Cristo, « temporihiis isdem  — come dice lo stesso Cicerone — quibus L. Brutus pa  triam liberavit » (1) e propagatosi in tutta l'Italia meri-  dionale, dove si conservò poi per molti secoli, non dovesse  rimanere ignoto ai Romani e dovesse esercitare su di loro,  presto tardi, qualche influsso notevole, è ovvio, e le  presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei  fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale influsso si  possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei     (1) Ibid. § 2. Cfr. 1, 16, 8, dove è detto che Pitagora venne in  Italia « Superbo regnante » .     — 8     suoi primi seguaci, come Cicerone credette, oppure, come  credette Livio e con lui gli storici moderni, se esso si sia  fatto sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la  conquista della Campania e della Magna Grecia, che fu  interamente compiuta nel 265 a. C. ; e, d' altra parte, se  questa azione sia stata così larga e profonda da dover  lasciare molte ti^acce di sé negli istituti politici e religiosi  di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manife-  stazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime spe-  culazioni filosofico-religiose.   Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimo-  strino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima  dell'Arpinate, e precisamente fin dal secolo quarto a. C,  cioè prima della conquista dell'Italia meridionale, dovette  essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla  sua dottrina e alle sue leggi fosse debitrice di molto la  città. Il primo di questi fatti è che durante la guerra  sannitica fu innalzata a Pitagora ai lati del Comizio in  Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase  poi sino ai tempi di Siila (1). Ora la guerra contro i San-  niti si combattè in tre periodi, l'ultimo dei quali va dal  298 al 290 a. C. ; e il Pais crede che la cosa si debba  ritenere avvenuta appunto in questi anni ; ma in realtà  non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire an-  che ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un  poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea     (1) La cosa ci è attestata da Plinio, il quale però non cita la  fonte da cui ha attinto la notizia. Dice egli infatti (JV. H. XXXIV,  26): Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus Comitii positas  (statuas), cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo  Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari » .  Cfr. Plutaeco, Numa^ VIIL     — 9 -   e di Taranto (272 a. C.) e con l'arrivo nella città di Livio  Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale,  furono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno  Zaleuco (1). Ora perche mai sarebbero stati concessi a Pi-  tagora due onori così distinti e di carattere pubblico, se  non si fossero riconosciute le sue benemerenze verso la  città? Evidentemente in quei tempi più antichi l'orgoglio  nazionale non aveva ancora oscurato, come più tardi, il  senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esa-  minare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica  civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà Cicerone.   3. — I carmina convivalia^ che, ormai disusati nell'età  ciceroniana, erano invece ancora in uso al tempo della  seconda guerra punica (218-202 a. C.) e che risalivano,  come affermò Catone, a molte generazioni prima di lui,  furono certamente anteriori alla legislazione decemvirale,  che è della metà del secolo quinto: Cicerone infatti, per  dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti  musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei  tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, in-  sieme con la testimonianza di Catone, il fatto che le leggi  delle dodici tavole comminavano gravi pene a chi avesse  usato quei canti « ad alterius inkiriam » (2). Senonchè  Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti,'     (1) Vedasi il framm. 5 nei Fragni. Hist. Graec.^ II, p. 273 e  Symm. ep. X, 25.   (2) Cfr. De rep. IV, fr, 12 : « Nostrae duodecim tabulae^ quuni  perpaueas res capite sanxissent, in his hane quoque saneiendam  pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen condidisset quod in-  famiam faeeret fìagitiumve alteri » e vedi auche Plinio, Nat. Hist.  XXVIII, 2, 10-17.     — 10 —   audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti a) tempo  del re Numa (1). Se così è, non avrebbe dunque dovuto  valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva,  come si è veduto, alla leggenda che il re Numa fosse  stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi  canti egli poteva logicamente ammettere la derivazione  dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji  istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro  autore credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del  filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cice-  rone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun  valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se  fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più an-  tica storia di Roma — , oppure ~ come è più probabile,  in conformità dei risultati generali e particolari a cui è  giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende  romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal Pitago-  rismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da rite-  nere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto  faceva risalire al secolo ottavo un'usanza che dovette essere  posteriore al seste secolo a. C. Quanto poi all'analogia  considerata in se, in che consisteva essa? Semplicemente     (1) De orai. 111,51, 197: «Nikil est autem tam eognatum mentibus  nostris quam, numeri atque voces ; qtiibus et excitamicr et ineendi-  mur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad tristitiam  saepe deducimur ; quorum Ula sumnia vis carminibus est aptior  et eantibus, non neglecta^ ut mihi videtur, a Numa rege doctissimo  maioribusque ìiostris^ ut epularum sollemnium fides ac tibiae Sa-  liorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere cele-  brata ». Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè  nel Brutus^ 19, 75 e nelle Tusculane I, 2, 3. Si vedano anche  Tacito, Ann. Ili, 5, Val. Massimo II, 1, 10, Nonio ad assa voce  ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner.     11     nell'uso comune del canto e deUa musica in occasione di  feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel conte-  nuto dei canti stessi, che gli uni. cioè i Pitagorici, ado-  perarono come mezzo terapeutico e di insegnamento eso-  terico, e gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare la  memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti  tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegna-  menti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti  accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga  meditazione, così gli antichi Romani solevano, al principio  dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù  degli eroi, ed ebbero anche l'usanza di far precedere tanto  alle mense in onore degli dei, quanto ai banchetti dei ma-  gistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico  dei Pitagorici. Insomma, le piìi antiche manifestazioni del-  l'arte musicale in Roma si ebbero per l'influsso diretto  del Pitagorismo.   4. — A quel modo che si è dimostrata la possibilità che  siano derivate dal Pitagorismo queste antichissime mani-  festazioni dell'arte musicale, si potrebbe anche riconoscere  come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensava  Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora.   La notizia che il re Numa sia stato scolaro di Pitagora  è probabilmente anteriore al terzo secolo a. C. ; anzi il  Pais afferma (1) che essa si deve forse far risalire ad Ari-  stosseno, . Ma in tal caso sarebbe necessario credere che  questi conoscesse una cronologia della storia romana di-  versa da quella che fu poi consacrata dalla storiografia  ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu-     (1) Storia di Roma, I*, p. 19 e 387.     12     ma fu anteriore di oltre un secolo a quella di Pitagora.  Tanto è vero che quasi tutti gli scrittori presso i quali  troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'^li-  carnasso, Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio —  notano e discutono variamente questa inconciliabilità cro-  nologica, concludendo tutti press'a poco come fa Manilio  nel De re piiblica di Cicerone, che dice la storia di queste  relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali  e quindi da ritenersi « un errore inveterato » (l). Ora che  dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così  dovesse concludersi, è troppo naturale: data la indiscuti-  bile verità della tradizione e della relativa cronologia, non  poteva esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte  di Numa di essere stato alunno di Pitagora. Ma tale im-  possibilità non esiste per noi, che sappiamo come la storia  delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai  tarda, come i computi cronologici che a quella si riferi-  scono siano il risultato di una lunga elaborazione tradi-  zionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di  verità, e infine come molte figure della leggenda siano  soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso di  fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi succes-  sivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se  era validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sus-  siste più oggi che la critica storica ha demolito l'antichis-  sima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che     (1) Ciò. De re pubi. Il, 15, 28: «Inveteratus ho77tinum errore.  Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic. Vili, 14 {.Exc. de vlrt. et vii.  p. 549); Livio I, 18 e XL, 29; Plut. iVwma I, 3; YIII, 5 sgg.;  Plinio, Nat. Hist. XIII, 27. —Quanto alla testimonianza di Ovidio  si veda più innanzi, al cap. IX.     — 13 -«.   quella sollevata da Livio, il quale ritenne impossibile ogni  rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di di-  stanza e di lingua. Dice egli infatti : « Auctorem doctrinae  « eius [i. e. Numae]^ quia non exstat alius, falso Samium  « Pythagoram edunt, quem Servio Tullio regnante Bomae,  « centum amplius post annos, in ultima Italiae ora circa  « Metapontum Heracleamque et Crotona iuvenum aemu-  « lantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locis,  « etsi eiusdem aetatis fuisset^ quae fama in Sabinos f  « aut quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem  « discendi excivisset f quove praesidio unus per tot gentes  « dissonas sermone moribusque pervenisset f suopte igitur  « ingenuo temperatum animum virtutibus fuisse opinor  « magis instructumque non tam peregrinis artibus quam  « disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum^ quo ge-  « nere nullmn quondam incorruptius fuit » (1). Ma nel  campo della storia, come giustamente osserva il De Mar-  chi (2), è forse detta l'ultima parola sui rapporti che lega-  rono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più  barbare popolazioni italiche del centro ? E d' altra parte  la esistenza ammessa da Livio di una « disciplina tetrica  ac tristis » presso i Sabini dell'ottavo secolo a. C. non è  cosa molto più problematica di quello che non sia pro-  babile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna  Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra  Numa e Pitagora dovrebbe dunque, a parer iiostro, accet-  tarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di  Numa, se questi è realmente esistito, o, in ogni modo,     (1) Livio, I, 18.   (2) Passi'scelti da Tito Livio ad illustrare le istituzioni religiose^  politiche e militari di Roma antica, Milano, Vallardi, 1907 p. 65.     — 14 —   il formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che  la tradizione riportava a lui, dovrebbe ritenersi posteriore  almeno al tempo di Pitagora, ossia posteriore al secolo  sesto, appunto perchè dalla tradizione era tenuto in stretto  rapporto di dipendenza dal Pitagorismo. In tal modo non  sarebbe più necessario, come fa il Pais, di ritenere inven-  tata da Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a  questo filosofo del quarto secolo, che parla genericamente  di Romani accorsi ad ascoltar Pitagora (1), e piii facil-  mente si comprenderebbero alcuni dati della leggenda. di  Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re,  e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, am-  metta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla.   Raccontava ancora la tradizione che Numa ebbe tanta  venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare  a un proprio figlio il nome di Mamerco, in onore dell'omo-  nimo figlio del filosofo (2). Che significato può avere questo  nuovo particolare ? Alcuni hanno creduto di scorgere in  esso un tentativo da parte degli Emili Mamertini di far  risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa.  Se così fosse, noi dovremmo allora ammettere che quando  il particolare fu inserito nella leggenda, la cronologia di  questa non era ancora quella ufficiale: altrimenti il tenta-  tivo sarabbe stato puerile. Ma così veramente non è, come  fu giustamente osservato dal Mtiller (3); probabilmente il     (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp (cioè Pitagora), &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog, xal  Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice Por-  firio nel Gap. 22 della Vita di Pitagora; e il medesimo affermano,  senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio (Vili, 14) e Giamblico  {Vita Pythag, 241). Quanto al Pais, vedasi St. di Roma I^,  p. 678-679 n. e altrove.   (2) Plutarco, Numa YIII, 11 ; P. Emilio I.   (3) Q. Ennius, Pietrob. 1884, p. 162 n.     -^ 15 —   particolare non ebbe altro ufficio che di avvalorare con  un indizio di piii la leggenda. Un'altra notizia, a propo-  sito della quale non è veramente fatta menzione alcuna  di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per  la quale Numa ebbe particolare venerazione (1). Allude  forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di  cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È pos-  sibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame,  che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di co-  loro che dubitavano delle sue facoltà soprannaturali (2),  non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pita-  gora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per  il loro carattere favoloso, potrebbero indurci a credere  l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione  storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del  saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica  non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione  diversa; voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi  libri di Numa, avvenuta nel 191 a. C, in occasione di  uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scopei-ta  e la inverosimiglianza, come vedremo nel capitolo seguente,  di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tra-  dizione, che questi libri fosseì'o veramente antichi. Siano  poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza,  come s'è già detto, dovrebbe necessariamente porsi in  un'epoca posteriore al sesto secolo — • o di qualche altro  sapiente imbevuto di sapienza greco-italica, essi starebbero  sempre a dimostrare che effettivamente il Pitagorismo eser-  citò una qualche azione sull'antica civiltà capitolina.     (1) Plutarco, Numa^ Vili.   (2) DioN. Hauc, U, 60.     — 16 —   Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi  possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei  rapporti fra i due legislatori dovette essere assai difPusa  ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di  vero : di guisa che se Cicerone la disse « inveteratus ho-  minum error » noi possiamo senz'altro accettarne la vetu-  stà; e quanto all'erroneità, essa fu probabilmente soltanto  un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da  un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio,  che pure scrisse dopo che diversi storici avevano mosso  alla leggenda le critiche accennate, potè ben accettarla  senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa (1)  e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose at-  tribuite a Numa (2), persino la sua riforma del calenda-  rio (3), dalla educazione pitagorica da lui ricevuta.   5. —Anche alcune disposizioni legislative delle dodici ta-  vole — che appartengono alla metà del quinto secolo a. C. —  furono messe in relazione col Pitagorismo; cosa ben natu-  rale, se si pensi alla loro origine: non erano esse infatti  ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia,  che, alla lor volta, com'è ben noto, si informavano ai prin-  cipii di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla  con Cicerone, semplice coniectura, ha poi la sua riprova  nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai  frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo  in esse sancito s'ispirava al principio del taglione: « Si     (1) Metam-. XV, ]-8, 479-484; Fast. Ili, 151-154; Pont. Ili,  3, 41-46.   (2) Metam. XV, 479-484.   (3) Fast. 1. e.     — 17 —   membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ tallo està », dice il  secondo frammento della ottava tavola, e questo principio,  che, come attesta Demostene, ebbe largo svolgimento nelle  leggi di Zaleuco (1), era indubitatamente tolto dai Pitago-  rici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice  infatti Aristotile (2) che la giustizia era da loro conside-  rata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una pro-  porzione — non inversa, ma diretta, come notò bene lo  Zeller (3) — fra l'offeso, l'offensore e il giudice ; nel che  essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri  della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può  aver luogo che la distributiva. Ora, dice il Chiappelli in  un suo breve studio (4), in qual modo si determinasse dal  Pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del  taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere  quali elementi di essa penetrassero nelle dodici tavole e  a quali trasformazioni andasse soggetta in Roma. Un punto  tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo nega-  tivo. Alla legge generale, nelle dodici tavole, seguivano  le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa     (1) Timocr. 744 : « ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv  è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j-  oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX-  jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si  ritrovano in quello che 1' autore della Grande Morale ci riferisce  dei Pitagorici, il ohe è una riprova del rapporto storico fra questi  e Zaleuco.   (2) Eth. Nic. Y, 8, 1132 b. 1 (ed. Susemihl) : « Soxst 5s xtat  xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi nuO-ayópsiot  Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ».   (3) [\ 360.   (4) Sopra alcuni frammenti delle XII tavole nelle loro relazioni  con Eraclito e Pitagora, in Areh. giuria, voi. XXXV.   2,     — 18 —   misura della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad  uno schiavo (1). Ora i Pitagorici non pare che avessero  fatta questa distinzione, se l'autore della Grande Morale  combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella  che non si può applicare incondizionatamente al servo o  al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto,  se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena cor-  rispondente (2). E in verità siffatta distinzione era bensì  impossibile nel sistema dei Pitagorici, per i quali il corpo  era come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne  trasmigrazione, e il più alto precetto etico era l'imitazione  degli dei per via della virtù, l'osservanza delle leggi e il  rispetto verso tutti gli uomini; ma era invece possibilis-  sima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così  netto era il distacco fra cittadini liberi e schiavi.   6. — Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse  ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di  Appio Claudio Cieco, che, censore nel 312 e console nel  307 e nel 296 a. C, fu indubbiamente uno dei personaggi  storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei  primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene, che il  giudizio di Cicerone non fosse errato parrebbero dimostrare  a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono  rimasti. E in verità la famosa sentenza «fahrum esse suae  quemque fortunae » non potrebbe esprimere meglio il fon-  damento della dottrina morale di Pitagora ; e l' altra, altis-     (1) Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ; « Manu fustive si os  fregit libero CCC, [si] servo GL poenani subito ».   (2) Magn. Mar. I, 34, 1194, a. 35: « xò Si^ TotoaTov o5x èaxt  Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv xaOxóv » etc-     — 19 —   sima, come dice il Pascoli (1), se fosse certa la lezione e  r interpretazione : «amicum cum vides obliscere miserias;  inimicus sies; commentus nec libens aeque [idem tamen  teneto] »^ che il Pascoli stesso traduce: «tu dimentichi  la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico  "quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volen-  tieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia » ,  è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che  insegnava amore e fratellanza ; il terzo infine « sui quem-  que oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis  stuprique ferocia pariat » , non e certo disforme dalle pra-  tiche e dagli esercizi spirituali degli adepti al Pitagorismo,  che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del  proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori,  per dirigerle al bene.   Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè an-  che intorno all'autenticità di questo antico poema, che  sarebbe una delle prime manifestazioni letterarie di Roma,  si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso  era data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone  ha indotto per esempio il Pais (2) a pensare che si tratti  di una falsificazione posteriore, « da collegarsi con le altre  falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno  ai Romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di  Roma » . Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio  furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo,  nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lu-  cania^ che ragione c'è per negare che egli abbia potuto  conoscere quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per     (1) Lyra romana, Livorno, 1895, p. XXXII.   (2) St. di Roma I, 2, p. 671 n.     - 20 —   il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fon-  damento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un  Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attri-  buirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais  riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercitò  sopra gli uomini di stato romani « dal tempo di Appio e  di Pirro » ? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi  non si vedrebbe neppur chiaramente la ragione, non ci  sembra dunque per nulla fondata; sì che noi possiamo  con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in con-  formità dei dati tradizionali, esercitò una qualche azione  tanto sulla più antica civiltà di Koma, a partire dal sesto  secolo a. C, quanto sui primi prodotti del pensiero e  dell' arte.     CAPITOLO SECONDO     Quinto Ennio e i snoì tempi   1. Ennio e Catone. — 2. Ennio in Roma e il circolo degli Scipioni. —  3. Il sogno degli Annali. — 4. Sua importanza per la diffusione  delle dottrine pitagoriche in Roma. — 5. L' «Epicharmus ». —  6. Ennio e il razionalismo. — 7. I libri di Numa. — 8. Culti  Bacchici e sette orfiche in Italia nel principio del sec. II a. C. —  9. Stazio Cecilie e Marco Pacuvio. — 10. I comici. — 11. Caio  Lucilio.   1. — Chi, più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma  la conoscenza delle dottrine di Pitagora fu senza dubbio  il poeta Ennio (239-169 a. C), il grande padre della cul-  tura e della letteratura romana. Nativo di Rudie, paese  fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, egli aveva  studiato in quest'ultima città, che era il centro italico, in  cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche.  Versato nel greco, nell'osco e nel latino, egli diceva scher-  zando di avere tre cuori (1). Nel 204 si trovò a militare  in Sardegna fra gli ausiliari che Taranto aveva mandato     (1) Gellio, N. a., XVIII, 17.     — 22 —   ai Romani, e quivi da Marco Porcio Catone, che era più  giovane di lui di cinque anni, fu invitato a recarsi a Roma.  Come si spiega tale invito ? Quali vincoli si stabilirono fra  questi due giovani, destinati a sì grandi cose, che si incon-  trarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Furono  vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune gran-  dezza d'animo e da comuni aspirazioni? si erano essi  già conosciuti cinque anni prima, nel 209, quando Catone  quindicenne fu in Taranto ospito del pitagorico Nearco ? (1).  Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda  scienza e il forte intelletto del Rudino dovettero certo  colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che  alle qualità pratiche del futuro uomo di stato univa le  attitudini del poeta e dell'artista, del pensatore e del filo-  sofo. In virtù della sua sapienza Ennio dovette apparire  al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le  antiche gesta della città; ed è forse per questo che Ca-  tone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria  e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dovette  suggerirgli l'idea del poema, che quegli poi realmente  scrisse, e per la composizione di esso ojffrirsi di agevolar-  gli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e  promettergli tutto il suo aiuto ; il quale, e per la condi-  zione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non ap-  parire ad Ennio prezioso e inestimabile. Al poeta d'altro  lato, piena l'anima dell'antica sapienza della sua terra, di  quella sapienza che nessuno   in somnis vidit priu' quam sam discere coepit (2)     (1) Plutarco, Gaio maior^ 4-5. — Cioeeone, Caio maior, 12, 39;  21, 78.   (2) Annalee, VII. fr. 124 (Yalmagoi).     — 23 —   dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di  illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al  tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza scono-  sciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva  sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra  di nuova civiltà alle più lontane generazioni!   2. — Venuto in Roma, Ennio vi passò quasi per intero  l'altra metà delia sua vita, dedicandosi totalmente agli  studi e alla poesia e a diffondere fra la gioventìi colta  della città l'amore del sapere. Egli chiamò intorno a sé,  a formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti  cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le  cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e  l'integrità del carattere, per la modestia della vita e d6i  costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascol-  tarlo accorsero fra gli altri Scipione Africano, Scipione  Nasica,^ Aulo Postumio Albino (1), Marco e Quinto Fulvio  Nobiliore, e con tali amicizie egli seppe vivere sempre  poverissimo e pur sempre sereno, mostrando così con l'ef-  ficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e pra-  ticate erano realmente le più atte a dare la felicità e la  pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio  Elio Stilone soleva dire che Ennio fece il ritratto di sé  medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono  il vero amico:   Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter  mensam sermonesque suos rerumque suarum  comiter inpartit, magnam cum lassus diei  partem trivisset de summis rebus regundis     (1) Fu « decemvir sacrorum » nel 173 a. C. (Livio, XLII, 10).     — 24 —   275 Consilio indù foro lato sanctoque senatu ;   quo res audacter magnas parvasque iocumque  eloqueretur cuncta [simul] malaque et bona dictu  evomeretj.si qui vellet, tutoque locaret;  quocum multa volup [et] gaudia clamque palamque,   280 ingenium quoi nulla malum sententia suadet   ut faceret facinus levis aut malus ; doctus, fidelis,  suavis homo, facundus, suo contentus, beatus,  scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum  paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas   285 quem facit et mores veteresque novosque tenentem  multorum veterum leges divomque hominumque,  prudenter qui dieta loquive tacereve posset (1).   In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente  pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e raccor  gliersi nella meditazione, che sa parlare con piacevolezza  e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non com-  mette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'a-  micizia e servizievole^ contento del suo, felice, che infine  sa molte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeti-  camente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle  in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto  ad intenderle.   E anche possibile, come osserva acutamente il Pascal (2),  che in questi versi Ennio abbia voluto altresì rappresen-  tare i suoi rapporti col grande Scipione, del quale si po-  trebbe dire assai piii convenientemente quello che Macro-  bio scrisse dell'Emiliano, che cioè fosse « vir non minus     (1) Gellio, N. a. XII, 47: « L. Aelium Stilonem dicere solitum  ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse picturamque istam  morum et ingenii ipsius Q. Enni factam esse ». I versi sono se-  condo il testo dato dal Valmaggi (= vv. 294 ss. Mìjller = fr. 194  Baehrens).   (2) Antologia latina, Milano, 1899, p. 16.     — 25 —   philosopMa quam virtute praecellens » (1); e l'ipotesi tanto  pili è accettabile se pensiamo che Scipione fu forse il mi-  gliore dei discepoli del poeta, il quale lo ebbe in tanta  considerazione da comporre intorno a lui un poemetto  — Scipio — e da fargli dire :   A Sole exoriente supra Maeotis paludes   nemo est qui factis me aequiperare queat.   Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est,   mi soli caeli maxima porta patet (2).   E Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre  che per la fama delle sue imprese, non lo scelse come  protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De  Repuhlicaf   3. — Di Ennio fu notissimo ai Romani il sogno col quale  incominciavano gli Annales e di cui ci sono rimasti ap-  pena alcuni frammenti (3) insieme con le testimonianze di  Lucrezio, di Cicerone, di Orazio, di Persio e di altri (4).     (1) In Somnium Seipionis^ I, 3.   (2) Cicerone, Tuse. V, 49; Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca poi,  nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione: « animus eius in  eaelum^ ex quo erat^ rediisse persuadeo rtiihi ».   (3) Vedili in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, 2^ ediz. 1902,  pp. 4-6; L. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. MDCCCLXXXV,  pp. 3-5, e nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, 1886. Vedi  anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, 1884,  p. 139 e seg. e lo studio del Valmaggi pubblicato nel Bollettino di  filai, classica, III, 259 e seg.   (4) Lucrezio, I, 112-126; Cicerone, Somn. Scip., I, 10; Aead, II,  16, 51; 27, 88; Orazio, Ep. II, 1, 52-54; Persio, prol. 2 sg.,  sai. VI, 10-11; Schol. in Pers. prol. 2; VI, 9; Sehol. Cruq. in  Horat., Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep. IV, 12, p. 74 Nab.; Sergio,  ad Aen.^ II, 274, ecc.     — 26 —   Questo sogno che « levò grande rumore nel mondo ro-  mano e di cui spesso si parlala, ora con serietà filosofica,  ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale » (1),  doveva essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato  sarebbe apparso sul monte Parnasso (2) il fantasma pian-  gente (3) di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno  all'ordine dell'universo (4), alle trasmigrazioni di ogni ani-  ma umana attraverso un proprio ciclo di vite (5) e alla  sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma  intermedia fra l'anima e il corpo (6) e a ricordargli le  mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte  del corpo, in un pavone (7) e rinata appunto in lui, il     (1) A. Pasdera, Il sogno di Scipione^ Torino, Loescher, 1890,  p. 4 nota.   (2) Persio, Prol. 1 3 : « Nec fonte labra prolui eaballino Nee in  bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodi-  rem », e Schol. ad V. 21 « tangit Ennium^ qui dicit se vidisse  sommando in Parnaso Homerum sibi dicent em quod eius anima  in suo esset eorpore * .   (3) La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di  gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno ?   (4) Lucrezio, I, 126 : « rerum naturam expandere dictis ».   (5) Lucrezio, I, 113 : « an contra nascentibus insinuetur (ani-  ma) » e 116 : « a?^ pecudes alias insinuet se ».   (6) Lucrezio, 1, 120-123 : « Etsi praeterea tamen esse Acherusia  tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque perma-  neant aniìnae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis  palleniia miris » .   (7) Persio, Sat. VI, 10 sg. : « Cor iubet hoc Enni, postquam  destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo ». Tertul-  liano, de an., e. 33: « pavum se meminit Homerus Ennio som-  mante » ; Hbid.^ e. 34: « perinde in pavo retunderetur Homerus,  sieut in Pythagora Euphorbus » ; cfr. eiusd. de resurrectione^ I,  G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10; Persio, YI, 9, e schol. ; Lat-  tanzio in Theb. Ili, 484.     — 27 —   discendente del re Messapo (1), il poeta rudino. Tale,  press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo  non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma  altresì per l' accenno alle ti-asformazioni e incarnazioni  dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela spiri-  tuale dei due poeti.   Che il pavone poi, importato, come sembra, nel secolo  sesto a. C. dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora,  avesse nella filosofia mistica di questo iniziato un'impor-  tanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche —  per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stel-  lato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime  umane (onde l'espressione per me simbolica del fieri pa-  vom usata da Ennio) (3), opportunamente fu scelto dal  poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'a-  nima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora.   4. — Il fatto che il grande poema storico degli Annales,  il quale ebbe da parte dei Romani un culto analogo a  quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomin-  ciava con tale sogno, ebbe grande importanza per la dif-  fusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma ;  poiché, appunto per lo studio che del poema si fece, fin     (1) Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393.   (2) MuELLER, Q. Ennius^ p. 143 sg. Cfr. Hehn, Kulturpflanxen  und Hausthiere, 2^ ediz., p. 309.   (3) Dall'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre  consimili nacque forse presso gli antichi — uno dei primi fu Seno-  fane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laer-  zio (YIT, 36) i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se  non satirica — l'opinione che Pitagora credesse nella metempsicosi  anche animale.     ~ 28 —   dal secondo secolo a. C. nelle scuole di grammatica e di  rettori ca (1) e per le pubbliche letture di esso, ancora in  uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo (2), si  dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa  e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di  Pitagora, che nel sogno si ricordava e che era poi una  delle principali di detto sistema. Difatti sono assai fre-  quenti nella letteratura posteriore — e noi le vedremo —  le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del  resto fu forse introdotta in Roma anche per altro tramite,  sia cioè per mezzo dei Misteri, nei quali si insegnavano  appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pita-  goriche, sia per mezzo della filosofia platonica e stoica,  che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore  air apparire del neo-pitagorismo, era derivata almeno in  qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche  stesse.   5. — Se nel poema di Ennio vi fossero altri accenni  alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi  e slegati frammenti che ce ne restano : ma non è impro-  babile che, a proposito di Numa, fossero non solo notate  incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa  ampiezza le somiglianze fra le sue leggi ed istituzioni e  quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per la  prima volta sarebbe stata inserita in un'opera storica e  letteraria latina la notizia desunta dalla tradizione orale an-  teriore, che il gran re avesse avuto a maestro Pitagora (3).     (1) SvETONio, de gramm. 2.   (2) Noetes Attieae, XVI, 6, 1, e XVIII, 5.   (3) MuELLBB, Q. Ennius^ p. 161 sg.     — 29 —   In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che  Ennio trattò ancora delle dottrine pitagoriche: e precisa-  mente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal  nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più  valenti seguaci della scuola italica (1). Anche in questo  lavoro poetico, il nostro scrittore finse un sogno:   Nam videbar somniare med ego esse morluum (2j   e che il poeta comico Epicarmo gli comunicasse, nelle  regioni infernali, dottrine di filosofia naturale suU 'origine  e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso  nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il  noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco:   . . . terra corpus est, et mentis ignis est (3).   Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso dello  stesso Ennio, scriveva: « animalium semen ignis qui anima  ac mens: qui caldor e caelo^ quod Mnc innumerahiles et  immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit:   istic est de sole sumptus isque totus mentis est (4).     (1) Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaest.  epich. p. 53. Yedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie  di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in Biv. di fìlol. e di istrux.  classica^ a. XLYIl, f. P, genn. 1919 pagg. 66 sgg.   (2) Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51.   (3) Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii al-  l'Eneide, YI, 724-732.   (4) De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili sg.  Sul pitagorismo del poeta v. a pag. 70. Un'altra sentenza pitago-  rica è quella che ricorda Cicerone {de divin.^ II, 62, 127) a pro-  posito dei sogni : « aliquot somnia vera^ inquit Ennius^ sed omnia  noenum necesse est ».     — 30 -™   6. — Ma oltre che alle opere letterarie, le quali, come  sì è detto, ebbero efficacia fino al secondo secolo dopo  Cristo, Ennio rivolse l'attività dell' ingegno, trasfondendovi  i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale; senza  dire poi che l'esempio della sua vita intemerata spronò  all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili  cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Egli si stu-  diò di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e  ad una concezione individuale delle cose, alla quale non  erano certo avvezzi i Romani, educati sotto una disciplina  ferrea. Abituando le loro intelligenze alle bellezze ed alle  sottigliezze della cultura greca, insegnando in privato le  dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero  le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti  ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in  se stesso, nelle profondità dell'anima, il fondamento del  proprio valore, della propria libertà e della propria feli-  cità, diede impulso a una vera rivoluzione razionalistica  nello spirito romano (1) : sì che fra quei valorosi soldati  e pratici legislatori cominciò ad essere tenuta in conto la  cultura, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche  in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legit-  tima, fondata su ciò che l' uomo ha di più sostanziale e  di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito.   Non è improbabile che appunto per questo Catone, il  quale, sopra tutto e innanzi tutto, vedeva l'interesse e il  bene dello Stato, osteggiasse il movimento a cui aveva  dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A-     (1) GiussANi, Letterat. romana^ Milano, Yallardi, p. 90. Si veda  anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (To-  rino, Bocca, 1915).     - Bl -   fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé  molte ire violente e molte accuse politiche, si ritirò sde-  gnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania,  dove morì nel 183 (2).   7. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, furono  scoperti i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai  strano, venivano molto opportunamente a confermare gli  insegnamenti pitagorici di Ennio (3). La notizia della sco-  perta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio  Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio (4), narrava  come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei  lavori in un suo podere sul Gianicolo, avesse scoperta e     (1) V. Livio, XXXVIII, 54.   (2) Sull'esilio e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi  C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica^ p. 85-96.   f3) Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, Ueber  die Bueeher des Numa^ negli Atti dell' Accademia di Monaco del  1849.   (4) Nat. Eist. XIII, 84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter:  « Cassius B.em,ina^ vetustissimus auctor annalium,^ quarto eorum,  ^ibro prodidit^ Cn. Terentium, scribam agrum suum, in lanieulo  repastinantem offendisse arcani in qua Numa qui Romae regna-  vii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L. f.  Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno Numae  colliguntur anni DXXXV, et hos fuisse a charta^ maiore etiam-  num mir acuto quod tot infossi duraverunt annis. Quapropter in  re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur alii quomodo  ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat : « Lapidem  fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis quoque  versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse., propterea ar-  bitrarier tineas non tetigisse: in his libris scripta erant philoso-  phiae Pythagoricae ; eosque combustos a Q. Petilio praetore quia  philosophiae scripta essent ».     — 32 —   scavata la tomba del re Numa, che conteneva i libri di  lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di  carta s'erano perfettamente conservati ; ma, come spiegava  lo stesso Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto  che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trovò  quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dal-  l'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li  avevano rosi. I libri stessi poi contenevano scritti di filo-  sofìa pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo  bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso racconto  fece pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Fru-  gì (1), secondo il quale però detti libri erano sette di di-  ritto pontificio e altrettanti pitagorici. Quattordici erano  pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano (2) e  contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate  infine (3) essi erano invece ventiquattro, dodici pontificali  scritti in latino e dodici di filosofia scritti in greco, e non  si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in  un'arca adiacente.   Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi     (1) Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : « Hoc idem  tradii 0. Piso censorius primo commentari or um,^ sed libros septem  iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse ».   (2) Plinio l. e. = H. R. rell. I, p, 142-143 P : « Tuditanus  decimo tertio Numae decretorum fuisse » .   (3) Plinio /. e. : « libros XII fuisse ipse Varrò Humanarum  antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII potiti fi-  cales latinos^ totidem graecos praecepta philosophiae continentes » .  Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R. rell. I,  p. 240-241 P. Si noti però che il Peter crede (/. e. p. CC.) che  Livio abbia citato per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio  Pisone.     33     ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la sco-  perta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego  e di M. Bebio Panfilo (191 a. C), sia la loro pronta di-  struzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è  possibile dubitare che il fatto sia avvenuto. Senonchè la  critica pili recente si è affrettata ad affermare che essi  dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore,  fanatico delle nuove idee pitagoriche, in quegli anni ap-  punto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da  Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una  grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi  non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la  tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa  dottrina era la segretezza e il mistero ? E proprio un  pitagorico avrebbe divulgato le dottrine della sua scuola,  in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma  così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già  la tradizione ammetteva la filiazione degli istituti e delle  leggi religiose di Numa dal Pitagorismo ? Ed è poi possi-  bile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su parere  del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente  scoperti, non vi fosse alcuno in grado di comprendere una  così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che  i libri furono bruciati con la convinzione che essi fossero  realmente quelli del re sapiente (2), e perchè contenevano,     (1) V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da S. A-  gostino {De civ. dei^ YII, 34), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto  la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1,  12), di Festo (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa,  22) e del de vir. ili. 3.   (2) Livio osserva ohe questa convinzione derivò dall' opinione  diffusa che Numa fosse stato discepolo di Pitagora, opinione che   8.     34     secondo la testimonianza di Varrone^ la spiegazione degli  stituiti religiosi di Numa (cur quidque in sacris fuerlt  institutum)^ fondati, come quelli di tutte le religioni, su  ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione parti-  colare della natura.   Ora, dice assai giustamente lo Chaignet (1), questa inter-  pretazione razionale ed umana delle credenze e delle isti-  tuzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fon-  damento sovrannaturale, avrebbe certo, divulgandosi, tolta  ogni consistenza a quella religione « di stato » che, come  tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle  pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio)  esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede  cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pen-  sarono il pretore urbano e il Senato, che si affrettarono^  a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali era  filosoficamente provata ed attestata 1' origine del diritto  pontificale romano, cardine e fondamento primo dello Stato,  dall'occultismo pitagorico (2); se pure il motivo di tale di-  struzione non fu quello stesso per il quale^ come abbiamo  già veduto. Cicerone non volle troppo approfondire la ri-  cerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e  i piii antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-     egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio »  (XL, 29).   (1) Pythag. et laphilos. pytkag.^ Parigi, Didier, 1874, v. I, p. 136.   (2) È interessantissimo a questo proposito il passo di S. Ago-  stino {De eivit. dei VII, 34), il quale spiega per quali ragioni  « demoniache » Numa compose i suoi libri e poi li fece seppellire  nella sua tomba, e il Senato li fece abbruciare. Né meno interes-  sante è il capitolo seguente (35 j, in cui si parla delle arti « idro-  mantiche » e delle evocazioni di Numa.     ^ 35 —   tarco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso  e per ordine suo sepolti con lui; e ciò perchè, secondo  la massima pitagorica, non era bene affidare la conser-  vazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, an-  ziché alla sola memoria di quelli che ne erano degni. E,  forse, per questa medesima ragione i Pitagorici romani  non dovettero fare molta opposizione alla proposta di  distruggere i libri stessi, gelosi come erano delle loro  dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di  scherno e di riso, se male interpretate o fraintese (1).   8. — Nel tempo in cui Ennio si adoperò così efficace-  mente per introdurre in Roma l' antica sapienza della  Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e pe-  netravano nella grande metropoli anche i culti bacchici  e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche  per gli stretti rapporti che vi erano fra le due dottrine  segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicarono senato-  consulti (2) e si istituirono tribunali (quaestiones de Bac-  chanalibus sacrisque noeturnis extra ordinem), che ne di-     (1) Uno scrittore israelita del secolo XYII, il Sklden, nell'intro-  duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam  Hebraeorum stampata a Londra nel I6l0, volendo sostenere ch.e  ogni sapienza viene dagli Ebrei o piuttosto dalla rivelazione tre  volte rinnovata, di cui gli Ebrei erano i depositari, afferma invece  che Numa Pompilio era in segreto un adoratore del vero Dio, che  i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua  morte erano la giustificazione della sua fede e la glorificazione del  Dio d' Israele, e che appunto per questo il Senato ne ordinò la  distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di Stato.   (2) Nel 186 se ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto nel  1692 in Calabria) che ordinava, fra le altre cose: * Bacas vir ne-  quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini » .     — 36 --   mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il  violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano  pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal-  vagi culti forestieri : « contra pravìs et externis religio -  nidus captas mentes » (1). E ben vero che queste asso-  ciazioni misteriose — clandestinae conmrationes ^ come dice  Livio (2) — e questi culti sempre perseguitati dall' orto-  dossia romana venivano in parte dall' Etruria e dalla Cam-  pania, ma le ricerche giudiziarie ne fecero scoprire diversi  focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e spe-  cialmente a Taranto, che come si è già visto, era uno dei  centri d'origine del Pitagorismo (3).   Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in  tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thiirium e  che risalgono alcune al secolo lY e altre al principio del  sec. Ili a. C. (4), ci conservano l'eco di versi orfici che  sino ad ora non si conoscevano per altro che per una cita-  zione di Proclo, neo-pitagorico del quinto secolo (5): « lo     (1) Livio, XXXIX, 15.   (2) XXXIX, 9, 18, 41 ; XL, 19.   (3) Livio XXXIX, 41 : « L. Postumius praetor, cui Tarentum  provincia evenerat^ reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni  exsecutus est cura » e XL, 19 : « L. Duronio praetori^ cui pro-  vincia Apulia evenerat^ adiecta de Bacchanalibus quaestio est :  cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam priore  anno adparuerant ».   (4) Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè n. 638-642.  Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli  scavi^ 1880, p. 155 e nel Journal of Hellenic Studies III, p. 114 sg.  Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Fi-  renze 19lO.   (5) Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog "^sXCoio »  quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog     — 37 —   sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze (1) »,  grida in uno slancio di speranza l'anima che ha « subita  tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora  « implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina  dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre  divinità dell'Ade; essa si vanta di appartenere alla loro  «razza felice», e domanda ad esse che la mandino ora  nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la pa-  rola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale ! »  In questi brani poetici, dice il Gomperz, bisogna vedere  redazioni diverse d'un testo comune piti antico. Parecchie  altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, sono  state trovate nelle stesse località ; altre sono state scoperte  nell'isola di Creta (2) e datano dall'epoca romana poste-  riore: tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo  sotterraneo (3). Ora è notevole il fatto che il cap. 125 del  « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione ne-  gativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello  che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole (4).  In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama  con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza     YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, 1890, p. 87} ha  richiamato 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche  H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, 1902, p. l sg.   (1) Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri.  Y. Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris, Alcan, 1904, v, I,  pag. 141 sg.   (2) Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull.  de corr. héll. XYII, 121-124.   (3) Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism,  p. 161.   (4) Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. II, 469 sg. e Brttgsoh, Steinin-  schrift und Bibelwort. Y. anche Maspero, Hist. ancienne^ p. 191.     — 38 —   fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l' a-  nima dell' Orfico pretende di avere espiato « le azioni  inique » e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne de-  riva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le colpe che ha  saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti,  dice il Gomperz, nella storia della religione e dei costu-  mi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di que-  st'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe  rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le  comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale  non comune e che ci può persino sorprendere per la sua  squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non  ho allontanato il latte dalla bocca del lattante !... Non ho  reso il povero più povero!... Non ho trattenuto, l'operaio  ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto !... Non  sono stato negligente! Non sono stato fiacco!... Non ho  messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padro-  ne!... Non ho fatto versare lacrime a nessuno!.... » Ma  la morale che scaturisce da questa confessione non si è  contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli  atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto,  ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato  chi aveva sete, vestito chi era nudo ! Ho dato una barca  al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi !» ET anima  giusta, dopo aver subito iiyiumerevoli prove, arriva final-  mente nel coro degli dei. « La mia impurità, grida piena  di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso  l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti glo-  riosi.... » « Yoi che mi state dinanzi^ aggiunge rivolta agli  dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io  uno dei vostri ! »     — 39 -   Nessuna meraviglia quindi che gli scrittori del tempo  di Ennio, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno,  fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.   Di un grande poeta comico. Stazio Cecilio, morto nel  168, che fece parte del collegium poetarum dell'Aventino  e abitò in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano  troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del  contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però  r intimità sua col poeta di Rudie dovette esercitare un  qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della  sua arte.   Con Ennio visse pure in Roma, sino alla più tarda età,  frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote  Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi nel 220, si ritirò poi  a Taranto dopo il 140 e vi mon novantenne. Che egli  dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre  che l'esplicita dichiarazione di Pompilio :   Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit Enni^  Emiius Musar um^ Pompilius clueor^   i due frammenti del suo Ghryses^ nel primo dei quali  mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai  falsi sacerdoti, che già abbiamo notata in Ennio:   .... nam istis^ qui linguam avium intellegunt,  plusque ex alieno iecorc sapiunt^ quam ex suo,  magis audiendum quam ausoultandum eenseo (1) ;     (1) pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio  246, 9. Si confrontino i versi di Ennio : « Sed superstitiosi vates  impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut quibus egestas  imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam^  Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt », e gli     — 40 —   e nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto,  pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: v   hoc vide^ circum supraque quod complexu continet   terram....   solisque exortu capessit candorem, oecasu nigret,   id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera :   quidquid est hoe^ omnia animai^ format^ alit\ auget^ creai,   sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,   indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.     mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat (1).  Istic est is lupiter' quem dìco^ quem Or acci vocant  a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber postea,  atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer denuo,  kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi,  quia mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat.   Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^ Milano, 1899, p, 30 n.)  era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il  fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio II, 991-1005.  Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre  e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora (500-430  circa), fu peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici.   10. — Questi versi ed alcuni altri (2), se sono per sé poca  cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti  superstiti di questi primi poeti di Roma, mostrano una  certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure  ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i     altri : « Qui sui quaestus causa fìctas suscitant sententias » e  « Omnes dant consilium vànum atque ad voluptatem omnia ».   (1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Var-  HONE, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi  ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio :   (2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).     — 41 —   versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che  si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici  greci (1), nonché il suo concetto della virtìi (2), come non  pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne  sia stato r influsso — , quando leggiamo sentenze come  queste di Sesto Turpilio (morto nel 103 a. C), Tuna che  ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei de-  siderii :   Profecto ut quisque minimo contentus fuit^   ita fortunatam vitam vixit m,axime^   ut philosopki aiunt isti^ quibus quidvis sat est (3).   e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere :   Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est sapientia.  Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? (i)   E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti  di questo poeta (200 versi appena), avessero badato piìi  al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una  raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi     (1) V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le note.   (2) Pascal (p. 42) : « . . . . nam si a me regnum Fortuna atque  opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut quem-  eumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas inge-  nium infirmai bonum ? »   (3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl pkilosophi...  isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il poeta, imi-  tatore di Monandro, abbia alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo  quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo,  di cui Gellio {N. a. IV, il) potè scrivere: mediae comoediae pro-  prium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio ».   (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum.. iter.,  che forse può intendersi in senso proprio, non traslato.     — 42 —   e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugual-  mente notevoli e significativi.   Così veramente notevoli sono le sentenze di comici  ignoti citate dal Pascal (1), che certo non sarebbero fuor  di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono  motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pita-  gorismo quanto di altri sistemi posteriori:   1. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus, (2)   2. Non est beatus^ esse se qui non putat. (3)   3. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit.   4. Quod vult habet^ qui velie quod satis est potest. (4)   5. In nullum avarus bonus est^ in se pessimus. (5).   6. Ab alio expectes alteri quod feceris. (6)   7. Beneficia in volgus eum largiri institueris  perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. (7)   8. .... quid ? tu non intellegis   tantum te adimere gratiae quantum morae  adicis ? (S)     (1) pag. 68 sg.   (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta;  esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si  tratterebbe di un altro verso, che il Lachmann ricompone così :  suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita  Att. Il, 6 ed altri, di cui il Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147.   (3) pr, Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come  dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettive dello spirito o non  l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermarono ripe-  tutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer.   (4) Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la  prima sentenza di Turpilio su citata.   (5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9.   (6) pr. Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex.  Sever. 51 : « quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei Garm.  epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod feceris».   (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62:  « benef acta male locata malefacta arbitror » .   (8) pr. Seneca, de benef. II, 5, 2.     — 43 —   Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti:   1. Felicitas est quam voeant sapientiam. (1)   2. Tutare amici eausam, potis es, suscipe.  Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter.   In amici causa es, imm,o certe potior es. {2}   3. Iniuriarum remedium, est oblivio. (3)   Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una  certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non pos-  sono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera  e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della  poesia e della letteratura latina dalla greca è da credere  che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine  filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che gli  scrittori latini, massime i comici, o imitavano o traduce-  vano. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere  prettamente romane dimostra che le dottrine stesse ave-  vano un contenuto ideale — morale specialmente — con-  sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale,  sopra ogni cosa, ebbe un profondo senso del giusto, che  poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi.   11. — Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10  (180-103 a. C.) noi potremmo certo aver notizia del Pita-  gorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in  Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri  di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che si  occupasse principalmente di mettere in parodia e in deri-  sione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte-     (1) QuiNTiL. YI, 3, 97.   (2) Charis. V, p. 253 P.   (3) Seneca, epist.^ 94, 28.     — 44 — .   nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro  sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo poeta poco  o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente  libera dai pregiudizi volgari :   Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena   vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda   vera putant^ credunt signis cor inesse in ahenis (1)   sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo  frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e  nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtìi:   Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum   quis in versatnm\ quis vivimus rebus potesse,   virtus est homini seire id quod quaeque valet res ;   virtus seire homini rectum^ utile quid sit^ honestum^   quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ;   virtus^ quaerendae fène^n rei seire modumque ;   virtus^ divitiis pretium persolvere posse ;   virtus^' id dare^ quod re ipsa debètur honori ;   hostem esse atque inimicum hominum morumque malo rum,   contra defensorem hominum morumque bonorum,   magnifècare hos, his bene velle^ his vivere amicum ;   commoda praeterea patriai prima putare^   deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra. (1)     (1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13.  (1) fr. 119 del Bàhr. ■= Latt. VI, 5, 2.     CAPITOLO TERZO     Sette e scuole pitagoricbe in Roma nel I secolo a. C.     1. I Qenethliaei. — 2. P. Nigìdio Figulo e la sua scuola segreta.  3. La scuola dei Sestii.     1. — Da Sant'Agostino (1) ci è stato conservato, del-  l'opera Yarroniana De gente populi romani^ un passo per  noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt esse  in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav  Graeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL^  ut idem corpus et eadem anima j quae fuerint coniuncta  in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in coniun-  etionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano  nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano  persino il compimento nello spazio di quattrocento e qua-  ranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed  astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi^ di  caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma nel  II e I secolo a. C, col decadere dei culti ufficiali e l'in-     (l) De civitaie dei, XXII, 28.     - 46 —   filtrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dal-  l'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi  persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello  stato. Poiché, come dice il Pascal in un suo geniale e  interessante studio (1), svolgendo in particolare la dottrina  della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metem-  psicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro  particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute  nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di co-  noscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi  umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini,  dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per  mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente  svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da  rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire  di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente se-  guire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque,  aggiunge il Pascal, « un tentativo di giustificazione scien-  tifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica,  della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse  regolata dall' astro che lo aveva visto nascere » . Strani  davvero questi scienziati-filosofi che si sforzano di ribadire  con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche  le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto  bene nel loro proposito da far sentire a Favorino (li sec.  d. C.) il bisogno di abbattere con una confutazione siste-  matica il loro edifizio logico (2), ancora saldo sulle sue basi     (1) La resurrezione della carne nel mondo pagano, in Atene e  Roma del marzo 1901 e in Fatti e leggende di Roma antica, Fi-  renze, 1903 pp. 186 e segg.   (2) AULO Gellio, Noet. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente  il discorso di Favorino.     — 47 —   a più di due secoli di distanza! Io in verità non posso  acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mon-  dano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno  venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argo-  menti che il Pascal porta a sostegno della sua affermazione  mi inducono piuttosto a credere il contrario^ e cioè che  l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco-  italico-romana (1) e da, questa passasse poi al volgo per  mezzo dei responsi sibillini (2) e dei poeti che l'accolsero  e la diffusero per il popolo (3). Di più, un'altra credenza  notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci :  la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano dovesse  essere il Sole od Apollo (4) che avrebbe bruciato l'uni-  verso e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini  rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm.  I, 2) invocò perchè venisse a redimere l'umanità dal  peccato :   Tandem venias^ precamur^  ISube candentes umeros amictus  Augur Apollo.     (1) Così Cicerone ci parla nel De divin. II, 46, 97 di un' altra  scuola di astrologi per la quale 1' estensione di tempo era molto  maggiore, e cioè di 470000 anni !   (2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre-  detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ».   (3) Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI,  748-751; Ovidio, Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg.   (4) Servio nel commento al v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta  il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo :  « Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus fdistin-  guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde  lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt  Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa  ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il Lobeck, Aglao-  phamus^ pag. 791 sgg.     — 4:« — -   La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione del-  l'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabil-  mente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da  alcuno come reale ed effettiva (1) — furono dunque due  concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più  precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sap-  piamo quanta parte e che profonda significazione avesse  il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere  stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo,  e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole  attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così im-  maginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così cre-  denzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi  più elevata e razionale, a una creazione veramente intel-  lettuale e filosofica, che, passando dai dotti agli indotti,  dai sapienti agi' ignoranti,, si materializza e degenera dal-  l'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto  parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni  realistiche e concrete?   In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane  deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in  Koma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi  e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra  derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze,  aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero,  come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro po-  polare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci  del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro     (1) Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82  d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche  terapeuta od esseno.     — 49 --   dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti  col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente  in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole,  per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sa-  pienza loro tramandata attraverso tante generazioni.   2. — Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filo-  sofìa di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai  estinta come complesso di teorie e d'insegnamenti pratici  ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente,  del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e  amicissimo di Cicerone. Il quale appunto nel proemio del  Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P.  Nigidio Figulo: « Fuit vir ille cum ceteris artihus, quae  « quidem dignae libero essente ornatus omnibus^ tum acer  « investigator et diUgens earum rerum quae a natura invo-  « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico  « post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta  « est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » .   Nato forse verso il 105, già senatore nel 63, pretoro  nel 59, legato in Asia nel 52 (1), e infine esiliato da C.  Griulio Cesare, forse non soltanto, come ora vedremo, per  aver seguita la causa di Pompeo, morì in esilio nel 45 (2).     (1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia  di questa sua legazione con le parole : « qui (Nigidius), eum. me  in Gilieiatn profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex lega-  tìone ipse decedens etc. ».   (2) SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45  a. C. : « Nigidius Figulus Pythagoricus et magus in exsilio m^o-  ritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come  nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre,  il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei V, 3) parlando  di Nigidio, lo chiama « mathematicus ».   4.     — 50 -—   Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone,  e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti  dei suoi scritti (1), pure sappiamo che egli scrisse molto e  con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruse-  ria », come dice il Giussani (2), cioè oltrepassava quel limite  al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non ve-  dono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam-  MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maxi  mus rerum naturaUum indagator », e lo stesso Macrobio  [Sat. YI, 8) lo dice « ìiomo omnium bonàrum artlum di-  scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto,  lo giudicò acuto e diligente studioso dei più involuti feno-  meni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli  studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo,  quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. Sant'A-  GOSTUso lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e  mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto  mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso  SvETONio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta  come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nac-  que, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Cati-  lina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente,  essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Mgidio, cono-  sciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, affermò  che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la ter-  ra (3). Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto     (1) Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889.   (2) Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230.   (3) SvETON., Aug. 94: a quo natus est die, cuni de Catilinae co-  niuratione ageretur iti Curia et Octavius ab uxDris puerperium  serius adfuisset, nota ac vulgata est res P. Nigidium comperta     — si-  che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionb Cassio  (1. XLY, cap. T), alle elucubrazioni astrologiche di Nigi-  dio. Apuleio a sua volta (1) riferisce di aver letto in  Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte  somma di denaro, andò da Nìgidio per consultarlo e questi,  per mezzo di fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed  incantesimi (Carmine)^ ossia, coma oggi si direbbe, ipno-  tizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era  stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le  altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche  il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai  fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte  conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un  viaggio in oriente, fatto in gioventìi ? Non sappiamo, seb-  bene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella  Grecia imparò che la terra si muove con la velocità della  ruota di un vasaio (2).     morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù  num terrarum orbi natum ».   (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me ajìud Varro-  nem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum,  eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum  quingenios denarium perdidisset^ ad Nigidium consultum, venisse;  ab eo pueros cannine instinctos indicavisse^ ubi locorum defossa  esset crumena cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum  etiam denarium^ ex eo numero habere Catonem philosophum^ quem  se a pedissequo in stipem Apollinis accepisse Caio confessus est ».   (2) Ciò si desume da una nota del Gommentum a Lucano (I, 639),  dove è detto che Nigidio ebbe il soprannome di Figulo perchè « re-  gressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae  fi.guli torqueri »• Del soprannome altri davano una ragione un po'  diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così  spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo     - 52 "->   Quanto alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora  che usava una dieta assai parca (1), possiamo dire che  furono molte e di varia natura: egli scrisse di filosofia,  di astrologia e anche di filologia (2). Di lui si ricorda  un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto  dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli  dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo  accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei  penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'In-  feri e quelli degli uomini (3), cioè, probabilmente, gli spi-  riti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' oc-  cultismo medievale) ed umani. Perchè di quest'opera ci  restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il gram-  matico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius  solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theo-  logia^ Me in eommunihus litteriSy nam uterque utrumque  scripserunt » . La luce di Varrone dunque oscurò quella  di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto,  come dice lo Swoboda (4), dagli investigatori della dottrina     stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90), Gellio,  N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e S.  Agostino 1. e.   (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius : nos ìpsi ieiunìa ien-  taeulis levibus solvimus.   (2) Egli sostenne, come ci attesta Gellio N. J.., X, 4, ohe il  linguaggio è d'origine naturale e non convenzionale.   (3) Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni-  gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas se*  quens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^  alios Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos.,  inexplicable nescio quid dieens » .   (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quae-  stiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p. 25,     — 53 —   più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone,  uomo assai dotto, che visse nel terzo secolo d. C. (1). Di  Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divi-  nazione per mezzo delle viscere (2) e intorno ai sogni (3),  una Sphaera graecanica (4) e una Sphaera barbarica (5),  un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi  interamente perduti.   Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da  Gellio (N. a. XIX, 14, 8) il quale ci fa sapere precisa-  mente che mentre le opere di Varrone erano lette e co-  nosciute da tutti « Nigidianae commentationes non proinde  in vulgus exibant et obscuritas subUlitasque earum tam-  quam parum utilis derelicta est » . Dunque gli scritti di  Nigidio avevano un carattere piuttosto riservato e segreto,  erano poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E  che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-  bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata?  dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle  stesse dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla diffusione  delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo  della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva (se-  colo II d. C.) e all'infinito numero di profezie, di predi-  zioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente annunziavano  l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen-  siamo che fu questa appunto l'età nella quale, pochi de-     (1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port,  dell'anno 1877.   (2) Gellio, N. A. XVI, 6, 12.   (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm.   (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.   (5) Serv. ad Qeory. I, 19.     54     cenni dopo il Cristo apparso in oriente a dare la nuova  parola divina agli uomini, in Roma fece la sua apparizione  la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redi-  vivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'im-  peratori, non può esservi alcun dubbio : se Figulo fu  costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici  le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze  nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ebbe molte  noie) ; se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, come or ora  vedremo, i Sestii, che furono ugualmente perseguitati; le  vecchie dottrine di Pitagora andarono tuttavia sempre più  diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà  di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono final-  mente abbandonare in gran parte la segretezza e il mi-  stero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui  si servivano prima.   Lucano nella sua Farsaglia (I, 639 seg.) riferisce una  oscura predizione di Nigidio, che^ com'egli dice, si studiò  di conoscere gli dei e i segreti del cielo e in queste co-  noscenze astrologiche fu superiore ai sapienti dell'Egizia  Menfi :   At Figulus, cui cura deos secret ac/ue caeli  nosse fuit^ quem non stellarum Aegyptia Memphis  acquar et visu numerisque moventibus astra^  aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum  mundus et incerto discurrunt sidera motu :  aut, si fata 7novent, orbi generique paratur  humano matura -lues   Egli predisse dunque alla terra e agli uomini un vicino  flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con  lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente  pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di     — 55 —   semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi  migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del  mondo, su cui l'aquila di Roma andava stendendo e allar-  gando sempre più le sue ali insanguinate, erano assai tristi;  ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise  talvolta e troppo vicine alla manifestazione del Cristiane-  simo, per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa  senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabil-  mente certa.   Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di  Cicerone, con Nigidio Figulo si iniziò in Roma un vero  e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora  in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'an-  tica disciplina italica.   Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali  non solamente accennano a una vera e propria scuola, a  un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in modo,  che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio  stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse  tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato  amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo  di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè vagliarle trop-  po, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori  dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli  scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio (1)  queste notevolissime notizie : « Fuit autem illis temporibus  « Wigidius quidam^ vir doctrina et eruditione studiorum  « praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec  « ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iacti-  « tabatnr, qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari     (1) V. tomo V, part. 2, p. 317 delI'Orelli.     56     «vellent», e altrove (1) si dice di un tale che € ablit  « in sodalicium sacrile^ii Nigidiani » . In casa sua dunqae  Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai  misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedi-  cavano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlata-  neria di quel Yatinio, che, volendo farsi credere pitagorico  e dottissimo, faceva evocazioni di morti e si abbandonava  a nefandità d'ogni genere (2). E questi convegni finirono  col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi  furono degli ohtrectatoreSy i quali andavano sussurrando  qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega;  le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto mi-  nore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi,  furono forse un ottimo pretesto per legittimare l'allonta-  namento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra  repubblicana. Che poi il tentativo di Nigidio avesse un  carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico-  stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza  sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova  felicità umana, è cosa più che probabile, ma non certis-  sima (3). E così il sapientissimo mago, il maestro pitago-     (1) PsEUD. CicER. in Sali. resp. 5, 14.   (2) « Tu qui te Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni  nomen tuis immanibus et barbar is moribus praetendere.... cum  inaudita ac nefaria saera susceperis^ eum infernrum animas eli-  cere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas » Cicesone,  in Vatinium 6, 14. Dal che si può vedere, sia detto incidental-  mente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna!   (3) V. quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii il Pascal :  Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica (Riv. d'I-  talia, gennaio 1902. p. 98, poi nel voi. Fatti e leggende, Firenze,  Le Monnier, 1903).     — 57 —   rico, il matematico P. Nigidio morì nell'esilio, nel tempo  stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di otte-  nerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma doveva  essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacri-  lego Figulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e  quelli ch'egli avea più cari ne parlassero con ammirazione  e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lasciò troppo  commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che  in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica  (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello  Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte  agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.  Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente con-  servataci, nella quale Cicerone, dando notizia all' esiliato  delle pratiche ch'egli faceva indirettamente presso Cesare  e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a otte-  nergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera  espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero  che la riferissimo per intero (1). Basti accennare tut-  tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni  omnium doctissimo et sanctissimo et maxima quondam  gratta » e suo amicissimo, e che accingendosi a conso-     (1) È la lettera 13* del quarto libro Ad familiares, dell'anno 46  a. C. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere pri-  mum ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum ad salutem  tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' a-  micizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo  ritorno ; poiché in realtà il povero filosofo fu lasciato morire in  esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — « familiares  eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt,  mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit eodem  vulgi voluntas vel potius consensus omnium » !     — 58 —   larlo crede opportuno di premettere : « at ea quidem fa^  cultas vel tui vel alterius consolandi in te summa est^ si  umquam in ullo fuit » ; cosicché « eam partem^ quae ab  exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non  attingam: tibi totani relinquam »; e concliiudendo termina  col pregarlo « animo ut maximo sis nec ea solum memi-  neris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed illa etiam,  quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges^ et  sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt,  sapienter feres. Sed haec tu melius vel optime omnium » .  Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole  si ricordano i versi citati della Farsaglia, e se si pensa  ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente  ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, pos-  siamo formarci un'idea approssimativa del genere di dot-  trina e di conoscenze che ebbe e di cui si fece maestro:  il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divina-  zione (quella che oggi si direbbe chiaroveggenza) in tutte  le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in  un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che  fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di  tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a  poco a poco caddero nell'oblio.   3. — E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi  seguaci? Probabilmente non si dispersero e continuarono  a riunirsi; tanto piìi che non mancava certo fra loro chi  potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la  sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo,  ci fu in Roma un'altra setta, ch'io non dubito punto fosse  continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi  insegnamenti: voglio alludere alla « Sextiorum nova et     — 59 —   romani rohoris seda » ^ la quale però « Inter initia sua,  quum magno impetu coepisset, extincta est » (1). Decisa-  mente i tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a  certa filosofia ! E in verità non potevano essere molti quelli  che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle  speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della  nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi di-  vertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia  di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate ! Cosicché gli  sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richia-  mare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e  più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco  duraturi.   Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le  notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma suffi-  cienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corru-  zione, come uomini desiderosi piii delle gioie del pensiero  che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della  scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini  infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto  maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio.   Del primo di essi, di nome Quinto, parla specialmente,  e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione,  il più grande dei moralisti romani, Seneca, in quelle sue  mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza  e così degne d'essere studiate e meditate più che non  siano ! In una di queste, la novantottesima, volendo egli  provare al suo alunno che spesso molti disprezzarono quei  beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli  esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il     (1) Seneca, Quaest. nat. cap. ultimo.     60     padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere  un giorno governare la cosa pubblica, rifiutò persino la  carioa di senatore, offertagli da Giulio Cesare ; poiché egli  non annetteva alcuna importanza ai pubblici onori, rite-  nendoli, come sono, troppo incerti e transitori (1). Una  rinunzia di questo genere non era certamente cosa che  tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate  ambizioni ; e tanto meno poi per ragioni filosofiche ! Ma  tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro  ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno  visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero,  che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù,  che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse libe-  ramente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di  latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza ; per la quale  fu acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,  progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desi-  derio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi (2).   Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ric-  chezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene,  ripetè quanto aveva già fatto il filosofo Democrito, il quale,  avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio,  prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive  faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon     (1) € Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut rempu-  hlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non re-  cepii; intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse ».   (2) Plutarco, « Del modo di conoscere i propri progressi nella  virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg  èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv  aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t,  dXtyow Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ».     — 61 "-   mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta real-  mente la carestia, restituì ai primi proprietarii la merce  acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe  stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto (1).   Ma che uomo era Sestio ! Che scrittore vigoroso e ardito,  e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in  cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun  vigore perchè non ne hanno ! A leggere Sestio — son pa-  role di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore,  uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti  sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato  d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la  fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi  ostacolo! Poiché egli ha questo grande merito, che, pur  mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non  ti fa disperare di raggiungerla: egli la mette bensì molto  in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conqui-  stare, sì che ammirandola tu speri (2). Quale più alta lode     (1) Plinio, Naturalts Historia^ XVIII, 68, 9- 10 : « Ferun  Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli  societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium,  praevista ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum  vìlitate propter spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum,  mirantibus qui paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant  in primis cordi esse. Atque ut apparuit causa, et ingens divitia-  rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum, poe-  nitentiae, contentwm ita probasse opes sibi in facili, quum vellet,  fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus Atkenis  fecit eadem ratione ».   (2) Seneca, Epistola LXIY: « Lectus est deinde liber Quinti  Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et, licet neget.  Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc  non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta clarum     — 62 —   per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da  Seneca ?   E i suoi insegnamenti poi quanto erano sentiti e pro-  fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu persua-  dere un uomo della bruttezza dell'ira ? egli ammaestrava:  portalo, mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che  vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a  quel modo anche l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed  agitata ne sarebbe atterrito (1). Della onestà e della virtù  egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo     habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu-  tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni  legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est,  dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione  mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro-  vocare, libet exelamare : Quid eessas, Fortuna? congredere! para-  tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiaiuT,  ubi virtutem suam ostendat,   Spumantemque davi pecora inter inertia votis  Optai aprum, aut fulvum descendere monte leonem.   Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia exereear.  Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet Ubi  beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet. Seies  illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn virtus  tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres » .   (1) Seneca, De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait  Sextius^ iratis profuit aspexisse speculum; perturbavit illos tanta  mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se,  et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa  reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere pos-  set., intuentes nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et  distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per  ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis : quid si nudus o-  stenderetur ? et e.     — 68 -   onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che  per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto  il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice  quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi  la felicità umana e la divina differenza se non di durata.  Ond'è che egji potè veramente additare ai volonterosi il  bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta  alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for-  tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di  popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa,  persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi  la mano. . . . (1).     (1) Seneca, Epistola LXXIII: « Solebat Sextìus dicere^ « lovem  plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae '  praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-  cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re-  gendi gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque  navigium est. lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus  est. Sapiens nihilo se minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio  breviore clauduntur. Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui  senior decessiti non est beatior <?o, euius intra pauciores annos  terminata virtus est : sìe Deus non vincit sapiente ut felicitate^  etiam, si vincit aetate. Non est virtus maior^ quae longior. lupi-  ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum hie  unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est: sapiens tam  aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et hoc  se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens non  vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et  clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,  secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;  admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem  ad deos ire? Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in  hom.'ines venit. Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo-  ribus kumanis divina dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.^     64     Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero susci-  tatrice di virtù, era la nota caratteristica degli scritti di  Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofava scrivendo  in greco con gravità romana, e che paragonava l'uomo  sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo,  a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e  pronto alla battaglia (1).   Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per  esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio (2),   simìlia origini prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur-  gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne-  cat, ac deinde creai purganienta prò frugihus » .   (1) Seneca, Epistola LIX : « Sextium ecce quam maxiìne lego^  virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus philosophantem.  Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exercitum^  ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^  inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique expan-  dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia  sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod in  exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^  ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae,  ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ;  hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim  saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque illi iter, quod  suspeetissimum fuit. Nihil siultitia pacatum habet ; tam superne  UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur  pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^ et ipsis  terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus  est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si ignomi-  nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus et  contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante  diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati  sumus, sed infecti ».   (2) Nel De illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che « ad  Q. Sextii philosophi sectam transiisse dicitur ^ . Alcuni codici  però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.     -- 65 -   questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli  col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua  vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sor-  gere quella « romani rohoris seda » , di cui abbiamo fatto  già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia dei  seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria,  che fu maestro anche di Seneca (1), Cornelio Gelso (2),     (1) Dì lui parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24.  Vedi anche Gellio, èi. A., I, 8. Nella interessante epistola 108^  Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice come oltre al-  l'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai fun-  ghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri,  aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e  ciò per gli insegnamenti di Soxione^ che dimostrava la inutilità e  i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pi-  tagora e di Sestio, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per in-  tero il passo di Seneca, che suona così : « Quonìam coepi Ubi ex-  ponere quantum maior impetu ad philosophiam iuvenis aeeesse-  rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi amorem  Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus ab-  siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^ sed   uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-   posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,  aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse  quam dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut  aqua m,ersis illum quondam hominis animum morari? Non cre-  dis nihil perire in hoc mundo, sed anulare regionem? nec tantum  caelestia per eertos circuitus verti, sed ammalia quoque per vices  ire., et animos per orbem agi ? Magtii ista crediderunt viri. Ita-  que iudicium quidetn tuum sustine: ceterum omnia tibi integra  serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innoeentia est.,  si falsa frugalUas est. Quod istic credulitatis tuae àamnum est ?  Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio. His instinstus abstinere  animalibus coepi., et anno peracio non tantum facilis erat m,ihi  consuetudo., sed dulcis... »   (2) Quintiliano, Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa  Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine cultu ae nitore ».     — 66 —   Papirio Fabiano (1), Moderato di Cadice (2) ed altri.   I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due: il primo  quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al  tempo di Augusto e anche di Cesare, se, come dice Se-  neca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante » (3), e avrebbe  pure, secondo il surriferito passo di Plinio (4) dimorato,  non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene;  l'altro, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che pro-  seguì l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a  torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome  di Sesto pitagorico (5), della cui vita infine non sappiamo  assolutamente nulla.   Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, solitari  ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi?     (1) Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Con-  troversie^ prefaz.   (2) Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, fu famo-  so per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei nu-  meri, fu maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv.  Vili, 7) e scrisse un'opera voluminosa intorno alla dottrina pita-  gorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33 ed. Nauck; Stefano Bi-  zantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio, Vita di  Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III.   (3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico.,  che fiorì ai tempi d'Augusto, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade  195. 1 = 1 d. C). Dobbiamo dunque ritenere il nostro Sestio vis-  suto press'a poco fra il 70' a. C. e il 5 d. C.   (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10.   (5) Vedile nella collezione del Mìjllach, Fragmenta philosopho-  rum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e  voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di  esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.),  anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie  der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg 1880), pp. 679 e 681 nota.     67     Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se,  come riferisce Claudiano Mamerte (1) spiegarono che l'a-  nima è « una certa forza incorporea, ilìocale e inafferra-  « bile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene  « il corpo » . Ma questo evidentemente è troppo poco per  determinare a che scuola essi appartennero. E ben vero  che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epi-  stola LXIY) che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio  era uno stoico; ma quel « volere o no » ci fa compren-  dere che in realtà Sestio non si professava stoico. E infatti  qualche altra testimonianza lo dice pitagorico (2), e tale lo  proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimo-  strate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune  abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni  giorno l'esame di coscienza (3) e quella di astenersi dai  cibi carnei (4), l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei  seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima  è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora,     (1) De statu anirnae, II, 8 : « ... Eomanos etiam^ eosdemque  philosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater^ Sextius fìlius  propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati  sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft . Incor-  poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque indeprehensa  vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et continet-» .   (2) Y. pag. preced., nota 3. .   (3) Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc  Sextius ut consuniTnato die^ quum se ad noeturnam qutetem. re-  cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum  sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? » .   (4) A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca riportata  nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Orige-  ne, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che  suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più  conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non  già del nostro Sestio.     — es-  cori la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che  ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno  astrusi : « gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri  «alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci  « si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della  «carne; si deve dunque ridurre al minimo ciò che può  « alimentar la lussuria » e concludeva dicendo che « la  « varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per  « i nostri corpi » (1).   Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii  non furono ne stoici ne pitagorici, ma ebbero un proprio  sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di  elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non fu ne  inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici del-  l'ultima maniera) né materialista (come l'epicureo), sibbene  avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara  luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su  opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo insomma,  che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'o-  ziosa occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria  forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò ap-  punto destinato a raccogliere pochi seguaci e a vivere per  tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di cor-  ruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la  grande Roma nel trapasso dalla repubblica all'Impero.     (1) Seneca, Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimen-  torum eitra sanguinem esse eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi-  nem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta laceratio. Adiciebat  contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat bonae valetudini  contraria esse alimenta varia et nostris aliena eorporibus ».     CAPITOLO QUARTO     Pitagora e le sue dottrine negli scrittori latini  del primo secolo avanti Cristo.   I.  Lncrezio e il poema « Della Natura »   1. Lucrezio e il poema Della Natura. — 2. Epicuro contro Pitagora  a proposito di immortalità dell'anima e di metempsicosi. — 3. Ac-  cenni alla metempsicosi nel proemio del primo canto. Il sogno di  Ennio. — 4. Polemiche intorno all'anima nel terzo canto: la dot-  trina dell' anima-armonia. — 5. Argomenti epicurei contro la  preesistenza dell'anima e la metempsicosi. — 6. Insussistenza del  timore della morte nell'ipotesi della reincarnazione. — Riassunto  e conclusione.     1. — Poiché si è visto come, dopo Nigidio, i Sestii cerca-  rono di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non  sarà certo inutile indagare quali tracce esso aveva lasciato di  sé nella letteratura romana del primo secolo avanti Cristo,  siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o sem-  plici notizie incidentali : così infatti potremo non solo farci  un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel     — 70 —   tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chia-  rirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in  luce gli aspetti più notevoli.   Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze  religiose e i più diversi sistemi di filosofìa affluendo in  Koma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia  e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per vicendevole  influsso e preparando cosf il terreno che doveva di lì a  non molto accogliere e far germogliare il seme della nuova  fede cristiana, non è facile sceverare e seguire uno per  uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che,  come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo  avuto larga diffusione e gran numero di seguaci, trasmi-  sero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche  posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci per-  metterà almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori  latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa espli-  cita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei  luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine  e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per  concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di  Samo.   Incominceremo pertanto dal poema di Lucrezio, che  fu, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elabora-  zione poetica in lingua latina di un sistema filosofico greco,  e precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi  di esporre in versi dottrine di filosofi greci erano bensì  stati fatti da Appio Claudio, da Ennio, da qualche altro,  ma per brevi trattazioni ; sì che Lucrezio — pur conscio  della grandezza del cantore degli Annales — potè ben affer-  mare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare  di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e del-     71     r Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla  profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, le  speculazioni dei Greci.   Il poema Della Natura infatti non solo espone con  ordine sistematico la complessa dottrina di Epicuro intor-  no air essere delle cose in generale, all' infinità dell'uni-  verso, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, com-  posizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensa-  zioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo  e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni  meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano  piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,  le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e  combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni pos-  sibili degli avversari.   Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora  su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e  distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che  noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica,  per vedere se e quanto in essa il poeta — e prima di lui  Epicuro — abbia tenuto conto delle dottrine di Pitagora.   2. — Ora, su due punti essenzialmente il poeta discute  e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal  suo : sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a  proposito della prima combatte e confuta esplicitamente,  nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo  di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né  qui ne in altra parte dei poema; ma ciò non toglie che  un attento esame del poema stesso non ci permetta di  scoprire dove e quando, pur senza dirlo, il poeta pensi  a combattere i principii della filosofia pitagorica,     — 72 —   È ben nota, in verità, la disistima che Epicuro ebbe  per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci esclu-  dere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì,  per un sistema che aveva studiato e rappresentato sotto  l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche ma-  tematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però pos-  siamo escludere a priori soltanto questo: che Epicuro te-  nesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola  italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo stu-  dio del poema di Lucrezio conferma senz' altro questa  induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica  dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e lo  svolgimento dei principii epicurei intorno al mondo e alla  materia, e la teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi ac-  cenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche.   Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero  e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima  e dei), e quanto all'anima, pur considerando anche di  questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano so-  prattutto il concetto della sua eternità : non mai nata,  perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immor-  tale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (me-  tempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di  Pitagora dovette pure essere tenuta in qualche conside-  razione da Epicuro, se scopo fondamentale della sua spe-  culazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce  r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello  degli dei, e se, per vincere il primo, difese con tutte le  armi della logica il principio della materialità e della  mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran parte  alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le specu-  lazioni stoiche intorno alla origine divina e all'immortali-     73     tà dell' anima ? E la filosofia pitagorica non si uniformava  forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate su-  perstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffu-se  credenze religiose degli uomini ?   Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione  teorica dei suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, ac-  cettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1' appli  cazione al mondo fisico, V estendesse, come fece realmente,  al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d' un  aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza  della mortalità dell' anima o, più precisamente, del ne-  cessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo.  Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat-  tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui,  dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e  dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo,  l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre-  denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione,  dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da  poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava  ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi  corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter-  rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsi-  cosi. E per di più questa credenza, anche nei termini  strettamente epicurei, poteva in un certo senso (come ve-  dremo) apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità  del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli  atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile  il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ri-  creasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima ani-  ma. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende  ohe Epicuro o i suoi seguaci dovessero esaminarla anche     — 74 —   al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne  le loro conseguenze in rapporto alle due questioni del-  l'eternità dell'anima e del timore della morte.   Tanto ciò è vero, che Lucrezio svolge appunto in mo-  do ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione  polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima  e la vanità del temere la morte.   3. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte  del poema che si riallaccia così strettamente con la dot-  trina pitagorica, è necessario premettere che già al prin-  cipio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proe-  mio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia  della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze  e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale  che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema  epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dall' animo  umano il timore della morte.   E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che  ad esso si collega del famoso sogno di Ennio, ha pure  importanza per il nostro tema.   Per rassicurare infatti Memmio — al quale il poema è  dedicato — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina  epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lu-  crezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli  uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio  d* Ifigenia in Aulide (vv. 80-101). E poi soggiunge che,  vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner  sempre quell' altro timore, che è alimentato dalle spaven-  tose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e  da apparizioni, e trova la sua ragion d' essere nell' igno-  ranza umana intorno alla vera natura dell' anima (vv. 102-     — 75 —   126). Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme  con la natura delle cose celesti, degli dei e della mate-  ria — anche il problema dell' essenza dell' anima e della  natura dei sogni e delle visioni (vv. 127-135).   E precisamente nei versi 112-126 si accenna in par-  ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e  intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:   112 Ignoratur enim quae sii natura animai,   nata sit^ an cantra nascentihus insinuetur^  et simul intereat nobiscum morte dir empia,   115 an tenehras Orci visat vastasque lacunas^  an pecudes alias divinitus insinuet se,  Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno  detulit ex Helicone perenni fronde coronam,  per gentis Italas kominuìu quae darà clueret\   120 etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia  Ennius aeternis exponit versibus edens^  quo ncque permanent (1) animae ncque corpora nostra^  sed quaedam simulacra modis pallentia miris;  unde sibi exortam semper fiorentis Homeri   125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas  coepisse et rerum naturam expandere diciis (2).   Quanto all' origine dell' anima, Epicuro sosteneva che  essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata  già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra     (1) Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta  dal GoBEL (permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più  ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so ve-  dere in qual modo tale correzione urti, come dice il Giussani, con-  tro il senso di permanare.   (2) In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi  attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum na-  tura, Torino, Loescher, 1896-1898;.     — 76 ~   nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava  al morire del corpo le opinioni invece erano tre: l'epicu-  rea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi  corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la  popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne [te-  nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che  passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pe-  cudes alias divinitus insinuet se ). Le due ultime però  non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap-  punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur  esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza  dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen-  deva non già l'anima (questa passava — subito? — in  altri corpi), ma un' ombra, come a dire un doppio, del-  l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisa-  mente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno —  doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a-  mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose.   E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina  psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri  filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di  Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e  lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della  metempsicosi (1).   4. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che  fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire  della concezione dell' anima- armonia?     (1) La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lu-  crezio compose verosimilmente questa parte del proemio del primo  libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito  la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5).     - 77 —   È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac-  cingersi a determinare la natura materiale - atomica del-  l' anima nelle sue due distinzioni dì animus od anima.,  confuta una dottrina • — certo ancor diffusa ai suoi gior-  ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne-  gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea,  ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe-  cie di armonia delle funzioni organiche :   98 sensum aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^   vermn habitum quendam vitalem corporis esse^   100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat nus  vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens :  ut bona saepe valetudo eum dicitur esse  corporis, et non est tamen haec pars ulta valentis,  sic animi sensum non certa parte reponunt.   Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot-  trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era  tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne-  cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe-  cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato  e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale  concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli     (1) Platone, Fedone^ e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del-  Vanima^ I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e  difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e  DiCEARCo di Messina (Cicerone, ibidem^ I, 20).   (2) La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea  (DioG. Laerzio IX, 29): ma che debba riconoscersi anche come  propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo  Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi  la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate pitagoreo  la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).     — 78 —   qui da T ucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel  dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso  si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro  della metempsicosi, ossia con il concetto della preesistenza  e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana dun-  que dei versi 131-135:   ... recide harmoniai  fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi  — sive aliunde ipsi porro traxere et in illam  trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat -  quid quid id est habeant. .   — come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era-  no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro  quella interpretazione e limitazione materialistica di essa,  per cui r anima era ridotta a semplice funzione del corpo.  Ed è ben naturale che — così limitata e interpretata — la  combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i  materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la  negazione della essenza individuale e quindi della immor-  talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten-  za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-  riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre  tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u-  mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di     (1) Per Epicuro 1' anima è bensì nativa e mortale, ma è però,  fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte  dell' essere umano — ne più ne meno di quel che ne siano parte  le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) — e localizzata  nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re-  cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel-  lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia veniva a  cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle im-     — 79 —   accingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu-  tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una  sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi  a negarne 1' esistenza (1).   5. Dimostrata la materialità dell'animo (vv. 94-416), Lu-  crezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della  sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat-  tono il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già  del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree-  sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità  delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766,  774-781).   Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi,  e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi.   Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina  della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-  stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli  Stoici; e inoltre, come ho già osservato più volte, tale  dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre-  denza largamente diffusa nelle leggende popolari, nella  poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-     magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste  vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma non  produce essa stessa.   (1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice  appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nihil  esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^ frustraque  ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse animum  vel animam nec in bestia ■» {Ttcsc.^ I, 21), e più esplicitamente  più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum  omnino animum esse dixerunt ».     — 80 —   segnamenti religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che  gli argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si-  curezza — non sono esclusivamente contro i Pitagorici.  Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra  il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo-  gliono, dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede  veste filosofica, e su di essa fondò 41 suo sistema dottri-  nario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli  altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta  epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia  ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica.  Gli argomenti che Lucrezio adduce contro 1' opinione  della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro  successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi —  dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat-  tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore  della morte.   a) Il primo argomento (vv. 668-676) è desunto dalla  mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore  alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta  e quindi è entrata nel corpo al momento della nascita (2),  perche non siamo assolutamente in grado di ricordarci  del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-     (1) C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale  ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti-  colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in-  controvertibile esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun  uomo — Platone deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza  dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone  ì capitoli l8-22ì.   2) E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato  nel verso 113 del proemio al primo canto.     — 81 —   membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima  ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà  di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non  differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere  che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo  in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).  Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della  memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le-  gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice  soltanto che — dato pure che potesse essere material-  mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del  passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità  (personalità infatti non è altro che persistere di una me-  desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per  diventare un'altra.   Praeterea si immortalis natura animai  constai et in corpus nascentibus insinuatur,   670 cur super ante actam aetatem meminisse nequimus   nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ?  nani si tanto operest animi mutata potestas,  omnis ut actarum exciderit retinentia rerum,  non, ut opinor, id a lete iam longiter errai;   675 quajjropter fateare necessest quae fuii ante   interasse, et quae nune est nunc esse creaiam.   Insomma in questi versi non si nega la possibilità che  siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-  ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-     fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come  vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice  cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan-  do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo.     — 82 —   stere in eterno della coscienza, che, per Epicuro, deriva  dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima.   D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del-  l'anima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo  alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa —  che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra  immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa  col corpo, vivere a sé come in una prigione. Ora, poiché  avviene proprio il contrario — ■ e cioè 1' anima é diffusa  per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-  sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é  entrata in esso perfetta, e che, partecipando delle vicende  del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am-  messo pure che, • perfetta e in sé raccolta all'atto di en-  trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua parte  appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e  dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a  un morire per rinascere tosto altra da quella di prima  (vv. 677-710).   b) Un altro argomento pare al poeta di poter trarre  dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere  in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è costitui-  ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani-  ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa, potendo  frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette-  re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi  si incarnino anime preesistenti; nel qual caso, lasciando  pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove  una è partita, o esse stesse si formano il proprio corpo  dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en-  trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,  piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontanea-     - 83 —   mente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces-  sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il  ragionamento fatto precedentemente che un' anima non  può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già  formato senza snaturarsi (vv. 711-738).   720 quod si forte animus extrinsecus insinuari   vermibus et privas in corpora posse venire  eredis, nec reputas cur milia multa animarum  conveniant unde una recesserit, hoc tamen est ut  quaerendum, videatur et in discrimen agendum,   725 utrum tandem animae venentur semina quaeque   vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint,  an quasi corporibus perfectis insinuentur .  at neque cur faciant ipsae quareve laborent  dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,   730 sollicitae volitant morbis alguque fameque :   corpus enim magis his vitiis adfine laborat,  et mala multa animus contage fungitur eius.  sed tamen his esto quamvis facere utile corpus  cui subeant: at qua possint via nulla videtur.   735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus,   nec tamen est uiqui perfectis insinuentur  corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse  conexae, neque consensus contagia fient.   c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem-  psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregrinazioni,  un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o  quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per  modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e  colombe feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole  specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei  caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi,  questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe  molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mu-     — 84 —   tando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non  rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore  per rinascere un'altra (vv. 789-751):   Dejiiqiie cur acris violentia triste leonum  740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga cervi»   a patribus datur et patribus pavor incitai artus^  et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris  ex ineunte aevo, generascunt ingenìoque,  si non, certa suo quia serrane seminioque  745 vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ?   quod si immortalis foret et mutare soler et  corpora, permixtis anirnantes moribus essent,  eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe  cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras  750 aeris accipiter fugiens veniente columba,   desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum.  illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt  immortalem animam mutato corpore flecti :  quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo.   Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo  entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima  umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi-  ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di     (1) Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni  deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini  della specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui-  scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu-  crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può  dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira,  sono errate per confusione della metempsicosi pitagorica con  quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono  spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al passaggio dell'ani-  ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la  testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fa-     — 85 —   saggia che era, diventare sciocca, dal momento che non  s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu-  ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men-  te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora  dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in  tal modo la vita e il sentimento di prima (vv. 758-766):   Sin animas hominum dicent in corpora sem,per  ire humana, tamen quaerain cur e sapienti  760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus,   762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ?   scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem  confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst  765 mortalem esse animam, quoniam mutata per artus   tcmto opere amittit vitam sensumque priorem.   d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore  umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la  preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo  ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad  ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in  numero innumerevole, immortali aspettino membra mor-  tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza  riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto  che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi non  ci sia fra loro nessuna lotta violenta (vv. 774-781) :   Denique conubia ad Veneris partusque ferarum  llb esse animas praesto deridieulum esse videtur,   expeetare immortalis niortalia membra  innumero numero, ceriareque praeproperanter     cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa  anche dire d'essere divenuta un pavone (« pavone » qui significa  « cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la  dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide.     — 86 —   inter se quae prima potissimaque insinuetur ;  si non forte ita sunt animarum foedera pacta,  780 ut, quae prima volans advenerit, insinuetur   prima, neque inter se contendant virihus hilum.   6. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle cre-  denze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in  quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo-  stra la vanità del timore della morte, è formulata l' ipo-  tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede-  simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno identificata  con V analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi,  dobbiamo esaminare anche questo passo.   Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della  mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima  conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla (v. 828-  829). Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca-  duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra  non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per-  chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima  (e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia-  mo solo per l'intima unione di entrambi, non esisteremo  e quindi non sentiremo più (vv. 830-840). E giunto a  questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi,  come infatti, sembra, si fermò in una prima redazione  del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione  i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi,  tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la  suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare (1).     (1) Accetto senz' altro le conclusioni del Giussani, sì per l' in-  terpretazione dei vv. 860-867, sì per la composizione di tutto que-  sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci-  tata, voi. Ili, pp. 106-107.     — 87 —   Poiché in essa è detto anzitutto che se pura, dopo  avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di sentire,  anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi,  che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in  un'esistenza unica (vv. 841-844).   La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta staccata  dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha  detto precedentemente, che non era assolutamente ammis-  sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste,  consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame  tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato-  mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.   Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più  poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto —  come la precedente — con la dottrina epicurea ; l'ipotesi  cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del  nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso però  la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione  della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo-  tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in  questo modo :     (1) Il Giussani ha creduto invece di poter sostenere che l'ipotesi,  per quanto strana, non è però in contraddizione assoluta — in a-  stratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non  sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia  formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina  d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi-  stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal  corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori  del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata  l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio-  ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione  per absurdum.     — 88 —   845 iVec, si materiem nostram collegerit aetas   post ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est,  atque iterum nobis fuerint data lumina vitac,  pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum,  interrupta semel cum, sit repetentia nostri;   850 et nune nil ad nos de nobis attinet, ante   qui fuimus, neque iain de illis nos adficit angor,  nam cum respicias immensi temporis omne  praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai  multimodis quam sint, facile hoc adcredere possis,   855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta   haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse :  nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente :  inter enim iectast vitai pausa, vageque  deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes.   Ora a prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire  identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove  si fa pur cenno della interruzione della coscienza. Tanto  che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu-  sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che  nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la mede-  sima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente  dalla dottrina della palingenesi universale che era propria  dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si  tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si  parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi,  e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi  dell'identica anima e dell'identico corpo (nell' un caso e  neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso-  nalità), qui invece si considera il caso di una duplice     (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre-  zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei  XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III.     — 89 —   creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi,  cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden-  tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della  teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è  un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for-  mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro.   7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve-  duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi-  nioni intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma  risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di  Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa nasce e si distrug-  ge col corpo, ma ha una propria ubicazione nell'organi-  smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto,  caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-  rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade,  donde può uscire per apparire agli uomini (credenza  popolare); 4^) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma  è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia-  mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia-  mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in  modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol-  teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana);  h) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze,  ma entro i limiti della propria specie e conservando la  propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica);  e) l'anima può bensì rinascere, magari nell'identico corpo.     (1) L'ha posta con molta sottigliezza il Giussani {op. cit. pa-  gina 105-106). Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto il  Pascal nel suo scritto « Morte e resurrezione in Luerexio » pub-  blicata nella Riv. di Filologia classica dell'ottobre 1904 e ristam-  pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti.     90     senza però conservare la propria identità personale (ipo-  tesi (1) epicurea-lucreziana).   La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup-  pata, poiché vi era chi sosteneva che l' anima potesse  bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece  che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in atti-  nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se-  condo la quale non pur l' anima e il corpo umano anda-  vano soggetti a periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni-  verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico  (pitagorici, stoici e genetliaci).   Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza  nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se  anche l'anima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio  (eidolon, simulacrum) che poteva anche riuscirne (e ve-  rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima tornava  a nuova vita terrena) (Ennio).   Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo  veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi:  1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2") nella  confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel  terzo libro (vv. 668-676, 720-738, 739-757, 758-766, 774-  781); e che non debbono ritenersi affatto come riferi-  menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima-  armonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della rinascita,  come è formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro.     (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro ; che, in so-  stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l' argo-  mento per lui capitale della interruzione della coscienza anche a  coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero  potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col medesi-  mo corpo.     II.     Frammenti della dottrina di Pitagora desunti dalle opere  di Marco Terenzio Varrone.   1. M. Terenzio Varrone : suoi scritti pitagorici e sua conoscenza  del Pitagorismo. — 2. Frammenti della dottrina di Pitagora de-  sunti dalle opere di Varrone: a) La leoria dei numeri e sue ap-  plicazioni. 6) Pitagora e i due fabbri, e) La teoria degli accordi  musicali, d) La stessa applicata al corso dei pianeti: l'armonia  delle sfere e del mondo, e) Sua curiosa estensione al decorso del  puerperio, f) I numeri e la musica in relazione con le pratiche  della vita. — 3. Altri accenni alla dottrina pitagorica: i quattro  aspetti delle cose e i quattro elementi ; magia ; metempsicosi; il  divieto di mangiar fave. ~ 4. Varrone e gli altri scrittori del  primo secolo av. Cristo.     1. — Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappia-  mo con certezza che compose Marco Terenzio Varro-  ne di Rieti, il quale, nato nel 116 av. Cr. , morì quasi  nonagenario nel 27. Eruditissimo in ogni campo del sa-  pere, fu, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare  di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande bi-  blioteca, specialmente di opere latine e greche ; ciò che  gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le  sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per     — 92 -   comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati  argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, racco-  gliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e  profane della patria, e dettando pure^ a quel che ci ha  lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica in versi  {praecepta sapientiae versibus tradidit) (1). Della sua  prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere  letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano  di lui non meno di 74 opere in 620 libri — non ci re-  stano purtroppo che scarsi avanzi ( poco più di nove li-  bri ) e numerose citazioni, massime dei Santi Padri, che  da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì  che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della maggior  parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena  appena il titolo. Così dei suoi famosi Logistorici^ che era-  no in 76 libri, e contenevano discussioni di argomento  filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i ti-  toli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno  largamente di filosofia pitagorica : tali sono 1' Attico o dei  numeri (Atticus sive de nunieris) il Tuberone o dell' ori-  gine umana {Tubero seii de origine humana) il Gallo o  delle meraviglie {Gallus de admiraìidis), il libro de sae-  culis e r altro de philosophia; ma quale ne fosse preci-  samente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte,  ci è rimasta notizia d' un' opera in nove libri intorno ai  principii dei numeri (de principiis numerorum), la quale,  messa accanto sìiV Attico già citato e alla testimonianza     (1) intorno a Varrone si veda l'opera di Gaston Boissier, Etude  sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum  rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo studio  dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement-  band I Heft, Leipzig, 1898.     — 93 —   di Gellio (Notti Attiche 3,10), che riferisce come Varrone  trattò in maniera oltremodo compiuta del numero sette-  nario ( Varrò de numero septenario scripsit admodum  conquisite)^ prova che il grande reatino dovette conoscere  profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dot-  trina fondamentale dei numeri (1).   2. — È veramente un peccato che di tali opere non  resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse potuto  trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,  che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica  di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto,  vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè  avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria  stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte  nel campo delle scienze sperimentali.   a) Poiché le investigazioni matematiche dei Pitago-  rici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprie-  tà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica  e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe  applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni na-  turali.   Una delle prime e forse la più importante scoperta di  Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che,  in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo  parlare della determinazione matematica degli accordi, che  poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura,     (1) Già il Kathgeber {Orossgriechenland unti Pythagoras^ Gotha  1855, p. 423) scrisse : « Dem M. Terentius Varrò aus Reato, der  aufgeklàrt iiber Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gele-  genheit zur Erwàhnung dar ».     94     portò a molte curiose osservazioni come quelle che ri-  guardano le due diverse specie di parto (a termine e  settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica  dell' armonia delle sfere e alla concezione dell' universo  come di un tutto perfettamente armonico (kósmos).   h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa  di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli ac-  cordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era  affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Pas-  sando un giorno per istrada accanìo a due fabbri che  martellavano alternatamente un ferro sopra l' incudine,  egli fu colpito dai suoni cadenzati e armonici dei mar-  telli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente  a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel  suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo.  Ebbe così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno  al quale già da qualche tempo lavorava col pensiero, e  non si lasciò sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvici-  natosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e  nota i suoni che erano prodotti dai colpi di ciascuno.  Credendo che la loro diversità di tono dipendesse dalla  diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i mar-  telli : e si accorge che invece essa dipende da questi.  Allora volse tutta la sua attenzione a determinare con  esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fece fare altri  martelli più o meno pesanti di quei due; ma dai loro colpi  nascevano suoni diversi da quei primi e per di più non  intonati.   e) In tal modo capì che l'accordo dei suoni doveva  nascere da un determinato rapporto matematico dei pesi,  che cercò subito di calcolare; trovati che ebbe tutti i nu-  meri che corrispondevano ai pesi dai quali nascevano suo-     — 95 —   ni intonati, passò dai martelli alle corde musicali: prese  alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale gros-  sezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi  proporzionati a quelli di cui aveva fatto il computo e de-  terminato il rapporto coi martelli ; fattele risuonare per  mezzo della percussione, non solo trovò che le corde tese  da pesi uguali vibravano all'unisono al vibrare di una sola  di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente  dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di 3:4 ( 5tà  xeaaàptóv o èrul xpiTov o supe?^ tertium), di 2 : 3 (5tà Tcévxe)  e di 2:4 (5tà Traawv). Per averne poi un'altra riprova,  ripetè r esperienza con alcuni flauti, in questo modo: ne  fece preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza  diversa, il primo, poniamo, lungo 6 pollici, il secondo 8  il terzo 9 e il quarto 12 ; poi facendoli sonare a due a  due trovò che il primo e il secondo armonizzavano in  accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4); il primo e il terzo in  accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) e il primo e il quarto in  accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) (1). In tal modo egli  riuscì molto genialmente alla determinazione matematica  degli accordi, ciò che permise in seguito di estendere e  perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo con-  dusse alla scoperta non è molto dissimile da quello per  il quale il Galilei, dall'osservazione dei movimenti d'una  lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le  leggi della oscillazione del pendolo^ o da quello in virtù  del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a  scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è     (1) Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-  cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de  die natali 10,7.     96     vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre  partito dalle cose e dai fatti più semplici !   d) E una volta messosi su questa via, che mirabile  serie di investigazioni non seppe escogitare quella pro-  fonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì due  fabbri all'incudine arrivò non pure alle leggi dell'armonia  musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto  r universo ! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e  alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo  e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso  della vita e degli eventi umani — trovò che essi avevano  un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e  suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accor-  do, da formare una dolcissima armonia, non però perce-  pibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la  facoltà del nostro udito.   Calcolate infatti le distanze dalla Terra a ciascun pia-  neta in stadi italici di 625 piedi, trovò che dalla Terra  alla Luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappre-  sentava per lui r intervallo di un tono; dalla Luna a Mer-  curio (Stilbon) calcolò una distanza uguale alla metà, ossia  un semitono; di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino  al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il  Sole quindi distava, secondo lui, dalla Terra tre toni e  mezzo, formando così con essa un accordo diapente e  dalla Luna due toni e mezzo, formando un accordo diates-  sdron. Dal Sole poi a Marte (Pyrois) stimava esserci e-  guale distanza che dalla Terra alla Luna, ossia un tono;  di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitono; da  Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitono; di  qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un  mezzo tono ; e però da questo cielo al Sole poneva un     FIRMAMENTO     Orbita di     •e     Orbita di     •e     Orbita di     Orbita del     Saturno     Giove     Mabte     e-     3   Q.   o  o  II»   H  K>     •d   Wi         ■O-     SOLE     Orbita di     ■e     Orbita di     Orbita della     1     Vbnehe     Mercurio     ■e-     LUNA     ©■         •0   Wi             TJSKBà,     d>     >   3   Q.  •«  O   o  tt)      •0  u      cs  i)       >  »3  o  8  ti      •0  u        e       ^     7.     — 98 —   intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso  cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei  toni) (1).   e) Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale  che Pitagora dovesse convincersi che nell' universo tutto  è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di  fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine  e da una determinata e determinabile proporzione (2). Sic-  ché dalla musica e dall' astronomia passando, per esempio, '  alla tisiologia, trov^ava nel decórso del puerperio ancora  una riprova della regolarità matematica dei fenomeni na-  turali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fece  della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso  dei processi fisiologici, cioè alla generazione, era appunto  spiegata in una delle opere varroniane su ricordate (Tu-  bero seu de origine humana).   Queir acuto e profondo osservatore infatti avendo stu-  diato accuratamente il decorso delle due diverse specie di  parto, l'uno di sette (settimino) e Y altro di dieci mesi  lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e  274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i.  numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei  due parti, si compiono i mutamenti più importanti — del  seme in sangue, del sangue in carne, della carne in for-  ma umana — trovò che il parto settimino è in rapporto  col numero 6 e quello a termine col numero 7; non solo,  ma che i nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto nell'al-  tro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musi-  cali. Ed ecco in qual modo.     (1) Censorino, de die natali, cap. 13.   (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4, 14.     — 99 —   Nel parto di sette mesi, per i primi sei giorni dopo la  fecondazione, V umore che è contenuto nell' utero è di  aspetto lattiginoso ; nei successivi otto giorni è di aspetto  sanguigno. Il rapporto fra 6 e 8 è, come abbiamo veduto  più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd-  ron (6:8 = 3:4). Nel terzo stadio si hanno 9 giorni,  in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno  in carne : e il 9 col 6 forma il secondo accordo diapènte  (6:9 = 2: 3); finalmente nei 12 giorni seguenti si ot-  tiene il corpo già formato : e il rapporto di 12 con 6  forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). Questi  quattro numeri 6, 8, 9, 12 sommati insieme formano 35  giorni, i quali moltiplicati per 6 danno appunto il nu-  mero totale dei giorni, di durata della gestazione, ossia  210. Nel parto a termine invece, con analogo ragiona-  mento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2,  14, che sommati insieme danno 40 e una frazione; 40  moltiplicato per 7 dà 280, da cui detraendo 6 si ha 274.  Vale a dire che nel parto di dieci mesi iL mutamento  del seme in umore latteo avviene in sette giorni anziché  in sei, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo  40 giorni interi, che moltiplicati per 7 danno 280, cioè  quaranta settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo  giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei  giorni, onde ne restano 274. Tanto il 210 che il 274 so-  no veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava  speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere —  in virtii delle sue molteplici osservazioni — che tutto è  regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino     (1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad  Bmol. Vili, 75.     — 100 —   che riporta tutto questo passo Yarroniano, egli non era  qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari  209 e 273 sono bensì compiuti, ma non si compie ne il  210^ né il 274" giorno in cui il parto avviene; in con-  formità precisamente di quanto ha fatto la natura sia ri-  guardo alla durata dell' anno (365 giorni più una frazione)  che a quella del mese (29 giorni più una frazione) (1).   ;Non è il caso di entrare qui in merito al valore in-  trinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché  anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener  conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine e di  esperimento da oggi a ventisei secoli or sono, e pensare  dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei nu-  meri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pi-  tagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci.  In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-  duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano  campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma  trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os-  servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub-  biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di  aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione  dei tempi, non fu merito piccolo.   f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri-  scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale  che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica  degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi-  steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' é, per  esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda     (l) Censorino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il  passo di Gellio, Notti attiche, III, 10, 7.     - 101 -^   la particolare considerazione in cui erano tenuti i così  detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere  i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan-  do di comporre in una sola volta 216 righe o versi  (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! (1).   Ora questo è uno di quei particolari che, presi a se,  prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in  verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra-  gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo  tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ;  poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rien-  trassero nell' ambito del sistema per puro amor dell' ordi-  ne e doll'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una  certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti  della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi, di  esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi  insegnamenti del Maestro.   Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è  ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla —  quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di  Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto,  che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al  suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per  meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini (2).   3. — Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle  indagini già fatte da altri (3), ho cercato di esporre si-   (1) ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p. 104, 1.   (2) Censorino, de die natali 12, 4.   (3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha-  goreae doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae, MDCCCLXXXV)  l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae frag-  menta continens ».     stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei  numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Yarrone,  intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai  suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema.   Così Yarrone poneva 1' esistenza di Pitagora al tempo  di Tarquinio Prisco (1) e quindi implicitamente non ac-  cettava la tradizione che Numa fosse stato suo scolaro a  Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito di  essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sa-  pere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire :  già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il  futuro ; come pure accennava altrove alla sua andata a  Turio (Sibari) nella Calabria (2). E Sant' Agostino ci ha  conservato un altro passo nel quale Yarrone, da vero  romano, esprimeva la sua ammirazione perchè 1' ultima  cosa che Pitagora insegnava ai suoi discepoli, quando già  fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare  la cosa pubblica (3).   Appartiene al libro quinto dell' opera intorno alla lin-  gua latina un brano in cui Yarrone afferma che Pitagora  insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come fi-  « nito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e  « notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato  « e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove  « si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che  « vi è nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò  « che quasi tutte le cose siano quadripartite ed eterne,  « poiché ne paò mai esservi stato tempo se non prece-     (1) S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25.   (2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.   (3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54.     — 108 —   « duto da moto, — se tempo è appunto l' intervallo fra  « un moto e l' altro — ; né moto senza spazio e senza  « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove e  <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove  « e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio  « e corpo, tempo e azione » (1). Altrove ci ricorda Var-  rone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto  poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che l'esistenza de-  gli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto  principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti (2). E  parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro  elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu-  nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir-  genti, vissuto un secolo dopo (3). Non mancava neppure  nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita-     (1) Yabro, de Lingua Latina, Y, 11 : « Pythagoras Samius ait  omnium rerum initia esse hina^ ut finitum et infinitum^ honum  et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo,  status et m,otus ■: quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur  locus; dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio; quare  fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod nc-  que unquam tempus quin fuerit motus, eius enim intervallum  tempus; ncque motus ubi non locus et corpus, quod alter um est  quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non actio ihi;  igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ».   (2) Vaerò, de re rustica, 1, 3 : « Sive enim aliquod fuit prin-  cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno  Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut cre-  didii Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est hu-  manae vitae a summa memoria gradatine descendisse » . Cfr. Cen-  SORINO, de die natali, IV, 3.   (3) ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI,  724; ad Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg.  E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25.     — 104 —   gorica deir eternità dell' anima (1) e alla sua dottrina della  metempsicosi (2), a conferma della quale ricordava persi-  no le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo  Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e finalmente  Ermotimo (3). Altrove ancora Yarrone accennava alle pra-  tiche di evocazioni dei morti, che del resto erano larga-  mente usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la  rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in  un monumento cretese, scoperto da poco, che risale ai  tempo pre-omerico (1500-1400 av. Cr.) della così detta  civiltà micenea o minoica (4).   È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non  mancò di parlare del famoso divieto pitagorico di man-  giar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi  e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post-  mortale (5).     (1) Symmaghus, Ep. I, 4.   (2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello,  p. 121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; S. Ago-  stino, de cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13.   (3) Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII,  24.   (4) Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiò-  nis idem Varrò e Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et  postea Pythagoram philosophum usum fuisse commemorai ; ubi  adhihito sanguine etìam inferos perhibet sciseitari et nekyoman-  teian graeee dicit vocari » . Quanto alle rappresentazioni di scene  di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo  I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa  Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.   (5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist.  XVIII, 118, XXXV, 160.     — 106 -   4. — Tali a un di presso le notizie di contenuto pitago-  rico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità  delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui fu-  rono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali  però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita  quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si  è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie  utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'anti-  chità classica.   Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto  da Yarrone, come delle sue speculazioni e delle sue ri-  cerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco  gli scrittori contemporanei o che vissero poco dopo di lui,  così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo ri--  maste nelle opere di altri scrittori di questo tempo, po-  tremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della  dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della co-  noscenza che ne ebbero i contemporanei di Cesare e di  Augusto.     111.   Appio Olaadio Palerò - Cicerone e il « Somninm Scipionis ».   i. Appio Claudio Palerò e la seienxa augurale. — 2. Marco Tullio  Cicerone e la sua eonoscenxa del Pitagorisìno. - 3. Notixie  intorno a Pitagora e alle sue dottrine desunte dalle opere cice-  roniane. — 4. // « Sogno di Scipione % : a) Suo carattere  pitagorico e profetico; b) Contenuto e materia di esso: la via  lattea; vita e morte; il suicidio; le sfere celesti e la loro armonia;  la terra e le sue xone; la gloria terrena; anima e corpo; V im-  mortalità dell' anima.     1. — Fra gli amici di Marco Terenzio VarroDe è degno  di essere ricordato queir Appio Claudio Fulcro, del quale  sappiamo che fu augure, pretore nei 57 a. C, console  nel 54, censore, governatore della Cilicia e legato in rap-  porti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano  diverse lettere a lui indirizzate.   Convinto che la scienza augurale avesse il suo fonda-  mento non già nel desiderio o nel bisogno di giovare  anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii in-  teressi dello Stato — come la pensava l' altro grande  augure C. Claudio Marcello — ma che realmente fosse  un dono concesso dagli dei agli uomini, perchè questi     - 108 —   fossero in grado di meglio intendere la loro volontà e di  regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta pub-  blica e privata (1), era solito far sortilegi, oroscopi, evo-  cazioni di morti (2); ne più né meno di quello che, secondo  la tradizione aveva fatto in antico il re Numa (3) e di  quel che avevano fatto il filosofo Ferecide di Siro, il suo  discepolo Pitagora, e Platone (4). Questa convinzione ,  suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale  cui era dedito, dovette appunto indurre Appio a scrivere  quei suo « liber auguralis '> , forse di carattere polemico,  che dedicò all' amico Cicerone (5). lì quale fra T interpre-  tazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensavano  come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pen-  savano come Appio Claudio, ebbe un'opinione intermedia,  in questo senso : che cioè una vera e propria scienza e  arte augurale fosse già esistita in antico, ma che di essa  però non fosse più depositario, al tempo suo, il collegio  degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per  r abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era,     (1) CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio  vestro inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dis-  sensio fnam eorum ego in libros incidi), quom alteri plaeeat  auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae composita, alteri di-  sciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » .   (2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus amicus  Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ; 58,  132.   (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII, i capitoli  34 e 35.   (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17, 39.   (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone, R.  R. 3, 2f 2.     109     secondo lui, svanita (1). Dichiarazione questa, che per  essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo  di lieve momento.   Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella  ricerca di quel che fosse proprio questa ra antica, come  la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ebbe  nella vita privata e pubblica degli Elioni e degli antichi  Italici; ma questa trattazione mi porterebbe troppo lon-  tano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto  ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto sod-  disfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito (2).  Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si  esercitava in forme e modi diversi — con T osservazione  del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo  detto templum (onde trasse origine la parola contempla-  zione), con 1' esame dei visceri (cuore, polmone, fegato)  di animali sacrificati a questo scopo (hostiae consultato-  riae\ con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con  la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, ful-  mine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi  profetici - ; e che era pure praticata da Pitagora, il  quale vi annetteva anzi un particolarissimo valore, tanto  da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che     (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non est,  quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate  et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai  unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse  etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70.   (2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsen-  schììtz, Sogni e cabala nelV antichità, Berlino 1868, e del Cak-  TANi-LovATELLi, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889.   (3i CiCEBONE, de divinatione, L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè  alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,.. tribuit, qui     no     naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche  prova di virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli  ne diede infatti non poche.   2. — Altro amicissimo di Varrone fu, come è noto,  Marco Tullio Cicerone^ che visse dal 106 al 43 a. C.   Negli scritti che in gran numero ci restano di lui fre-  quentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola  e alla sua filosofia ; non però tali da farci pensare a una  elaborazione personale e originale, o all' approfondimento  di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come  fu di un eclettismo che stava fra 1 ' accademismo e lo  stoicismo dell' ultima maniera, iniziato ai misteri religiosi,  augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore  della filosofia greca, della quale si fece divulgatore fra i  Romani, creando quasi ex novo per essi, dopo il mirabile  tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore  anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di  arte, trattò dei più svariati argomenti sì metasifici che  morali, Cicerone ebbe senza dubbio una conoscenza ab-  bastanza larga dell' antica filosofia italica, l'unica forse  che avesse già avuto in Roma insigni divulgatori e se-  guaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori  come Nigidio.   È anche indubitato che molto gli giovarono per tale  conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi gre-  ci — r amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo,  e la lettura dei loro scritti, per noi perduti. Ma non per     etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed anche 45, 102 :  « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt, sed etiam  hominum, quae vocant omina ■» .     — Ili —   questo possiamo dire che i'Arpiuate avesse fatto parti-  colari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se  collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-  sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute,  si prestavano assai meno delle posteriori e piìi note filo-  sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate  artisticamente.   3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere  le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola,  dovrei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane  (libro IV, 1-4) in cui Cicerone parla delle dottrine pita-  goriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che  esse lasciarono nelle istituzioni e nelle leggi dì Roma. Ma  poiché ne ho già discusso lungamente, rimando senz'altro  i lettori al primo capitolo di questo studio.   Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che fu disce-  polo di Ferecide (1), specialmente per la sua dottrina  suir eternità dell' anima, in quanto egli insegnava 1' esi-  stenza di un' anima universale, compenetrante tutta la  natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la deriva-  zione da essa di ogni anima umana (2). E per ciò che  riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accettò la  distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone —     (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: « Pherecides  Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. .. Rane  opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ».   (2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani-  mum esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem,  ex quo nostri animi earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au-   dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse, quin   ex universa mente divina delibatos animos haberemus ».     — 112 —   dell' anima in due parti, V una ragionevole, in cui questi  filosofi ponevano la tranquillità, cioè una placida immu-  tabile costanza, e V altra irragionevole, onde traevano  origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio (1).  Per la quale credenza V uno e l'altro ammisero la pos-  sibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,  specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse  disposto opportunamente con particolare dieta e con una  meditazione preparatoria (2) ; e credettero nella divinazione,  al punto che Pitagora, come ho già ricordato, pretendeva  di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei  viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo  colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la  prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta  in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un     (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem Pytkagorae  pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum in  duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y alte-  rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy id  est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus turbi-  dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni ».  Cfr. libro I, 17, 39.   (2) De divinatione, II, 58, 119: « Pythagoras et Plato,., quo  in somnis certiora videamus, praeparatos quodam eultu atque  victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem Pythagorei  utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ».  Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule  11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,  eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con-  fronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119.   (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87.   (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio,  Proemio, 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontioo.     — 113 —   bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema (1),  della sua dimora a Crotone (2) e a Taormina in Sicilia (3),  della sua operosa vecchiezza (4) e infine della sua dimora  e della morte a Metaponto (5).   Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin-  cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello  che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone  ricorda la teoria dei numeri (7), 1' armonia del mondo e  il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii cruenti  e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza  del concetto pitagorico della vita (9), il divieto del suici-  dio (10) e infine la bella concezione dell' amicizia, vera  comunanza di spiriti e di vita (11), che diede fra gli altri  il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia (12);  oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici.     (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par cre-  dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare  una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue  un altare. E non ha torto.   (2) De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19, 3.   (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122.   (4) De senectute 7, 23.   (5) De finibus V, 2, 4.   (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo  principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio pitago-  rico di Crotone » .   (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sei-  pionis, 12 e 18.   (8) De nat. deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113.  (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19.   (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5.   (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66.  a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus, II,   24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59.   8.     — lU —   e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di  Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contem-  poranei di Platone (1).   Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo  la morte di Socrate, prima si recò in Egitto e poi in Italia  e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da  Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè  procurarsi i commentarli di Filolao (che esponevano per  iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino  allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della  segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai ce-  lebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, praticò  con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, pre-  diligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappre-  sentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la  piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità del  simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il  maestro in modo che, anche quando discuteva di morale  e di politica, si studiò di mescolarvi i numeri, la geometria  e r armonia, alla guisa di Pitagora (2). Dal quale poi     (1) De finibus, V, 29, 87.   (2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis  ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus  denique de republica disputet, numeros tamen et geometriam et  harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio :  Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem, So-  crate mortuo, primum in Aegyptum discendi causa, post in Ita-  liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret,  eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro multum,  fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo tem-  pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et hominibus  Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem uniee  dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem Socraticum     — 115 —   tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima,  aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale (1).  Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni,  superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco  il grado di conoscenza che del Pitagorismo ebbero gli  uomini colti dell'età di Cicerone.   4. — Ma vi è un' opera di questo fecondo scrittore,  anzi un frammento della sua opera "più importante, sul  quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la  nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pita-  gorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione^  così famoso e di tanta importanza per la storia della mi-  stica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che  ebbe ; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni,  da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima ana-  lisi nel quarto secolo (2), all'inglese Wynn Westcott, che     suMilìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa  flurimarum artium gravitate contexuit » .   (1) TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno-  sceret, in Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque  de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha-  goram sed rationem etiam attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 :  « Neque enim adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt,  cum corporibus simul animos interire atque omnia m>orte deieri.  Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum m>ajo-  Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae-  ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et  praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo sapien-  tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in plerisque,  sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum ex  corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~  stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur »   (2) AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom-  Quentarius ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii  EuLoan oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipio-  nis, scripta Superio y. e. cos. Provinciae Bizacenae.     — 116 —   non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione di-  cendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento  che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram-  mento dei Misteri (1).   a) Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che,  affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non  voglio con ciò asserire né che Cicerone fosse un seguace  di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee  informative del sogno stesso da scritti pitagorici : poiché  so bene che studi fatti recentemente da valentissimi cri-  tici come il Gylden (2), il Corssen (3), il Pascal (4), hanno  messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di  esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed Era-  tostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso  tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso at-  tribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra  ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo-  sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro  molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-  niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'espo-  sizione di principi filosofici già era venuta, agli albori  della letteratura romana, a un grande scrittore e poeta,  pitagorico per giunta: voglio dire Ennio, del quale si é  già veduto nel capitolo secondo.     (1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a  fragment of the Mysteries, London, 1899.   (2) Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848.   (3) De Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul. disp.  et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae, 1878.   (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di Cicerone,  nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle  Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta », Firenze,  Le Monnier, 1905.     — 117 —   Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione di  questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che  abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone,  che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno  e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella  quiete del corpo.   Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio,  partecipava contemporaneamente di tutte e tre le forme  principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo,  visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in  quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio  Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Mag-  giore, uomini venerandi, che avevano anche coperto ca-  riche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe  fatto come generale e come magistrato e la sua morte a  56 anni ; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il  sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e  più precisamente nella via lattea, — dove avrebbe poi  dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa  da Dio ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù con-  templare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa  nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som-  nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità delle cose a  lui dette dalla grande anima di Scipione non poteva essere  svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica (1).  Tanto è vero che il commento interpretativo di Macrobio  è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Re-  pubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio,  che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei  numeri e alla musica delle stelle.     (1) Macbobio, 1. I, e. 3.     — 118 -   b) Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini  che -si resero benemeriti della patria e mostrare quale  premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello  cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che  uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla Repub-  blica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narrasse agli  altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo  tribuno in Africa, fu ospite del re Massinissa, grande  amico di Scipione il Maggiore.   Uscita dal corpo durante il sonno, V anima dell' Emi-  liano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea,  dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede  le anime degli eroi, tanto prima di scendere in terra a  vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pel-  legrinaggio quaggiù (1).   Ascoltata dall' Africano la predizione delle sue imprese  e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua     (1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint,  adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi   beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores   hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-  SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti  a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è  detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle  porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli  asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Por-  firio (àe antro ISiympharum, e. 28) che il popolo dei sogni non  sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi  nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago-  rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de  faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si  indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo  che chiamavano prati dell' Ade.     - 119 —   età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri  e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei  quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto  perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli  anni la somma a lui predestinata » (1), e saputo — quasi  a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe  salito lassù, dove si trovava anche suo padre Paolo,  « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri  che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,  anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami  corporei come da un carcere siamo veramente vivi ; la  vostra, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con  intensa commozione, 1' anima del padre, chiede ad essa :  « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo in-  dugiarmi e vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli  viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto l'uni-  verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non  ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini  sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa  il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo,  originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni  e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da  menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro  con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gli uomini pii  dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e  non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data,  dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate     (1) Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume-  ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI, adducendone  partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e  le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.     — 120 —   sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio (1) » . Perciò  il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà,  perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo  fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora se-  parate dalla materia corporea, abitano la via lattea (2).  Dalla quale poi l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo  dell' universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio  globi, di cui il pili esterno, che abbraccia gli altri, è  quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso dio su-  premo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri,  cioè i cieli di Saturno, di Griove, di Marte, del Sole, di  Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta,  immobile, la Terra (3). E mentre osserva i cieli roteanti,  ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè  che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro per-  cuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi,  che insieme formano i sette accordi della lira (4) : proprio  secondo la dottrina pitagorica, che ho già chiarita nel  capitolo precedente. L' ammirazione per la grandezza e  la novità delle cose che vede e ode non fa però che  Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano     (1) Somnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute  (20, 73) dove è detto esplicitamente che questo concetto è di Pi-  tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de  praesidio et statione vitae decedere ».   (2) Somnium, 8, 16.   (3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di  un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i  sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure, se-  condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti  e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken Natur-  wissenschaft in Miiller's Handbuch V, 1.   (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I, 10, 12.     — 121 —   gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque  e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria  degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la quale  non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi  anni mondani (1). « Se tu dunque, conchiude la grande  anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a  questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo  né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli  uomini : bisogna che la virtù per sé stessa con le sue  blandizie ti tragga alla vera gloria » (2). Esaltato dallo  spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predi-  zioni, dai consigli uditi, l' Emiliano promette di adope-  rarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1' avo  lo conferma nel suo proposito dichiarandogli V immorta-  lità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo  è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma  corporea fa apparire: ciascuno é ciò che é l'anima sua,  non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che  tu sei DÌO; se divina è quella forza che anima, che sente,  che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove  questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo Dio  regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso Dio  eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così  il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno » (3).     (1) Della durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine  dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo.   (2) Somnium, 17, 25.   (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non esse  te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista  declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae  digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est  deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam     — 122 —   « Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime  sono le cure spese per il bene della patria (1); onde  l'animo che in esse si adopera e si esercita volerà piti  velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più  presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà  uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, stac-  carsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che  si abbandonano ai piaceri del corpo e si rendouo quasi  schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti  ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo  vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a  questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agi-  tazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi  concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce.     regit et tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam  kune mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadam  parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus  senipiternus movet ».   (1) Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico;  tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai  suoi discepoli quello relativo all' esercizio dei pubblici poteri. V.  S. Agostino, de ordine II, 24, 54.   (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt  autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer-  citatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit.  Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore,  eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime  se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis  voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros praebuerunt  impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et homi-  num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram ipsam  volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever-  tuntur ».     lY.  Mimi — Q. Orazio Placco — P. Virgilio Marone.   l. Riflessi pitagorici nel teatro popolare. — 2. Pitagora nella poe-  sia oraziana : fave, metempsicosi, Euforbo. — 3. Virgilio e la  filosofia. — 4. La <iuarta ecloga. — 5. Le Georgiche. — 6. La  « storia dell' anima » nel sesto libro dell' Eneide. — 7. Ragioni  artistiche di essa e suo valore per la determinazione del pensiero  filosofico virgiliano.     1. — Nel tempo del quale ci stiamo occupando non  è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i  suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del  genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un  pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' inse-  gnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè  la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle  fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel domi-  nio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel  teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che fu-  rono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione  di morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di  Cicerone (105-43 a. C.) e del quale Tertulliano ricorda  una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insom-     ~ 124 —   ma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio  secondo 1' opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo  e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione  volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili,  non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non indur-  rebbe forse anche a credere che ci si debba perciò aste-  nere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di  non comperare eventualmente del manzo di qualche suo  antenato ? » (1). Laberio dunque avrà tirato scherzosa-  mente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro  sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile  pensare che gliene abbia data occasione una situazione  comica in cui fossero in contrasto 1' ostinata cocciutag-  gine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il  commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle  carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è  forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci  rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica ; voglio dire  i noti versi di un'elegia di Senofane {contemporaneo di  Pitagora, ma un po' più giovane di lui) :   E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato,   Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò :  € Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico   r anima, che ravvisai, quando 1' ho udita guair » (2).     (1) Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si qui philosophus  adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae, hominem fieri  ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia argu-  m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et fìdem,  infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum, quis  habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »   (2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36)     — 125 —   Anche in questi versi infatti, come nel commento di  Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi an-  che animale (per una falsa estensione però, come ho già  detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ri-  dicolo.   Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer,  è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un  « dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo  ritenere che fosse la stessa metempsicosi (1). Finalmente  Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un  terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba (2),  del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso  dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e  1' astensione dalle fave (3). Né è davvero il caso di me-     e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno-  phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo-  nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc.  ciò che ha scritto lo Zeller nei Siizungsber. d. preuss. Akad.  1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che  questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al  GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota) infondati. Ed ha per-  fettamente ragione.   (1) Prisoiano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal.  Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nec pythagoream  dogmam docius ».   (2) Cicerone, ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no-  strum, quem Curio antea apotheosin vocabat, si hic factus erit,  fabam mimum futurum ? » e Seneca Apocoloc. 9 : o olim magna  res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis ». Debbo tuttavia  notare che da qualcuno si è proposto di leggere ■8-aù[jia in luogo  del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in proposito  la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.   (3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,  Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere     — 126 —   ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti  piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persua-  dere della necessità di tale astensione (1).   2. — Del resto anche Orazio (65-8 a. C.) si prese  amabilmente gioco di questi due stessi punti della dot-  trina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava  con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campa-  gna fatte di fave e di erbaggi conditi col lardo, è evi-  dente che egli — da buon epicureo — si infischiava del  precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un  po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di  Pitagora » (2).   E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare,  per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici     in azione la parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava  e r uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste,  più che opinioni del severo filosofo, furono certo stramberie di  begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e  delle suo idee, come fece Orazio, per esempio.   (1) Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di Poefirionk.   (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64:   quando faba Pythagorae cognata siwiulque  XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ?   Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter-  preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu  pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo tru-  cidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi  che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei  morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che  s' occupava di filosofia — e con lui la dottrina pitagorica della  metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione.  Qualcuno peraltro (per es. il Ritter) nega ogni allusione.     — 127 —   che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi  quasi personificati in Archytas, per opera del quale il  Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » (1). Dice  infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e  la terra e l' innumerabile arena, tiene ora fermo presso  il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla  ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo abita,  e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato  a morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur  banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra  e sollevato neir aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar-  cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio  di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta  (dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene,  con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio  di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del  tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera  morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la  pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido  mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.-  Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti  dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi)  la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-     (1) Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti, 1895, p. 163. Per  altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda  il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher,  1900, voi. I, pag. 119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso  autore Uode d' Archita. Roma, 1893.   (2) habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.     — 128 —   dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro  di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i fune-  rali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina  non ebbe mai rispetto ad alcun capo ».   E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che  tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor-  tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione  al ricordo « di Pitagora redivivo » , come lo chiama altra  volta (1), fa doli' ironia bella e buona alle spese del « fi-  gliuolo di Panto ».   3. — E Virgilio (15 ott. 70-21 sett. 19 a. C.j in qual  conto tenne le dottrine pitagoriche ? Esercitarono esse  qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio vi-  sibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per  quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci  hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che  egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che  desiderio di tutta la sua vita fu quello di potervisi de-  dicare di proposito ?   Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far  rivivere in Roma la filosofia pitagorica, è possibile pen-  sare che uno spirito come quello di Virgilio, colto, cu-  rioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche,  non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non  v' è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche     (1) In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna ancora alle  varie vite di Pitagora nel verso « nee te Pythagorae fallant  arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione al carat-  tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no-  mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e  nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52).     — 129 —   a; ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti  credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin-  Pitagorismo Torigine di molte delle più antiche  L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na-  ;e anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera  giore mirò a rappresentare in un meraviglioso  r insieme le origini e lo svolgersi della potenza  (1) e che perciò fece lunghi studi intorno alle  ) e alle antichità romane, dovette proprio in modo  re rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita-  a quale per di più aveva già ispirato anche il  Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo-  i quali fu condotta 1' Eneide. Questo mi par che  i affermare con certezza, anche indipendentemente  3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che  procediamo a questo esame — ancorché molto  rio — non solo sarà confermata a posteriori la  induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu-  )he di lui fece il Fontano, quanda lo disse esplici-  te « poeta augurale e profondo conoscitore della  la di Pitagora » (2).   ne tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese   alla prima giovinezza e fu avviato in essi da un   ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama.   r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe     (1) Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet  omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad sua  tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia  eonfusus est ordo, etc. ».   (2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » ,  come è detto in una nota al Commento di Macrobìo al Somnium  Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66.   9.     — 130 —   anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse ^ !  Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile  tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filo-  sofo. Filosofia fu in lui solo in potenza : i germi latenti  nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chia-  ramente a chi ne mediti l' opera poetica — sarebbero  certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse vissuto più a  lungo, sì che, condotta a perfezione 1' Eneide, egli avesse  potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente  maturato e più volte espresso — di poter attendere alla  poesia filosofica : così noi avremmo forse, accanto al poerna  di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del materialismo  epicureo, un poema virgiliano informato ai principi del-  l' idealismo pitagorico-stoico.   L' avviamento epicureo eh' egli ebbe da Sirone, e l'ani-  mirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-  sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale,  neir opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle  Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta  abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op-  posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e  larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria  sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga  (vv. 31 e seguenti) ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle  un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente,  col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò  che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e  della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista  fa parlare i personaggi che sono figli della sua fantasia  secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla  stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle  idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta     — 131 —   poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-  gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona  propria, in secondo luogo perchè il concetto che l' informa  tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti po-  steriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva  in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e  formato.   4. — La quarta ecloga fu composta quando il poeta  aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a.  C, allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione,  console designato per 1' anno successivo (1). Sulla inter-  pretazione di questo carene, così stranamente suggestivo,  s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno  d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai  commentatori cristiani si credette di poter vedere in que-  st' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del  Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia;  anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura  identificato col Nazareno. Non e' è da meravigliarsene,  che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal-  volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista  tal forza di significazione e un tale carattere "di univer-  salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle     (1) Oeneralraente si ritiene composta al principio del 40, anziché  alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa  sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di  anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo  Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare che  non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo  meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule del  y. 11.     . — 132 —   disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del pensiero  di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi  proprio Virgilio abbia consapevolmente profetizzato la  venuta di Cristo per conoscenza che avesse delle predi-  zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta  dai critici in senso non del tutto negativo (1).   Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo  — che si ritiene generalmente sia stato Asinio Gallo, figlio  di Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — il poeta affermava  ormai venuta 1' ultima età (quella di Apollo) predetta dal-  l' oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di  iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del consolato  di Pollione (40 a. C), una nuova serie di generazioni  umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tor-  nata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sareb-  bero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia  r età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere     (1) Il Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron,  1903) ha scritto (p. 48/ : « Non si può appunto escludere assolu-  « tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse  « in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo  « pervenuta a Eoma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare  « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli ef-  « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si  acquistò fra i Cristiani con questa ecloga, per ha quale fu sollevato  alla dignità dei profeti che predissero la venuta di Cristo, si veda  il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze, 1896, I, p. 133  e seg.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione cristiana di questa  poesia era già molto in voga presso gli scrittori del quarto secolo.  Si vedano anche i lavori di C. Pascal : Il culto rf' Apollo in Roma  nel secolo di Augusto e La questione delV Ecloga IV di Virgilio  (Torino, 1888), ristampati nel volume Commentationes vergilianae  (Palermo, R. Sandron, 1903).     — 133 —   una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jaw, nova pro-  genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, allora  nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens  ferrea » e crescere insieme con lui la « gens aurea »  e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla  terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con  loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui  delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione  necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove  spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre,  come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto  a pieno la felice pace della nuova età, della quale già  si allietavano e cielo e terra e mare.   Come si vede da questo accenno, siamo lontani le  mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa conce-  zione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì pro-  fondo entusiasmo poetico ? Pura finzione del suo spirito?  No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini pro-  metteva certo con V età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi  periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo  e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filoso-  fiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ri-  cordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico  dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei me-  desimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e  delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci).  Pensò dunque Virgilio, nel fingere che proprio col co-  minciare dell'anno 40 si iniziasse l'ultima età mondana  designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare  che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere  se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra-  sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre »     — 134 —   che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora  « sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi  di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita  universale, oppure indichino soltanto una generica legge  dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi-  cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo  quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi  simili, ma non proprio gli stessi. "Certo però che, asse-  gnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente  quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta  e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in-  dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato  e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua  arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della  palingenesi. E ancora : parlando della <^ nova progenies »,  la quale « eaelo demittitur alto » , a che cosa ebbe pre-  cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua  immaginazione come un flusso di anime emananti dal-  l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo  mondano posto sotto 1' egida di Apollo ? (1).   L' anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non  v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie  spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum  suboles, magnum lovis mcrementum » (v. 49), non par-  rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima  è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e  Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio  dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima     (1) Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen-  tatore (p, es. del Pestalozza), che si debba precisamente dare al-  l' espressione il suo senso proprio e letterale.     — 135 ~   dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an-  cora riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e  che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani-  ma di Auchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la  famosa « storia dell' anima ».   Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto  cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel-  r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante  neir artista; che questi può, indipendentemente dai pro-  cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla  visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro  il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale  com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno  ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi  nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe-  tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si  prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide  seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto,  almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,  che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc-  cessivi momenti dell' attività poetica del nostro autore.   5. — Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle  della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che  prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-  vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non  lo aveva neppure orientato definitivamente quando — dal  37 al 30 — compose le Georgiche ; poiché in queste si  osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e  di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano  immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare,  per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro (219-     ~ 136 —   227), nei quali il poeta accenna, senza ancora accettarla  come propria, ma con evidente simpatia, la concezione  panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e  degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri  viventi non è che una parte, più o meno grande, dello  spirito divino che, suscitando in mille forme la vita, per-  vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna.   His quidam signis atque kaec exempla secuti  220 esse apibus partem divinae mentis et haustus   aetherios dixere : deum namque ire per omnia,  terrasque traefusque maris eaelumque profundum.  Hine peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^  quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ;  225 seilieet hue reddi deinde ae resoluta referri   omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \  sideris in numerum atque alto succedere eaelo.   Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam...  dixere)^ fa ancora le sue riserve; ma il poeta evidente-  mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon-  dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto  che uno di questi versi mirabili (il 222) non è nuovo,  ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga  (v. 31), lega idealmente questa col passo delle Georgiche.   L' animo di Yirgilio ha dunque ondeggiato certo a  lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave-  vano combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio;  ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che  via via si vennero elaborando in lui col maturare degli  anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic-  ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide, immergendosi  tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità  romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leg-     — 137 —   genda collegava colla sacra figura del re Numa, che  aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in que-  gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do-  vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi-  larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle  poi dare anche più precisa e più degna espressione là pro-  prio dove il poema attinge la più alta romanità e acquista  nel medesimo tempo carattere di universalità.   6. -- Al principio del sesto libro dell'Eneide, che si  riteneva generalmente dagli antichi contenesse la più pro-  fonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premet-  tere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza,  nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la  parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del  canto XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplice-  mente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia,  molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi e teologi  egizi; talché parecchi hanno scritto interi trattati su cia-  scuna di tali cose che trovansi in questo libro». Di que-  sti trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno  quello, certo assai interessante dal punto di vista del  nostro tema, che scrisse Macrobio, 1' erudito grammatico  del quinto secolo ; poiché dei suoi Saturnali, che pure  ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella  parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico  dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,     (1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi dei  Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come  ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V) ; anzi, per la superiorità  della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione  di Eustazio era la prima di tutte, come appare da ciò che è detto     — 138 —   come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii ele-  menti pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del  quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnium  Scipionis (I, 6, 44) il terque quaterque beati, riconosce  neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri (1).   Non è certo il caso di andar cercando, come qualche  antico ha fatto (2), in ogni espressione, in ogni parola  di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Dante  Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse allegorie,  e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel  comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come  la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente  è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sa-  pienza dei filosofi e teologi egizi, noi fermeremo la nostra  attenzione. ♦   Enea, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso al-  l' Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte,  attraversato 1' anti-inferno o limbo (dove sono le anime  dei neonati, dei condannati a morte ingiustamente, dei  suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa  d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro     nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mu-  tilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori cri-  stiani, e si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad  accentuare il carattere profetico-cristiano di Virgilio.   (1) Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in ogni genere di  sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnntm  lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum om-  nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :  omnium diseiplinarum peritus.   (2j Per esempio Elio Donato, il quale attribuiva a Virgilio un  sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi  filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai.     — 139 —   (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti co-  loro che in qualche modo hanno violato le Jeggi umane  e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che  sono il felicissimo regno dei beati   locos laetos et amoena mrecta   630 fortunatorum nemorum sedesque heatas.   Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante,  le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti,  poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor-  rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo-  schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro  abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al  quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre  per guida. Il padre d' Enea stava in quel momento ad  osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse  nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare  alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle  che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per cono-  scerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future.   At pater Anchises penitus eonvalle virenti  680 inclusas animas superumque ad lumen ituras   lustrabat studio recolens omnemque suorum  forte recensebai numeruni carosque nepotes  fataque fortunasque virum 7noresque manusque.   Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon-  tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un  bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete  (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e  intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo-  lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sus-     — 140 —   surro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni  meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di  fiori e si addensano intorno ai candidi gigli (1). L' eroe,  stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia  quello, e che uomini quelli che si affollano così nume-  rosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le  anime alle quali è dovuto per destino un altro corpo,  bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno  in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della  vita trascorsa »:   animae, quibus altera fato  corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm  715 seeuros latices et longa oblivia potant.   Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli,  enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-  scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da  Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di  essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea  subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere  che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-  tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual  mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe-  lici ? » :   pater, anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est  720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti   corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido ?     (1) Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla pa-  lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine  (Sabbadini).     — 141 —   Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh* io ho chia-  mata la storia dell'anima :   « Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo,  la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli-  genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra  la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani-  mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che  si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a-  nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore  etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la  lue corporea e le membra terrene e periture li ottun-  dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri,  a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car-  cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto  che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la  vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né  le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle  quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono ne-  cessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo  in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e  pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui  infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-  ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo  abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando  nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione,  dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi sol-  tanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo  volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le  traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro  il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte  queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate  da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori     — 142 —   del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a  sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v.   « Principio caelum ac terras camposque liquentis  725 lucentemque globum lunae Titanìaque astra   spiritus intus alit totamque infusa per artus   mens agitai molem et magno se corpore miscet.   inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum   et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus.  730 igneus est oUis vigor et caelestis origo   seminibus, quantum non noxia corpora tardant   terrenique liebetant artus moribundaque membra.   hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras   dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco.  735 quin et supremo cum lumino vita reliquit,   non tamen omne malum miseris nec funditus omnes   corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est   multa diu concreta modis inolescere miris.   ergo exercentur poenis veterumque malorum  740 supplicia expendunt. aliae panduntur inanes   suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto   infectum elicitur scelus aut exuritur igni ;   quisque suos patimur manis ; exinde per amplum   mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus,  745 donec longa dies, perfecto temporis orbo,   concretam exemit labem purumque relinquit   aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem.   has omnis, iibi mille rotam volvere per annos,   Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno,  750 scilicet immemores supera ut convexa revisant   rursus et incipiant in corpora velie reverti ».   Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti  vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di  una teoria, nella quale è riaffermato anzitutto (vv. 725-  729) il concetto di uno spirito immanente nell' universo,  di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri     — 143 —   animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ;  cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel  quarto delle G-eorgiche, e perfettamente identico a quello  che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae-  stro di Pitagora (1). Di piti la forza spirituale, di origine  divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, e  concepita in perfetta antitesi con la materia del loro  corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe-  dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni,  delle colpe, dei traviamenti. Sicché la vita è un male  (vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o  antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-  partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come  s' è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti,  per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb-  bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione  infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, non  però eterni, che debbono subirsi per il tempo necessario  all' espiazione perfetta.   Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e  del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle  cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1' espiazione pu-  rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo di  beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che  furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena  felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché  non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai  lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom-  paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-     Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78.  (2) Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove.     — 144 —   cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi  la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis-  solversi in seno all' anima universale. Le altre invece, e  sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una  delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate  da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete  r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi.  Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo dice, se  queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ri-  torneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse-  guente espiazione negli elementi, all' Elisio, vi resteranno  tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o  se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra.  Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe  limitato ad un massimo di due — una con prevalenza  del male e una del bene — , nel secondo sarebbe inde-  finito. Ma in un modo o nell' altro la teoria della resur-  rezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo-  mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale  fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet-  tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo  di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen-  nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu-  tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte  che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba (vv. 735-  747) e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748-  751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del-  l' Orficismo e del Pitagorismo.     (1) Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio  le occupazioni a cui attendevano sulla terra.     — 145 —   7. — Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere  questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e  chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo  di emanazione delle anime dallo spirito universale avve-  nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente.  Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire ne una  volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo  delle anime individuali in seno all' anima universa, ne  sarebbe seguita in un determinato momento la scom-  parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (parche  in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il  numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo  punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il  male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in-  tervalli, r idea di tale processo d' emanazione si ricolle-  gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon-  dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema-  nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei  bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire  di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come,  dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da  qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi     (1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era  diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto  il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,  filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-  nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni  stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se-  coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre  identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e  si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto  più su (§ 4) parlando della quarta ecloga.   10.     — 146 —   unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi-  cosi anche animale (1).   Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por-  terebbero al di là di quello che Virgilio ci ha voluto o  potuto dire, come si concilia questa storia dell' anima  con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno  e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-  damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein-  feruo e le punizioni evidentemente eterne che subiscono  quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare  con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic-  ché noi siamo indotti a pensare che nella rappresentazione  virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten-  tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima  del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio —  di fondere insieme quella che era rappresentazione po-  polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta.   E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug-  gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e  d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide a  pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe  la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte,  fors' anche indipendentemente e in tempo anteriore a  quello della composizione del poema, e poi opportuna-  mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, fi-     (1) Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del-  l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma  anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che  le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che nel-  r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato  uno stato di vita intermedio fra due vite umane.     — 147 —   losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di  valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la  rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot-  trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif-  fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit-  tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi  parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse  proprio vedere in essa un brano di quel poema della  Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se-  condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse ad-  dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre  eh' esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo  prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve-  duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot-  trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi dunque la  teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto  una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto  per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre-  sentazione, ma esprimerebbe la genuina e schietta con-  cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contra^^to     (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l. VI  dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di  rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea  e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne  parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella  quale appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera  virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una  effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come  sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli  arcaismi che si trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere  un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom-  mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha  derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales.     — 148 —   a cui abbiamo accennato fra l' idealismo pitagorico-stoico  e il materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa-  mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la-  sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e  sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii  albori del pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra-  smessa di generazione in generazione da una civiltà al-  l' altra, dall' Oriente all' Occidente, custodita con cura  gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità  più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,  come già nei miti immortali di Platone, alla luce della  poesia e dell' arte.     V.  Pitagora e U sne dottrine nella poesia di Ovidio.   1. La tradizione di Numa scolaro di Pitagora in Ovidio. — 2. Na-  • tura, estensione, contenuto degli insegnamenti pitagorici secondo  il canto XV delle Metamorfosi ; vegetarianismo ; metempsicosi ;  flusso universale della materia e trasformazioni cosmiche e so-  ciali; Pitagora profeta della grandezza di Roma e d'Augusto. —  3. Ovidio e il Pitagorismo. — 4. Fonti e valore storico della  esposizione ovidiana. — 5. Conclusione.   1. — Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se-  condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco-  laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze  di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne  fa Ovidio (43 a. C. - 17 d. C.) nel quindicesimo e ultimo  canto delle Metamorfosi (vv. 1-8, 479-484). Essa ha una  importanza specialissima e merita di essere studiata sepa-  ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi-  zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se  non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la  pili organica che ci rimanga nella letteratura romana —     150     della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due  punti fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e  la metempsicosi.   Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso Romolo,  si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave  com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e  che una fama non menzognera designò all'impero Numa,  già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so-  pratutto, per la sua sapienza: che, non solo conosceva a  perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,  abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti  ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della  natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato  a Crotone :   Quaeritur interea qui tantae pondera niolis  Sustineat, tantoque queat succedere regi.  Destinai imperio elarum praenuntia veri  Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae  5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci   Goncipit, et quae sit rerum naiura requirit.  Iluius amor curae, patria Guribusque relictis,  Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem.   Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi  60-478, l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che  or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo  di che ritornò in paCria e prese le redini del governo di  Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e  le arti della pace:   Talibus atque aliis instructo pectore dictis  480 tn patriam remeasse ferunt., ultroque petitum   Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas:  Goniuge qui felix nym^pha ducibusque Gamenis     — 151 —   Sacrificos docuit ritus, gentemque feroci  Adsuetam bello pacis traduxit ad artes.   Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non  solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa^  la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita-  gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes-  sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a  Numa e l' educazione pitagorica da lui ricevuta ; per  quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria  e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap-  presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella  creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe-  riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei  dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito,  preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che  pur Cicerone aveva chiamata inveteratus hominum ei-ror;  e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi-  rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-  tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe-  ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil-  mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza  dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva (2), mas-  sime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma.     (1) Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast. Ili, 151-154) accenna  alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a   Numa dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses sen-   sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos  putat, Egeria sive monente sua ».   (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella  terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta, immagi-  nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro,  lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da  quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo  verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. :     — 152 -   2. — In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il  quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon-  taneamente la patria, mal sopportando la tirannide onde  era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia.  Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente,  per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio  celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel-  letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini»:   60 Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed fugcrat una   Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul  Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^  Mente deos adiit et quae natura nogabat  Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit.   Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi-  denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con  grande efiìcacia rappresentativa la natura del suo misti-  cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo dell'intelletto e  la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi-  sione e alla comprensione delle più alte verità.   65 Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura   In medium discenda dahat, coetusque silentum  Dictaque mirantum magni primordia mundi  Et rerum causas et, quid natura, docebat :  Quid deus, unde nives^ quae fulminis esset origo,   70 luppiter an venti discussa nube tonarent^   Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent,  Ed quodcumque latet.     At non Chionides Eumolpus in Orphea talis ;   In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ;  Praemia nec Chiron ab Achilli talia eepit,   Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam.  Nomina neu referam longutn collecta per aevum,   Discipulo perii solus ab ipse meo.     — 153 —   E in questi altri versi ecco parimenti accennata con  grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti,  che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera  dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali  dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della na-  tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine,  del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il  corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi  della filosofia naturale e della scienza » (1).   Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci-  barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con  molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva-  zione :   Primusque anitnalia mensis  Arguii imponi : primus quuni talibus ora  Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis.   Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per-  sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età del-  l'oro, quando gli uomini non conoscevano ancora tale  uso (vv. 96-142); e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo ac-  cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni  più ardue e a svelare più riposti misteri :   Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventem  Rite deum, Delphosque meos ipsumque recludarn  145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis.   Magna, nee ingeniis evestigata priorum,  Quaeque diu latuere, canam. luvat ire per alta     il) I vv. 67-71, cke riassumono la supposta fisica pitagorica,  sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dice il Lafaye, Les mé-  tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904,  p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo.     — L54 —   Astra \ iuoat terris et inerti sede relieta  Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^  150 Palantesque homines passim ac rationis egentes   Despectare procul^ trepidosque obitur/ique timentes  Sic exhortari, seriemque evoltere fati.   « E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina,  seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il  rito, e vi svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi  schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della  mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle  menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulte.  Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban-  donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor-  tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso  Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e  là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con  trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere  la visione del loro destino con queste parole... »   Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono-  scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore  della morte :   genus attonitu7n gelidae formidine ìnortis !  Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana timetis,  155 Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1)   Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas  Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, ^   Morte careni animae; semperque priore relieta  Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae.   (1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie  Georgiche (II, 490-492) :   Felix, qui potuit rerum eognoscere caussas,  Atque metus omnis et inexorabile fatum  Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari,     — 155 —   « schiatta attonita per lo spavento della fredda morte !  Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan-  tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non  crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la  sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire  mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e  sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di-  more che nuovamente le accolgono ».   E in prova di ciò Pitagora ricorda (vv. 160-164) d'es-  sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel  corpo d' Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente chiarita  ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol-  garmente attribuita a Pitagora :   165 Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne   Hue venit^ hine illuc, et quoslibet occupai artus  Spiritus: eque feris humana in corpora transita  Inque feras noster, nec tempore deperii ullo,  ■ Utque novis facilis signatur cera figuris,   170 Nec manet ut fuerat^ nec formas servai easdem,   Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper eandem  Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras.   « Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er-  rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna  nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor-  pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle     che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun-  gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della  morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè  Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o  passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al-  tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to-  tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi  onde l'anima si compone.     156     cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando  quale era prima e non conservando le stesse forme, tut-  tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sem-  pre la medesima, senonchò passa sotto varii aspetti » (1).   Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar  carne (vv. 173-175).   A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e  il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il  divenire incessante di tutto il creato :   Et quoniam magno feror aequore plenaque ventis  Vela dedi : nihil est tato, quod perstet, in orbe.  Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur imago.   « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto  mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto  l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni  mutevole aspetto ».   E questa nuova proposizione illustra con una lunga  serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen-  darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi-  tudini degli elementi (vv. 179-251).   Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta-  menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-  versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor-  ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i  saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano  le cause : questi fenomeni straordinari — spesso elencati  e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate     (1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto proba-  bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si  è già visto.     — 157 —   Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen-  za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336  riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabiiia  fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418-  452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società  umane, sino al glorioso principaio d'Augusto, predetto  già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia :   Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere Rotnam^  Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis  Mole sub ingenti rerum fundamina pomi.  Haec igitur forviam crescendo mutata et olim   435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates   Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor,  Dixerat Aeneae^ cum res Troia?ia labaret^  Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis : (1)  « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae   440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia.   fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una  Pergama rapta feres, donec Troiaeque tibique  Externum patria contingat am,ieius arvum,  Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes,   445 Quanta nec est nec erit nec visa prioribus annis.   Hanc aia proceres per saecula longa potentem^  Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli  Efficiet. Quo cum tellus erit u>sa, fruentur  Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus illi ».  Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae  Mente mem,or refero, cognataque moenia laetor  Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos.   Così Pitagora è fatto profeta della divina e fatale po-  tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel     (1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di  Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302,  306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98).     — .158 -^   poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi  è assunta quale mezzo artistico per la predizione della  futura grandezza di Rom3.   Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora final-  mente ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi-  ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra  anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia-  mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia-  mo scorrere il sangue di nostri congiunti ? » .   3. — Analizzato così il contenuto della esposizione  ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia  stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.   Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa do-  manda noi possiamo rispondere negativamente senz' om-  bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio,  anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me-  tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse-  gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare  pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a  quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem-  pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe-  culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno  una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia  ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua  maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio-  ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad  essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi  delle Tristezze (1).     (1) ìrist,, III, .3, 59-64:   Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^  Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos.     — 159 —   E quasi certamente poi questa predilezione del poeta  si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo,  che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima  metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali  traccie se ne riscontrino nella letteratura dell' età di Ci-  cerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del poeta  fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne  notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano  alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce  e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci.   4. — Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio-  ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pi-  tagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi  determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno  riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere  state le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi-  narum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis)     Nam si morte carens vacua volai altus in aura  Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis,   Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^  Ferque feros manes kospita semper erit.   Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col  corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga  alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo spi-  rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri  gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà  costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e-  stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè  mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so-  stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer-  mavano la immortalità dell'anima.     — 160 —   oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei  loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1).   Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi,  sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono  moìto anteriori a lui.   D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio,  più poeta che filosofo, non intese certo di trattar l'argo-  mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte-  nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma  che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che  (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre  che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se-  guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi  della materia dogmatica nella forma genuina soltanto  nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera sua e  non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando  di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo-  strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi-  tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come  a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto  imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute  negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi-     (1) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De  Pythagora omdiano \ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag.  100-107); A. ScHMEKKL, De omdiana Pythagoreae doctrinae adum-  hratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der mìttleren Stoa,  Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificate in parte le  conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X.   (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La dottrina pitagorica e la  eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicato  nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207; e  per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^ Firen-  ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15].     — 161 —   zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore  di documento storico, in quanto che, supplendo in parte  alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito, dovuta  alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^  ci mostra molto approssimativamente in che consistesse  il neo-pitagorismo romano del primo secolo avanti Cristo.   5. — L'esame che abbiamo così compiuto della lettera-  tura latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua  maggior fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pita-  gorismo fu nelle varie età di Roma abbastanza largamente  conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune  delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tra-  mandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione  e il sesto canto dell' Eneide : sicché dobbiamo concludere  che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una  grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica.  Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono  notevole influsso nel sorgere delle più antiche istituzioni  romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte  titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza  politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il so-  dalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo  tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza  di resistenza e quella specie di malìa fascinatrice che su-  scita le pili alte energie morali. Se le idee tanto piii val-  gono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna  e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita  degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche,  venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie,  molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di mo-  li.     — 162 —   ralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore  altissimo.   Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema,  pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al  loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis-  situdini del pensiero, ai loro successivo e alterno rina-  scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più  intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pi-  tagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi  neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Co-  stantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ul-  timo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo  che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope-  ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e  che accennano per diversi segni, in questa nuova prima-  vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occiden-  tale (1), noi possiamo con sicurezza affermare che esse  non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero  individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga  perenne dalle più profonde radici dell'anima umana.     (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di  scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova,  Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale del  Mattino di Bologna del 7 marzo 1912.     APPENDICI     I.     p: U P H O R B o s.     Pubblicato nella Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^  a. XXXIX, fase. 2 (marzo-aprile 1912) Genova.     1. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. — 2. Pitagora rincaraazione  di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora.     1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per  Eùphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver-  so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse  « muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve-  ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni  sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me-  nelao, dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo  Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura non solo di una  spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade, ma  di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato  per sempre al ricordo di un grande pensiero e di una  più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.   Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0-  mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto  dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione guer-  resca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille , più  grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata  del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le  armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia,     — 166 —   verso l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad  Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi  « tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo  del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto cadere  lo scudo, slacciata la corazza:   II. XVI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi  e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta  infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un trojano,  il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali  con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi,   810 ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati  venti nemici avea, di guerra già prode campione.  Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ;  ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia,  tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro   815 Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1).  Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta,  anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte.  Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi  Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia,   820 presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse  sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta.  Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai.     (1) I versi 814-815 trovo segnati come spurii nella quinta edi-  zione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia, 1890), sulla quale  è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare ohe sia  proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi, così ome-  rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima  la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle carni  di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore in-  nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1' ardito colpo  del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa-  troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere an-  cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla fe-  rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a Patroclo,     — 167 —   Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma  il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto-  ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno  ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini,  Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano  d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di  battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca  di portare in salvo il cocchio d'Achille.   A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A-  tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti  al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-  mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora  Eùphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei piìi  begli episodi della battaglia :   II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1), s'avvide  ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi     che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un  troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che  non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen-  tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio  di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene-  lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa-  role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo:   Anzi dal corpo ricovrando il ferro   Si fuggi pauroso, e nella turba   Si confuse il fellon, che di Patroclo   Benché piagato e già dell'armi ignudo   Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150)   (1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta  ha detto che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia »  (XVI, 809), e che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806  e XVII, lo), come con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo  di Menelao (XVIi, 43-45).     168     disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao :  « Menelao, divino germoglio, signor di gran genti,  vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1).  Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati,   15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia:  lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojani,  che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ».  Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo :  « Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi !   20 Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone  di cignal feroce, a cui nel fiorissimo petto  gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza,  qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria !  Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse   25 di giovinezza il fiore, allor che sprezzante affrontommi  e disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero !  Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato,  ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti !  Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci,   30 rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti   dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ».  Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose :  « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta  pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando -   35 e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa,  e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti !  Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua,  se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja,  fra le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide!   40 Ma non più a lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi  s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura ».  Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo,  ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta  nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta     (1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo,  giacevano in terra poco lungi dal cadavere.     ~ 169 —   45 l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre,   e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del collo;  dentro spinge con forza calcando la mano pesante,  e dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta.  Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ;   50 s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1)  i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento.  Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come l' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2;  ma piombando improvviso un vento con turbine grande  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte;  tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo  l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi,   60 Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti *  da pascolante gregge rapì la giovenca più bella,     (1) Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co-  me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin-  daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun-  ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let-  teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro,  fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si veda  in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire  a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: « e  « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si-  « mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in-  « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi-  « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII).   (2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta-  gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante  s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro  fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla prima  fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian-  ta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet-  to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che  già s' intesseva intorno al suo capo.     — 170 —   cui la cervice infranse tenendola forte co' denti,  poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —  intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono  65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno  non regge il cor, che tutti li fa scolorir la paura;  così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita,  eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao,   E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi  di Eùphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il  quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente, lo  consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli  d'Achille e ad accorrere invece là dove   or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo,  89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani,  il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire.   Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede  r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in  terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi-  neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito,  non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il  corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare  qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure  portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura;  della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi,  quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi  entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso  trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene.   2. — Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e glo-  rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per  avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere  non meno belle e gloriose?     — 171 —   Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman-  dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola  italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi-  cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di  « bronzo, disse che quello portava e gli era stat^ tolto  « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli Argivi,  « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome  « d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero  (//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor-  dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto  per citare i piìi noti, quella famosa ode d'Archita, dove  Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che  « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso  « all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece  « staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja-  « na, non avesse concesso alla nera morte niente più che  « i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico  ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me-  tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2)  Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi  fa esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli-  cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo :   Ben io — sì lo rammento — nei dì della guerra di Troja  ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto     (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 :   habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissum, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus, nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   (2J Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati »     172     la grave lancia infissa, per man .del più giovine Atride,   Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne,   or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1)   E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por-  firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie  intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava  « a molti di quelli che si recavano da lui la precedente  « vita che 1' anima loro aveva vissuto già un tempo pri-  « ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso  « rivelò con prove indubitabili d'essere stato Euphorbos  « figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa-  « gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza:   50 s' insaguinàr le chiome, che simili aveva a le Grazie,  i caj)elli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento.  Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre,   ma piombando improvviso un vento con turbine grand®  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ;  tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo  r Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi.   < Poiché quel che si racconta dello scudo di questo  « Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino     (1) Ovidio, Metamorph. XV, vv. 160-164:   Ipse ego — nam memini — Trojani tempore belli  Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam  Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae.  Cognovi clipeum, laevae gestamina nostrae,  Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis,     — 173 —   « trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si-  « lenzio come cosa ben nota » (1).   La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi.  Ora quale ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e  semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem-  mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace  del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina  della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la  storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne  autore lo stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da  quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che  il filosofo, appassionato lettore d' Omero, recitava e can-  tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Eùphor-  bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più  semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan-  tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde  testimonianza degli antichi. Vi è forse nella cosa alcun-  ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero-  simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi-  cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia  e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-  culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi  seguaci ? Dunque e ben possibile che egli, il quale aveva  virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi-  glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante  profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi  in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche  magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-     (1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei  Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo,  questi si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».     — 174 —   ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal  corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere  nel suo passato la storia della propria anima e ne desse  notizia ~ se non proprio alle turbe — agi' iniziati della  sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei  quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me  r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven-  tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite  anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che  credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge-  re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma-  gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine  prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo  stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e  naturalmente anche credere — poiché non é ammissibile  la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu  tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato  Eùphorbos.   Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi  accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha  tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di  essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di  conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà  storica d' Eùphorbos, non già iato dalla feconda fantasia  d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que-  sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo —  per non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette  nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza  di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di  Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e  dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la qui-  stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto     — 175 —   Wolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere  e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo-  sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! (1)   3. — Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre  incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por-  firio, un poco più innanzi : « Affermava di essere già vis-  « suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù-  « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro  « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è  « immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi  « dell'antica sua vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha  conservato in proposito una testimonianza — che risali-  rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu-  sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di  Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in-  carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma  anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione),  anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che sarebbe     (1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo ~ anche  in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega-  zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come  possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti  del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si  mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup  {Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in  Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e  in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli  rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione  contro Troja (p. 231 e seg.).   (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani,  come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio {Epit. Instit.  dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24).     — 176 ~   inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas,  e non a Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio :  « Dice Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava di  « se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her-  « raes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che  « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il dono  « di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti  « gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto,  « e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria.  « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da Me-  te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo  « Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor-  « dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute,  « e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e  « che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte  « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos morì  « la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta,  « volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran-  « chidas ed entrato nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo  « che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re-  « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che quan-     ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes,  il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle  dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere  in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva di Pitagora  un « figlio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico  fraintese.   (2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion  di Micene, dice ben chiaro che nel pronao del tempio, a destra,  dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno  scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ». (De-  scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché sappiamo che Pausania  descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto coi suoi occhi     — 177 -   « do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ;  « e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima  « Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E  « che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda-  « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo, ma a  sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis-  suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb-  bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre  volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come  una bella etera chiamata Alce (2).   E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte-  e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le  più varie condizioni d' esistenza, sarà essa — dopo aver  compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino -—  tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer-  sale ? (3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma-  na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano?     (tanto che una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta  delle famose tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto  quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane  fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del  tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza  dell'antica notissima tradizione? Pausania in ogni modo visse  nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo.   (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5.   (2) Gellio, Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero  « ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita  « haec remotiora sunt bis, quae Glearchus et Dicaearchus memo-  « riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam,  « deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen fuerat  « Alce ».   (3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i  principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De  republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva commesso ingiu-   12.     — 178 -   « Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo-  « sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma  « r anima mia venisse via da Apollo volando, ed entrasse  « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa...  « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi  « ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare  « in Pitagora ; ma fra 1' un tempo e V altro non ebbi  « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse  « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di Pitagora  « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di  « Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo  « Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? —  « Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza!  « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po-  « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-  « chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte.  « Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le     stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima  ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare  le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in  tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina)  almeno altre due vite. — - Per il luogo platonico e le relazioni che  esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si  veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea  del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^ II, pa-  gina 199).   (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul-  le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^  II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di  « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva  « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette  « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de-  « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia-  « marlo Pitagora od Euforbo ».     — 179 —   « altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove-  « relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa-  « gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que-  « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè  « non sai i mali che comportano... » (1).   E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu-  dere questa singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto,  il quale fu veramente molto caro ai celesti.     (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga-  sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no-  stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Eùphor-  bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice  delle opere di Luciano.     II.   IL SODALIZIO PITAGORICO  DI CROTONE.     Edito nel 1904 dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto  e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi. XXXVII,  n. 219-20 (nov.-dic. 1905).     1. Oggetto del presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So-  dalizio pitagorico. — 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du-  rata. — 5. Suo ordinamento. — 6, Natura degl'insegnamenti  che vi si impartivano. — 7. Conclusione.     L — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel-  r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-  smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato  nelle regioni d' Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in  Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nell' E-  gitto — e ^ver presa quivi conoscenza delle dottrine se-  grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio  nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse  (604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1)  venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della  Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di  ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap-  punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la  costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose  e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta.     (1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G.  De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904,  22 ediz. 1919).     — 184 —   che ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1),  Porfirio (2), GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4),  nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori,  delle quali poi si servirono, in misura piii o meno larga,  con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del-  la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico  in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen-  tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6)  ed altri.   2. — Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con-  corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o  poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom-  pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da  Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da  conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in  gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che     (1) Vitae et placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I.   (2) De vita Pythagorae.   (3) De pythagorica vita.   (4) Stromat. libri, passim.   (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum conditae  scopo politico commentano^ Gotting, 1831.   (6) Les Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari,  Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192.   (7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno  della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dall' Ueberweg,  Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p.  I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto  all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi  si trovasse già.   (8) GlAMBL. 29.   (9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e  Cfr. GlAMBL. l. e. 30.     ^ 185 —   predicava verità non mai udite prima d'allora in quella  regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza  tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al-  lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su-  scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira-  tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion  od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse-  gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi-  vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo  presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti-  colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai  giovani che vi si trovavano suscitandone l' ammirazione (2),  del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori  avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ;  ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne  tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico  il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron-  tamente, mossi dalla fama, subito dilBFusa per tutto il  paese, della grande austerità d' aspetto, della dolce soavità  d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo-  restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli  potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi     (1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella  che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana.   (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di-  scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento esso-  terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo  Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi pare  sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri-  ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal  secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co-  nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ».     186     si allargò, diffondendosi nei paesi vicini della Magna Gre-  cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca-  tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle  tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed  anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo' i  sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco,  Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro (2),  sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque  r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo  modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea-  lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione  nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la  diffeirenza di razze degli Elleni italioti » ; il che peraltro  ò inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento di Pi-  tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu  politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-  giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco-  glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato,  una persona con la quale egli doveva essersi trovato in  rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero-  tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze  personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone  e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia     (1) DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc.   (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf.  21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili, 17 ; Diod.  XII, 20.   (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54; Giambl. 33, 50, 132,  214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554; Giustino XX, 4;  Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776.   (4) Op. ciL, V. I, p. 75,   (5) Cognetti De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465.     — 187 —   furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse-  che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al-  tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in-  tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni  moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron-  to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi  più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder-  na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno  sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita-  goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto  che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza  morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del  Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare  più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico,  di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren-  sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti-  rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella  spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al-  tri tutti i grandi apostoli dell' umanità.   Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto     (1) Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e ca-  valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac-  chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II).  Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me-  ridionale, (di dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a nuo-  vo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola di Bernardino  Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru-  no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg.   (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit-  tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell' Homakoeion e vis-  sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati  loro dal filosofo, che veneravano come un Dio.     — 188 —   l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla  sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-  dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del-  l' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato,  egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.  L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione,  un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot-  to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della  teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle  arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle  scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intel-  letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come  l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita-  gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu  il piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an-  ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il  frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin-  di quell'attuazione interna e viva della verità che sola  può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma d'im-  portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2).   3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno  all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita-  gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso     (1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno  studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era  impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa-  rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267,  dà i nomi di 17, tutte chiarissime— -Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo.  Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche Schure, op. cit. pa-  gine 379 sgg.   (2) ScHURÈ op. cit. p. 314.     189     fu il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per  quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo  Sodalizio.   Alcuni non ne videro che l'intento politico; così, se-  condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo  di restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto  degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno  morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem-  bri buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg-  gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po-  tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo  che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al  suo stato ; e di far studiare la filosofia a coloro che si  accingessero al governo dello Stato, perchè non si può  aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia  colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-  perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito  del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono  politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;  né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o  alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ; il con-  tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una  parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema  scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile.  Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe-     (1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc.  etc. V. II, p. ]85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma  antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze  « oligarchiche informavano la lega solidaria degli « Amici » (?),  « fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la  « classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei  « della classe servile ecc. » !     — 190 —   rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago-  rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche intorno  a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di Stato,  il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1).  In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu-  mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e  una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la  più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con  questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile  e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente  e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni  discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola,  nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dot-  trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e  con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in  conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un  mutamento anche nel governo della città, per il fatto  che i primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove  dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi  direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente,  se erano privati cittadini, dovettero portare nel governo  un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.  L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come  osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto  dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i  migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co-  me un' associazione politica, ciò è vero a patto che non  vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso,  etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi-     ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6; Erodoto IV, 95 — Zeller, D.  PhiL d, Oriech. P p. 328.     191     zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè  invece fu proprio il contrario.   Assai diversamente giudicò la natura della società pi-  tagorica il Grote (1), che la disse di carattere religioso  ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante,  poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di  influire nel governo e sul governo, mentre i contempla-  tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza-  zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano  una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci  del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo  d'uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli-  giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (? !)  d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione  con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi è  appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la  mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio  in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto l' in-  segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera-  vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non  si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio-  nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì  bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in  Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole  filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa  nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque  derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica,  fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla-  bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla     (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter, Oeseh. d, Phi-  los, I, p. 365 sgg.     192     setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po-  tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi-  rito che informava quell' antichissimo istituto ; è un giu-  dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne  gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno svi-  sare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apo-  stoli che r umanità abbia avuto.   Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan-  to egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' in-  tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più giusto  e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la-  sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede  uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So-  « ci età modello, la quale, se intendeva a migliorare le  « condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare  « una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa  « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo  « morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per-  « fezionamento del vivere secondo un' idea tanto larga  « quanto è la virtualità delV umana natura » (2). Con  lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel-  ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le  associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog-  giato su motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu-  cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris-  se con molta verità che Pitagora fu « non solo il Maestro  « d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una     (1) Op. Git. l, p. 83.   (2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi-  renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg.   (3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98.   (4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328.     — 193 ~   « nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi-  « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va  intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come  ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori-  gini assai remote.   4. — Se tale era dunque l' intento della Società pita-  gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande  di Samo pose quella di riformare interiormente gli uomini  e con ciò di modificare anche — necessariamente — le  condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli  mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in-  teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali  ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono-  scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore  di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico,  era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-  scitare i timori degli elementi conservatori della società  crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari-  stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien-  za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano  allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire  al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della  gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge-  re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre-  dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle  nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per-  sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo mo-  vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi-  co e sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de-     (5) Qeseh. d, Alter. VI, p. 636.   13.     — 194 —   bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti  e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre  partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove  dottrine. Ma di questo noTi è fatto ricordo da nessun au-  tore. È fatto invoce espresso ricordo di un tal Cilene,  aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la sua  inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So-  dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co-  minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun-  niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e 1' azione  segreta della Società, continuando la lotta con quell'a-  sprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gra-  vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da  molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla  sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche,  allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil-  mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano  dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon-  dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen-  ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero,  dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro  il filosofo ed i suoi seguaci (500 a. C. circa). Così che, se  il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi-  mento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte  meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1).  Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, die,  dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a Locri,  fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do-  po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago-     (1) V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti,  op. cit. p. 4l6 sgg.     — 195 —   rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e  profughi nelle terre vicine.   La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non  pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna-  mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se-  coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata  religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione  in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa-  cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-  che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic-  cola parte poterono conoscerle.   5. — Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti;  quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-  poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici  uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro  volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi  gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e  discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso-  terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le-  ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente morale (3), e     (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che \q sissitie italiche,  anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo  per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V. Cen-  TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466.   (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e noli' Italia me-  dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La  repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro-  ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato  neir istituto Crotonese.   !3; V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ;  PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil-  LOisoN, Anecd. II, 216. - Secondo uno scrittore dal quale attinse     19t)     non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come  dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die-  tro un velario che lo nascondeva ai loro occhi.   Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi d'i-  niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove  ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non  ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut-  to, come ci narra Aulo Gelilo (1), un esame fisionomico  che attestasse della buona disposizione morale e delle  attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame  era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla  moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era  ammesso senz'altro e gli era prescritto un determinato  periodo di silenzio (echemythia), che variava, secondo gli  individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non  gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri,  senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In  questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e  severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata  per mezzo di prove assai difficili, prese dall'iniziazione  egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui erano     Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in Sebastici, politici,  matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e lo stesso scrittore  aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago-  rici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici o novizi  pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg.,  966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica  erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra-  gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o  discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di pri-  mo grado.   (1) Noci. Att. I, 9.   (2) OmaiNE fa Pitagora inventore della « fisionomica ».     — 197 —   sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato,  col lungo tirocinio, le due cose piti difficili, cioè l'ascol-  tare e il tacer e, erano ammessi fra i matematici (1) e  allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche  scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen-  te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad  accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro  sapienza si faceva a grado a grado più elevata e più va-  sta, sino a giungere all'intelligenza deìV Essere assoluto,  immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava a  questa che era la più alta cima della speculazione filo-  sofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso-  terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia-  zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleìos) e di ve  nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per eccellenza  nomo.   L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era  quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri,  senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per-  sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche  cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar-  tenere alla Società e considerati come morti dagli altri  confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti-     (Ij Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo-  tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la musica ed altre d' ordine  superiore, per mezzo delle quali si elevavano alle più sublimi ed  eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E-  LiANO, Var. Hist. IX, 22.   (2) V. Tauro pr. Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II,  15; Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel.  71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct.  3; Plut, De curios. p. 309.     — 198 —   tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale  quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu-  stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2).  Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur  avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza  spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che  aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò  bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun-  ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da  un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere  impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le de-  lusioni.   L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta  iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica.  Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non  sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre     (1) A questo proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D),  che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap-  punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro  con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche  Diogene Laerzio (VITI, lo) e Giamblico (199), fu cacciato dalla  Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn III, p. 142 e II, p. 67 Can-  tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet. I, 2.   (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1;  PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg.,  246 sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr.  Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma-  zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso  scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl-  lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si  tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ra-  gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54) af-  ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento  pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ».     - 199 —   ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural-  mente informavano ai principii morali e alle conoscenze  acquisite, diffondendo così con la pratica e con la parola  il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano  questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo-  nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre  nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre  pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so-  pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di  orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione  di beni. E non è poi così strano da doversene negare la  verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re-  ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme' per  uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per  il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle  loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^  non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu-  nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale  pensare che, per la virtù della fratellanza e dell'amore  acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse  spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me-     (1) Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr.  Diog. X, Il e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche,  secondo Fozio (Lex. y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu-  nità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re-  centi. Ma cfr. anche gli Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e  le testimonianze che troviamo in Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol.  Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il  Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata  una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli  amici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi  che non è neppur corto che questa massima appartenesse in modo  particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8, 1168 b 0).     - 200 —   desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed infatti  noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni  di riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno-  mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri-  stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per  conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni  sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di  altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia  come nella Grecia e nell'Oriente (6).   La vita che si conduceva nell' istituto da quei disce-  poli che vi rimanevano in permanenza ci e sufficiente-  mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le  notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori.  Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra-  sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen-  si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razio-  nale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano     (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. Vili, 21.   (2) GiAMBL. 238.   ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249 Dind.   (4) Krische l. e. p. 44.   (5) Luciano, De Salut.^ e. 5.   (6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a-  dunanze notturne di cui ci parla Diog. VIII, 15) si è paragonato  da alcuno l' Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri  tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dici, de  biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les  souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens  ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle  société de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ».   (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un  libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256.     — 201 —   date più in forma di redola o di consiglio, che di vero  e proprio comando (1).   Di buon mattino, dopo Ja levata del sole, i cenobiti  si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen-  ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri-  ma di avere ben disposto il loro animo con la medita-  zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi  in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi-  ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica-  vano continuamente particolari esercizi per acquistare la  padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup-  pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa-  coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat-  tava peraltro né di mortificazione della carne e rinun-  zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia vita,  ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-  tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado  di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que-  sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi-  mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto  sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-  mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin-  nastici d' ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri-  zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi  e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi,     (1) Il rispetto alia libertà individuale era una delle caratteristi-  che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V. su  tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque insti-  siuerit (1833).   (2) Anche questa era una sapiente e razionale disposizione, abi-  tuando i discepoli alla virtù attiva.     — 202 —   ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes-  se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare  inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe  cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità  ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera  durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter-  minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg-  giate, non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre, ■ e dal  bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno  alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a  discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia-  no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della  buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad  una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde  tutte le parti del corpo sono composte a costante unità  di vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo-  rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta-     I     (1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle  carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria-  no, come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV  a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer-  mare che tale dieta fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al-  trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze  parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil-  mente P astinenza dalle carni e dal vino ( quella delle fave pare  fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice  uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di manteaer sempre sve-  glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur conservandolo  sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della  trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ;  poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel-  lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della sua  derivazione dall' Egitto.     — 203 —   mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man-  cavano iiifìno, durante la giornata, alcune semplici ceri-  monie religiose, piii precisamente simboliche, che servi-  vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il  culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a  cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del  Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun  individuo umano.   Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac-  cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli lunghi (3).  Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo Zeller,  non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è  contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano,  moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto piìi  figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri-     (1) Cento FANTI, op. cit. p. 390.   i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco  cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui è  forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non  parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56;  Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32.   (3) FlLOSTR. l. C.   (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e Diog. Vili,  19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da alcuni si  affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore carna-  le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse loro  proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra-  tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci-  tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si  abbandonasse a pratiche sessuali » .   (5) Ermesianatte pr. Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf.  19 ; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204;  Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug. praec. 31, p. 142 ; Stob.  Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii. Monac. 268-270 (Stob.  Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi. 12.     — 204 —   guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1);  e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito  della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa-  cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta  precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto  alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere  che una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti  interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre-  dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta-  colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni.   6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della  storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno.  Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab-  biamo dunque veduto che esso era duplice e che per  essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario  aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de-  gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo.  Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del-  l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim-  bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente  morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote-  rici erano iniziati gradatamente a forme sempre piìi ele-  vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste  sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da  ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio  che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il  loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi-     I     (1) DioG. vili, 9.   (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo (sec. XIII-XIV), uno  dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cor-     — 205 —   tare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero  date in balia a menti inette a comprenderle, le quali,  appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,  limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza  inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle  dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri-  terio usato neir impartirle era dunque che « non si do-  vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico  nel senso più ampio e più bello della parola — del pro-  porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non  può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e  di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni  tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via  perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per-  fezione primitiva ed abbiano finito o con V andare sog-  gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od  anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale,  pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for-  mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto  all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e  le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol-  gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella  progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo  i gradi della superiorità loro nell' ordinata ed armonica  conformazione della persona umana, non veniva ad esse-  re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale  sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di  ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace  indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava     NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una.  simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci.     — 206 —   mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la  vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si-  stematica e c(mtiuua, e delle attitudini individuali face-  vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli  che erano piti in alto nell' ascesa verso la perfezione.   Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi-  ni era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava  sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e desi-  derose di attuare quant' ò possibile in questa vita quel-  l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne  aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegna-  mento invece era il principio autoritario che prevaleva ;  principio razionale e giusto quando corrisponda a una  vera gradazione di merito e di valore individuale, e per  nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia animato  vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri,  e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi  si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac-  quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre  nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara,  finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine  necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non  sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si  unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché  non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es-  sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era  necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo-  ro ragioni intrinseche ed ideali, non era possibile l'inse-  gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro  lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-  rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse  accompagnata anche la persuasione, nata dal riconosci-     207     mento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese,  era giustissimo il priocipio di coordinare l'insegnamento  teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti accettavano  volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati  superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli-  ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'auto-  rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè  gradatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo  per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit  era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la  parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora  condizionata alla visione delle verità più alte e non par-  tecipante al sacramento della Società », mentre poi il  vedere in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto la meritata ini-  ziazione all'arcano della Società e della scienza ».   7. — Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva  l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e  prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò  fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere  tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a  quale spirito era informato un. sistema educativo, che non  solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po-  tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu-  zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri-  na pitagorica è già stata fatta da molti (2), basti qui il  dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli-     (1) Op. cit. p 405.   (2) Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori del Cento-  fanti e dello ScHURÈ ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte  il necessario corredo di prove e di testimonianze.     — 208 —   gioso che la tradizioDe leggendaria personificò in Orfeo,  coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e  compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimen-  tale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta  la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con  l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze teoriche, ma  anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado  la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot-  tenuto con lunghe e pazienti pratiche (1) — delle facoltà  latenti del riposto ego divino, principio sostanziale di ogni  attività dell* uomo.     (1) Erano pratiche magiche che si usavano del resto in tutte le  scuole mistiche e che non eccedevano, se non apparentemente e  solo per i profani, i limiti della natura ; e chi abbia una cono-  scenza anche superficiale di questi studi sa bene che la magia non  era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi  particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste pra-  tiche V. Plut. Numa 8, Apul. De Magia 3l ; Porf. 23 sgg., 34  sg.; GiAMBL. 36, 60 sgg., 142, dove sì parla di « antichi scrittori  degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut. I, 2, p. 10 , Euseb. pr.  ev. X, 3, 4 ; Aristot. p. Eliano II, 26 e lY, 17 ecc.     NDICE DEL VOLUME     'ag    VII    »    1    »    5    »    21     Prefazione ........   Introduzione   Capitolo peimo : Inizii leggendarii e storici .   » secondo : Quinto Ennio e i suoi tempi .   ■» TERZO : Sette e scuole pitagoriciie in Rojna nel   I secolo a. C >> 45   » QUARTO : Pitagora e le sue dottrine negli scrit-  tori latini del primo secolo a. C. . . » 69   I. — Lucrezio e il poema « Delia Natura », » ivi   II. — . Frammenti della dottrina di Pitagora de-  sunti dalle opere di M. Terenzio Varrone . » 91   III. — Appio Claudio Pulcro — Cicerone e il   « Somnium Scipionis » .... » 107   IV. — Mimi — Q. Orazio Fiacco — P. Virgilio   Marone ........ 123   V. — Pitagora e le sue dottrine nella poesia   di Ovidio , » 149   Appendici   I. — Eitphorhos . . . . . . • . . » 163   II. — Il Sodalizio pitagorico di Crotone ...» 181     ERRATA-CORRIGE     tg.    6    rigs    i 2    pytagoreum    pythagoreum    »    8    »    ultima    Turis    Turio    ->    15    »    !3    fatto    fatta    »    16    >    14    persino    e persino    »    26    »    27    permaneant    permanont    »    34    *    34    stituiti    istituti    »    40    »    16-21    Queste 6 righe    sono rimaste inter            nel testo, mentre andavano in i            pie di pagina    •    »    44    »    6    ist    isti    »    47    »    10    per    fra    »    53    »    15    intellegibili    intelligibili    »    »    »    ultima    Geory.    Georg.    »    61    »    19    ferun    ferunt    »    »    »    22    prae vista    praevisa    »    63    »    26    aequo    aeque    »    »    »    27    ilUis    illis    »    65    »    18    maior    maiore    »    66    9    32    Mullach V.    Mullach (v.    »    »    »    ultima    Leipzg    Leipzig    »    67    »    3?    « (Centra    ( « Centra    •»    70    »    7    a poco    a poco a poco    »    72    »    3    senza altro    senz'altro     B Gianola, Alberto   21^ La fort-una de Pitagora   G5 presso i Romani dalle origini   fino al tempo di Augusto Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689844459/in/photolist-2mPsXiB-2mKDXUP

 

Grice e Cappelletti – entellechia – izzing and hazzing -- all’origine della filosofia antropologica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!” --  Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo.  Dopo gli studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980, consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza.  Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà fino al 1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali.  Dal 1992 al 2002, è vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli anni 50'. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis (dal 1991) e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal 1956, Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì Letterari".  Dal 1970 al, è presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997, dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e, dal 1997 al, dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente dal 2006 al, promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra gli anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione Nazionale "C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI dal 1996 al.  Dottore honoris causa dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza.  La sua attività scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane.  Pubblicazioni principali Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo, Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von Helmholtz, Torino, POMBA, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo vitalismo, Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni della vita, Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1973. Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica (), 5 voll. (IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma, Arti grafiche E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini, Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e critica del marxismo, Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro, 1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne, Edizioni Studium, 1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo, Roma, Edizioni Studium, 1995. Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed., 2000; 3ª ed. ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Editore,. L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium,. Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992 Note  Notizie bio-bibliografiche sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino (9-48), Appendice (247-252).  Cfr. V. Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in:  La storiografia della scienza: metodi e prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana (Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,  315-329.  La maggior parte delle notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e "").  Istituto Italiano di Studi germaniciHome page  Società europea di CulturaHome page  Guido Cimino, CAPPELLETTI, Vincenzo, in Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vincenzo Cappelletti  Vincenzo Cappelletti, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   italiana di Vincenzo Cappelletti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.  Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Vincenzo Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della scienza italiani 1930  2 agosto 21 maggio Roma Roma.  Il termine entelechia (entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi.   La crescita di una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo», a significare una sorta di «finalità interiore».  Aristotele parla di entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1]  È noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del mondo.  Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di loro.  Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima, II, 412, a27-b1). ^ Così Plotino in Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi delle piante (1790). ^ Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN) Entelechia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Controllo di autorità. GND (DE) 4356679-0 Filosofia Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a «potenza» (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da G. Leibniz per indicare la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.  Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da H. Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato.   3: Energeia and Entelecheia Entelecheia 9  possible to transfer this meaning to the opposite extreme, so something can be “completely ruined”  or destr oyed: “even death is by a transference of meaning called an end, because both are extremes,  and the end for the sake of which something  is  is an extreme” (  Met.  V.16 1021b21-30). 27  Thus,  telos  is not determined by its being opposed to something; it is not logically or ontologically dependent on its opposite. Rather, the opposite is borrows its meaning from the  telos . It is not defined as the endpoint of a sequence, rather, the sequence is derived from it by positing an opposite. Aristotle argues for the primacy of an ongoing condition of  telos  over  telos  as endpoint in his discussion of happiness in a complete life ( NE  I.10). The primacy of the completion-related sense over the sequence-related sense is reinforced by  Aristotle’s use of  telos  to mean  source  ( archē  ).   The completion-related sense is evident in the phrase  hoi en telei  , which refers to a governor or magistrate; so  telos  suggests “origin ( archē  )”: a source of  action, events, or being that directs or structures what arises from it. Aristotle argues for the identification of  telos  with  archē   in   Met.  IX.8 and XI.1: to be a  telos  is primarily to be that for the sake of which, which is different than (though not exclusive of) being an endpoint of change (  Met.  IX.8 1050a6-8, XI.1 1059a35-7).  When we speak of teleology today, we do not mean Aristotle’s concept of  telos ; we mean the Scholastic idea of teleology, that is, an assimilation of the Aristotelian idea to the Christian historical concept of Divine Providence. It thus takes on the sense, for us, of a kind of goal set for a creature in advance, external to it, and toward which it is confined to strive. By contrast, at minimum,  telos  in Aristotle means the  inherent  completeness or wholeness of a thing, a completeness that can coincide with, and be  the thing itself. “ Telos  ,”  for Aristotle, does not   primarily mean  “ end ed,”  or  “ finished .”  It means  “ complete  ,”   “ fully there  ,”   “ whole  ,”   “ entire ;” and here it means “having its complete sense.”  Its finality is akin to what makes us say  “ at last  ,” as   in “at last we find water.”   Echein    The word  echein   means “to have” or “to hold on” to something. The “grip” of having, as it were, is “being in charge of, keeping,” or even “holding in guard, keeping safe,” and in a related sense, “holding fast, supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can mean “to be able.” When a location is specified, it can mean “to dwell” there.  The relationship of  telos  to being is the reason the word  echei  , “have,” is im portant to  entelecheia.  Aristotle uses  echein  to say: “Those things are said to be complete [ teleia ]   for which a good  telos  initiates activity from within [ huparchei ], since it is by having the  telos  that they are complete ”  (  Met . V.16 1021b23). 28   A thing is complete ( teleia ) by having or holding onto  telos . “Having,” then, stands in for the term “initiate from within” ( huparchei ), a word often translated as “belong to” or “be present.”  Echein,  then, is another way to express the inherence of the  telos . The most revelatory sense of  echein  for our current context, perhaps, is that in ordinary Greek  the verb can substitute for “be”: in response to a greeting,   kalōs echei   means “it is well.” 29  Now3: Energeia and Entelecheia Energeia and Entelecheia in the Proof of Change 10  “having,” “holding on,” and “sustaining” are ongoing conditio ns or activities. Using  echein  as a synonym for being, then suggests that being is not static or passive, but a continual accomplishment.   Translation  Based on these considerations, it seems clear that the standard practice, which translates  both  energeia  and  entelecheia  with the word “actuality,” should be abandoned.  Energeia  should be  rendered “being -at- work” or “activity,” but could also be translated “being insofar as it works.”  Entelecheia  can only be rendered by a range of nearly-equivalent renderings. To recap:  en-  literally  makes the word mean ‘being in the  telos, ’   telos   is not conceived horizontally as “at the end of a sequence” or “finished off,” but vertically, as fulfillment, completion, or accomplishment, while  echein  means ongoing activity, but also is a word for being. In general,  entelecheia  should be rendered   by “being - complete,” with the word “being” a translation of “having” ( echein ), and understood as an  ongoing accomplishment. Less versatile translations are “staying - fulfilled,” “holding o nto  completion,” “holding itself in completion,” “holding its completion in itself,” “in active completion,” and other such formulae.   Energeia   and  Entelecheia  in the Proof of Change  Now that we have examined the words  energeia  and  entelecheia  themselves in general, we  need to see how they are used in Aristotle’s account of change, and to resolve an apparent self -contradiction in the use of being-complete ( entelecheia )   to define incomplete motion. I shall argue that  energeia  applies to individuals, while  entelecheia  applies to composites, a broader class of things that includes individuals. In the proof for the existence of change,  energeia  and  entelecheia  are used differently: being- built ( oikodomeitai )   is the being-at-work ( energeia ) of what is built ( oi kodomēton ), while building ( oikodomēsis ) is change ( kinēsis ) and the being-in-completion ( entelecheia ) of what is built as built:  being-complete ( entelecheia ) change  building  being-at-work ( energeia ) of agent being-at-work ( energeia ) of what is worked-on  builder / agent ( oikodomikon ) buildable / patient ( oikodomēton ) requires buildable requires builder  Energeia  as being-built ( oikodomeitai ) means theVincenzo Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia antropologica, entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51776877903/in/dateposted-public/

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