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Saturday, May 15, 2021

Grice e Conti

 EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE . 011 SCU pre SOMMARIO . Moltitudine di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al quarto secolo dell'era stessa , sullo spartimento delle quali non sono chiari gli storici. Criterio per la distinzione del . l'epoche , e quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio , le dette scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue ; 1º negli eruditi ; 2 ' negli scettici ; 3 ne ' sistemi grecoasiatici : tutti formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori . La seconda classe , o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė , cioè l'epoca quarta . È un'epoca nuova , per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri . Allora può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo , – Il pensiero de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani merce i Romani . Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica . I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca , declinando, avea lasciato salve ben poche verità , e perché Roma cadde in servitù . Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina . Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile' sistemi greci , di comporle in ordine chiaro , d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci , ma pensò di suo . Non pare da distinguere i suoi libri ( com ' alcuno pensa) in popolari e dottrinali . Libri logici , fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia : la coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari , tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici , a' Peripatetici, agli Stoici , agli Accademici : rigettato assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico , ma per un ordine di principj ; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi ; e da tale studio inferi tre verità , che gli furono regolatrici : 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose ; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio . Talche delini la filosofia : scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste ( off .) : l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che. Va seguito i principj spontanei , naturali , universali della ragione : ecco l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi , ei potè co gliere poche verità ; queste affermò, nel resto sospende il giudizio . Esem pio, il finale de natura Deorum . Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla legge e sulla libertà ; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre ; ossia , egli è certo su'prin cipj e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni esteriori. Dualismo . — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica dell'operare bellissima ; legge naturale, eterna ; Dio n'è la fonte ; re . - . 0 LEZIONE DECIMOTTAVA. 367 chi non ammette Dio , non può ammettere la legge . — Il dovere. Gradi degli officj . Quel ch'è giusto in sè stesso . Utile apparente, e utile vero ; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale ; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone . Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi grecolatini. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa , troviamo una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici . Taluno le piglia tutte insieme (e vi com prende gli Alessandrini del terzo e quarto secolo) come una sequela de sistemigreci anteriori ; e così non pone ad esse un'epoca distinta . E per fermo se tutte le dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi , mancherebbe la ragione del porle da sè , o del farne più classi . La ragione d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e potente : la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal criterio all' età sovraccennata , par chiaro che i sistemi vi si distinguano in due parti ; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come termine di essa ; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue proprie, o un'epoca quarta , benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano : tanto è vero che la sola divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha le scuole di pretta erudizione ; le quali non iscopersero nulla , nè rinnovarono nulla ; gli Stoici eruditi ; i Platonici eruditi, com ' Areio Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro ; i Peripatetici eruditi o commentatori d'Aristo tile, come Alessandro d'Afrodisio ; i Medici, eruditi an 365 PARTE PRIMA. ch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un terzo lato ancora , mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di Roma, vediamo un congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degli Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo asiatico , già comin ciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e in Moderato , Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè distinti dalla scuola d'Alessan dria (e fa male chi li confonde), in sostanza cominciaron l ' avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gli Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova ? No, perchè i metodi sono affatto del: l'età socratica, e i principj gli stessi ; lo scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo. L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma scientificamente non è ; proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio, non già da'me todi scienziali ; piacque la misticità orientale, richiesta già dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gli Ales sandrini facciano un'età da sè ; ma più attenta consi derazione m'ha condotto ad altro parere. La seconda parte sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o Latina . Introdotte le scuole di Grecia in Roma circa il mezzo del secondo secolo avanti l ' èra nostra, cominciò ivi un ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni italiche e per la civiltà di Roma ; talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de sistemi grecolatini ; nuova per le riforme tentate da Cicerone e per la novità dei iureconsulti, ch'ebbero efficacia sì viva e univer sale nella civiltà europea ; e anco perchè Cicerone servi LEZIONE DECIMOTTAVA. 369 più che i Greci alla filosofia cristiana de' Padri latini e dei Dottori, i quali per via di lui , piucchè in modo im mediato, seppero l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla ; degli scettici dissi già nella passata Lezione; de'sistemi grecorientali poi si dee trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana , perch' essi combatterono la sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de' sistemi grecolatini, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che in Roma nascesse tardi la letteratura e la filosofia. Nascono l'una e l'altra, quando la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto ; la letteratura rende concreto l'ideale con la fantasia e con gli affetti. Ma quando un popolo, come il romano, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a guerre este riori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie ( come gli ac cennò Tito Livio ), ma non ti possono dare nè letteratura nè filosofia ; in que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura interiore dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fanno il poeta ed il filosofo . Indi la rozzezza de’Romani; talchè narra Tito Livio, che lo storico più antico fu Fabio Pittore a' tempi d'Annibale. Ma quando Roma ebb’esteso la dominazione a tutta Italia e oltre, allora il Romano non vide più solo innanzi a sè le contese de' vicini , e le contese del Foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande nazione e il genere umano. Così l'idea di Roma si appresentò in relazione con tutta l'Italia e l ' Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' Romani si dila tava ; si allargò fuori del cerchio de' fatti particolari; il Quirita si sentì più chiaramente e figlio di Roma, e italiano, e uomo ; tanto più che a poco a poco la cit tadinanza romana si estese a tutta Italia . A’tempi di Storia della Filosofia . – 1 . e alle 24 370 PARTE PRIMA. 2 as 2 Cicerone non rimaneva quasi più possedimento in Italia non assegnato a'cittadini per via di colonie ; il qual fatto, unito all'altro che già notai) de'primitivi abita tori ricaccianti le colonie greche, spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i pochi Greci di Puglia non sono gli antichi), non già ellenici come in Grecia moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie romane, aiutate dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formarono così l'unità naturale, o la consanguinità della nostra nazione ; nazio , nalità naturale determinata da'naturali confini del no stro paese, e che si manifesta nell'unità formale de dia letti , o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre ; ma lasciando a’municipj un'im magine di Roma, consoli, senato e popolo com'a Firenze ( R. Malespini e G. Villani) , e concedendo a que mu nicipj amministrazione lor propria ; indi vennero i no stri Comuni del medio evo. Roma e l'Italia , considerate in relazione col mondo , formarono nelle menti romane com'un archetipo di per fezione. Il vecchio Plinio ( giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia : « Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa ; una cunctarum gentium in toto orbe patria. » E Virgilio , lodando magnificamente l'Italia nel secondo delle Georgiche ( 135-136), non si ristringe a Roma, e dice : « Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem , Volcosque verutos Extulite .......... » M 22 14 e finisce con quell'alte parole : Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum ..... » Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria per l'arte del bello e per la filosofia ; non lo stringono più le ne LEZIONE DECIMOTTAVA. 371 cessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze , considera la natura dell'uomo e delle cose . Questo svol gimento di coscienza per la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'Italia . Qui, più ch'altrove nell'antichità , fu sacro il connubio ; e gli affetti di famiglia v’ ebbero consistenza per molti secoli : la stessa mitologia nostra, come dice Polibio, rigettava le nefandezze de' simboli elleni . Or bene, gli affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se Virgilio, benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che gover nano il poema ; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di provvidenza rispetto a ' Romani; poi , nel concetto di patria ch' è Roma ; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto , come la Grecia ), cioè di tutte le genti italiane, non solo con sanguinee ( schiatta italica) , ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da Roma ( nazionalità politica ): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla fine ; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale il poeta mantovano preparò la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio mancò un'idealità propria, prego da Dio la fine di certe pas sioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà ; le quali, per altro , s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ra gunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili ; ebbe accanto la Magna Grecia e l'Etruria, e le tante città de' Sabini e del Lazio. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi ? Numa vien detto alunno di Pitagora ; ' e l'ante riorità di quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice Cicerone : « Romuli 372 PARTE PRIMA . autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus » ( De rep .) : e sant'Agostino scrive nella Città di Dio che Romolo era venuto non « redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis. » Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma ; i Romani predarono dalla sola Volsinia 2,000 statue ; Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti . ( Cantù, St. Univ . III, 24. ) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia ( tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera pro babilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ebbe dal gius onorario, mi capacito che nel seno di Roma cresceva un germe di civiltà e però di lettere e di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offe risse la occasione. E questa occasione ( testimonio la storia ) è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Ro mani venne da Greci conquistati; ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilo nese al sesto secolo di Roma, 155 anni avanti Gesù Cri sto . Catone si sforzò di cacciare le sette greche ; invano, il terreno era preparato, e la pianta fiorì. Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non durò a lungo, ma proseguì a fecondare il diritto : la qual brevità ebbe due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la forma logicale della filosofia , quant'alla materia poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo ; talchè si richie deva uno sforzo più che umano a rilevarla : poche verità si conservavano intatte da ordirvi la scienza . Quindi, o rimaneva solo a far opera d'eruditi e d'accoz zatori, come gli ecclettici d'allora ; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non dava soggetto a co piose speculazioni. In secondo luogo, allorchè Roma venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che iste rili la letteratura e la scienza. Quindi i sistemi greco latini si riducono il più alla filosofia di Cicerone, e alle LEZIONE DECIMOTTAVA . 373 scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a Cicerone seguirono i Greci pressochè interamente ; Lucrezio, per esempio, ripetè quasi le dottrine d'Epicuro ; ma nondi meno egli mostrò la coscienza di romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur contò fra gli elementi co stitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima : nobilis illa Vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus. » ( De Nat. III, 273.) e quando stabilì negli elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà ; e quando celebrò la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio . Seneca non si partì dagli Stoici , benchè faccia profes sione di non ispregiare nessuna scuola ; Marco Aurelio, com ' Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza ordi namento di scienza . Cicerone, al contrario, istituì spe culazioni proprie, che certo ebbero forza nell'universa lità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlerò di Cicerone oggi ; de' Giureconsulti in altra Le zione. Fin d'ora io dico , che Cicerone si proponeva di sceverare (con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata e pub blica, e ch'elle conferissero all'eloquenza . Questa filosofia di Cicerone suol chiamarsi ecclettica ; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato, passi; ma direbbe male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno po trà negare, che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ra gunavano nella memoria, ma non componevano nel pen siero ; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente, perchè Cicerone li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di lui 374 PARTE PRIMA. II 11 10 su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto ; e sant'Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nel libro terzo delle Confessioni ( cap . 4) : « Hic liber ( cioè la lettura dell'Or tensio ) mutuvit affectum meum , et ad te ipsum , Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia . » Pare che Cicerone traesse la schiatta da quel Tullo Azio, che regnò gloriosamente su'Volsci ( Plut. in Cic .); e quegli se lo teneva per certo , sicchè dice ne' libri Tu scolani, che Ferecide era antico, fuit cnim meo regnante gentili ( 1, 12) : indi la smania di comparire tra gli otti mati . Lasciate le scuole de' giovinetti, udì Filone acca demico ; ma insieme praticava Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, impa rando da lui scienza di leggi ; e militò con Silla tra ' Marsi. ( Plut.) Sentì anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene seguitò Antioco accademico, e non trascurò Ze none l'epicureo. Andò poi in Asia, e si fermò a Rodi , per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Giovine, favellava con tal passione e con voce si concitata, che gli recava danno alla salute. In Sicilia fu pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, Catone stesso chiamò Cicerone Padre della Patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di Clodio, vi rien trò poi come in trionfo ; gli furon trionfo tutte le vie d'Italia , per le quali egli passò. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di Cesare e la tirannia d’An tonio. Questi lo mandò a trucidare, e Cicerone porse il collo alla spada. ( Plut.) Amò la famiglia con tenerezza . Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Com'egl' intendesse la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a Quinto fra tello . Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità , e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo schietto e buono. Vicino a morire, scrisse a Peto : « Sii persuaso, che giorno e notte non altro cerco, non altro penso , se non che i miei cit I. 14 LEZIONE DECIMOTTAVA. - 375 tadini sien salvi e liberi . Non lascio opportunità d'am monire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui , che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita , stimerò di aver finito preclaramente. » ( Ad fam . IX, 24.) Non peccò d'orgoglio, ma di vanità ; si lodava spes so, e questo aizzava gl'invidiosi, e a lui diminuiva ri spetto . Faceto, mordeva non di rado altrui, e, senza vo lere, s'accattava nemici ; ma in lodare i meriti veri abbondava con allegrezza e con liberalità d'uomo sin cero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prese due mogli, ripu diando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta ; lodò e invidiò gli uccisori di Cesare ; lodò prima Cesare troppo, ma non l'opere mai. Dice il Capponi ( Archivio Storico, tomo IX, parte 2) : « Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi com'egli animosamente cominciasse la sua vita d'oratore e la compiesse glorio samente. Giovane, assalse nella difesa di Roscio d'Ame lia un Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare Silla medesimo; vecchio e principe nella città e guida e anima del Senato, combattè Antonio e incontrò la morte. » Oratore, accusò sempre gli scellerati , difese qualche volta i non innocenti . Filosofo, stette per lo più dalla parte del vero ; bensì approvò il suicidio, l'assassinio de' ti ranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità ne' gio vani, e la schiavitù . Scrittore e uomo di stato , cercò troppo la lode, ma insieme la grandezza e il bene della patria . Scrisse d'eloquenza, e fu oratore sommo : scrisse di filosofia morale, e fu uomo dabbene; scrisse di cose civili , e fu gran cittadino . Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano la filosofia di Cicerone. È impossibile non vedere in lui tre forti amori, di gloria, di patria e di famiglia ; e' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la quale ha talvolta del molle , ma la tenerezza è temperata da un senso vivo d'onestà e di decoro . ( V. le Lettere scritte in esilio. ) Udì tutte le scuole, e però raccoglieva il meglio ; ma con iscelta libera e ordinata, perchè uomo libero ed 376 PARTE PRIMA. , T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, se guì , più che non facessero le scuole greche, il precetto so cratico di badare nella scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come faceva Cicerone. Badando al bene, odiò la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prese il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, con gli Epicurei non volle mai pace. Un po' vano, pompeggiò assai nelle parole ; il che gli scema vigore qua e là ; ma nelle lettere e negli scritti filosofici va semplice e spe dito . Uomo universale, senatore e console di Roma, cercò l'universalità negli scritti ; e questi dettero a 'Romani l'idea di tutto il sapere greco. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e per bramosía di favori po polari, combatte nel libro della Divinazione le falsità pa gane, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio degli Stoici, non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni , ri morso da coscienza non confessata, dirò io , e lo credo. Taluno da quelle parole di Cicerone ad Attico : ATÓMp492 sunt ; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo ( Ad Att. , XII, 52) ; ha dedotto ch'esso i libri filosofici traducesse dal greco, non li facesse di suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso , in tempi che gli autori greci erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di greco, quali At tico e Bruto, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice (De fin . 1, 3) : « Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e un ordine no stro di scrivere ; e che dice altrove ( De off. I, 2) : « Ora seguiremo e in tal soggetto gli Stoici principal mente, non come interpreti (non ut interpretes ); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudi zio e arbitrio nostro ci parrà : » allora, io affermo, che Cicerone non poteva dire una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco : « Eragli studio comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco » an 10 1 :. bi lice . li 1 tes LEZIONE DECIMOTTAVA . 377 ( In Cic. ) ; e così un greco antico, più che i moderni non greci, distingueva bene i libri tradotti come il Ti meo) da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue il Ritter in filosofiche o riposte ed in popolari. A me non sembra ; sì scorgo chiara la distinzione de’dialoghi spe culativi , come i libri accademici , dagli scritti che hanno un fine pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede un ordinamento scienziale ? E s'egli rispetta gli dèi più qui che altrove, pensiamo che ciò s'usava da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano direttamente sulla divinità. Mi pare, poi , manifesta la distinzione, e più princi pale : tra i libri fisici ( De natura Deorum , De divina tione ), i logici Academicorum , Topica, De inventione, De oratore etc. ), i morali ( Tusculanorum , De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De legibus, De republica , De fato); quantunque in ciascuna classe si trovino mescolate più o meno le dottrine, non già di vise assolutamente. L' Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando Socrate, tornò a'prin cipj e al fondamento del sapere. Quegli , come questi, si trovò in mezzo a una confusione di sistemi, e, come So crate, chiamò i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle superbie d'ipo tesi vane e il principio della sapienza vera . Quand' io dico che Cicerone imito Socrate, già non lo paragono a lui , nè come filosofo glielo fo uguale, sì discepolo ; dico bensì , che il tornare a'principj è in tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino ; e chi rinnova, è istitutore novello e cominciatore d'un'epo ca propria. E se Cicerone non riuscì a tanto come So crate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo ca devano, e sempre più Cicerone le trovò quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che Cicerone, come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Amò con grand' amore la filosofia, 2 378 PARTE PRIMA 1 . ! la pre 18 MA Tha U. >> TH e ne scriveva lodi magnifiche in ogni suo libro ; anzi l' Ortensio fu composto da lui per esortazione a filoso fare; e nondimeno quand' ei volgevasi attorno, e sentiva le strane opinioni di tante sette, esclamava : « Niente si può dire di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. » ( De div . II, 38. ) Ammoniva per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa (minime arro gans : De div. II, 1 ) . Ripeteva il precetto che stava sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum , e diceva : « Essendo tante e sì grandi cose che si scorgono nell ' uomo inte riore da quelli che voglion conoscere sè stessi , madre loro e educatrice è la sapienza. (De off. I, 23, 24.) Egli invitava a fermar l'occhio in questa evidenza in teriore, dove tante verità si veggono chiare ( quæ inesse in homine perspiciuntur.) In questa coscienza di noi stessi , Cicerone come So crate, più di Socrate forse perchè romano, sentiva l'uni versalità del vero, distinta dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni universali anch'esse ; e però egli in culcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta ragione (De off. I e II, passim ); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo ( ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani ( I, 12) adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana ; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici : « Noi più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pensar della gente. >> ( Proem .) E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tra dizioni universali de filosofi e le divine : « Inoltre, d'ot time autorità intorno a tal sentenza ( cioè l'immortalità dell'anima) possiamo far uso ; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 LEZIONE DECIMOTTAVA. 379 stioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus cau sis et debet et solet valere plurimum ): e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ); la quale, quanto più era presso all'origine divina ( ab ortu et divina progenie ), tanto più forse discerneva la verità. » ( Tusc . I, 12. ) E tra filosofi, ch'egli cita, preferisce appunto Ferecide, co me antico, antiquus sane ; e indi ne conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici ; il nome de'quali , egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S 16) . E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia fu un dono, ma quanto a sè, una invenzione degli dèi : « Philosophia vero omnium mater artium , quid est aliud, nisi, ut Plato ait, donum , ut ego , inventio deorum ? » ( $ 26. ) Nel che s'accenna il prin cipio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansò gli eccessi d'ogni maniera. Gli Stoici , per esempio, la cui morale severità egli approva e segue, dicevano, che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne facevano un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù ; e però gli Stoici , se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù e disperarne come Bruto morente. Cicerone al contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù , che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere comune. ( De amic., 5. ) Lo Stoico credeva , indiando la natura, di poter trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tentò Varrone per testimonianza di sant'Agostino, Città di Dio ) ; ma Cicerone le derideva . ( De nat. Deor . III, 15. ) Menava buono a Platone, a' Pe ripatetici e agli Stoici , che la più alta felicità dell'in tellettuale natura sia la contemplazione ( Hort. in S. Agost. De Trinit. XIV, 9) ; ma in questa vita, ei dice, la con templazione senza la pratica delle virtù private e pub bliche è nulla ( De off. I, 43) ; e quindi censura Platone che scrisse : Il savio non essere obbligato a civili negozi . ( De off. I, 9. ) Gli Stoici , per alterezza di ragione, spre giavano il corpo e i beni corporei ; ma Cicerone diceva : 380 PARTE PRIMA . 11 he COL iti be 111 15 :-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura e noi siam anima e corpo, non possiamo spregiarlo, nè si dee imitare que'fi losofi , che accorti d'un che superiore a'sensi ne spre giano la testimonianza . Con che l'accoccava pure agli Accademici. ( De fin . IV, 15.) Gli Stoici , negavano l'ef ficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svilivano ogni piacere ; Tullio invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De sen . 14, De fin . V , 26. ) Gli Stoici, concependo la virtù con altezzosa rigidità , stimavano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene ; Cicerone confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è man care a posta, altro è nell'impeto di passione. ( De off. I, 8 e altrove.) Se nella morale ei tenne dagli Stoici, rigettate le loro esagerazioni, in logica stette per gli Accademici, giacchè, come dissi altrove, la riforma del filosofare pa gano cominciò sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la temperanza ; perchè, dove gli Accade mici ( a quello che ne sappiamo) negavano ogni verità e certezza nel percepire le cose e ammettevano solo una verosimiglianza, uguale per tutte le opinioni ; M. Tullio invece ne' fondamentali principj e nelle verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li sti mava probabili , non ugualmente, sì con varietà di gradi ; e al probabile opponeva quel ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole : « Vorrei che fosse ben chiaro il no stro pensare ; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato sempre in errori , e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del dispu tare , ma del vivere altresì ? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi , diciamo probabili alcune e alcune improbabili. ( De off. II, 2. ) Qui si scorge, che il dub bio di Cicerone non cadeva punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul dommatismo EL LE 11. ki LEZIONE DECIMOTTAVA . 381 fisico e morale degli Stoici . E nel libro delle Leggi dice ( 1, 13) : « Preghiamo poi , che questa Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti; perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sem brano ordinate e composte con assai aggiustatezza, re cherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma cacciarla non oso . » La qual conclusione mostra, ch'ei non rigettava in tutto i dubbj accademici, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagli Accademici allor chè dice : « Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire piuttosto quel che non è , che quel che è . » ( De nat. Deor. I, 21.) Nel vivere nostro, e mas sime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni e senza il lume del Cristianesimo, non monta già poco il sapere quel ch’una cosa non è ; significa sapere che Dio non è come noi, che Dio e l'animo nostro non sono corpi, che il fine dell'uomo non è la voluttà ; negazioni pregne d'af fermazione, implicita si ma certa . E chi vuole stimare quanto merita il ritegno di Cicerone, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj particolari (non mai nella legge suprema), pensi l'assurdità del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica , l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile ; e s'accorgerà, che se Socrate meritò lode dicendo, contro Parroganza de' sofisti : io so di non sapere, merita pur lode il nostro Cicerone d'averlo imitato in tanta corru zione di filosofia e di costumi . E quindi ei non ha dubbiezze contro gli Epicurei. Dice a loro : che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato ; nè la voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin . II, 4, e passim .) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso ; il piacere stesso non cato per sè, ma per noi ( De fin . V , 11 ) : il dovere ha da cercarsi per sè stesso ( ivi, II, 22) ; e la dottrina degli Epicurei, se consentanea a sè , non lascia luogo al dorere. ( De off. I, 2. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con che 01 382 PARTE PRIMA . Jo ( dine interno di principj si faceva ? Già ho detto, che Ci cerone ritornò al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato , che ivi egli trovava l'uomo non solitario, ma in relazione con Dio, con gli altri uomini e col mondo; però esclama : « In questa magnificenza di cose, in questo cospetto e cono scimento della natura, o dèi immortali, oh quanto co noscerà sè stesso l ' uomo ; il che c'impose Apollo Pizio ! » ( De off. I, 23.) Per via della coscienza, s'accorse Cice rone in modo chiarissimo di tre verità : prima, che l'u0 mo sta sopra l'altre cose ; poi , che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra Dio con le sue leggi . Viene da ciò la definizione della sapienza o della filosofia nel II libro degli Officj (S2) : scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di queste ; definizione più determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani ( V. 3) , dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringeva la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato di Dio e dell'uomo e de’sommi principj. Egli capiva, come nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva : « È malagevole sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto . » ( Tusc. II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a noi stessi ; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al tre cose ; nella ragione troviamo i giudizj spontanei, na turali, evidenti, universali ; questi fa d'uopo seguire ; ecco il principio ordinatore della scienza e della virtù . « Il tempo, scrive Cicerone, cancella i capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. » (Opi nionum enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat ; De nat. Deor .) Ma questi giudizi erano avvi luppati in una moltitudine di sistemi; però, quanto alla teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco . Chi potrebbe mai condannarlo d'insipienza ? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè del ch 1 7 LEZIONE DECIMOTTAVA. 383 1 quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma; le sue indagini hanno per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immorta lità dell'anima umana . ( Ritter .) Quanto alla divinità , egli non ne dubitava punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge della giustizia (De leg. II, 7 ) ; ma intorno alla natura di Dio non af fermò gran cosa. Del metodo di lui , su tali materie, porg' esempio il libro De natura Deorum . Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico. L'ac cademico nega il dio animale degli Stoici, e termina di cendo : « Questo io diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella sia oscura e piena d'intrigate difficoltà . » Lo stoico poi combatte l ' epicureo . Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa conclude ? E' dice : la disputazione di Cotta ( Accademico) sembrò a Velleio ( Epicureo) più vera ; a me l'altra di Balbo ( Stoico), più verosimile. Ci cerone, adunque, mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da quella ragionando di Dio. Pur tuttavia non sa nulla giu dicare assolutamente sulla natura di Dio stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza della divinità (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ) , la legge morale e il libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Cri sippo, ch'ogni proposizione è vera o falsa necessariamente ( De fato) ; le opinioni verosimili si hanno ne' libri fisici, dove apparisce dubbj sulla natura di Dio e dell'ani ma, e sulle relazioni di Dio con l'universo, e quindi sulla prova fisica della divinità provvidente ; ne' libri logici, finalmente, su ' principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta , beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori percepite da ' sensi. Anche il Kant pose superio re la certezza dell'argomento morale ad ogni altra cer 384 PARTE PRIMA. tezza ; ma il Kant celebrò quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione; Cicerone, al contrario, non la negò mai, anzi la magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj accertati. Dunque Ci cerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la certezza ; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la verisimiglian za. In ciò solo fu accademico ; e non pienamente nem men qui, come avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la ne cessità della materia alla libertà divina ; e che cadesse nel semipanteismo, facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma più da queste parole : « Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e caduche, le prese da generazione mor tale ; ma l'animo è generato da Dio » ( De off. I, 8) , e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone Dio, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte Dio all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza dell'af fermare in quello ut opinor ; tant'era l' ecclissamento delle principali verità sul finire del Paganesimo ! Quant'alla teorica del conoscimento, egli distingueva l'intelletto dal senso ; lo distingueva tanto, che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine di Dio nella mente nostra, la identificava con esso . Anzi nel testimo nio de' sensi non poneva più autorità ch ' una verisimi glianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale Dio e la mente son divisi dal resto . E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare ; perchè ivi recò Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della coscienza ; e vi recò quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le spat se verità con un principio più alto. Qual principio ? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la ve rità , è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna LEZIONE DECIMOTTAVA. 385 seguire, ei dice con gli Stoici , la natura, non l ' arbitrio delle passioni; ma la natura nostra è ragionevole ; dun que ogni atto nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. ( De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene . « La legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario . (De leg. I, 6. ) Questa legge è nata da tutti i secoli , primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città fosse istitui ta . » ( 1, 6. ) Questa legge viene da Dio, perch' ell ' è di vina ; e chi non ammette Dio, non può ammettere la legge eterna e naturale. ( 1, 7.) La legge è la ragione divina partecipata a noi ; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società, però noi siamo primamente consociati con Dio. E poich' ell' è comune a tutti gli uomini , noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap potente » ( parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti Deo. I, 7) . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia di Dio, nè v'ha gente sì fiera che, ignorando qual Dio adorare, pur non sappia che ve n'è uno . ( I, 8. ) Noi dunque siam nati alla giu stizia ; e il gius non è costituito per opinione, ma per natura. » Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale . » ( I, 10. ) Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off. III, 33. ) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in forensi , nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia della Filosofia . 25 386 PARTE PRIMA. se pattuisci con altrui ; non v ' ha momento di vita che possa mancare di qualch 'officio ; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel trascurarlo la turpitudine. » ( De off. 1, 2.) Nell'adempire gli officj stanno le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù , se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso ( De off. I, 4) ; sicchè « nella universale so cietà son varj i gradi degli officj ; onde si può sapere ciò che si conviene a ciascuno ; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » ( De off. I, 45. ) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica nemmeno l'amore di patria . ( De off. I, 45. ) Egli distingueva poi l'utile apparente dalla virtù : ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà ; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta . (De off. II, 4 ; 111, 7 e passim .) L'utilità è l'effet to, non il fine della virtù . ( De amicitia, 9.) E dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse : « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off. I, 4.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza : « l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo ( De off. I, 27) ; e come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il decoro della onestà è la convenienza con la natura . » ( Ib . 28. ) Però, come i Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026 , il solo buono è bello, così Cicerone ( come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice : quod honestum sit, id solum bonum esse : onorabile è solamente ciò ch ' è buono. ( Paradox. I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la virtù . nascono le leggi positive ; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di tutte le leggi ( habes legis proemium , De leg. 11, 4-7 ) . « È stoltissima cosa (segue Cicerone contro gli LEZIONE DECIMOTTAVA . 387 1 Epicurei) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che ? dunque, anco le leggi de'tiranni ? ... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di comandare e di proibire : e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità , trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è stabilito , da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge naturale ha da regolare il diritto pub blico , quello delle genti e il privato ; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra , sui trattati . sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana : dopo averne narrato l'umanità ne’secoli primi , aggiunge che questa diminuì a poco a poco, e dopo le vittorie Sillane cessò ; e quindi esclama : jure igitur plectimur « a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo scontata per se coli . De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep. ) Che fece adunque la filosofia di Cicerone ? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza ; gli dettò que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci , eletti e temperati; que' libri rettorici , che sono un codice dell'arte per comune giudizio ; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica, dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi . Però, quand' io sento uno storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più che dell'insolito, sia desiderosa del vero . 388 PARTE PRIMA. LEZIONE DECIMANONA. GIURECONSULTI ROMANI. SOMMARIO . La giurisprudenza è scienza filosofica , perché riguarda gli alti umani o personali. - La giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale . Si cerca , quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche , e quanto alla materia. - Quattro età del gius romano . Prima età : consuetudini . È difficile deter minare qual parte avesse la civiltà , e quindi la scienza , in que'primi germi del diritto ; ma vestigi di sapienza ve n'ba . Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole . La materia di esse certo è romana ; probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio . Seconda età : si pubblica il segreto delle azioni . – La giurisprudenza , perciò, viene alla gioventù dalla puerizia ; ma crebbe in modo segnalato allorché , sul cadere del sesto secolo di Roma, si propagò ivi la filosofia greca . — Il settimo se colo è quello di Cicerone : si prova con l'autorità di lui, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia . — Allora si concepi l'idea d'un codice ; idea che vuol abito filosofico delle universali tå. Terza età : la signoria de ' Romani , dilatandosi a tutta Italia , fa pos sibili le scienze. - Cittadinanza romana a tutti gl ' Italiani ; gius italico che då il dominio quiritario , e il diritto de ' comizj anche per deputati ec .; co lonie romane per tutta Italia ; si determina bene il concetto del paese ita lico . – Gius equo e buono . Altra cagione della fiorente giurisprudenza ; giureconsulti , per lo più , non sono causidici. - Un'altra ; l'emulazione in filosofia e in lettere con gli oratori . Cenno su'principali giureconsul ti ; loro virtù . - Com'apparisca dagli autori , ch ' essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne ' poeti , negli oratori e ne ' filosofi. Si paragona que ' giure consulti a'matematici per tre ragioni ; vigore delle conseguenze , cura nel l'evitare contraddizioni , metodo induttivo e deduttivo. – L'efficacia della filosofia non si ristrinse alla forma logica, passò alla materia . – Tale influs so non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e ( salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale . – Distinguevano la scienza del diritto dall'arte . – Però s'elevarono al concetto della filosofia vera , rigettando gli eccessi : la speculazione de ' giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso comune e dal fine pratico. – Distinzione del diritto in jus naturale , gentium et civile : si mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de ' diritti naturali . Non accettabile, quanto alla servitù , la nozione del gius civile ; ma i giureconsulti dissero la servitù non secondo il gius naturale , e riconobbero un fatto. Come la parola Jus non esclude l'idea d'un diritto eterno ; e si distingue da legge ; poi , si ha ne ' giureconsulti l'idea precisa del diritto eterno e del diritto natura le . - L'efficacia della filosofia si mostrò nella giurisprudenza per via del diritto onorario. E per via del diritto ricevuto . – E per l'interpreta zione de ' giureconsulti . — Molte novilà introdotte dal gius ricevuto . La virtù e la vera filosofia de'giureconsulti si fa sentire per fino nel loro stile . – Si reca un saggio della loro sapienza e brevità elegante. — Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de' giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cercò la comprensione finale . Parlato di Cicerone, è da parlare de' Giureconsulti romani. La giurisprudenza, come dissi già nella prima LEZIONE DECIMANONA. 389 Lezione, è una scienza filosofica : perchè risguarda gli atti umani o personali. Procede dalla morale, che ab braccia la scienza de' doveri e quella de' diritti naturali ; e la giurisprudenza positiva non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili ge neralità del diritto eterno. Però, se la filosofia entra in tutte le scienze com'ordinamento di concetti e di giu dizj, entra poi nella giurisprudenza, non solo com'or dine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svol gimento della giurisprudenza romana, per l'impulso della filosofia, nel doppio aspetto delle forme logiche e della materia. La storia di quella fu distinta bene dall' Hugo in quattro età ( Hist. du Droit Rom ., Intr .); la prima dall'origine di Roma fino alle dodici tavole, cioè fino al terzo secolo della città ; l'altra fino a Cicerone, o alla metà del settimo secolo ; la terza fino ad Alessandro Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare ; la quarta fino a Giustiniano : età di fanciullezza, di gioventù , di virilità e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna ( Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma ne' primi tempi si reggeva senza leggi nè diritti stabiliti; cioè per consuetudini. La con suetudine formò , dice il Forti ( Ist. Civili, 1, 3, $ 3 ), il diritto privato con l'autorità degli esempi , cioè de' fatti ripetuti , e formò con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così il potere assoluto de padri , de' mariti e de' padroni è da' giureconsulti risguardato sempre per consuetudinario, ed anche l'uso delle clientele ( ivi, $ 4) . Quanta parte avesse la civiltà , e con la civiltà la scien za, in que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano scrit ture, perchè le serbò con la lingua loro la stirpe greca ; ma de ' Latini prischi e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote, perchè ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è , tuttavia, che 390 PARTE PRIMA. almeno gli Etruschi erano molto civili ; e sembra non si possa dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma; benchè l'Hugo lo neghi. Ma Lucio Floro. parlando della guerra sociale, dice chiaro : « Quantunque la chiamiamo guerra sociale a diminuirne l'odiosità . pure, se stiamo al vero, quella fu guerra civile ; giacche il popolo romano, avendo mescolato insieme gli Etru schi, i Latini e i Sabini, e traendo da tutti un sangue solo (unum ex omnibus sanguinem ducat), è di più mem bri un corpo e di tutti è una unità. » ( Rer. Rom . III, 18. ) Il Lerminier ( Phil. du Droit, III, 1 ) riscontra con molto acume in Virgilio la prima origine de' tre po poli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche ; dov'egli, lodando l'agricoltura, dice : « Questa vita ten nero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello ; così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fece la bellis sima di tutti gl'imperi Roma ; e una, si circondò d'un muro i sette colli . » (Georg. 11, 532.) Fatto è che a taluno par vedere i tre popoli nelle tre tribù del primo popolo romano, rammentate da Livio, i Rannesi o Latini, i Tarsi o Sabini, i Luceri o Etruschi. ( Warnkoenig, Hist. du Droit Rom .) Il Monsen ( St. Romana ), recentemente ha negato tal mescolanza, ma non ha detto le prove. Pro babile, a ogni modo, che quel nuovo Comune di Roma. sorto fra ’Comuni vicini , si mescolasse pure di genti vi cine. O si conceda dunque col Niebuhr la preminenza agli Etruschi, o concedasi a' Latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle cose romane lo dettero i primi ; e ciò spie ga, come in tanta rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio si possedesse un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti. Questo io diceva per mo strare che le prime consuetudini ed istituzioni ebbero qualche ragione di civiltà , e riuscirono buon fonda mento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione da’magi strati (magistratus populi romani) che stabilivano il di ritto, da' giudici ( judex, arbiter ) che giudicavano del fatto ( Hugo, 1, § 146) ; distinzione che a poco a poco LEZIONE DECIMANONA. 391 détte occasione al gius onorario, di cui parlerò in breve . È noto che il reggimento di Roma sott'i re e più ne' principj della repubblica era degli ottimati, cioè aristocratico. Indi la opposizione civile della plebe co’pa trizi per avere un gius equo ; opposizione che, divenuta incivile o violenta nel settimo secolo, rovinò la repub blica, come la prima ne formò la grandezza. Il popolo dimandò leggi scritte per contenere l'arbitrio de' patrizi , e si promulgò la legge delle dodici tavole. Narra il giu reconsulto Pomponio, che queste si raccolsero in Grecia, interprete d' esse l'efesio Ermodoro. ( Fr. 4, D. De Orig. Juris.) Certamente Plinio il vecchio (Hist. Nat.) ram mentò come serbata fino a lui la statua fatta per de creto ad Ermodoro ; talchè la tradizione non pare fa volosa in tutto : ma è certo altresì che nelle dodici tavole ( per quanto ne conosciamo) non si ha traccia del diritto greco : l'essenziale, giudizj, patria potestà e connu bio, eredità e tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro, son cosa tutta romana, come diceva già il Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri . (Warn koenig, $ 10, 11.) Ma io credo abbisognasse l'opera di quel Greco erudito per meditare le vecchie consuetudini, e ridurle a concetti determinati ed a’lor capi principali, ufficio di riflessione addestrata ; nè ciò avrebber saputo i Romani, dati all'armi , anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta da Ermodoro, traeva in ammirazione Tullio. Egli scriveva ne' libri De Oratore : « Se ne adirino pur tutti , io dirò quel che sento : a me, il solo libricciuolo delle dodici tavole, par superi ( se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità . Quanto prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, inten derà facile chi le nostre leggi paragoni a quelle di Li curgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di fatto, quant' ogni altro diritto civile, salvo il nostro , sia in colto e quasi ridicolo . » ( De Or. I, 44. ) Le quali parole 392 PARTE PRIMA. attestano tre cose ; l'antichissima civiltà di quelle genti che formarono Roma, e che vi recarono le proprie tra dizioni, benchè si dessero poi a vita guerriera ed agre ste ; la falsità che il gius civile romano procedesse ài Grecia ne' suoi particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolgesse da principj non rozzi ne poco pensati. I Romani dettero la sostanza, i Greci pro babilmente la forma, cioè ordinamento di codice. Dalle dodici tavole nacque la necessità d'interpretarle per di sputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro applicazione. Di qui, come dice Pomponio ( loc. cit. 4, 5, 6) , vennero il diritto civile non scritto o l'au torità dei prudenti, e le azioni delle leggi ( legis actio nes); ma tutto ciò era un segreto de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la libera giu risprudenza passò dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai, o signori , accadde tal cosa in modo più segnalato ? Voi sapete che sul cadere del sesto se colo di Roma si propagò là il filosofare greco, e che il secolo posteriore è appunto il secolo di Cicerone. Or bene, la giurisprudenza, cresciuta lentamente nel se colo sesto, crebbe nel settimo rapidamente ; e allora proprio noi riscontriamo i giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto alla natura degli atti umani in sè e nell' esteriori atti nenze . Scriveva Cicerone la Topica, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di Trebazio, come si ha dal proemio di quel libro, ov'è scritto : « Non potrei, adunque, con te , che me ne pregavi spesso , benchè timoroso di noiarmi (come scorgevo facile), stare in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del diritto.... Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrissi a memoria nella mia navigazione, e dopo il viag gio ti ho mandate. » Il qual libro è notevole molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giuri sprudenza. E di Servio Sulpicio ( primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato da' giure consulti posteriori ) , ecco che scrive Cicerone, amico di LEZIONE DECIMANONA. 393 >> lui : « Si stima, o Bruto, che grand'uso del gius civile s'avesse da Scevola e da molt' altri , ma l'arte da que st' unico ( cioè da Sulpizio) ; al che non sarebbe giunta in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le in terpretazioni l'oscure ; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque recò tal arte (mas sima di tutte l'arti ) , quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si faceva confusamente. ( De CI. Orat. 41. ) Con le quali parole mostrò Cicerone la forma di scienza che si prese dal Diritto in virtù della logica . E la forma scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, levò le menti alle generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza del diritto. E il segnale n'è questo ; che al termine dell'età seconda , cioè sul fiorire della filosofia e delle lettere a Roma, Cesare e Pompeo ebber disegno d'un codice ; disegno, che mostra l ' uso e la stima degli universali astratti da ogni caso particolare, ordinati poi secondo generi e spe cie ; giacchè un codice val quanto in istoria naturale un ordinamento per classi . Pare che Servio Sulpicio ef fettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Ci cerone, il quale alla sua volta ne' libri delle leggi ( 111 ) mostrò un saggio di codice pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato . Nè qui entrerò in disputa fra due scuole alemanne, l'una che col Savigny sostiene il danno de' codici, l'altra che ne difende l'uti lità ; dirò a ogni modo ( nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche ; però l'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero . Il dilatarsi del dominio romano a tutta Italia preparò il campo alle lettere ed alla filosofia ; perchè i Romani, senten 394 PARTE PRIMA. dosi non più solo Romani, ma Italiani e uomini, la loro coscienza si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo fatto non v' ha dubbio di sorta . Dopo la guerra sociale, per le leggi Plauzia e Giulia de civitate sociorum ( anno 664 e 65 di Ro ma) , fu data , come notò l'Haubold ( Tav . cronol. per servire alla St. del Dir .), a tutte le città italiche citta dinanza romana, eccetto i Lucani e i Sanniti ; e nel l'anno 705 conseguirono la cittadinanza i Galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani ; la ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina . ( Framm . L. de Gallia Cisal pina .) In tal modo, come scrive il Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano. ( St. del Dir. rom : I, 2.) E il gius italico dava dominio quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi ), diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati ; talchè l'Italia , a ' tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano soci o confederati. E questo accadde perchè i Romani aveano già fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de' sangui, spargendo ovunque le colonie (com'osserva il Forti ) , nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Ita lia . ( Ist. Civ . 1, 3, § 25. ) L'Italia, dice l’Hugo, non si considerò mai una provincia ; chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite. ( Hist. du Dr. Rom. , § 164.) I Romani, allora. si levarono con la mente all'unità naturale del territo rio, come vediamo ne' Digesti . Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione è scritto : « Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la Gallia ( cisalpina ) ; ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto : Continentes provincias accipere debemus eas, quæ Ita liæ junctæ sunt, ut puta Galliam : sed et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico freto Italia dividitur » ( Ulpiano). E al Fr. 9 , D. de LEZIONE DECIMANONA . 395 Judiciis et ubi etc. , si dice : « Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia : Insulæ Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie . » A questo concetto sì pieno vennero i Romani tra gli ultimi tempi della re pubblica e i primi dell'impero, cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana, con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza . Si aggiunga poi, che le sevizie de' Cesari cadevano in Roma su'patrizi più sospetti , ma quel reggimento tem peravano istituti repubblicani e ordini civili equi ; se no, come dice il Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come Alessandro Severo avesse un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti, Fabio cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri . ( Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1 , § 1-5 . ) E tanto è vero , che la notizia del Gius equo e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provin cie ( finita la guerra civile) non era punto legale, anzi contr' alle leggi ; perchè, secondo le costituzioni come dice il Warnkoenig ), le provincie stavano bene, le impo ste erano lievi , lo Stato pacifico, molto dell'amministra zione in mano di quelle ( il che scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e Senato li minacciavano con le leggi repetundarum , tornate vane per corruzione de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom. , $ 16.) Tali cagioni principalmente formarono la sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici, ma scioglievano questioni di diritto in generale; e ciò indica sempre più e la natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da inte ressi particolari, progredisse continuamente. ( Cic . , De CI. Orat.). Poi, l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incitò questi a gareggiare in isplendore di lettere e di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così da una di 396 PARTE PRIMA. sputa tra l'oratore Crasso (contemporaneo al padre di Cicerone) e Muzio Scevola giureconsulto sull'interpre tare i testamenti o a rigore di parola, o secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo senso , ripresa dal Forti, ma (e forse meglio ) approvata dal Cuiacio. Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetu dini di Roma, indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale stoica, che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza ; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini onorandi. Nominerò dapprima Quin to Muzio Scevola assassinato a’tempi di Mario . Dice Pomponio che Muzio costituì primo il decreto civile , disponendolo per capi di materie ( generatim ) in diciotto libri . Servio Sulpizio ridusse il diritto a stato di scienza ; fu prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim provero che gli fece Muzio Scevola d'ignorare le leggi del proprio paese, egli oratore e patrizio ; sostenne la repubblica ; avversò i Triumviri ; la repubblica gli alzò una statua. Abbiamo di que' tempi Alfeno Varo e Ofelio disce poli di Servio, e Trebazio (a cui la Logica di Cicerone) e un altro Muzio Scevola e Cascellio . Muzio non accettava da Ottaviano il consolato ; Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri ; e a chi lo consi gliava si temperasse rispondeva : son vecchio e senza figliuoli. Labeone, il cui padre era morto a Filippi, ri fiutò il consolato da Ottaviano anch'egli, e serbò spiriti antichi. Dice Pomponio : « Egli si détte moltissimo agli studj, e divise l'anno in modo che stava sei mesi a Ro ma co' discepoli (cum studiosis), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lasciò quaranta volumi, che i più s'usano ancora. Ateio Capitone ( segue Pomponio) per severava nell'antico ; ma Labeone, che molto aveva me ditato nell'altre parti della sapienza ( qui et in cæteris LEZIONE DECIMANONA. 397 sapientiæ operam dederat), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina cominciò a innovare molto. » ( Fr. 39-47, D. De Or. Jur. ) I cinque giureconsulti più cele bri e più recenti ( lasciando gli altri) sono Emilio Papi niano, Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino . Papiniano, fami liare di Settimio Severo e principale nel governo, stette per Geta contro Caracalla ; e volendo costui una difesa legale del fratricidio , Papiniano la negò e venne ucciso. Scriveva : « i fatti che ledono la pietà, il buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli. » ( Fr. 15, D. De servis exportandis etc.) Gli altri quattro illustravano, come dissi , il consiglio di Alessandro Severo . I giureconsulti, massime della terza età, levarono (com' avvertii) a stato di scienza le loro discipline ; e ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filoso fia, ma eziandio in lettere ; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci ; com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto fu , come notai de' tempi di Cicerone, che la giurisprudenza prese forma logica tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico (dice l' Hugo) la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nes suno più di quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni ; cioè per vigore di conseguenze da prin cipj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni, che Gaio dimandava inelegantia juris, e pel metodo di stintivo e compositivo, induttivo e deduttivo ad un tem po ; distintivo e induttivo salendo alle specie generali del diritto ; compositivo e deduttivo traendone con bre vità ed evidenza le illazioni . Il gran Leibnitz, insigne così giureconsulto come filosofo e matematico, scriveva nell' Epist, 119 : « Io ammiro l'opera de Digesti , o me glio i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è presa : ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici : 0 che tu guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire . » 398 PARTE PRIMA. Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giac chè, com'avvertii , materia della giurisprudenza son gli atti umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale ; quindi , coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o degli Stoici o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gli eruditi, che i più de'giureconsulti tolsero dagli Stoici l'argomentare per analogia, l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, la sottile dialettica che conviene al Foro , e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi egregiamente al gius civile : ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così disposto bene secondo le leggi del pensiero, e (salvo qualch'errore de' tempi) così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili , come si ha dal codice Napoleone : e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria, vi fanno su studj esimj e perseveranti . E perchè si chiarisca il filosofare intimo de' giure consulti, guardiamo la nozione, ch'e'si facevano della giurisprudenza e della filosofia . Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive (pr. e fr. 1 ) : « Dand' opera al gius, oc corre prima sapere onde ne venga il nome. Gius è chia mato da giustizia; perchè ( come Celso lo definì elegan temente) il gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati con ragione sacerdoti della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e dell'equo ; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle contrarie ; desiderosi di far buoni gli uomini , non solo per timore delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori (se non m'inganno) di vera e non simulata filosofia. » Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a ri gore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filoso fia morale : ma se badiamo al concetto che avevano di LEZIONE DECIMANONA. 399 questa gli antichi, e al generarsi la scienza del Diritto dall'altra del Dovere, ci formeremo idea chiara del co me intimamente fosse filosofica la giurisprudenza romana. Ho mostrato altrove ( Lez. XVII) che, secondo i sistemi greci, sommità di perfezione umana è lo Stato ; talchè la morale s' ordinò alla politica ; concetto vero per l'attinen ze esteriori, falso e pagano quant' all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia, o signori, se i giureconsulti romani definivano il gius civile come la morale ; lo de finivano così, perchè, a sentimento di tutti gli antichi, le due scienze si mescolavano in una . Noi con più ra gione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo ; dimenticanza ignota agli antichi, che però svolgevano razionalmente il diritto e non lo maneggia vano materialmente. Notate ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è definita : « Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto : » e se la giurispru denza è definita ; « Notizia delle cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1 , Inst. De just. et jure), » si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra ; e noterò col Cuiacio, che in tal luogo la giu risprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e com ' abito della volontà, secondo l'antica filo sofia . E la filosofia la pensavano essi , non senz'alta spe culazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'e ternità del diritto (come osserva il Vico, Sc. Nuova, IV) allorchè dissero : Il tempo non muta nè scioglie i di ritti (tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris ) ; e quando discernevano il diritto naturale dal positivo : ma nello stesso tempo rigettarono gli eccessi dello stoicismo, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente derisero le stranezze , l' ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di scadimento. Così abbiam sen tito Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla ma scherata ; e nel Fr. 6 , § 7 , D. al Tit. De his quæ in 400 PARTE PRIMA . testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1 , § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc. , dove si stabilisce gli onorarj delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, van tando di spregiare le mercedi, n'andavano a caccia. I giureconsulti poi mostrarono tre specie di diritti : jus naturale, gentium, et civile ; distinzione che non si vuol confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile ; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione pratica mette divario tra leggi proprie di Roma ( jus ci vile) e istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico ( jus gentium vel naturale) ; l'altra è distinzione più specula tiva e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il privato in diritto naturale, che natura in segnò a tutti gli animali, come la procreazione de'fi gliuoli ; in diritto delle genti, del quale tra gli animali hann' uso gli uomini soli , come la religione verso Dio, l ' obbedire a' genitori e alla patria : in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'è accusato Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità ; ' e sì che il Piccolomini da qualche secolo fa , come il Warnkoenig oggi , notava che qui , se condo le dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale , quelli che vengono dalla razionale, e gli altri che pone la comunanza civile. Non s'intende già che le bestie ( dette da' giureconsulti cose, non persone) abbian di ritto, ma che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti , come li gene rano le potenze razionali . Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità . È da confessare invece, che il diritto civile si definisce per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti ; e s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tut tavia meritan lode i giureconsulti, che se non condan · LEZIONE DECIMANONA. 401 narono la servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di Aristotile . Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale viene istituito dalla divina Provvidenza, come insegnavan gli Stoici ( De Jur. Nat. Gen. et Cir ., fr. 2 , § ult. ); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti . Poi, essi definiscono il gius civile qual era in fatto allora . Osserverò di passaggio, che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni allo Stahl ( St. della Filosofia del Diritto, Torino 1855) opina con altri , che i Romani non avessero idea del diritto eterno, perchè jus viene da jubeo, co mandare ; dove la parola diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensò forse al come definisce la parola Jus il Forcellini ( Voc. ad V.) : « Gius è tutto ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali , o divine, o delle genti o ci vili ( jus est autem universim id, quod legibus constitutum est etc.). Si nomina con altro nome equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. » Sicchè i Romani chiamavano Jus un che costituito da una legge qua lunque ; così distinguevano la legge da ciò che ne pro cede, e ch ' è l'effetto del suo comando : e Cicerone ( Rep. et De Leg. passim ) adopera legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è in quell'assioma de Romani già citato : « il tempo non muta nè scioglie i diritti ; conobbero, dunque, i Romani la santità del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo fondamento as soluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingueva dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza originò il diritto onorario, di cui parla il Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati . E io ritrarrò in breve la sentenza di lui , e n'uscirà la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dirò; che il gius onorario conteneva gli editti del Storia della Filosofia . – I. 26 402 PARTE PRIMA. pretore urbano e del peregrino, e quelli degli edili e proconsoli e propretori delle provincie (edictum provin ciale). Pare che il gius predetto, almeno in modo se gnalato, principiasse verso la metà del secolo VII, per chè Cicerone nella seconda Verrina dice : « postea quam jus prætorium constitutum est . » L'Hugo dimostra, con tro l’Heinneccio, che tal diritto ebbe forza di legge ; poichè ( tra gli altri argomenti ) Cicerone non contrasta nelle Verrine che l' Editto di Verre sia legge da te nere, ma lo accusa di averlo infranto egli stesso, o con formato non secondo ragione. ( Hugo, Hist. etc. , $ 178, 179. ) Or dunque, i pretori rendevano giustizia ne'civili ne gozi , gli edili per le convenzioni de' mercati e per la po lizia della città ; e tanto gli uni che gli altri, quando pi gliavano i magistrati, mandavan fuori un editto , ove stabilivano le forme del giudizio e le massime: ottimo istituto in repubblica popolare. Non mutavano il gius, ne determinavano l'applicazione. Eccone gli esempi : In primo luogo, salva la forma legale, si supponga che i contraenti abbiano pattuito o per inganno, o per er rore, o per timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi uguale per tutti . Quindi i pretori statuiron massime per l'efficacia civile della moralità negli atti , scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione della legge e i mezzi legali, perchè queste massime d'equità si recassero ad effetto . I codici moderni han composto di tali massime le lor leggi universali . Allora, dice il Forti, gli editti de' magi strati « erano uno de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai bisogni civili . » Sicchè (quant'alla moralità degli atti) trovarono i magistrati l'eccezioni perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore, per violenza ; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette obbligazioni, od a ri petere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In se condo luogo, le leggi , definito il diritto e ordinatane la sanzione, lasciavano a'magistrati ilmodo d'effettuarli. Per esempio, le leggi stabilivano i modi d'acquistare la pro LEZIONE DECIMANONA . 403 prietà, ma non i modi della sua difesa ; che più tornò necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio ; onde nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziavano a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo. ( Ist. Civ., L. I. S. 1 , € . 3, § 31.) Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare un'altra maniera di gius, cioè il diritto ricevuto ljus receptum ). Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della buona fede, costrin sero i magistrati a giudicare di que'contratti, non se condo le nude parole della legge, sì a lume di naturale onestà ; come le clausale, si lodate da Cicerone, uti ne propter te , fidemre tuam captus, fraudatusne sim ; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione. ( De Off. III, 17. ) I giureconsulti si davano all'interpretazione; e poi chè questa o considera la legge in sè, o gli atti della volontà umana , così la filosofia di que'sapienti gli aiuto all’un five con le spiegazioni delle parole e con la de. finizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa : gli aiutò all ' altro fine co giudizi sulla moralità degli atti , e con le regole per interpre tare l'altrui volontà. Il Gravina così accenna le novità del gius ricevuto : * Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprez za delle leggi, son venute le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi , l'uso dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili , perchè procedono dall’equa e utile in terpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore Aquilio giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la re gola catoniana , la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da essi ver 404 PARTE PRIMA. nero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto. ( De ortu et progr. I, Civ. , C. 43. ) Tale acume di riflessione disciplinata recò i giurecon sulti per fino ad un computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agli alimenti (come si vede Fr. 68 D. Ad Legem Falcidiam ); cosa notabile molto, perchè fa supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti . La virtù e la vera filosofia de' giureconsulti le sen tiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo alle ampol losità di Seneca e degli altri si tien semplice e puro .. Nelle Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' com pilatori greci e de' copisti ; ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali maestri di latinità . Terminerò, o signori, recando un saggio di tal sa pienza ed elegante brevità, in alcune regole di gius. dall' ultimo titolo de' Digesti : « I diritti del sangue non posson finire per niuna legge civile ( Fr. 8) . Sempre nelle cose oscure s' ha da tenere il meno ( 2) . Sta in na tura che le comodità d'una cosa seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col tempo sanare ( 29) . Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è legato : però l ' ob bligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo consenso con altro consenso ( 35) . Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si stima . vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza ( 48) . Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha ( 54) . Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne ( 57) . L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto ( 59) . È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente false (65 ). Quante volte un di scorso rende due sensi, prendasi quello ch'è più adatto LEZIONE DECIMANONA. 405 al da fare ( 69) . Non si dà benefizio per forza ( 69) . Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno ( 75) . In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equi tà (90 ). Ne’discorsi ambigui è il più da guardare all'in tendimento di chi li fa (96) . Nelle cose oscure si badi al più verosimile, e a ciò che accade più spesso ( 114) . Il timore vano non è buona scusa ( 184) . Per l'impossi bile non c'è obbligo che tenga ( 185) . Le cose proibite da natura, non sono convalidate da legge nessuna ( 188, § 1 ) . Per gius di natura nessuno dee farsi più ricco a danno altrui (206) . Per gius civile i servi si sti mano nulla ; non per diritto naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali » ( 32) . Quando l'impero si foggiò all'orientale, la giurispru denza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno « La indigesta mole de' Digesti >> e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia grecolatina di Cicerone e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle speculazioni, fuggire tutti gli eccessi delle sette, componendone, guidati dalla coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari (mi sembra) che veramente dopo la dialettica distintiva de' greci, tende vano i Romani alla comprensione finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta del tempo pagano e della filosofia . Or noi passeremo al l'èra cristiana .

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