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Monday, June 28, 2021

Grice e Caramella: la scuola di Vico

 La scuola di mistica fascista e la discoperta del vero Vico L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Ruggero Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di Palmiro Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito staliniano.    La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Nino Tripodi (1911 - 1988), giovane interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di mistica fascista dal cardinale Ildefonso Schuster e dal fondatore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Agostino Gemelli (confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Cedam, 1941). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la dottrina politica di Benito Mussolini.    L'affinità del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato nel 1941 e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio Chiocchetti, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco Olgiati, Santino Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano, riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa».    Di qui il ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di Vico quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo all'idealismo. Né Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi indica in Vico l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine, costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana, inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale definita dal pensiero che l'aveva posta. … La coscienza delle proprie virtù creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza».    L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica (Giorgio Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Augusto Del Noce, Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi, Giovanni Torti) che nella filosofia di Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane.    Nella definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia fascista.    E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Carmelo Ottaviano, Ernesto De Marzio, Vanni Teodorani, Giovanni Volpe, Gino Sottochiesa, Giuseppe Tricoli, Primo Siena, Dino Grammatico, Gaetano Rasi) l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova nel luglio del 1960, doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi.

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